Omelia nella Celebrazione eucaristica in occasione del Convegno liturgico diocesano

Valdragone (Casa San Giuseppe, RSM), 27 ottobre 2019

(da registrazione)

Sir 35,15-17.20-22
Sal 33
2Tm 4,6-8.16-18
Lc 18,9-14

C’è una cosa che apprezzo in tutt’e due i protagonisti della parabola narrata da Gesù, il fariseo e il pubblicano: decidono di salire al tempio. Fuori di metafora, decidono di pregare, preparano la preghiera. Penso che la maggior parte della nostra preghiera sia decisa dalla preparazione. Quei due amici che salgono al tempio sono d’esempio per ciascuno di noi, ci insegnano a preparare la nostra preghiera. Ricordo che una volta accompagnai i seminaristi ad un ritiro con padre Andrea Gasparino, che negli anni ‘70 era un grande maestro spirituale. Lui parlò dell’importanza della preparazione della preghiera. Prima di fare la prima meditazione lasciò passare un giorno intero, perché fossimo in grado di accoglierla.
Il problema è come si esce dal tempio. Vediamo due esiti. Il pubblicano entra col peso dei suoi peccati, si mette davanti al Signore e non parla di sé, perché sa che è perdente in partenza. Alza lo sguardo da sé e lo mette tutto in colui che gli sta di fronte, il Signore. Il suo cuore è aperto e il Signore può infondere tutta la sua misericordia. Torna a casa diverso, cambiato, trasformato. Il fariseo, invece, va davanti a Dio pieno di sé, esibendo la bontà di tutte le sue opere. Parte bene, intona un solenne “Te deum”, ma non riesce a lasciare da parte il suo io, così ingombrante. Me lo figuro come una persona austera, santa, che faceva penitenze, mentre il pubblicano gozzovigliava e faceva la cresta sulle imposte, a servizio dei Romani.
Concludo con un testo che lessi alcuni anni fa, di una mistica palestinese, Myriam Bouardy. Myriam riferisce che in una sua esperienza soprannaturale si era trovata all’inferno. Con suo grande stupore aveva visto persone che avevano praticato la castità, persone impegnate nel sociale, liturgisti… Mancava loro l’umiltà. Il Signore, poi, l’ha trasportata in paradiso. Myriam era inorridita, perché aveva incontrato chi era stato un bevitore, chi un bestemmiatore… Ma aveva visto una cosa che non c’era all’inferno: l’umiltà. Sia lodato Gesù Cristo.

Introduzione al Convegno liturgico-pastorale “La nascita dell’uomo nuovo”

Valdragone (RSM), 27 ottobre 2019

(da registrazione)

Carissimi,
siamo gente di Pasqua! Accogliendovi, stamattina, sulla soglia di Casa San Giuseppe ho pensato con tanta gratitudine a voi, a quello che fate nelle vostre comunità parrocchiali, a quello che siete. Anzitutto, vorrei dire che questo Convegno è un regalo fatto personalmente a ciascuno di voi. Per organizzare un Convegno non basta telefonare a qualche relatore; dietro c’è tutta una riflessione, che comprende anche la decisione di invitare dei maestri di questo taglio, con queste idee e con questo stile.
Non dimentichiamo che siamo qui di domenica; il nostro pensiero va sicuramente alle nostre comunità e ai nostri parroci. Quello che stiamo facendo questa mattina non è tempo sottratto a loro (qualcuno forse lo pensa). In verità, questo tempo che dedicate allo studio e all’incontro tra voi è assolutamente un guadagno per tutti.
Questo Convegno è il primo che apre l’anno pastorale e ad esso è affidato il tema del cammino del Programma pastorale biennale kerygma-battesimo.
Vorrei consegnarvi tre piccole riflessioni, quasi tre post-it.
Non sono intenzionato a fare rivendicazioni, ma riconosco la preziosità delle donne nella catechesi, nella carità, ma anche nella liturgia, come ministri straordinari della Comunione. Vedo le donne dentro al mistero della morte e risurrezione di Cristo. Lasciamo da parte il “sarcasmo catechistico”, maschilista, col quale si dice: «Perché Gesù ha affidato il primo annuncio alle donne? Perché si propagasse più in fretta!». In verità, il Signore ha affidato alle donne l’inizio della vita nuova, come affida loro la vita nel suo momento più bisognoso di cure. Nei Vangeli vediamo Maria di Magdala, la prima a cui il Risorto si manifesta, che va subito a misurarsi con lo scetticismo degli apostoli: «Quando intesero che Gesù era vivo e che lei lo aveva visto, si rifiutarono di credere». Maria è la donna che versò tutto l’olio profumato sui capelli di Gesù, un olio costosissimo, al punto che ricevette il rimprovero dagli uomini per il grande spreco. Gesù invece ha saputo apprezzare il gesto profetico della donna in vista della sua sepoltura (cfr. Gv 12). Sono le donne che compiono le ultime cure al corpo di Gesù, con la preparazione degli aromi. Passato il sabato, tornano al sepolcro per completare quel gesto di pietà: si chiamavano mirofore, le donne portatrici del profumo. Invece, per Giuseppe di Arimatea e per Nicodemo, il seppellimento era definitivo: ci han messo una pietra sopra! Dunque, le donne hanno saputo dare una lezione di fedeltà e di coraggio, al contrario degli apostoli, che stanno chiusi “a doppia mandata” nel cenacolo.

Vi confido questa suggestione (non corretta teologicamente). Si dice: «Che miracolo la risurrezione di Cristo!», ma, a dire il vero, mi sembra più un miracolo la sua morte. Trovo ovvio che il Figlio di Dio non venga ingoiato dalla morte e che risplenda vincitore nella sua potenza, ma non trovo ovvio che lui, il Figlio di Dio fatto uomo, passi veramente nella morte. Questo è un miracolo per me. Però morte e vita in Gesù sono un unico mistero. Ebbene, noi abbiamo disponibile questo mistero: Gesù Risorto è in mezzo a noi si rende disponibile nel sacramento nel quale lui ci dona la sua vittoria, in cui egli prende su di sé la nostra mortalità e ci apre il traguardo della risurrezione: il Battesimo. Oggi approfondiremo questo sacramento e sarà bellissimo poter bere a questo fiume. Ricordo un proverbio africano: «Quando uno beve al torrente a cosa pensa? Pensa alla sorgente». Dal cuore di Gesù squarciato sulla croce esce questo fiume che poi si moltiplica in milioni e miliardi di rivoli: il Battesimo che ci ha uniti a lui morto e risorto.

Avrete notato che, nei Vangeli della risurrezione, Gesù Risorto inizialmente non viene riconosciuto; un po’ perché è incredibile per un essere umano che un morto torni a vivere, ma c’è dell’altro. Persino Maria di Magdala, innamoratissima di Gesù, lo scambia per il giardiniere; i discepoli di Emmaus fanno strada con lui, lo sentono parlare, ma non lo riconoscono; così anche i pescatori sul lago, i sette apostoli che erano scappati in Galilea anziché restare a Gerusalemme. In tutt’e tre gli episodi quando Gesù parla gli occhi si aprono. A Maria di Magdala Gesù dice una parola dolcissima: «Maria!». Ai discepoli di Emmaus spiega le Sacre Scritture e il loro cuore gli “ardeva nel petto”. Ai pescatori disse: «Gettate la rete dalla parte destra» e tutto cambiò.
Quando leggiamo la Parola di Dio e ci impegniamo a viverla, nasce in cuore la certezza che Gesù cammina con noi, vediamo delle grazie attorno a noi, riconosciamo Gesù. Non soltanto, vivendo la Parola ci accorgiamo di essere capaci di perdono e, con le sole nostre forze, dobbiamo ammettere che non ce la facciamo a vincere le tentazioni, a continuare a donarci, a spenderci. Lo possiamo solo con la forza della Parola. A volte è una “parola” che ci accompagna durante la settimana, altre volte c’è una situazione che ci fa venire in mente una frase del Vangelo; ad esempio, può capitare si sentirsi stanchi e viene in mente di smettere di donarsi, visto che nessuno se ne accorge attorno a noi; in quel momento viene in mente la parola di Gesù: «C’è più gioia a dare che a ricevere». Questa produce degli effetti, proprio come il sacramento. Parola e sacramento insieme ci trasformano.
Auguri di buon lavoro!

Omelia XXX domenica del Tempo Ordinario

Maciano, 26 ottobre 2019

(da registrazione)

25° anniversario di ordinazione presbiterale
di don Maurizio Farneti

Sir 35,15-17.20-22
Sal 33
2Tm 4,6-8.16-18
Lc 18,9-14

Gesù ci racconta una parabola per chiarire la situazione di alcuni, che sono convinti d’esser giusti e disprezzano gli altri. Dunque, la domanda che ciascuno dovrebbe rivolgersi è: «Come sto davanti a Dio?». Gesù, come un abile cameraman, fa una “zoomata” su due personaggi, due uomini che salgono al tempio per la preghiera (il tempio di Gerusalemme, il luogo – dice la Bibbia – dove Dio ha scelto di far abitare il suo nome). Il tempio era luogo privilegiato per l’incontro con Dio, come lo sono oggi le nostre chiese.
Ogni volta che salgo al tempio, cioè alla chiesa, mi rivolgo al Signore dicendo: «Salgo per te? O sono forse vittima dell’abitudine? In chiesa parlo, mi distraggo, penso ad altro?». In chiesa si viene per prendere posto sotto la coperta della preghiera, una coperta sempre troppo corta: o ci si scoprono i piedi (fuori di metafora, si han tante cose da fare) o ci si scoprono le spalle.
In quale dei due protagonisti ci rivediamo?
Il fariseo, eretto, prega in se stesso, si prega addosso. Il centro della sua preghiera non è il Signore, ma lui. Si avvicina a Dio per attirare l’attenzione di Dio su di sé, per farsi ammirare. Il fariseo ha condotto e conduce una vita onesta, osserva le leggi, non smette nella preghiera di elencare tutte le sue opere, sembra uno che intona un solenne “Te Deum”. Parla molto il fariseo, ma unicamente di se stesso. Non si preoccupa di ascoltare il Signore, è soddisfatto di sé, non ha bisogno del Signore. E così se ne torna a casa tale e quale era uscito. Non c’è rinnovamento nella sua vita spirituale. In chiesa ha portato solo la sua vanità.
L’altro personaggio, il pubblicano, si tiene a distanza. Sa che non ha nulla da offrire al Signore. Riconosce i suoi sbagli. Il suo atteggiamento esprime la sua fede. Anche se non osa alzare gli occhi al Cielo, Dio gli è vicino e il suo cuore è rivolto a Dio, non verso se stesso. La sua preghiera, trapuntata di pochissime parole, manifesta la consapevolezza del suo stato ed esprime la sua fiducia nella bontà del Signore. «Mio Dio, abbi pietà del peccatore che sono» (cfr. Lc 18,13). Risultato: è diventato un altro uomo. È un altro uomo, effettivamente, quello che esce dal tempio. Torna a casa sua “aggiustato”, cioè reso giusto, da Dio. È diventato suo amico, ridiventato figlio.
Diciamo grazie al Signore, perché attraverso questi due personaggi ci insegna la vera preghiera e attira la nostra attenzione verso la sua presenza, che è più importante del nostro “io” così ingombrante. «Signore, tu sei nelle nostre chiese, ci inviti e ci attendi, prepari per noi la tavola della tua Parola e quella del tuo pane, l’Eucaristia, che ci mostra il tuo amore senza condizioni, il tuo cuore sempre spalancato verso chi si avvicina a te».
«Questa sera, Signore, ci riempi di gioia per il dono di un tuo sacerdote tra noi, don Maurizio. È tuo e lo dai a noi come segno della tua premura di buon pastore».
Don Maurizio ricorda, insieme con noi, venticinque anni di ministero; ministero tra i giovani, per tanti anni, e poi in diverse comunità, con tante responsabilità diocesane, e qui, ora, in mezzo a noi. Mi sembra di trovare nei venticinque anni del ministero di don Maurizio, come un filo d’oro che li congiunge. È il pensiero ricorrente di considerarsi un discepolo al quale Gesù ha affidato il suo stesso donarsi, fino a percepire il brivido della Passione. Il prete – penso che don Maurizio condivida con me questa esperienza – è la persona più ricca che ci sia sulla terra: risana, benedice, perdona, consacra, ed è la persona più povera, perché pronuncia parole non sue, programma e forze gli vengono da oltre.
Ci sono stati giorni – prego il Signore che non abbiano a tornare – nei quali don Maurizio ha fatto l’esperienza di essere senza forze, senza possibilità di fare e di dire, senza possibilità di fare progetti. In quei momenti, anche a me è toccato di essere aiutato da una meditazione di musica di una grande maestro del Seicento, Dietrich Buxtehude. Contemplando le piaghe del Cristo Crocifisso, questo autore affida al Coro, prostrato ai piedi di Gesù inchiodati alla croce, il versetto di Isaia che dice: «Ecco, i piedi che evangelizzano, piedi inchiodati». Dunque, la vita del prete non è l’attivismo del propagandista, ma la dedizione dell’innamorato.
Il mio augurio a don Maurizio, con tutto il cuore: «Ad multos annos (così per tanti anni ancora)»!

Omelia nella S. Messa di ringraziamento per la professione religiosa di suor Giulia Cenerini

Pennabilli (Cattedrale), 26 ottobre 2019

(da registrazione)

Gen 12,1-4a
Sal 15 (16)
Gv 15,9-17

Carissimi,
quasi non si oserebbe commentare le parole del brano di Vangelo proclamato in questa liturgia di ringraziamento per il dono della chiamata che il Signore ha rivolto e confermato a suor Giulia. Si tratta di un dono per lei, ma è un dono anche per tutti noi, perché è tutta una comunità ad essere incoraggiata nella sua vita di consacrazione battesimale. Dio non si è stancato di noi! Diciamo il nostro “grazie” anche per le vocazioni al ministero sacerdotale e per tutte le altre vocazioni alla vita consacrata.
C’è un comandamento che Gesù dice suo e dice nuovo, inedito: il comandamento dell’amore reciproco. L’attenzione non può che cadere su quel “come”: «Amatevi come io vi ho amato». Non perché noi possiamo amare quanto ha amato Gesù – troppo piccolo è il nostro cuore rispetto al suo –, ma perché possiamo collocarci nella sua stessa lunghezza d’onda. Dobbiamo pensarci dentro al dinamismo di un amore trinitario. Il Battesimo, infatti, ci ha collocati in quell’ambiente divino – un “come” smisurato – non per suscitare in noi sentimenti di inadeguatezza, e quindi di tristezza, ma per suscitare gioia, perché, dice Gesù, «la mia gioia in voi sia piena» (Gv 15,11). Dunque, quello che può apparire un precipizio – ci verrebbe da pensare che il Signore ci colloca così in alto da farci venire le vertigini – in realtà è uno stare dentro a quel grembo da cui veniamo, appunto la Trinità. Dal seno della Trinità siamo stati pensati, amati, voluti, desiderati e quindi creati. «Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi» (Gv 15,16). Perché? Perché «portiate frutti», dice il Signore.
Proviamo a spendere una parola di approfondimento sul tema della vocazione. Nella cultura corrente quando si dice “vocazione” si finisce per indicare non tanto la chiamata di un altro, ma una inclinazione; ad esempio si dice di avere la vocazione a fare il poeta, oppure a fare il calciatore, quasi che la vocazione fosse una propensione, con l’esigenza di autorealizzarsi. Volendomi realizzare, metto in atto tutte le risorse per raggiungere quell’obiettivo. La tradizione cristiana sembra concepire la vocazione in tutt’altro modo, perché la intende come un appello ricevuto da un altro, da Dio, anzi da tutt’Altro, colui che mi fa uscire da me stesso. La vocazione, talvolta, può andare anche all’incontrario dei propri progetti, o almeno come li si è immaginati; essa è anche sinonimo di rinuncia, di sacrificio, di croce, perché bisogna dimenticarsi, rinnegare se stessi. Ricordate cosa dice Gesù a Pietro: «Un altro ti cingerà e ti condurrà dove tu non vorresti» (Gv 21,18). Tuttavia, le due concezioni, così diverse, non necessariamente sono in antagonismo. C’è un punto in cui le due sottolineature si incontrano. Il racconto della vocazione di Abramo, che abbiamo sentito proclamare, può essere letto, effettivamente, sotto questi due aspetti. C’è, da una parte, l’iniziativa divina: Dio chiama, prende la parola per primo, invita Abramo a lasciare la sua terra, il suo parentado. È un imperativo: «Parti», e c’è una promessa: «Io ti benedirò». Ma la promessa non è in forma condizionale; Dio non dice: «Se tu partirai, io ti benedirò». La Parola si impone. Abramo non ha chiesto nulla, ma quella Parola non è efficace se non incontra una libertà interiore, perché non è – quello di Dio – un ordine fatto ad uno schiavo, che non ha altra scelta che obbedire. Abramo è libero di rifiutare. Se accetta l’appello divino è perché, senza dubbio, percepisce, seppure oscuramente, risuonare dentro di lui un desiderio che fino ad allora era rimasto nascosto, magari implicito, accartocciato. Abramo ha bisogno di questo imperativo che viene dall’esterno per risvegliare quel desiderio. La chiamata è liberatrice, perché sblocca energie interiori, dispiega orizzonti impensati, ma che già erano, in qualche modo, presenti in colui che è chiamato. Allora si esce da sé, ma per incontrare un Altro. E non è questo, in fondo, il desiderio che ciascuno porta dentro di sé?

Messaggio a tutti gli studenti per l’inizio dell’anno scolastico

Cari ragazzi,
cari amici,
ecco un nuovo anno. W la scuola!
Come un rotolo di pergamena racchiude parole sconosciute finché è sigillato, così quel che accadrà nell’anno che comincia lo scopriremo giorno dopo giorno. Lo prendiamo, senza sapere quello che contiene, con fiducia e curiosità dalle mani di quanti ci vogliono bene: insegnanti, personale della scuola, educatori e tutti gli angeli che ci sono accanto. La metafora del rotolo di pergamena non ci è famigliare, siamo abituati all’uso dei social: tutto subito. La vita chiede altri ritmi.
Anche quest’anno vorrei lasciarvi un messaggio: «Essere se stessi o la copia di qualcuno?». Conosco personalmente diversi di voi, ma so per certo che ognuno è un capolavoro, un pezzo originale, unico e sorprendente. Nella Bibbia c’è una preghiera che canta così: «Tu, Signore, mi hai fatto come un prodigio, come un ricamo nel grembo di mia madre» (Sal 139). Alcuni fanno fatica a crederci e si rassegnano a copiare, anziché tirar fuori il meglio di sé. Un cucciolo d’uomo guarda i suoi genitori, i suoi maestri, i suoi amici: questo è normale e buono. Guardando s’impara! Poi, scatta il confronto con gli altri, uno stimolo per crescere e migliorare. «Non potrei essere un campione nello sport? Non potrei diventare una hostess bella ed elegante?». Un grande amico dei sapienti (sant’Agostino) sussurrava, vedendo la vita buona di giovani e ragazze: «Se questi e quelle… perché non io?». Capita nei momenti di scarsa stima di sé, quando fatica a sbocciare il proprio io, che l’imitazione, da stimolo diventi pericolo, faccia perdere fiducia in se stessi e lasci gregari per sempre o con l’amarezza di essere un campione mancato. Vi dico: «Gareggiate nello stimarvi a vicenda»! Mi rivolgo a ciascuno personalmente: «Occhio ai modelli». Credo che tu, per giovane che sia, sappia distinguere i modelli positivi da quelli negativi. Si sa – come dice il proverbio – che gli esempi attirano. Molti vedono in Gesù l’esempio di vita più affascinante; da lui tanti hanno imparato e sono diventati, a loro volta, modelli di vita, come Francesco d’Assisi e Chiara, come san Marino e tanti altri… «santi della porta accanto». Abbiamo bisogno della tua originalità: è la miglior forma di protesta per cambiare e migliorare la nostra società. Martin Luther King (grande leader antirazzista americano) diceva: «Se non potete essere un pino sulla vetta del monte, siate un cespuglio nella valle, ma siate il miglior piccolo cespuglio sulla sponda del ruscello. Se non potete essere una via maestra siate un sentiero. Se non potete essere il sole siate una stella, non con la mole vincete o fallite. Siate il meglio di qualunque cosa siate. Cercate ardentemente di capire a cosa siete chiamati e poi mettetevi a farlo appassionatamente». Gareggiamo nello stimarci a vicenda.

Vescovo Andrea

Omelia durante la celebrazione del Mandato agli operatori pastorali

Pennabilli (Cattedrale), 22 settembre 2019

(da registrazione)

Carissimi,
è un momento molto bello, di famiglia, e la prima parola che mi viene spontanea, la stessa che ho detto l’anno scorso, è: «Grazie!». Grazie, a nome di tutte le comunità e a nome di tutta la Diocesi. Ognuno di voi si impegna, lavora, soffre, vive il sacerdozio regale, la profezia, la regalità.
C’è una parola che è tornata spesso l’anno scorso, una parola che ha suscitato stupore: il dire che noi abbiamo scoperto la risurrezione nella morte. Apparentemente è lapalissiano dire “risurrezione nella morte”: se c’è risurrezione, bisogna che ci sia prima la morte. Ma non è in questo senso che dobbiamo intendere l’espressione e neanche in senso masochistico, intimistico: siccome siamo in situazione di prova, di morte, allora ci consoliamo con questa speranza. No, la risurrezione è un messaggio di liberazione, di luce, di salvezza.
Dove trovare la risurrezione, potenza di Dio? La troviamo annidata dentro le situazioni di fallimento, di fragilità, di morte. Situazioni che sembrano montagne impossibili da spostare. La fede sposta le montagne; la fede nella risurrezione ci fa vivere il fallimento, la fragilità, la prova con una grande speranza. Mi diceva una persona che lavora alla Congregazione per la dottrina della fede che fra i temi candidati per il prossimo Sinodo ci sarà quello della vita eterna. Considerare la vita eterna non significa sminuire l’impegno sulla terra, ma noi siamo quelli che credono nella risurrezione, ultraterrena ma presente già nella nostra vita; siamo quelli che osano immaginare di “spostare montagne”. Gesù ha detto che basterebbe la fede di un granellino di senape per spostarle. Beninteso, non dobbiamo spostare il monte Carpegna, ma le montagne dentro di noi e attorno a noi (nella società).
Ricordo un vecchio “spiritual” (i blues composti dagli schiavi che lavoravano nelle piantagioni di cotone) che dice più o meno così: «Dove hai trovato quella veste bianca tu che sei sempre sporco, impolverato, sudato? Questa veste bianca l’ho trovata alle porte dell’inferno». C’è risurrezione nella morte! Questo è il kerygma. Lo dico con le parole semplici, incisive, puntuali, brevi di papa Francesco: «Dio ti ama immensamente. È vivo. È vicino. Ti libera. Ti salva». Questo kerygma è stato anzitutto sillabato da Gesù. Gesù si è trovato davanti una montagna insuperabile che era la sua Passione. Ha pregato di essere liberato (cfr. Ebr 5,7). La Scrittura dice che fu liberato… Ma come? È morto! È stato liberato perché ha saputo vivere da figlio quella prova: ha spostato la montagna, è risorto. E Gesù dice a noi, a nostra volta, di fare questo annuncio. Un tempo si diceva “con le parole e con le opere”. San Francesco preferiva dire: «Qualche volta anche con le parole».
La nostra situazione è stata raffigurata molto bene con un’immagine, il dipinto di Caravaggio: “Paolo caduto da cavallo”. Ecco la nostra Chiesa. Essendo caduta da cavallo, ha le ossa rotte. Ne ho parlato con Sveva, la nostra eremita, che mi ha detto ironicamente: «Avrebbe dovuto fare a meno di andare a cavallo!». Fuori di metafora: una Chiesa che va a cavallo, tronfia e dominatrice, terrena, diventata talvolta potenza, può cadere facilmente. Nel dipinto di Caravaggio, Paolo è dipinto con le mani in alto, gli occhi socchiusi, che si intravvedono appena: è nell’atteggiamento dell’umiltà, che fa presagire tutto quello che l’apostolo farà. San Paolo ha tutt’altro che le ossa rotte. Così penso la Chiesa, al di là degli incidenti di percorso. Il Papa ha aperto il percorso delle sue catechesi parlando delle potenze di questo mondo che si sbriciolano. Ma la Chiesa guarda Gesù.
Mi preme sottolineare che kerygma e Battesimo non sono in sovrapposizione e non sono due realtà giustapposte. Il kerygma sfocia quasi automaticamente, per sua natura, nel sacramento del Battesimo. E il sacramento è annuncio. Dunque, non viviamo un altro tema rispetto all’anno scorso. C’è una continuità intrinseca. Il Battesimo non fa altro che sancire, manifestare, la nostra configurazione al Figlio.
Nel prefazio della S. Messa (la preghiera che introduce il canto del Santo), oggi, abbiamo ascoltato queste parole: «Così hai amato in noi ciò che tu amavi nel Figlio». C’è una sorta di scambio: quando il Padre guarda ciascuno di noi, riconosce nientemeno che Gesù, perché siamo entrati nella Trinità nel Figlio. È un modo di esprimersi figurato, imperfetto, analogico, ma è così. Il Padre vede Gesù in ciascuno di noi. Per questo Gesù ha potuto dire: «Anche un bicchier d’acqua dato al più piccolo dei fratelli è stato dato a me» (cfr. Mt 10,42). Ciò è accaduto per l’incarnazione.
Come hanno detto gli amici che hanno presentato il Programma pastorale, il Battesimo va fatto “funzionare”: una parola non appropriata, ma che fa capire bene. Ancora meglio usare le parole di Gesù: «Non si accende una lucerna per metterla sotto il moggio, ma sopra il lucerniere perché faccia luce a tutti quelli che sono nella casa» (Mt 5,15). Inoltre, invito a ricorrere alla grazia del Battesimo. Quando abbiamo davanti difficoltà o decisioni che non sappiamo prendere, occorre ricordarci del Battesimo. Bisogna riscoprirlo. Ma c’è anche una dimensione comunitaria. Qui riuniti siamo un popolo di battezzati, che annunciano di essere figli di Dio.

Concludo con alcuni avvisi “pratici”.

  1. Ci diamo tutti appuntamento alla vigilia di Pentecoste, sabato 30 maggio, per un momento di verifica. È giusto avere la possibilità di esprimersi, anche di rivolgere critiche, purchè siano costruttive (nel quaderno del Programma pastorale troverete una decina di pagine con la sintesi di tutto quello che è stato detto nell’assemblea diocesana del giugno scorso).
  2. Una grande novità, per non tenere “in folle” il nostro motore, è un modo nuovo di parlare della formazione degli adulti. Abbiamo usato il termine “laboratori della fede” (anche se già ci sono in molte parti della Diocesi) per dare l’idea che non dev’essere una lezione cattedratica, ma un’esperienza di comunità da creare, plasmare o rinnovare. Ringrazio l’Ufficio Catechistico Diocesano che ha preparato delle schede di lavoro, un piccolo strumento contenente una preghiera d’inizio, alcune note del Catechismo della Chiesa Cattolica sul Battesimo, spunti di riflessione e un impegno pratico per il mese.
  3. Concludo dicendo che dovete voler bene, apprezzare, gli Uffici Pastorali. Non si tratta solo di distribuire e affiggere manifesti, pur necessari perché abbiamo bisogno di comunicare. Ringrazio tutti gli Uffici Pastorali per il loro puntuale e generoso servizio.

Grazie per il vostro ascolto e per la vostra partecipazione.
Buona preghiera e buona continuazione

Omelia XXIV domenica del Tempo Ordinario

Pietramaura, 15 settembre 2019

(da registrazione)

Es 32,7-11.13-14
Sal 50
1Tm 1,12-17
Lc 15,1-32

C’è tutta una Diocesi, la nostra, che non è soltanto in afflizione per il ridimensionamento delle forze, ma accoglie con tanta gioia e con un senso di novità il grande annuncio: «Il Signore ci ama immensamente, è vivo, è accanto a noi per aiutarci». Queste parole sono il kerygma, l’annuncio iniziale. L’anno scorso ne abbiamo parlato molto in Diocesi; lo abbiamo paragonato al Big Bang dell’inizio del cosmo. Il Big Bang della nostra fede è proprio questo: Gesù è risorto ed è la prova che Dio ci ama immensamente. Un fatto che recupera la nostra vita.
Quest’anno dobbiamo fare un passaggio ulteriore. Il kerygma non è una frase sparata nel cielo delle nostre anime, ma è una realtà. Dov’è che la possiamo toccare, accarezzare? Nel santo Battesimo. Per la stragrande maggioranza di noi il Battesimo è un ricordo lontanissimo; magari ne è rimasta solo una fotografia ingiallita o una catenina; qualcuno ricorda il padrino o la madrina, e il prete che l’ha battezzato. Nei registri della parrocchia sono riportati i nomi dell’anagrafe ecclesiastica, ma per molti non è nulla di più. Quest’anno dobbiamo impegnarci al massimo per recuperare la bellezza, la vitalità del Battesimo che è in noi, come un germe che deve crescere, svilupparsi.
Qual è la prima verità del Battesimo? Il Battesimo fa diventare figli di Dio. Tutte le religioni dicono che gli uomini sono figli di Dio, perché Dio è il creatore e noi siamo la sua creatura. Noi cristiani parliamo di adozione filiale, dove il termine adozione è ancora povero, pallido, perché dà l’idea di qualcosa di giuridico: abbiamo deciso che tu, nonostante sia nato da altri, d’ora in poi sia figlio di questa coppia. L’adozione filiale, invece, è la nostra partecipazione alla vita di Dio; dunque, una cosa grandiosa.
Durante quest’anno penseremo spesso che siamo diventati figli nel Figlio. Questa formula vuol dire che, quando Dio Padre vede ciascuno di noi, vede Gesù. Questo è vero anche in senso alternato. Quando il Padre abbraccia il Figlio Gesù, in Gesù vede ciascuno di noi. Questo vale per tutti.
Tutto il cap. 15 del Vangelo di Luca è una fotografia che Gesù ha fatto del Padre, il Padre misericordioso che guarda da lontano che il figlio ritorni. Il figlio torna, non per amore ma per fame. Al padre basta un incipiente atto di amore. Se il figlio cammina, il padre corre. Se il figlio muove i primi passi verso, il padre è già lì. Allora è festa.
Gesù dice: «C’è più gioia in cielo per un peccatore che si converte di novantanove giusti che non hanno bisogno di conversione». Pensate, noi portiamo gioia al paradiso; sarebbe come dire che portiamo luce al sole, una contraddizione in termini.
Viviamo questa settimana pregustando la bellezza del Battesimo, che è la vocazione ad essere figli nel Figlio. Domenica prossima gli operatori pastorali, i catechisti, gli insegnanti di religione, i volontari Caritas, tutti i cristiani, sono invitati in Cattedrale a Pennabilli alle ore 16 per la Giornata del Mandato. Il Vescovo conferisce l’incarico a tutti, assicurando loro che li accompagna la grazia del Signore. In quel contesto verrà annunciato e spiegato il Programma pastorale per il nuovo anno. Noi cerchiamo di correre, ma non come uno che non ha meta (cfr. 1Cor 9,26). La meta l’abbiamo. Quest’anno è riappropriarci del nostro Battesimo. Così sia.

Omelia in occasione dell’Ordinazione presbiterale di don Luca Bernardi

Pennabilli (Cattedrale), 14 settembre 2019

(da registrazione)

Ger 1,4-9
Sal 95
Ebr 5,1-10
Gv 21, 15-17

«Ich bin catholischer priester»: sono le parole esatte che san Massimiliano Kolbe scandì davanti al comandante delle S.S., quando si offrì per prendere il posto di un altro nel bunker della morte ad Auschwitz. Una parola che si è andata ad infrangere una seconda volta davanti allo stupore massiccio e incredulo del comandante: «Ich bin catholischer priester» (io sono un prete cattolico); parole pronunciate con fierezza, parole pronunciate per amore. Fierezza e amore.
La fierezza della fede non è arroganza, ma gioia di appartenere a Gesù Cristo; bellezza di una scelta e di una missione che riempiono il cuore. Sii fiero di essere un prete cattolico, don Luca, ultimo di una schiera di preti che hanno educato, servito, amato questa terra. Oggi, più che in altre epoche, esser prete appare un’avventura – quasi un’imprudenza, secondo qualcuno – pensando alla tua giovane età e alla durezza dei tempi. Ma c’è stata una bella preparazione: la tua famiglia, Ferrara e questi ultimi anni di studio e di tirocinio. Poi, c’è la gioia del popolo di Dio. Anche questo è un segno. C’è, soprattutto, il sigillo del Signore che ti ha chiamato e, come al profeta Geremia, dice a te: «Prima di formarti nel grembo materno, ti conoscevo, prima che tu uscissi alla luce, ti avevo consacrato… Non dire: “Sono giovane, ma va da coloro a cui ti manderò”» (Ger 1,5.7).
Questa sera diventi un prete della Chiesa cattolica. Non allontanartene mai. Sia sempre salda la tua unità con il Sommo Pontefice e con il Vescovo, in comunione con i tuoi fratelli presbiteri, a servizio di questa Chiesa, forse tra le più piccole, ma a pieno titolo sposa del Signore.
«Io sono un prete cattolico»: parole pronunciate per amore. Quello del Signore Gesù. Qui non si parla tanto della virtù della carità, pur tanto bella e necessaria, ma del fatto che tu, attraverso il sacramento, sei fatto carità. Starei quasi per dire “nonostante te”, senza negare la tua libertà e la tua collaborazione alla grazia.
Ce ne parla la Lettera agli Ebrei. Un accenno. Il sacerdozio di Cristo, a differenza di quello di Aronne (Antico Testamento), conosce un movimento discendente, quasi un piano inclinato. I Padri parlavano di condiscendenza. Contempliamo, anzitutto, il “sì eterno” del Verbo nell’unità col Padre («Ecco, io vengo per fare la tua volontà» cfr. Sal 39,8), l’incarnazione, la vita nascosta a Nazaret, la familiarità con la gente, il cammino rigato di sudore e di polvere verso Gerusalemme, la Passione, il dolore innocente; infine, il dono totale di sé sulla croce («Tutto è compiuto» Gv 19,30). Gesù, sospeso fra cielo e terra, diviene altare, vittima e sacerdote. Sacrificio cruento. «Padre, liberami da quest’ora – aveva detto Gesù –, aggiungendo poi, «ma è per quest’ora che sono venuto» (Gv 12,27). Non tutto è compiuto: resta per noi, incantati e stupefatti da tanta condiscendenza, da considerare l’estrema offerta: in virtù della risurrezione il suo donarsi, il suo perdersi, il suo cedersi nel Pane eucaristico. Noi adoriamo la sua presenza nel dono di quel pane spezzato e di quel vino versato. Oltre, la nostra meditazione non saprebbe spingersi. A quali altre profondità rintracciare la kenosis – l’umiliazione condiscendente – del Verbo fatto uomo, del Figlio obbediente, del Risorto che si fa pane di vita. Diremmo: siamo al capolinea! Più in basso di così non poteva spingersi, fattosi grumo di materia, farina impastata con l’acqua.
C’è una sorpresa: Gesù, in una eccedenza ineffabile di carità, cede la sua stessa capacità di cedersi, dona la sua stessa capacità di donarsi, perde la sua stessa capacità di perdersi. A chi la cede? A chi la dona? In chi la perde? Nel prete. In te, don Luca, che questa sera pronuncerai efficacemente le sue parole: «Questo è il mio corpo dato per voi…». La carità di Cristo è perduta in te. O meglio, tu sei costituito carità in Lui: bellezza incredibile del sacerdozio cattolico.
Da qui conseguenze, responsabilità, programmi di vita… Il prete è l’approssimazione più grande che si possa attuare quaggiù, sulla terra, della presenza visibile del Cristo.
«Scelto fra gli uomini… Costituito per gli uomini nelle cose che riguardano Dio» (cfr. Ebr 5,1). «Nessuno può attribuirsi questo onore, se non chi è chiamato da Dio» (cfr. Ebr 5,4).
Egli, il Cristo, «offrì preghiere e suppliche con forti grida e lacrime a Dio che poteva salvarlo dalla morte e, per il pieno abbandono in lui, venne esaudito» (cfr. Ebr 5,7). In che modo si compì l’esaudimento di quella preghiera «con forti grida e lacrime», se poi è morto sulla croce? In questo fu esaudito: nel poter vivere da figlio quella prova e divenire causa di salvezza. E ora? «Un corpo mi hai dato» (Ebr 10,5), dice il Verbo entrando nel mondo. Non angeli vengono mandati, ma uomini di carne per compiere la missione. Ha scelto uomini, ha scelto te, don Luca, e ti ha scelto insieme al nostro presbiterio, con il nostro popolo. Applichiamoci a far entrare in questa carità tutta la nostra persona: anzitutto un prete uomo.
Ci sono preti che sembra non abbiamo mai avuto una vita d’uomo. Non sanno pesare le difficoltà di un laico, di un padre di famiglia o di una madre con il loro vero peso umano. Sembrano, alcuni preti, non percepire veramente, realmente, dolorosamente, che cosa sia una vita di uomo o di donna.
Quando dei laici cristiani incontrano finalmente un prete-uomo che li capisce, che sa entrare nella loro vita, nelle loro difficoltà, non ne perdono più il ricordo. Ad una condizione: che non sminuisca la propria identità, che non diventi semplice compagno, ma resti padre.
Il nostro popolo ha ugualmente bisogno che il prete-uomo viva di una vita divina. Pur vivendo tra la gente – come suol dirsi: «con l’odore delle pecore» (Papa Francesco) – deve in qualche modo rimanerne al di fuori. Ecco alcuni segni che fanno percepire la presenza divina che è in lui, la carità che è effusa. Un elenco rapidissimo, alcune pennellate.
La preghiera. Ahimè, forse hai visto in noi, preti “di molte preghiere”, ma di poca preghiera.
La gioia. Quante volte ti siamo apparsi affaccendati, angosciati, tirati come la pelle di un tamburo, quasi che il lavoro nella vigna del Signore fosse insopportabile.
La forza. Il prete vero è colui che tiene, che tiene botta! Sensibile, vibrante, a volte intimorito, mai però demolito (non cullare mai pensieri rinunciatari o dimissionari; missionari sì, ma non dimissionari).
La libertà. La gente vuole il prete libero da ogni formalismo, liberato soprattutto da ogni pregiudizio.
La discrezione. Dev’essere colui che tace; non mi riferisco al segreto di Confessione, è ovvio, ma alla riservatezza (si perde la fiducia in chi ci fa troppe confidenze o si perde nel chiacchiericcio). Ben altra cosa sono la condivisione e la comunione d’anima.
Caro don Luca, hai appena iniziata la tua formazione – anche se hai già fatto sei anni di Seminario – ora continuala sul campo: viceparroco a Dogana, nel Centro Diocesano Vocazioni, tra i giovani e nell’AGESCS. Lasciati prendere da quella “legge di gravità” che ti trascina istintivamente verso i più poveri, i più fragili, i più piccoli. Cresci nel sentire con la Chiesa: non parlare mai con leggerezza della Chiesa, come se fossi uno di fuori. Fa’ che il tuo cuore risponda sempre col trasporto di oggi alla domanda che il Risorto ti rivolge: «Luca, mi ami più di costoro? […] Mi ami? […] Mi vuoi bene? Allora… Pasci!». Così sia.

Omelia nella Festa della Natività

Eremo di Carpegna (Santuario Madonna del Faggio), 8 settembre 2019

(da registrazione)

Sap 9,13-18
Sal 89
Ap 12,1-2
Lc 14,25-33

Siamo venuti per fare gli auguri di compleanno alla Madonna. È un modo di dire, perché lei adesso è fuori dal computo degli anni. È nel possesso definitivo della gloria. Tuttavia, ricordiamo la “fortuna” che sia nata in questo mondo.
Nella chiesa di Secchiano, uno dei nostri borghi, è rimasto appena un lembo di un antico affresco nell’abside della chiesa: riporta il volto della Madonna, appena tratteggiato sullo sfondo grigio. I restauri adesso non si fanno mai ricostruendo daccapo, perché si vuole rispettare quello che è rimasto (si fanno restauri conservativi).
Dobbiamo confessare che i contenuti della fede in tanti cristiani di oggi, in noi, sono come il grigio di quell’abside, sono scoloriti. Tanti di noi hanno perso il contatto con la sorgente della fede che sono le Sacre Scritture, ma è rimasta una tenue traccia nell’anima: il volto di Maria. Sono convinto che, partendo dalla Madonna, si possa ricominciare.
Nella Chiesa delle origini la Madonna non ebbe un compito particolare, pari a quello del Battista e degli apostoli. Non fu un araldo ufficiale. Il Vangelo di Marco, che tratta esclusivamente della predicazione pubblica di Gesù, non le dedica se non qualche versetto. Matteo, Luca e Giovanni, invece, scoprono sempre più il suo compito, che non consiste soltanto nella sua consanguineità con Gesù. Maria è coinvolta negli avvenimenti con tutta la sua persona. Dice il Vangelo: «Ha conservato in cuor suo e meditato» (Lc 2,19.51) tutti gli eventi che riguardavano Gesù. Ha creduto, per questo Gesù la proclama “beata”. Ha concepito Gesù nel suo spirito, nel suo cuore, prima ancora che nel suo grembo. Dunque, la venerazione alla Madonna è evangelica (ha a che fare con i Vangeli).
Se fosse con noi qualche fratello protestante vorrei dire: «Non temere per la venerazione alla Madonna che noi cattolici sentiamo così tanto. Non togliamo niente a Gesù, al contrario». Ricordo che per un certo periodo è venuta da me (mi era stata affidata) una ragazza somala; era figlia di un dignitario importante di quella nazione ed era stata una guerrigliera; ora era profuga in Italia. Essendo luterana aveva chiesto che qualcuno le spiegasse un po’ il cattolicesimo. Un giorno mi fece questa domanda: perché il Seminario (il luogo dove ci trovavamo a parlare) è tappezzato di immagini della Madonna? Le dissi più o meno così: «Noi cattolici diamo molta importanza all’incarnazione. Veramente il Signore, il Verbo, si è fatto carne. È nato veramente da una donna, Maria. Questo fa onore a noi della razza umana».
Anche se nei Vangeli non si parla tantissimo di lei, da subito, però, la Madre di Gesù fu venerata dai cristiani. Ci stiamo preparando, come Diocesi, a partire per il pellegrinaggio in Terra Santa. Abiteremo per tre giorni a Nazaret. A Nazaret gli scavi archeologici hanno portato alla luce, sulla soglia di quella che viene ricordata come la casa della Santa Famiglia, le prime parole dell’Ave Maria. Sono pietre quasi contemporanee a Gesù (I secolo): «Kaire Maria», che vuol dire «Salute Maria, Ave Maria», come diciamo noi oggi: le stesse parole dell’angelo dell’annunciazione. I primi cristiani andavano in quella casa, povera, e sentivano già di venerare la Madre di Gesù. Incomincia così la storia che lega inseparabilmente il popolo cristiano con la Madre del Signore.
Fin da allora, la Teologia chiarisce che Maria non è il centro del mistero cristiano (il centro è Gesù), ma è al centro, La centralità di Maria è relativa a Gesù. Ma non vuol dire che è secondaria, come affermano i protestanti. Per comprendere Maria occorre la fede. La sua è maternità divina: quel che è nato in lei è opera dello Spirito Santo. Il Verbo ha preso carne e sangue da lei, nel suo grembo è stato ricamato e poi nutrito col suo latte. Gesù, uomo-Dio, viene da Maria, per questo i cristiani la chiamano la Madonna Madre di Dio. E lo è realmente, fisicamente. La donna che genera un figlio non è soltanto madre del suo corpo, ma di tutta la sua persona. Gesù è una persona divina. Dunque, Maria è madre di Dio.
I mistici cantano Maria come cielo tersissimo e purissimo sul quale il Verbo (la Parola) pronuncia se stesso. Il Verbo si fece carne. Ho trovato una frase molto bella di papa Benedetto XVI in uno dei libri di quando ero studente (e lui teologo), dedicata alla Madonna: «Chi si mette a disposizione di Dio, scompare con lui nella nube, nella modestia e nell’oblio, ma finendo così per partecipare alla sua gloria» (J. Ratzinger, Introduzione al cristianesimo, 220). Allora contempliamo in lei la Figlia di Sion e la Serva del Signore, perché riassume tutta la realtà e l’attesa di Israele: «Rallegrati figlia di Sion… il Signore tuo Dio è in mezzo a te» (Sof 3,14-17).
Nella Madre di Dio i cristiani vedono rappresentata la Chiesa; è lei la donna vestita di sole. Il bambino che mette al mondo, Gesù Bambino, è insidiato: è la Chiesa che soffre persecuzioni e mali. La Chiesa è misticamente chiamata a mettere al mondo il Signore con la testimonianza coraggiosa, con la Parola vissuta, con i Sacramenti.
Come Maria, la Chiesa è sposa, una sposa che innalza perennemente una invocazione allo sposo: «Vieni, Signore Gesù» (Ap 22,20). In uno dei più suggestivi affreschi del Nuovo Testamento viene così raffigurata: «Nel cielo apparve poi un segno grandioso: “Una donna vestita di sole, con la luna sotto i suoi piedi e sul capo una corona di dodici stelle. Era incinta e gridava per le doglie e il travaglio del parto”» (Ap 12,1-2).
Un mistico persiano, Abbas Al-Tusi, morto nel 909, ha scritto: «Quando nel giorno della risurrezione saremo chiamati: “Oh uomini!”, la prima ad avanzare nel rango degli uomini sarà Maria, su di lei sia pace. Sarebbe meglio rinunciare a riunirsi, se lei non ci fosse» (Caterina Valdrè, I detti di Rabi’a). Sappiamo bene che lei c’è e siamo contenti di riunirci con lei nel Cielo. Così sia.

Omelia nella XXIII domenica del Tempo Ordinario

Pennabilli (Cattedrale), 8 settembre 2019

(da registrazione)

S. Cresime

Sap 9,13-18
Sal 89
At 21-11
Lc 14,25-33

Riviviamo oggi quello che è accaduto nel Cenacolo. Gli apostoli erano riuniti tutti insieme quel giorno; c’era anche Maria, la mamma di Gesù, in mezzo a loro, e ci fu d’improvviso come un rombo, come un terremoto, accompagnati da un vento gagliardo e da un fuoco. Lo Spirito di Gesù, in quell’occasione, fu una cosa visibile, carismatica, accompagnata da segni esterni, che travolse il gruppo dei Dodici che avevano seguito Gesù.
Oggi è la stessa cosa, anche se non ci sono fenomeni straordinari; ma quel fuoco, quel fragore dentro di noi accadrà tra poco, quando verrete davanti ad uno dei successori degli apostoli, che vi imporrà le mani e vi profumerà la fronte con il sacro crisma: il bacio di Gesù che si imprime su di voi, un patto di eterna fedeltà da parte sua.
Che cosa ci ha detto Gesù questa mattina? Gesù aveva davanti la folla, ma non si lasciava condizionare da essa: cercava piuttosto l’a tu per tu. «Se vuoi, seguimi» (Mt 19,21). Gesù propone di seguirlo, di stare con lui, di stare in familiarità con lui. Chissà in quanti avranno risposto a quell’invito… Gesù si sarebbe accontentato anche soltanto dei Dodici. Dico una cosa paradossale: Gesù si accontenterebbe anche di un cuore solo, ma tutto. «Se vuoi, seguimi, diventami amico».
Ieri – scusate il confronto con un’altra comunità parrocchiale – c’erano 51 ragazzi che ricevevano il sacramento della Cresima; c’era tanta folla, dentro e fuori la chiesa. Mentre dicevo queste cose avevo dentro di me una specie di scetticismo: «Chissà se qualcuno potesse dire a Gesù: “Sì, io ti voglio bene”». «Non ho dubbi», ho pensato. Ecco il mio cuore. Un po’ come disse san Pietro. Non è stata molto edificante la compagnia di Pietro a Gesù, all’inizio, ma gli ha detto con tutto il cuore: «Signore, tu solo hai parole di vita eterna» (Gv 6,68). Quando ho finito di parlare ho pensato: «Signore, se non ci fosse nessuno dei presenti che ti dà il suo cuore, ti do il mio». Poi, nel momento della preghiera del Padre Nostro, in quella chiesa affollatissima, si è creato un clima profondo di intimità che era più clamoroso del chiasso che si avvertiva nella via davanti alla parrocchia. Ho capito che non c’era solo un cuore che diceva il suo “sì” a Gesù, ma ce n’erano tanti. Questo mi ha incoraggiato.
Gesù dice di seguirlo. Detta anche delle condizioni a questa compagnia. Gesù dice che vuole essere amato di più dei propri familiari. Non istituisce una sorta di gara, perché forse sarebbe perdente (amiamo tanto i nostri familiari!); Gesù intendeva dire che il tipo di amore che ci domanda è di natura affettiva; non è come quando si va di fronte ad una lapide a posare una corona di fiori, con una cerimonia ufficiale. Gesù vuole il cuore. Le corde da far vibrare sono le medesime dei nostri rapporti interpersonali affettuosi: vuole che lo amiamo così. Il centro della frase pronunciata da Gesù non è sulle rinunce prima di tutto; il centro è sull’amare di più. Non una sottrazione, semmai un’addizione: amare di più. Cari ragazzi, ad un parroco, come ad un vescovo, viene di fare anche delle raccomandazioni. Ad esempio, se vuoi seguire Gesù, vieni a trovarlo qualche volta durante la settimana. Nel tabernacolo c’è un segno vivo della sua presenza, l’Eucaristia. Non dimenticate, poi, che nell’assemblea domenicale c’è tutto un popolo riunito, un popolo che sente la propria identità e la genera nel più splendente dei modi.
Non posso tralasciare un’ultima raccomandazione. Continuate a trovarvi, a fare gruppo. So che c’è già una proposta insieme alle parrocchie vicine. Sarà in una forma più adatta alla vostra età. Sarà importante incontrarvi insieme a qualche adulto che vi cammina accanto, tenendo sempre il collegamento con colui che vi ama, il Signore Gesù. Così sia.