Pennabilli (Cattedrale), 14 settembre 2019
(da registrazione)
Ger 1,4-9
Sal 95
Ebr 5,1-10
Gv 21, 15-17
«Ich bin catholischer priester»: sono le parole esatte che san Massimiliano Kolbe scandì davanti al comandante delle S.S., quando si offrì per prendere il posto di un altro nel bunker della morte ad Auschwitz. Una parola che si è andata ad infrangere una seconda volta davanti allo stupore massiccio e incredulo del comandante: «Ich bin catholischer priester» (io sono un prete cattolico); parole pronunciate con fierezza, parole pronunciate per amore. Fierezza e amore.
La fierezza della fede non è arroganza, ma gioia di appartenere a Gesù Cristo; bellezza di una scelta e di una missione che riempiono il cuore. Sii fiero di essere un prete cattolico, don Luca, ultimo di una schiera di preti che hanno educato, servito, amato questa terra. Oggi, più che in altre epoche, esser prete appare un’avventura – quasi un’imprudenza, secondo qualcuno – pensando alla tua giovane età e alla durezza dei tempi. Ma c’è stata una bella preparazione: la tua famiglia, Ferrara e questi ultimi anni di studio e di tirocinio. Poi, c’è la gioia del popolo di Dio. Anche questo è un segno. C’è, soprattutto, il sigillo del Signore che ti ha chiamato e, come al profeta Geremia, dice a te: «Prima di formarti nel grembo materno, ti conoscevo, prima che tu uscissi alla luce, ti avevo consacrato… Non dire: “Sono giovane, ma va da coloro a cui ti manderò”» (Ger 1,5.7).
Questa sera diventi un prete della Chiesa cattolica. Non allontanartene mai. Sia sempre salda la tua unità con il Sommo Pontefice e con il Vescovo, in comunione con i tuoi fratelli presbiteri, a servizio di questa Chiesa, forse tra le più piccole, ma a pieno titolo sposa del Signore.
«Io sono un prete cattolico»: parole pronunciate per amore. Quello del Signore Gesù. Qui non si parla tanto della virtù della carità, pur tanto bella e necessaria, ma del fatto che tu, attraverso il sacramento, sei fatto carità. Starei quasi per dire “nonostante te”, senza negare la tua libertà e la tua collaborazione alla grazia.
Ce ne parla la Lettera agli Ebrei. Un accenno. Il sacerdozio di Cristo, a differenza di quello di Aronne (Antico Testamento), conosce un movimento discendente, quasi un piano inclinato. I Padri parlavano di condiscendenza. Contempliamo, anzitutto, il “sì eterno” del Verbo nell’unità col Padre («Ecco, io vengo per fare la tua volontà» cfr. Sal 39,8), l’incarnazione, la vita nascosta a Nazaret, la familiarità con la gente, il cammino rigato di sudore e di polvere verso Gerusalemme, la Passione, il dolore innocente; infine, il dono totale di sé sulla croce («Tutto è compiuto» Gv 19,30). Gesù, sospeso fra cielo e terra, diviene altare, vittima e sacerdote. Sacrificio cruento. «Padre, liberami da quest’ora – aveva detto Gesù –, aggiungendo poi, «ma è per quest’ora che sono venuto» (Gv 12,27). Non tutto è compiuto: resta per noi, incantati e stupefatti da tanta condiscendenza, da considerare l’estrema offerta: in virtù della risurrezione il suo donarsi, il suo perdersi, il suo cedersi nel Pane eucaristico. Noi adoriamo la sua presenza nel dono di quel pane spezzato e di quel vino versato. Oltre, la nostra meditazione non saprebbe spingersi. A quali altre profondità rintracciare la kenosis – l’umiliazione condiscendente – del Verbo fatto uomo, del Figlio obbediente, del Risorto che si fa pane di vita. Diremmo: siamo al capolinea! Più in basso di così non poteva spingersi, fattosi grumo di materia, farina impastata con l’acqua.
C’è una sorpresa: Gesù, in una eccedenza ineffabile di carità, cede la sua stessa capacità di cedersi, dona la sua stessa capacità di donarsi, perde la sua stessa capacità di perdersi. A chi la cede? A chi la dona? In chi la perde? Nel prete. In te, don Luca, che questa sera pronuncerai efficacemente le sue parole: «Questo è il mio corpo dato per voi…». La carità di Cristo è perduta in te. O meglio, tu sei costituito carità in Lui: bellezza incredibile del sacerdozio cattolico.
Da qui conseguenze, responsabilità, programmi di vita… Il prete è l’approssimazione più grande che si possa attuare quaggiù, sulla terra, della presenza visibile del Cristo.
«Scelto fra gli uomini… Costituito per gli uomini nelle cose che riguardano Dio» (cfr. Ebr 5,1). «Nessuno può attribuirsi questo onore, se non chi è chiamato da Dio» (cfr. Ebr 5,4).
Egli, il Cristo, «offrì preghiere e suppliche con forti grida e lacrime a Dio che poteva salvarlo dalla morte e, per il pieno abbandono in lui, venne esaudito» (cfr. Ebr 5,7). In che modo si compì l’esaudimento di quella preghiera «con forti grida e lacrime», se poi è morto sulla croce? In questo fu esaudito: nel poter vivere da figlio quella prova e divenire causa di salvezza. E ora? «Un corpo mi hai dato» (Ebr 10,5), dice il Verbo entrando nel mondo. Non angeli vengono mandati, ma uomini di carne per compiere la missione. Ha scelto uomini, ha scelto te, don Luca, e ti ha scelto insieme al nostro presbiterio, con il nostro popolo. Applichiamoci a far entrare in questa carità tutta la nostra persona: anzitutto un prete uomo.
Ci sono preti che sembra non abbiamo mai avuto una vita d’uomo. Non sanno pesare le difficoltà di un laico, di un padre di famiglia o di una madre con il loro vero peso umano. Sembrano, alcuni preti, non percepire veramente, realmente, dolorosamente, che cosa sia una vita di uomo o di donna.
Quando dei laici cristiani incontrano finalmente un prete-uomo che li capisce, che sa entrare nella loro vita, nelle loro difficoltà, non ne perdono più il ricordo. Ad una condizione: che non sminuisca la propria identità, che non diventi semplice compagno, ma resti padre.
Il nostro popolo ha ugualmente bisogno che il prete-uomo viva di una vita divina. Pur vivendo tra la gente – come suol dirsi: «con l’odore delle pecore» (Papa Francesco) – deve in qualche modo rimanerne al di fuori. Ecco alcuni segni che fanno percepire la presenza divina che è in lui, la carità che è effusa. Un elenco rapidissimo, alcune pennellate.
La preghiera. Ahimè, forse hai visto in noi, preti “di molte preghiere”, ma di poca preghiera.
La gioia. Quante volte ti siamo apparsi affaccendati, angosciati, tirati come la pelle di un tamburo, quasi che il lavoro nella vigna del Signore fosse insopportabile.
La forza. Il prete vero è colui che tiene, che tiene botta! Sensibile, vibrante, a volte intimorito, mai però demolito (non cullare mai pensieri rinunciatari o dimissionari; missionari sì, ma non dimissionari).
La libertà. La gente vuole il prete libero da ogni formalismo, liberato soprattutto da ogni pregiudizio.
La discrezione. Dev’essere colui che tace; non mi riferisco al segreto di Confessione, è ovvio, ma alla riservatezza (si perde la fiducia in chi ci fa troppe confidenze o si perde nel chiacchiericcio). Ben altra cosa sono la condivisione e la comunione d’anima.
Caro don Luca, hai appena iniziata la tua formazione – anche se hai già fatto sei anni di Seminario – ora continuala sul campo: viceparroco a Dogana, nel Centro Diocesano Vocazioni, tra i giovani e nell’AGESCS. Lasciati prendere da quella “legge di gravità” che ti trascina istintivamente verso i più poveri, i più fragili, i più piccoli. Cresci nel sentire con la Chiesa: non parlare mai con leggerezza della Chiesa, come se fossi uno di fuori. Fa’ che il tuo cuore risponda sempre col trasporto di oggi alla domanda che il Risorto ti rivolge: «Luca, mi ami più di costoro? […] Mi ami? […] Mi vuoi bene? Allora… Pasci!». Così sia.