Omelia nella XV Domenica del Tempo Ordinario

Montealtavelio, 14 luglio 2019

Dt 30,10-14
Sal 18
Col 1,15-20
Lc 10,25-37

Tutti conoscete molto bene questa parabola raccontata da Gesù, detta “la parabola del buon samaritano”. Era illustrata perfino nel mio sussidiario di terza elementare. Ho chiesto al Signore di provare stupore come se fosse la prima volta: «Signore, fa che io mi meravigli ancora e che il messaggio di questa parabola non passi come un déjà-vu, come una cosa scontata; che questa parola di Gesù faccia scintille nel cuore e provochi un bagliore nell’anima». Perché ciò avvenga bisogna leggerla nella preghiera, immedesimarsi. Possono essere di grande aiuto, tuttavia, i commentatori.
C’è una domanda iniziale: «Chi è il mio prossimo?». È una domanda posta male: sembra che il prossimo sia qualcuno di fronte a te. «Chi ha diritto del mio amore?». Dunque, si intende il prossimo in senso oggettivo, come fosse un oggetto. Gesù capovolge completamente la domanda: «Sei tu che ti fai prossimo». Dall’oggettività alla soggettività. Non si tratta di sapere chi è la persona che devo amare, ma sono io che mi devo “fare prossimo”: avviene così il passaggio dall’oggetto al soggetto.
Alcuni commentatori sottolineano che si parla di «un uomo che scende da Gerusalemme a Gerico». Siamo in una zona desertica. Gerusalemme è 800 mt sul livello del mare, Gerico è 200 mt sotto. Quell’uomo stava compiendo 1000 mt di dislivello quando incappa nei briganti. Si parla di «un uomo», senza aggettivi. Non si dice se era ebreo o egiziano, giovane o vecchio, alto o basso, buono o cattivo. Semplicemente «un uomo». Questa sottolineatura ci dice che ogni uomo è mio fratello, portandoci nel cuore del messaggio di Gesù. Al tempo di Gesù “prossimi” erano considerati i connazionali, quelli della stessa tribù o famiglia. Gesù smonta questa idea, dice semplicemente: «Un uomo». Ad ogni uomo il percorso della vita riserva sorprese. Quell’uomo incappa nei briganti che lo lasciano mezzo morto lungo la strada. Così è di ogni persona, anche se l’incontro non è con briganti… Ogni persona ha diritto alla mia prossimità.
Accanto all’uomo ferito passa un sacerdote, poi un levita; hanno entrambi fretta, devono andare al tempio e non possono contaminarsi col sangue.
Il terzo personaggio è uno straniero, un samaritano, un eretico per gli ebrei osservanti. Lui si ferma. Gesù non vuole evidenziare la contrapposizione tra il sacerdote e il samaritano, ma vuole farci vedere il lato positivo. Anche quell’uomo, che era eretico e straniero (considerato fuori dall’Alleanza), può fare il bene. E lo fa!
Ci avviliamo quando torniamo a peccare, ma si ha sempre una grande risorsa: amare. Gesù dice: «E chi avrà dato da bere anche un solo bicchiere d’acqua fresca a uno di questi piccoli, perché è un mio discepolo, io vi dico in verità che non perderà affatto la sua ricompensa» (Mt 10,42). Il culto gradito a Dio è l’amore.
Mi sono soffermato sui verbi (la parte del discorso che esprime l’azione compiuta dal soggetto). Ci sono undici verbi (uno in più del Decalogo!) che esprimono le azioni che compie il samaritano. Ci si potrebbe soffermare su ogni verbo per imparare qualcosa di nuovo. «Vide», «si mosse a pietà», «si avvicinò», «scese», «versò olio», «fasciò», «caricò sulla cavalcatura», «lo portò», «si prese cura di lui», «pagò» e l’undicesimo verbo: «Al mio ritorno salderò il debito che resta». Undici verbi che esprimono la concretezza dell’amore. Una maestra spirituale diceva: «Bisogna voler bene con i muscoli (non solo pensare di voler bene)». Come la Madonna alle nozze di Cana: si accorge che manca il vino e cerca di risolvere la situazione, rivolgendosi a Gesù. Si potrebbero raggruppare questi verbi: ci sono verbi del caso e del rischio (viaggiare, passare accanto…); altri sono verbi del cuore (vedere e commuoversi); ci sono i verbi delle braccia e delle mani (caricarsi, versare, fasciare). Infine, i verbi della mente, in cui c’è una progettazione: «Lo lascio qui… Al mio ritorno salderò il debito».
Ma chi è il buon samaritano?
Direte: «don Marino», «don Oreste», tutti noi… Sì, ma il miglior buon samaritano è Gesù, che ha fatto così: è sceso dalla Gerusalemme celeste ed è venuto sulla terra, si è avvicinato alle nostre piaghe, le ha fasciate e continuamente ci porta all’albergo che è la Chiesa… Grazie Gesù! Fa’ che anche noi facciamo nostro il tuo programma e il tuo stile. Iniziamo col fare atti d’amore concreti. Così sia.

Messaggio del Vescovo Andrea ai villeggianti

Qui gente dal cuore grande. Al resto pensa la natura
Saluto del Vescovo Andrea ai villeggianti

Un saluto ed un cordiale benvenuto agli amici che tornano nel Montefeltro e ai turisti che cercano qualche giorno di serenità dalle nostre parti.
Ecco l’estate tanto desiderata!
Ha già cominciato a farsi sentire con le sue temperature, le sue zanzare, gli improvvisi temporali. Stanno sulla breccia i forzati delle vacanze: code sotto il sole, notti magiche e nonni alle prese con nipotini instancabili. C’è chi può partire per trascorrere qualche settimana al mare o sui monti. Ma c’è anche chi le ferie non se le può permettere; e ci sono quelli che sono stanchi di non lavorare, costretti alla disoccupazione: uno dei problemi sociali più urgenti e gravi. Per tutti dobbiamo pregare, ma in modo speciale per questi ultimi.
L’anno scorso, su queste pagine, era stato scritto che l’estate può essere una grande opportunità, un vero e proprio “investimento”. Non si alludeva all’industria delle vacanze che comunque, anche dalle nostre parti, costituisce una boccata d’ossigeno, ma al valore del tempo libero. La pausa o l’alleggerimento degli impegni quotidiani – seppure per poco – consente di curare di più i rapporti, di tornare ai luoghi delle proprie radici, di dedicare tempo a qualche attività elettiva. Il Montefeltro ha conosciuto un vasto movimento emigratorio e molti tornano ai loro monti e ai loro borghi in questo periodo. Qualcuno testimonia l’emozione di sentire risuonare le “sue” campane nella valle, di ripercorrere antichi sentieri, di gustare i sapori “di una volta”. Non solo nostalgia: queste esperienze regalano l’opportunità per una revisione di vita. Il tempo per la preghiera non manca e neppure la calma per un’orazione più distesa e per distendersi al sole della Parola di Dio. E poi ci sono sempre quella pieve, quella chiesetta, quel semplice capitello nei quali risuona l’invito di Gesù: «Venite a me voi tutti che siete stanchi e riposatevi un poco».
Le parrocchie – comprese le più piccole – si danno da fare per accogliere, meglio possibile, con un servizio religioso adeguato, quanti rientrano e i turisti che dalla costa salgono all’entroterra attratti da luoghi ricchi di arte e di spiritualità. E gli uni e gli altri sono ripagati da tanto verde, bellezza e… aria buona. Le parrocchie e la diocesi offrono a famiglie, ragazzi e giovani, settimane di campeggio e di vita fraterna. Esperienze indimenticabili, ma soprattutto formative. C’è un appuntamento, attesissimo, che radunerà il 18 agosto – la domenica dopo l’Assunta – le popolazioni del Montefeltro, di San Marino e dei dintorni sul monte Carpegna, presso il Santuario della Madonna del Faggio. I pellegrini, secondo un’antica tradizione, partono nel cuore della notte da paesi e sentieri diversi per ricongiungersi nella spianata del Santuario. Ognuno porta il suo fardello di preoccupazioni e di fatiche, ma anche le sue speranze da deporre ai piedi della Madre del Signore. È sempre stato un momento di grande partecipazione, un segno di unità di tutta la diocesi.
Auguro ai villeggianti, ai pellegrini e ai turisti di trascorrere giornate di serenità e di luce. Qui la gente ha un cuore grande. Al resto pensa la natura.

+ Andrea Turazzi

Omelia nella celebrazione eucaristica per la festa di Santa Veronica Giuliani

Mercatello sul Metauro, 9 luglio 2019

Os 2,16b.17b.21-22
Sal 148
Gal 6,14-18
Gv 15,1-8

Santa Veronica ci introduce, mediante la sua esperienza spirituale, ad una più profonda conoscenza delle Sacre Scritture. Conoscere le Scritture è conoscere Gesù.

1.

«Ecco – dice la prima lettura –la condurrò nel deserto e parlerò al suo cuore». La prima cosa che balza evidente è la richiesta del Signore di una piena confidenza, di un’intima relazione, di un’amicizia con la sua creatura. Siamo nell’ambito dell’interpersonalità. Qui va collocato il nostro essere cristiani; non in una dottrina, non in una serie di precetti e neppure nell’osservanza dei riti. Questo, purtroppo, non è compreso da tutti. L’essere cristiani si gioca in un incontro, un incontro d’amore. E io vorrei dire a tutti: «Lo sai, c’è chi ha stima di te, c’è chi ti conferma che tu sei unico/unica per Lui. Il Signore ti ama immensamente». Mi sovviene una pagina del profeta Isaia: «Così dice il Signore che ti ha creato, che ti ha plasmato: “Non temere, perché io ti ho riscattato, ti ho chiamato per nome; tu mi appartieni! Se dovrai attraversare le acque, io sarò con te. Se dovrai passare in mezzo al fuoco, non ti scotterai, la fiamma non ti potrà bruciare. […] Tu sei prezioso ai miei occhi, perché sei degno di stima e io ti amo”» (cfr. Is 43,1-4).
C’è stato sicuramente nella vita di ciascuno di noi un momento in cui questo annuncio ci ha stupito, commosso, forse turbato, anche convertito. È una voce soave, discreta, un’emozione interiore che, purtroppo, forse abbiamo rimosso ed è stata soverchiata da tante altre voci, situazioni, rinvii… L’evangelista Giovanni racconta il suo incontro con Gesù e annota con precisione: «Erano le quattro del pomeriggio» (Gv 1,39). Dopo tanti anni, Giovanni testimonia di non avere scordato quel momento. Vorrei, nel ricordo di santa Veronica, che in ciascuno di noi si risvegliasse questa intima parola di Gesù: «Tu sei prezioso ai miei occhi. Sei degno di stima. Ti amo». Poi c’è una parola che ritorna: il deserto. Un richiamo alla solitudine, all’essenziale, ma anche un richiamo all’abbandono fiducioso verso Colui che ti propone di seguirlo. L’anima dice: «Tu solo mi basti. Non ho altri che Te». Per il popolo di Israele, che è figura di tutti noi, il deserto fu il luogo della prova, della sete, del cammino forzato, ma fu soprattutto un luogo di amore.
Non sapevo che il diario di santa Veronica fosse di 22.000 pagine! Veronica ha registrato tutto quello che viveva intimamente per incarico dei suoi confessori. Vvoglio leggervi qualche riga: «Sento l’anima mia tutta trasformata in Dio, dappertutto trova Dio, in Dio medesimo cerca Dio». Sembra paradossale cercare Dio in Dio; delle volte l’idea che noi abbiamo di Dio è quella che ci facciamo noi; santa Veronica, invece, non cercava l’idea che lei si era fatta di Dio, ma Dio in Dio. Cercandolo, dove lo trova? Lo trova in sé ed esso la tira fuori da sé, la pone in Lui. Impazzita d’amore cerca Dio nel medesimo Dio. «Sta l’anima sola con il Solo, sola col Tutto, sola col Sommo, sola con l’Amore. Lei inabile a tutto, ma Dio opera in tutto. Lei, senza operazione, ma Dio operante. Lei in silenzio, ma in un istante diventa tutta lingua, tutto fuoco. Il suo Maestro è l’Amore e tanto basta».

2.

La Lettera ai Galati, di cui abbiamo letto l’ultimo tratto, è indirizzata a chi pensa di dover esibire davanti a Dio le proprie virtù, i propri meriti, salvo poi restare traumatizzato e deluso dalle proprie infedeltà, dalle proprie inconsistenze. Paolo in questo testo dice che se c’è una cosa di cui vantarsi è la croce del Signore, cioè il suo amore crocifisso. È un invito – ed è tutta la spiritualità di santa Veronica – ad alzare lo sguardo da sé e a riporlo in Lui. Quante volte inciampiamo su questo punto e viviamo l’esperienza cristiana come qualcosa di deludente, di frustrante: avremmo voluto colmare un vaso di virtù e quel vaso è sempre vuoto. Se uno guarda se stesso si inganna. Veronica invita a guardare Lui. A volte succede perfino di pensare che l’opposto del peccato sia la nostra virtù, raggiunta con uno sforzo di volontà; invece l’opposto del peccato è la fede che fa alzare lo sguardo verso Gesù. In questo consiste l’essere creatura nuova. «Il vanto è seguirti – dice san Paolo – essere con te nell’opera che il Padre ti ha affidato». Santa Veronica è come se dicesse: «Voglio essere amore come Te, Gesù. Appoggio la mia scaletta alla croce, a Te che sei sulla croce, metto la mia guancia sulla tua guancia, il mio cuore sul tuo cuore e guardo il mondo come lo vedi Tu». Come lo vede il Signore il mondo? Lo ha chiamato all’unità; vede l’umanità fatta di legami di fraternità, solidale e interdipendente. Allora Gesù affida alla sua sposa, se vuole, di essere con lui a servizio della Redenzione. E lei dice: «Io sarò le membra della redenzione. Completo nella mia carne ciò che manca dei tuoi patimenti in me, Signore». I patimenti di Gesù sono completi, è in noi che si devono completare.
Vi confido una battuta. In Cattedrale, alla Messa del Giovedì Santo, ho detto ai miei sacerdoti che sulla croce c’è posto per due e stavo per girare la croce dell’altare per far vedere che da un lato c’è Gesù, mentre dietro è vuota, senonché nella croce della Cattedrale c’è Gesù davanti e dietro… Per fortuna mi sono fermato in tempo. Ma il concetto che volevo esprimere era che sulla croce c’è posto per Gesù e per ciascuno di noi.
Come possiamo noi che siamo così imperfetti vivere una spiritualità tanto sublime? Il mio maestro spirituale diceva di non andare in cerca di penitenze, piuttosto di prendere quelle che la vita riserva; imparare a vedere Lui nelle sofferenze quotidiane, a non fermarsi alla piaga che fa male, ma ad andare oltre e farne un incontro con Lui. Penso ai momenti di delusione. Non dico di amare la delusione; la delusione fa male, a volte è cocente, ma si può amare in essa Gesù che è rimasto deluso tante volte. A volte viviamo la derisione; allora pensare a Gesù come “il deriso”. Altre volte sentiamo la persecuzione (quando parlano male di noi), allora pensare che anche Gesù è stato perseguitato. A volte ci sentiamo lasciati soli, abbandonati; possiamo dire: «Sei tu, Gesù, l’Abbandonato». Non si ama il dolore per il dolore, perché non è il dolore che salva, ma l’amore.

3.

La pagina evangelica che abbiamo sentito proclamare ci riporta alla cultura contadina, con l’immagine dell’innesto. Mio papà aveva un ciliegio selvatico. L’ha tagliato e gli ha messo dentro un ramoscello di ciliegio buono. Dopo quell’operazione l’albero ha finito per fare ciliege squisite. Col Battesimo siamo stati innestati in Gesù. Quello che ha vissuto Veronica lo viviamo anche noi; anche noi siamo una cosa sola con Gesù, anche a noi Gesù dice: «Io ti sposo. Non guardarti, guarda me. Ricomincia sempre».
Davanti a noi l’umanità di oggi… Ci sarebbe molto da dire sulla situazione sociale. Abbiamo delle responsabilità. La mia città, il mio paese, la mia nazione mi appartengono. Mi appartiene l’umanità. Sono miei i profughi; sono miei fratelli quanti sono in ricerca o sono delusi e soli… Mi ha fatto piacere sapere che le monache Clarisse Cappuccine di Mercatello sul Metauro hanno aperto un monastero nel Benin. Che bello questo squarcio… L’ha detto Gesù: «Se rimanete uniti a me, porterete molti frutti» (cfr. Gv 15,15). Così sia.

Omelia nella XIV domenica del Tempo Ordinario

Nebbiù di Cadore, 7 luglio 2019

Campo diocesano adulti Azione Cattolica

Is 66,10-14
Sal 65
Gal 6,14-18
Lc 10,1-12.17-20

Gesù, benché inchiodato sulla croce, vede il mondo come un grande campo di grano. A perdita d’occhio vede la messe a differenza di noi che tante volte vediamo solo deserti. Impariamo a guardare l’umanità con gli occhi di Gesù. Se vi succede di andare in spiaggia o di andare in città a far compere o di fermarvi ad un incrocio, guardate la folla con gli occhi di Gesù…
Ai sacerdoti, durante la “Tre giorni del clero”, ho proposto la “mistica della fraternità”: vedere in ogni persona un fratello. La propongo anche a voi. Sembra una contraddizione in termini, perché la mistica fa pensare al “terzo Cielo”, alla contemplazione di cose sublimi. Invece la fraternità dice la concretezza del camminare insieme. Ebbene, queste due cose si combinano tra loro. Signore, spalanca i nostri occhi sulla misura del tuo sguardo!
Una confidenza: quando ero ragazzino venivo rapito dall’affascinante mistero di un Dio che abita in un pezzo di pane, un Dio che potevo persino mangiare. Mi sembrava di appoggiare una scaletta alla croce e di mettere il mio cuore sul cuore di Gesù. Allora chiedevo di guardare il mondo come lo guardava Lui, un mondo da conquistare.

Siamo tutti ingaggiati in questa avventura: ognuno di noi si consideri operaio nella vigna del Signore!
Ad una riunione della Conferenza Episcopale sono intervenuto a proposito del Regolamento del Seminario della Propedeutica. Si parlava dei segni di vocazione: come si fa a dire che un ragazzo ha la vocazione?
Ho proposto di indicare tra i segni di vocazione l’attenzione e l’amore per i poveri, per gli ammalati, per le persone sole, per gli ultimi.

Al termine di questo Campo scuola dedicato all’approfondimento teologico-pastorale del Battesimo mi viene spontaneo porre l’attenzione alle parole della liturgia che richiamano il Battesimo. Abbiamo appena pregato così: «O Dio, che nella vocazione battesimale… » (Domenica XIV, Orazioni facoltative, Anno C). Il Battesimo è una chiamata: chiamata alla vita filiale, chiamata alla vita nuova, chiamata alla comunione. Tutti sono candidati. Per Gesù siamo tutti predestinati alla salvezza e alla vita nuova. Anche per Rascolnikov, il protagonista del romanzo “Delitto e castigo” di F. Dostoevskij, c’è redenzione. Per lui c’è una ragazza, Sonia, la peccatrice, che gli stringe le mani, le bacia e gli dice: «Chissà come soffri…». Non lo giudica, ma non lo giustifica; lo invita a costituirsi, a ricominciare.
Sono vari i punti di collegamento tra Eucaristia e Battesimo. Siamo entrati in chiesa e abbiamo iniziato la celebrazione con il Segno di Croce: è il segno che ci è stato consegnato fuori dalla porta della chiesa come segno unitivo per noi cristiani. Qualcuno di voi ha scritto sulla maglietta: «Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me»: col Battesimo siamo stati rivestiti di lui. I catecumeni, dopo l’ascolto della Parola, vengono invitati ad uscire dalla chiesa. Sembra un atto discriminatorio, ma in realtà è un invito a guardare al Battesimo come ad un compimento.
Entrando nel grande mistero della Messa, capiamo di essere figli riuniti attorno al Padre, proprio come quando, dopo il rito del Battesimo, si sale verso l’altare, ci si dispone in cerchio (i genitori, il neonato, i padrini e le madrine) e si prega il Padre Nostro, la grande preghiera di Gesù. Il Padre Nostro era riservato ai battezzati, per questo era necessario un rito di consegna (traditio).
C’è un momento della Messa in cui viviamo in modo particolare la dimensione battesimale (purtroppo spesso scivola via troppo in fretta): è il momento in cui il celebrante e il popolo di Dio esercitano il sacerdozio regale. Il vero celebrante è Gesù. È Lui che si offre al Padre, non più in modo cruento, ma in una adesione totale e filiale, un’adesione che è l’essenza della risurrezione. Gesù si offre al Padre e noi con Lui, stretti a Lui come limatura di ferro ad un magnete. Il celebrante proclama: «Per Cristo, con Cristo, in Cristo, a te Dio Padre Onnipotente nell’unità dello Spirito Santo ogni onore e gloria nei secoli dei secoli». E il popolo risponde: «Amen». Quell’Amen sarebbe da cantare, non da bisbigliare o da pronunciare in fretta: è il culmine della Messa.
Al termine della celebrazione: «Ite, missa est», siete battezzati, andate! È il tempo della missione e della testimonianza. Ricordo il cap. 5 del Libro dei Giudici, quando Sansone, volendo mettere a ferro e a fuoco i Filistei, cattura delle volpi e lega alle loro code, a due a due (come Gesù manda i discepoli a due a due), una fiaccola accesa. Manda le volpi in mezzo ai campi di grano e di orzo dei Filistei e divampa un grande incendio. Ciascuno di voi è una di quelle volpi. A due a due siete luce per incendiare il mondo, incendiarlo d’amore! Così sia.

Omelia nella Solennità del Corpus Domini a San Marino

San Marino (Basilica del Santo), 20 giugno 2019

Es 24,3-8
Sal 115
Eb 9,11-15
Mc 14,12-16.22-26

Eccellenze,
Cari confratelli,
Carissimi tutti,
permettete che dia un saluto speciale ai bambini della Prima Comunione della parrocchia di Ponte Cappuccini che ho incontrato durante la Visita Pastorale.
Il racconto evangelico è situato ormai all’imbrunire. Come accade ogni volta al calar del giorno è inevitabile tracciare bilanci sulla giornata. Per gli amici di Gesù è stato affascinante stare tutto il giorno con lui, quasi un “bagno” nelle sue parole, nella sua profezia. È stato proprio come calare un vaso in una soluzione d’oro, da cui ne esce splendido e luminoso. Ma è anche il momento della concretezza. Gli apostoli affrontano così la situazione: «Maestro, congeda la folla perché vada nei villaggi e nelle campagne per alloggiare e trovar cibo. Qui siamo in zona deserta, non siamo attrezzati, non c’è servizio di catering… ». La replica di Gesù è immediata e perentoria. Sentiamola rivolta a noi adesso, adatta alla nostra ricerca: Gesù non parlava solo ai Dodici, parla per noi. È una risposta in due tempi. «Dategli voi stessi da mangiare. Tanto per cominciare fateli sedere a gruppi, poi non sottraetevi alla vostra responsabilità, incuranti dei vostri “cinque pani e due pesci”».
Cari amici, ecco un pane che viene posto sull’altare e poi mostrato solennemente alla città. È una risposta alla nostra inquietudine, alle perplessità di fronte al momento presente. Il pane è dono suo, ma anche nostro, frutto del nostro lavoro, ed è veramente una risposta alla grande preghiera che Gesù ci ha insegnato: «Padre Nostro, dacci oggi il pane quotidiano… » (cfr. Mt 6,9), a ricordarci che «non di solo pane vive l’uomo» (Mt 4,4). Il gesto miracoloso di Gesù, i pani moltiplicati, ci provoca. Non possiamo passar sopra all’ingiunzione di Gesù: «Dategli voi stessi da mangiare. Siate mie mani che sanno spezzare pani, siate mio sguardo che sa giudicare, siate mio cuore che dona misericordia».
Permettete un accenno alla nostra situazione sammarinese. Anni difficili, si dice, segnati da una crisi economica progressiva, da un’esposizione mediatica che imbruttisce il volto del nostro Paese – dal di dentro e dal di fuori – ma, soprattutto, caratterizzata da una litigiosità e conflittualità interna profondamente divisiva sul piano sociale. Corrono tempi in cui, a livello politico e istituzionale, stanno crollando i “ponti” del dialogo e del buon senso e vengono innalzati “muri” di separazione. Parlo a tutti indistintamente; sono il pastore posto in questa Repubblica. Provvidenzialmente, una buona parte del tessuto sociale – quello “vero”, quello delle persone che vivono il quotidiano, quello che ho incontrato nella Visita Pastorale – è ancora vitale, onesto ed orientato verso l’altro. L’elevatissimo numero di associazioni, molte delle quali di volontariato, ne è la prova. Insieme a ciò, la continua richiesta delle imprese, dalle più grandi alle medio-piccole, di poter esercitare la propria attività in maniera trasparente e corretta evidenzia il buono stato di un comparto che offre ancora lavoro alla cittadinanza. L’economia reale sta riprendendo il proprio posto all’interno di un sistema che si era troppo sbilanciato verso il modello di “paradiso fiscale” e di cui oggi stiamo pagando il prezzo.
Inoltre, non si può tralasciare tutto lo sforzo che San Marino, con i suoi «cinque pani e due pesci», ha fatto negli ultimi anni per accreditarsi in Italia e a livello internazionale, attraverso un percorso normativo e relazioni sempre più strette con i piccoli ed i grandi Stati d’Europa.
Una delle peculiarità della Repubblica di San Marino è la presenza di una sinergia tra le istituzioni pubbliche e la realtà ecclesiale, che ne ha permeato profondamente la cultura e le tradizioni fino ad oggi, nella piena riconoscenza della laicità dello Stato. Una presenza che, recentemente, ha visto le associazioni laicali della Diocesi impegnarsi insieme, oltre ai propri ambiti di volontariato, per proporre iniziative pubbliche e progetti di legge a sostegno della famiglia e per la promozione della vita umana, in antitesi a quella che papa Francesco chiama “cultura dello scarto”, che si fa sempre più viva e che sta cercando di portare anche a San Marino la legalizzazione dell’aborto.
Al di là di appartenenze o schieramenti politici la Chiesa è disponibile al confronto, chiara nella sostanza delle cose, a partire dal terreno comune della ragionevolezza e di un umanesimo basato su valori permanenti (perché si fondano sull’uomo, che è sempre il medesimo); non bisogna fare gran conto delle mode culturali del momento – passano –, magari si prendano in considerazione i paradigmi epocali. Non vorrei che si dica che la Chiesa ha taciuto, che è stata timida nella difesa della vita. Siamo di quelli che, non importa se minoranza in Europa e persino in Repubblica, non si rassegnano alle legislazioni contro la vita. Vogliamo essere quelli del “pane di vita”.
La stessa Repubblica ha confermato il proprio legame con la Santa Sede, ratificando l’Accordo per l’Insegnamento della Religione Cattolica nelle scuole di ogni ordine e grado, confermando il valore di questa disciplina e di chi la insegna per una crescita culturale dei ragazzi e della gioventù, proprio a partire da quella Speranza che ci fa sempre guardare oltre.
È riduttivo presentare l’Accordo Santa Sede-Repubblica di San Marino semplicemente come introduzione di un’ora di lezione alternativa. Tutti, indipendentemente dal Credo professato, o non professato, devono essere messi in condizione di capire ed apprezzare la dimensione religiosa dell’umano, insieme agli splendori delle sue creazioni musicali, artistiche, giuridiche, sociali, comprese le sue fragilità e patologie, sempre possibili. Forse non del tutto congrua è la dizione “ora alternativa”: non esprime appieno lo spirito dell’Accordo firmato dalla Repubblica di San Marino e dalla Santa Sede. Come si fa ad ascoltare Bach, a capire l’arte di Michelangelo  ̶  ma anche l’arte semplice delle nostre chiese ̶ senza una conoscenza? Denuncio l’analfabetismo religioso che c’è non solo nei giovani ma anche in noi adulti.
Siamo il popolo del “pane di vita”, contenti di esserlo. Consapevoli e fieri delle nostre radici siamo aperti al nuovo: profezia e concretezza. Così sia.

Discorso sulla piazza davanti al Palazzo Pubblico

Carissimi,
due parole costituiscono il messaggio centrale di questo nostro convenire: profezia e concretezza.
La profezia senza concretezza può diventare illusione; persino la fede senza le opere è vana (cfr. Gc 2,26). La concretezza senza profezia è attivismo. Due parole diverse, ma inscindibili: sono programma. Sono il mio augurio agli impegnati in politica in vista del bene comune.
Sabato prossimo, 22 giugno, nella “Sala Montelupo” di Domagnano, alle ore 20:45, il Presidente dei Vescovi Italiani, il Card. Gualtiero Bassetti, ci presenterà la figura di un cristiano impegnato in politica: Giorgio La Pira. Cristiano e laico. Ha fatto parte dell’Assemblea Costituente italiana ed è stato Sindaco di Firenze. Instancabile artefice del dialogo e della pace. La serata non sarà solo commemorazione di questa nobile figura. Sarà l’opportunità per interrogarci sul nostro impegno di società, portati dalla nostra fede. Profezia e concretezza. Auspico la partecipazione di ciascuno: che tutti si sentano interpellati da questo appuntamento.

Messaggio del Vescovo al Gala di inaugurazione degli Europei di Calcio Under 21

San Marino (Teatro Titano), 20 giugno 2019

Grazie per l’invito a questo Gala per gli Europei di Calcio Under 21. Mi sento tra amici anzitutto per la mia antica passione per il calcio (mediocre difensore, ahimè!); poi per i valori dello sport ai quali tutti teniamo, valori che mi piace chiamare con il loro nome: lealtà, coraggio, sacrificio, accoglienza dell’altro come concorrente e mai come nemico…
Come uomo di Chiesa – sono vescovo in questa Repubblica di San Marino – mi rivolgo a tutti; mi metto a disposizione per collaborare in campo educativo perché questo da sempre è uno dei contenuti della pratica sportiva. Il mio incoraggiamento va soprattutto verso coloro che fanno lo sport per lo sport (salute, agonismo, amicizia) fuori sia da improbabili sogni di gloria, sia da vantaggi economici.
Penso a chi lo sport – il calcio – lo guarda soltanto… peccato! Ma anche questo può essere cosa buona se diverte, rasserena e soprattutto avvicina nazioni e continenti nel segno della pace. Sport e pace sono un binomio fecondo.
Che dire poi di chi prepara, accompagna ed è a disposizione di chi fa sport? A volte umilissime prestazioni, ma ugualmente importanti.
Sfoglio il Vangelo di Gesù; ci dà una lezione: «Gareggiate nello stimarvi a vicenda». Vinca il migliore!

+ Andrea Turazzi

Messaggio per la Pasqua

Siamo ancora attoniti di fronte alla voracità del fuoco che ha lacerato un segno formidabile della nostra civiltà. Certo – lo pensiamo tutti – Notre-Dame risorgerà più bella ancora. L’incendio è un fatto umano, terreno. Un incidente. Tuttavia, è lecito trarne profitto e farsi delle domande. Può gettare nello sconforto, ma anche dare un salutare scossone: ci siamo accorti quanto siamo legati ai simboli e ai capisaldi della nostra identità cristiana che la laicità non cancella. Ci siamo ridestati più europei in questa Europa così poco amata!
Tuttavia, non ignoriamo gli altri motivi di apprensione di queste ore, in casa nostra e nel mondo (Libia, Venezuela, ecc.).
La Quaresima era iniziata con un’ammonizione severa quanto necessaria: «Ricordati che sei polvere e in polvere ritornerai». Ora, alle prime luci della Pasqua, risuona un’altra parola: «Ricordati: risorgerai!», a dispetto delle Cattedrali in fiamme, delle esistenze ferite, degli inverni del cuore, dei progetti falliti…
Il credente conosce la potenza della Risurrezione di Gesù; chi non lo è può ascoltare le ragioni del cuore.
Nella speranza della Pasqua rivolgo due appelli. Chiedo si faccia tutto il possibile, nel rispetto delle leggi e secondo le possibilità, per progettare corridoi umanitari per l’accoglienza e l’integrazione di migranti e profughi. Con l’impegno di tutti le soluzioni si trovano. Dobbiamo augurarci cessino le emigrazioni forzate, non la mobilità umana liberamente scelta, un vantaggio per tutti.
Il secondo appello è per una degna accoglienza della vita. Ognuno di noi ha il diritto e il dovere di immaginare il modello di società nel quale vorrebbe vivere. Vorrei mettermi, con la mia modestissima manodopera, nel cantiere di quella città insieme a tanti altri amici. Una città dove una mamma in difficoltà può non percorrere la scorciatoia dell’aborto, ma trovi aiuto e sostegno e sia tutelata la sua salute e la bellezza dell’Amore che ha generato il suo bimbo.
Non guardo al passato (se non alle sue grandi lezioni), ma alla civiltà del domani, dove la vita trionfa sempre: la civiltà della risurrezione.
Auguri!

+ Andrea Turazzi
Vescovo di San Marino-Montefeltro

Omelia nella S.Messa in Coena Domini

Pennabilli (Cattedrale), 18 aprile 2019

Es 12,1-8.11-14
Sal 115
1Cor 11,23-26
Gv 13,1-15

1.
Cari ragazzi,
saluto anzitutto voi che stasera prendete il posto degli apostoli in questa liturgia. Voi conoscete senza dubbio l’arpa: uno strumento musicale costituito da una foresta di corde. L’artista, quando le pizzica, ricava suoni con le sfumature più diverse.
Paragonerei questa liturgia del Giovedì Santo all’arpa, perché in questa atmosfera di preghiera risuoneranno una pluralità di sentimenti, con tutte le tonalità.
Anzitutto la gioia: i fiori, le luci, le musiche, le campane, le tovaglie che splendono di bianco e soprattutto i vostri volti, i volti di voi ragazzi. Grande gioia questa sera.
Ma spunta nel cuore contemporaneamente un altro sentimento, un sentimento di tristezza: è la sera in cui Gesù verrà tradito, catturato e strappato dalla compagnia dei suoi amici. Dopo la cena, nell’orto degli ulivi, detto Getsemani, che vuol dire “frantoio” (il luogo dove si frantumavano le olive per fare l’olio), Gesù è stato “spremuto”.
Ma è una notte in cui prevale un altro sentimento, quello dell’amore: si mangia insieme la Pasqua, si prega cantando, Gesù si china su ogni discepolo, lava i piedi, li asciuga… Gli escono parole piene di tenerezza (sono rivolte a ciascuno): «Non vi chiamo più servi, ma amici» (cfr. Gv 15,15). «Voglio che la mia gioia sia in voi e sia piena» (cfr. Gv 15,11). Si fa sentire cupa anche un’altra vibrazione, quella della delusione. A pizzicare quella corda è l’ingratitudine. A tanto amore di Gesù corrisponde il tradimento. Gioia, tristezza, amore, delusione: ecco i sentimenti che attraversano la nostra preghiera, gli stessi che furono vissuti nel Cenacolo.

2.
Vorrei soffermarmi con voi sulla parola iniziale del Vangelo appena proclamato: «Gesù, avendo amato i suoi, li amò sino alla fine» (Gv 13,1), cioè “fino in fondo”. Vorrei cogliere tutte le sfumature di questa espressione: “Fino in fondo”.
In questi giorni ha fatto grande scalpore l’essere riusciti a scattare una foto ad un buco nero (di cui sapevamo l’esistenza dagli studi di fisica e di astronomia). Gesù ha amato “fino in fondo”. Immaginiamo una voragine, un abisso, un buco nero per dire la profondità di quell’amore.
Trattandosi di Gesù, il Figlio di Dio, “fino in fondo” significa un amore “da Dio”, un “Infinito”; egli è l’Essere di cui non si può pensare il maggiore (diceva sant’Anselmo). È senza limiti, senza perimetro, senza pentimenti… San Paolo avrebbe voluto che i cristiani arrivassero a comprenderne l’ampiezza, la lunghezza, l’altezza e la profondità che sorpassa ogni conoscenza (cfr. Ef 3,18).
«Li amò “fino in fondo”». Il fondale di un oceano è niente in confronto al cuore di Gesù, fornace ardente di amore, in cui abita tutta la pienezza dell’amore (così cantano le litanie del Sacro Cuore).
“Fino in fondo”, cioè fin dove si riesce ad arrivare. Un amore che ha abbracciato e abbraccia tutti gli uomini, fino in fondo alla lista, dal primo uomo all’ultimo che sta nascendo in questo preciso istante in chissà quale continente. Ho trovato scritta una frase che mi ha stupito: «Dio sa contare solo fino a uno!». Per lui ognuno è speciale, ognuno è uno. Ogni bambino, ogni ragazzo, ogni mamma, ogni papà è unico. La lavanda dei piedi non è un bagno collettivo: Gesù si inginocchia davanti a ciascuno.
“Fino in fondo” significa anche dalla punta dei capelli alla punta dei piedi. Più in basso di così non si può andare. Oltre i piedi c’è il pavimento. I piedi sono la parte meno nobile e meno degna. Gesù non esita, non indugia, ama sino ai piedi… per guarire, per salvare. Salva e ama tutta intera la persona, dalla testa ai piedi.
“Fino al fondo”: fino al fondo del nostro desiderio di essere amati. È il desiderio più grande che ha una creatura, il più universale, il più giusto: vogliamo essere amati. Senza amore si muore! A tutti piace essere amati (anche al protagonista dell’antica fiaba “La bella e la bestia”; la bestia avrebbe voluto trovare amore, ha tentato perfino di estorcerlo con la violenza, finché ci fu una fanciulla che riuscì ad innamorarsi di lui e diventò un bellissimo principe). Gesù arriva fino a qui.
E Giuda, il traditore? Non cacciamolo troppo presto all’inferno. I Vangeli (soprattutto quello di Matteo, cfr. Mt 26,24) sono molto severi con lui, ma Giuda sta a ricordarci che l’amore senza limiti può trovarsi – ahimè – di fronte ad una porta chiusa. Vorrei che quest’ultimo pensiero ci preparasse alla Comunione, una Comunione speciale, con il silenzio necessario per un colloquio desideratissimo, a tu per tu, con colui dal quale sappiamo di essere amati, “fino in fondo”. «Ecco – dice Gesù – io sto alla porta e busso… Se qualcuno mi apre, verrò da lui, cenerò con lui e lui con me» (Ap 3,20). Fino in fondo!

Omelia nella S.Messa Crismale

Pennabilli (Cattedrale), 18 aprile 2019

Is 61,1-3.6.8-9
Sal 88
Ap 1,5-8
Lc 4,16-21

1.

Care sorelle, cari fratelli, cari sacerdoti,
eccoci a celebrare nella nostra bella Cattedrale.
L’incendio a Notre-Dame ci fa sentire ancor più l’attaccamento a questo segno di unità che rinvia all’edificio santo, fatto di pietre vive, che è la Chiesa. Qui, nell’oggi della liturgia celebriamo la comunione del nostro sacerdozio (Gesù unico sacerdote, noi tutti, popolo santo e ministri, partecipi del suo sacerdozio), la comunione tra noi, la comunione con Cristo. Siamo qui per la rinnovazione dei santi oli, per la rinnovazione delle promesse sacerdotali, per la rinnovazione della nostra alleanza con Cristo.
Comunione e rinnovazione: due parole chiave.
Siamo in festa: presbiteri, diaconi, significativa rappresentanza di religiose e religiosi, ministri istituiti, fedeli laici (tra questi, sono presenti gruppi di ragazzi che si preparano alla Cresima).
La Cattedrale è il cuore della Diocesi. Custodisce la Cattedra del vescovo insieme a tante memorie di sante persone e di vicende ecclesiali e umane. Alla Cattedrale guardano le sorelle e i fratelli di vita contemplativa.
Siete tutti benvenuti. Siete la bellezza di questo luogo!
Qui ritorneremo presto per la Veglia di Pentecoste, l’8 giugno prossimo, per celebrare una verifica del percorso fatto insieme quest’anno. Qui ci ritroveremo per una Sacra Ordinazione, il 14 settembre: il diacono don Luca Bernardi verrà consacrato presbitero… Il 22 settembre, di nuovo qui in Cattedrale, vivremo l’assemblea diocesana in vista di un nuovo anno pastorale.
La Cattedrale è segno di Cristo, sacramento dell’incontro con Dio. Disse Gesù: «Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere». Ma egli parlava del tempio del suo corpo (cfr. Gv 2,21).
Questa mattina, come da una sorgente, vediamo sgorgare un fiume di grazia che si diramerà in tanti ruscelli per rallegrare la nostra terra (cfr. Sal 46,5). L’olio che fa brillare i volti dei catecumeni. L’olio che dà sollievo a chi è malato. Il crisma che consacra con l’unzione sacerdotale, profetica e regale i redenti (popolo di Dio) e segna «con affetto di predilezione alcuni tra i fratelli per renderli partecipi del ministero di salvezza di Gesù» (Prefazio, Messa crismale).

2.

Nel deserto di Giudea, alle prime luci della Pasqua, una fiaccola accesa viene lanciata dal pinnacolo più alto del monastero di San Saba. Quella luce che squarcia l’oscurità viene vista dal monastero più vicino che, a sua volta, trasmette il segnale al successivo monastero. Nella traiettoria verso il monastero di Santa Caterina al Sinai la notizia della Risurrezione, di luce in luce, si diffonde in tutto l’Oriente. Nel cuore di questo anno tutto dedicato ad una rinnovata consapevolezza della presenza del Risorto tra noi, faccio dono ad ogni comunità di una sinossi dei racconti pasquali. È un segno. L’annuncio di Gesù Risorto risuoni di bocca in bocca, squarci le oscurità del nostro tempo.
La Quaresima, iniziata con l’austero ma necessario ammonimento: «Ricordati che sei polvere e in polvere ritornerai» (Gn 3,19), sta per chiudersi con una parola piena di speranza, di nuova energia, di nuova creazione: «Ricordati: risorgerai!». Al posto della cenere, la corona (cfr. Is 61,3). Gesù Risorto comunica a noi la sua vittoria.

3.

Consentitemi adesso un salto un po’ spericolato: immaginiamo il primo Giubileo del secondo millennio: anno 2025! Come non pensare al Giubileo come ad un grande Anno di Grazia (cfr. Lc 4,19). È data convenzionale, simbolica – certo – ma possiamo riconoscerle un significato educativo di verifica e di stimolo. Vorrei ci arrivassimo – a Dio piacendo – tutti e tutti preparati. Avvertiamo quanto sia delicato per noi e per la nostra gente il passaggio da un cristianesimo sociologico ad uno della libertà e della grazia, cioè di libera e rinnovata corrispondenza. Vorremmo che nulla andasse perduto e nel contempo essere aperti al nuovo. Siamo qui, in questo crinale. Ne abbiamo un quotidiano riscontro: molti sono cristiani – è una formula che abbiamo ripetuto spesso – senza mai aver deciso di esserlo. Nei nostri paesi, tradizionalmente cristiani, spesso la sfida consiste «non tanto nel battezzare i nuovi convertiti, ma nel condurre i battezzati a convertirsi a Cristo e al suo Vangelo» (Giovanni Paolo II, Ecclesia in Europa, 47). Da più parti si dice ancora che il problema non è tanto di far praticare i credenti, ma di far credere i praticanti. Domando: non potranno questi anni che ci preparano al 2025 costituire una sorta di missione permanente, una sorta di comunitaria iniziazione cristiana?
Dal biennio kerygma-Battesimo (stiamo vedendo qualche frutto: la riscoperta della centralità della risurrezione, con tante esperienze concrete, una maggior consapevolezza di essere Chiesa, cristiani attorno al Risorto, ecc.), al biennio missione-Cresima (l’incontro con Gesù, l’effusione del suo Spirito, non possono che tradursi in una incontenibile urgenza di comunicarlo), al biennio comunione-Eucaristia (effetto della Pasqua e della Pentecoste: dalla dispersione all’unità).
Perché questi segmenti cronologici? Perché queste scansioni di contenuti? È pedagogia della Chiesa: per camminare sinodalmente, per coordinare gli sforzi, per coinvolgere laici, religiosi, ministri. È lo stile dell’anno liturgico, scuola che insegna a sillabare, a riprendere continuamente il mistero di Cristo. Lo vorremmo abbracciare tutto, in una sola volta, tutto intero, ma la nostra umanità ha i suoi ritmi.

4.

Il Vangelo, in special modo questo brano secondo Luca, che tante volte abbiamo meditato e dal quale non riusciamo a staccarci, ci vuole a confronto con Cristo. Esaminiamo la nostra condotta, se assomiglia alla sua. Rinnoviamo volentieri le promesse e i propositi di lasciarlo agire in noi, liberamente e totalmente.
Gesù va in sinagoga secondo il suo solito… Partecipa alla riunione comune. Per inciso, l’autore della Lettera agli Ebrei lamentava che qualcuno «diserta le nostre riunioni» (cfr. Eb 10,25). Gesù va ad una preghiera, ascolta le parole che Dio ha da dire al suo popolo. Ha imparato – pedagogia della Santa Famiglia – che nelle cose di Dio non vale “il fai da te”. È felice di appartenere al suo popolo. Come un fiore sboccia nella sua umanità e si schiude sul grande albero della storia di Israele. Quel sabato, dopo la preghiera iniziale e la lettura del profeta Isaia, è invitato a prendere la parola. Forse non è la prima volta, ma Luca dà grande rilievo a questo momento. Con fine arte letteraria e sensibilità psicologica evidenzia l’atmosfera di stupore dell’uditorio e in tal modo sottolinea il carattere programmatico dell’omelia di Nazaret. Omelia brevissima. Quello che Gesù sta per dire è della massima importanza, costituisce il suo manifesto. È sorprendente la solennità con cui si compie quel rito con cui ci è dato di capire chi è Gesù: viene consegnato il rotolo, Gesù lo apre, trova il passo, si alza, legge, chiude il rotolo, lo restituisce al cerimoniere sinagogale, siede, gli occhi di tutti sono puntati su di lui, silenzio… È dato di capire chi è Gesù. A differenza dei predicatori del tempo, non si perde nei labirinti della esegesi o della retorica, punta dritto su ciò per cui Isaia 61 è stato scritto: «Oggi si compie questa scrittura davanti a voi che ascoltate». Con quell’oggi Gesù lega la sua persona all’iniziativa d’amore del Padre. E passa davanti a Gesù un’umanità di poveri, prigionieri, feriti, cechi, oppressi, disperati. Viene per questa umanità e un giorno dirà: «Io per voi consacro me stesso» (Gv 17,17). Gesù non mette come scopo se stesso, ma ciascuno di noi: «Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l’unzione e mi ha mandato».
Il nostro ministero esige una prima, e per quanto possibile, perfetta consonanza della nostra mente, del nostro cuore, dei nostri sentimenti, dei nostri atti, quasi una fusione della nostra persona con la sua. È san Paolo che per primo ha fatto uso, ha inventato, la bella formula «in persona Christi» (2Cor 2,10). Noi operiamo «in persona Christi», immersi in lui, dotati della sua potestà, colmati dei doni della sua verità, del suo amore, della sua misericordia. Noi viviamo – ne fossimo sempre coscienti! – «in persona Christi», per questo nella liturgia del “nostro” Giovedì Santo fissiamo lo sguardo al Vangelo, contempliamo il Cristo che vi compare e accogliamo il messaggio che ci indirizza. L’esistenza di Gesù è stata dono, dono totale. Così l’esistenza del prete. Ce lo ricorda il canto del Prefazio: «Tu, o Padre, proponi loro come modello il Cristo, perché donando la vita per te e per i fratelli, si sforzino di conformarsi all’immagine del figlio tuo e rendano testimonianza di fedeltà e di amore generoso».
Essere generosi (nel senso etimologico). Essere generosi nel dare. Più delle cose dare tempo, dare attenzione, dare ascolto, dare reperibilità. Avere il cuore tutto aperto. Questo dare è faticoso come un parto, ma ci genera come madre dell’altro e lui (l’altro) vive generato da noi. Pensiamo a Gesù sulla croce: il nostro dare, insieme al suo, resterà. Così crediamo. Così sia.

Auguri!

«Il giorno al giorno ne affida il messaggio
e la notte alla notte ne trasmette notizia…
Per tutta la terra si diffonde la voce
e ai confini del mondo la loro parola:
“Resurrexit!”».
Buona Pasqua!

+ Andrea Turazzi