Omelia nella Solennità di San Giuseppe

Pennabilli, Cappella del Vescovado, 19 marzo 2020

2Sam 7,4-5.12-14.16
Sal 88
Rm 4,13.16-18.22
Mt 1,16.18-21.24

Questa mattina papa Francesco, commentando il Vangelo sulla figura di san Giuseppe, evidenziava come egli fosse un contemplativo, un uomo di fede perché contemplativo, cioè capace di adorazione. E il Papa arrivava a dire: «La Chiesa, o adora, o è come dimezzata».
Non ho la presunzione di aggiungere nulla a quello che ha detto il Santo Padre, però mi incombe il dovere di fare una breve omelia. Vedo in Giuseppe l’uomo della fede, l’uomo della speranza e l’uomo della carità.
Giuseppe, uomo della fede. Giuseppe si consegna interamente al progetto disegnato da Dio su di lui. Angeli e sogni lo accompagnano… Ma non è così anche per noi? Pensate agli angeli che ci hanno aiutato a crescere, che ci hanno aiutato a scoprire la nostra vocazione e a trovare la nostra strada e agli angeli che ci stanno indicando, anche adesso, la via del Cielo. Inoltre, tolti i fatti della prima infanzia di Gesù narrati dai Vangeli, non ci furono “svolazzi di angeli” su Giuseppe, nè sulla casa di Nazaret.
Giuseppe, uomo della speranza. Passando davanti al paese di Maciano (vicino a Pennabilli), ho visto che, sul davanzale di una casa, i bambini hanno messo un grande cartellone con la scritta: «Andrà tutto bene». I bambini hanno il diritto di dire queste cose. Incoraggiano anche noi. Come firma del cartellone hanno messo l’impronta delle loro mani.
Chiedo: che cosa intendiamo per speranza? Si può parlare di speranza in tre modi. C’è la speranza che è come una bugia pietosa, utilizzata quando non ci sono parole e si deve confortare o incoraggiare. La classica bugia che accompagna “la pacca sulle spalle”. Nella letteratura classica si racconta di Pandora, il personaggio della mitologia che deve castigare gli uomini per aver rubato il fuoco agli dei. Per castigare gli umani Pandora, mandata da Zeus, svuota il suo vaso di tutti i mali possibili che vi sono racchiusi; l’ultimo male, quello che è più in fondo, è la speranza, che inganna i mortali (pietosa bugia).
Poi, c’è la speranza in una seconda accezione: la speranza come risorsa umana. Non è solo caratteristica di un buon temperamento, ma anche capacità di proiettarsi sul futuro. Sono sicuro che l’umanità si riprenderà da questa grande crisi; la speranza è sicuramente quella che anima gli scienziati, i politici, ma anche tutti noi. Tuttavia, questa speranza si arresta di fronte alla morte. Si può parlare della speranza anche in un altro modo. Noi l’abbiamo fatto con il nostro Programma pastorale negli anni scorsi, guardando Gesù Risorto. Anche i progetti più nobili, più alti, che riusciamo a raggiungere – pensiamo ai traguardi della scienza, alle conquiste del mondo operaio e alle conquiste delle donne – si arrestano davanti al grande enigma della morte. Cosa c’è oltre? Gesù è risorto, è il fondamento ultimo della nostra speranza. Con la risurrezione è introdotta nel mondo una pienezza di senso.
Giuseppe, uomo della carità. Giuseppe ha compiuto gesti e azioni eroiche nel nascondimento della sua vita e nella casa di Nazaret. Penso alla sua fedeltà nel quotidiano, alla sua premura per la famiglia, al rispetto totale per la sua sposa, all’amore per quel bambino non suo; per questo motivo lo invochiamo come patrono della Chiesa e come intercessore presso la divina Provvidenza e gli chiediamo di provvedere alle nostre necessità, come ha provveduto a quelle della Santa Famiglia. Gli chiediamo di esserci vicino nel momento della morte, come lui ha avuto la grazia di avere accanto a sè Maria e Gesù. San Giuseppe, accogli la nostra preghiera, insegna anche a noi l’eroismo della carità nelle vicende della nostra famiglia e della nostra società.
Questa sera alle ore 21 metteremo una luce o un drappo bianco sul davanzale delle nostre finestre e ci uniremo a tutti i cristiani d’Italia nella preghiera del Rosario che abbraccia tutta la nazione, che abbraccia l’Europa e il mondo intero segnato da questa pandemia. Sia lodato Gesù Cristo.

Omelia nella III domenica di Quaresima

Domagnano (RSM), Cappella delle Suore Maestre Pie, 15 marzo 2020

Es 17,3-7
Sal 94
Rm 5,1-2.5-8
Gv 4,5-42

Abbiamo udito la domanda degli Ebrei spaventati nel momento del loro Esodo: «Ma il Signore è in mezzo a noi sì o no?». Certo, il Signore è in mezzo a noi! Gesù ci fa dono della sua compagnia. Nel brano evangelico della Samaritana, Gesù si autorivela come Messia, e lo fa nel luogo più impensato, nel luogo meno sacrale, il muretto di un pozzo. Lì Gesù incontra una donna. Questo incontro ci sorprende anche per l’ora, è mezzogiorno; gli apostoli sono andati a fare compere nel villaggio. Gesù si presenta alla donna in modo semplice, umano, disarmante: «Ha sete». Evidentemente è anche affamato, ma soprattutto stanco. La donna ci appare subito con la sua personalità vivace, capace di reagire, intraprendente; nota subito la diversità fra lei e Gesù. Gesù è un giudeo, lei una samaritana, ma non ha difficoltà a stare con lui. È orgogliosa della sua religiosità, ma è disposta a dialogare con Gesù. Quando il dialogo si fa più serrato è abile a sviare, perché Gesù la vuole incontrare “cuore a cuore”, vuole la sua disponibilità profonda, mentre la donna svicola ponendo questioni di procedure: «È qui che si deve adorare oppure bisogna adorare a Gerusalemme?». Il fulcro di questa pagina ricchissima, con tanti aspetti che andrebbero approfonditi, è la domanda di Gesù: «Dammi da bere». Con questa espressione Gesù sembra abbattere “storici steccati”. Ad esempio, lo steccato della razza: i samaritani erano giudicati di razza inferiore, spuria, perché risultati dalla mescolanza di sangue ebreo con quello dei coloni pagani importati al tempo della caduta di Samaria (il tempo del primo esilio). Poi, lo steccato di religione: i giudei avevano scomunicato i samaritani, perché avevano costruito nel loro territorio un tempio alternativo a quello di Gerusalemme. Lo steccato del sesso: un giudeo preoccupato dell’etichetta non poteva parlare fuori casa con una donna, nemmeno con sua moglie. Lo steccato del diritto: dicevano i rabbini che chi accettava cibo dai samaritani era peggio di chi mangiava carne di maiale. Gesù, che è seduto sul muretto, abbatte uno dopo l’altro tutti questi muri storici. Si apre il primo spiraglio all’universalità della salvezza: l’acqua viva che è Gesù è destinata a tutti. Tutti sono destinati alla sorgente che è il Messia! Ciò che conta è credere in Gesù, nella sua Parola, nella sua proposta. C’è un progressivo manifestarsi da parte di Gesù e in ugual modo c’è un cammino che fa il credente, di cui è paradigma quello che pian piano percorre la Samaritana. Ecco i passi successivi. La chiusura, quando dice: «Tu che sei giudeo chiedi da bere a me che sono samaritana?». Poi, il dubbio: «Da dove prendi quest’acqua?». Dopo il dubbio, l’apertura, seppure con qualche fraintendimento: «Signore, dammi di quest’acqua così non vengo più ad attingere». La meraviglia: «Vedo che sei un profeta». La fede incerta: «Non sarà per caso che tu sei il Messia?» e finalmente la piena confessione che viene affidata ai samaritani: «Prima siamo rimasti persuasi dal tuo racconto – dicono con la donna – ma adesso crediamo perché noi l’abbiamo incontrato». Di fronte all’enigma di Gesù, la sola natura, le nostre poche risorse, sono incapaci di scorgere in lui la vera identità. Solo l’incontro personale con Gesù, con il cuore aperto allo Spirito, può segnare una vera rinascita, una piena adesione di fede.
È bello anche sottolineare: Gesù chiede per potersi donare. Questo accadrà anche sulla croce, quando Gesù dirà: «Ho sete». Nella passione che lo bruciava di febbre aveva sete dell’ “acqua” della nostra fede, della nostra amicizia, del nostro amore.
Concludo lasciandovi tre immagini che possono suggerirci tante cose durante la settimana: l’immagine dell’anfora, l’immagine del pozzo e l’immagine della sorgente. Tre passaggi diversi. L’anfora, ad un certo punto, viene abbandonata, dimenticata; non c’è più bisogno di andare ad attingere chissà dove. Il pozzo rimane lì; è utile, raccoglie (pensate a quello che sono le Sacre Scritture, i nostri riti, le testimonianze dei santi, ecc.). Ma quello che resta è la sorgente, sempre zampillante, sempre fresca, sempre nuova. È l’acqua viva che Gesù mette in noi, perché a nostra volta diventiamo portatori di acqua viva. Un giorno – un giorno di festa grande – Gesù esclamerà ad alta voce, tra la meraviglia dei presenti: «Chi ha sete venga a me e beva chi crede in me; come dice la Scrittura: fiumi di acqua viva sgorgheranno dal suo seno» (Gv 7,37-38). Un cristiano con il suo esempio, con il suo amore, con il suo spirito di servizio è sorgente di acqua viva, per la sete di tutti, sete soprattutto di speranza. «Voi farete cose più grandi delle mie!» (cfr. Gv 14,12). Così sia.

Omelia nella II domenica di Quaresima

Domagnano (RSM), Cappella delle Maestre Pie, 8 marzo 2020

Gen 12,1-4
Sal 32
2Tm 1,8-10
Mt 17,1-9

Confesso di fare molta fatica a parlare senza pubblico: l’omelia la fa il Santo Popolo di Dio! Ma attraverso la San Marino RTV posso raggiungere fratelli e sorelle non qui fisicamente.
C’è una frase che dobbiamo portare nel cuore nella settimana che abbiamo davanti: «Alzatevi e siate senza paura». È la parola che Gesù dice ai discepoli spaventati di fronte alla Trasfigurazione.
Per andare in profondità nella meditazione di questo brano è bene dare qualche riferimento strutturale. Il racconto della Trasfigurazione segue immediatamente la pagina in cui Pietro fa una solenne professione di fede: «Tu sei il Messia, il Figlio di Dio» (Mt 16,16).
Il racconto della Trasfigurazione sta fra due annunci della Passione: non si può isolare la Trasfigurazione da quello che viene prima e dopo (Mt 16,21-23; 17,22-23). Gesù annuncia la sua sofferenza e l’umiliazione della croce. Un commentatore esordisce così nella sua riflessione sul Vangelo di oggi: «La Quaresima ci sorprende. La subiamo come un tempo penitenziale, di rinunce, di sacrifici, e invece oggi ci spiazza con questo Vangelo pieno di luce e di sole, che mette energia, dona ali alla nostra speranza… Dal deserto di pietre e di sabbia – la I domenica di Quaresima – siamo portati al monte della luce. Da polvere e cenere a volti vestiti di sole e di luce» (Ermes Ronchi).
Queste parole aiutano tutti noi ad avere coraggio: il deserto non vincerà! Ce la faremo.
I particolari del testo confermano ciò che andiamo dicendo. Tutti siamo invitati, insieme ai tre discepoli Pietro, Giacomo e Giovanni, a salire sul monte Tabor, un alto monte. Il motivo del monte ritorna nel Vangelo di Matteo: luogo di una tentazione nel deserto; luogo dell’invio missionario dopo la risurrezione.
In verità, la salita su questo monte sa molto di “ritirata strategica” da parte di Gesù. Avviene, infatti, nel settimo giorno dei grandi festeggiamenti per la “ricorrenza delle tende” (festa nella quale si faceva memoria dell’esodo). Per questo Pietro propone di fare «tre tende». Gesù si rifugia sul monte perché non vuole essere coinvolto nelle attese di un messianismo politico… Non vuole che la gente si sbagli sul suo conto.
Sul monte, luogo della Trasfigurazione, la gloria di Dio avvolge Gesù, anzi prende forma in Gesù. Accanto a lui ci sono due “avventurieri della montagna”, personaggi che hanno avuto famigliarità con i monti: Mosè ed Elia. Nelle loro esperienze di incontro con Dio la Bibbia racconta che, sul monte, ci furono il vento gagliardo, i lampi e i tuoni oppure una brezza leggera, ma sul monte della Trasfigurazione non c’è nulla di tutto questo; c’è una “voce”, la voce del Padre che dice: «Questi è mio figlio… Ascoltatelo». Pietro, nella sua generosità, si sbaglia volendo fare tre tende. Gesù non è alla pari di Elia e di Mosè! Tant’è vero che il brano si conclude con una sorta di zoomata su «Gesù solo». E il timore violento che lascia scioccati i discepoli è dovuto proprio a questa solitudine di Gesù.
Mi piace concludere pensando a come Gesù si manifesta come consolatore della loro paura. Li tocca con tenerezza e dice: «Non abbiate paura, alzatevi». Non abbiate più paura. Se “la voce” proclamò: «Ecco il mio figlio», Pilato un giorno dirà: «Ecco, l’uomo!» L’uomo del Tabor è lo stesso uomo del Calvario. Oggi lo contempliamo radioso e pieno di luce, domani sarà coperto di sangue, torturato, messo a morte. Accade anche nella nostra vita di avere familiarità – e a volte più spesso – col Calvario che col Tabor. Ma non dobbiamo dimenticare che croce e tomba vuota, cioè risurrezione, sono nello stesso giardino.
Vi lascio un’altra sottolineatura. La Trasfigurazione accade mentre Gesù sale a Gerusalemme. Egli sa quello che gli sta per accadere: la tortura, il processo, la crocifissione… Ed è proprio – scusate la scorrettezza grammaticale – “in quel mentre” che Gesù è trasfigurato. Vale anche per noi: in Gesù risorto che trasforma la nostra vita, dobbiamo saper vedere luce anche nei momenti di buio, salvezza nei momenti di prova, il positivo che affiora sul negativo. Non per le nostre risorse personali, ma perché il Signore si fa presente accanto a noi in ogni situazione. Avviene come quando, schiacciato il guscio durissimo di una noce, gustiamo il frutto saporito. Proviamo a vedere in ogni situazione, in ogni luogo in cui siamo chiamati, la luce della Trasfigurazione del Signore. Anche dove ci sembra di non essere adeguati o dove vorremmo vedere condizioni diverse: la luce brilla proprio lì.
Ricordate lo scenario dell’incontro di Giacobbe con Dio? Giacobbe era in fuga da suo fratello Esaù. Dopo il lungo inseguimento, Giacobbe trovò un riparo, posò il capo su una pietra come su un guanciale e sognò la scala che «poggiava sulla terra mentre la sua cima raggiungeva il cielo». E udì parole piene di benedizioni e di promesse. Non poté che esclamare: «Il Signore era qui e io non lo sapevo». Giacobbe cambierà nome a quel luogo: «Non più Luz, ma Betel (casa di Dio)» (cfr. Gen 28,10-19). Buona settimana!

Per la riflessione sull’emergenza “Coronavirus”

5 marzo 2020

Carissimi,
la prima goccia d’inchiostro la voglio tutta piena di una certezza: il Signore ci è vicino, vive con noi e ci sostiene in questo momento così particolare.
La fede è dono, ma anche decisione e coraggio. Decisione che il credente prende a ragion veduta, coraggio che lo rende forte. C’è, invece, chi attribuisce la sua vita e gli avvenimenti, belli e brutti, al destino; c’è chi collega alle circostanze fortuite l’amore che ha cambiato la sua vita o al caso il prodigio di una nascita. La fede aggancia passato, presente e futuro ad un progetto d’amore più grande: non subisce il tempo e gli avvenimenti, ma vede in essi un appello. Più che mai la fede è una risorsa per questi giorni difficili. L’epidemia “Coronavirus” rende da una parte evidente la nostra fragilità, ma ci spinge a tirar fuori il meglio di noi: l’ingegno, la solidarietà, la creatività. Ho visto in questi giorni la dedizione e l’impegno di tante persone per il bene della comunità, credenti e non credenti (amministratori, medici, infermieri, volontari della Protezione civile, ecc.). Tutti uniti: l’antivirus della fraternità.
Stiamo sperimentando l’interdipendenza che ci lega tutti; in questo senso il contagio costituisce una severa lezione. Sentiamo di più l’unità familiare, nazionale, internazionale. Traiamo profitto da questa consapevolezza, una consapevolezza da tenere presente anche per il dopo. Intere popolazioni sul pianeta soffrono periodicamente di epidemie e sofferenze.
I comunicati stampa, i messaggi e i decreti che si susseguono creano, talvolta, disorientamento a seconda delle interpretazioni. C’è chi le legge con rigore e chi a modo suo. Invito i miei principali collaboratori, i sacerdoti, a fare proprio quello che le autorità civili e sanitarie domandano.
Facciamolo anzitutto come risposta alla nostra coscienza che ci impegna al bene comune: la salute di tutti.
Alle nostre comunità, riconosciute più che mai realtà aggreganti e significative, vengono chieste delle restrizioni che toccano momenti celebrativi importanti come i Battesimi, le Esequie, le benedizioni pasquali alle famiglie e soprattutto la S. Messa. Si è costretti ad una sorta di “digiuno eucaristico”. Oltre alle restrizioni in campo liturgico, sono da considerare la sospensione della catechesi e della vita dei gruppi. Sostegno e informazioni sono assicurati dal sito diocesano e da altre forme di comunicazione da parte delle parrocchie. C’è chi ne soffre, c’è chi si sente più povero, c’è chi protesta. Ma questa momentanea privazione accrescerà il desiderio, purificherà dall’abitudine, ne farà comprendere ancor più il valore e, soprattutto, ci educherà al culto «in spirito e verità».
Questi giorni ci fanno ritrovare la dimensione dell’intimità e della casa: giorni che possiamo dedicare maggiormente all’ascolto, alla lettura, alla condivisione, alla preghiera, a tutto quello che tempera il ritmo così frenetico della nostra vita. Perfino i nostri bambini e i nostri ragazzi hanno l’opportunità di sperimentare altre forme di didattica, senza nulla togliere al rapporto diretto.
Il mio pensiero va a chi vive in prima persona il contraccolpo economico: artigiani, imprenditori, ristoratori, operatori turistici, ecc. È una crisi che coinvolgerà tutti. Sono certo che la politica saprà, come in altre circostanze delicate, trovare soluzioni condivisibili.
Un pensiero e una preghiera speciale per chi è solo, ammalato o in grande ansietà. Vorrei che ognuno di loro pensasse nei momenti di buio: il vescovo Andrea sta pregando per me!
Come saremo quando tutto sarà passato? Torneremo alla laboriosità che ci caratterizza. Torneremo a stringerci la mano e a non farci mancare gli abbracci. Ci ritroveremo ancora più persuasi che gli altri sono «miei fratelli». Riemergerà ancora più forte il bisogno di comunità.

+ Andrea Turazzi

Omelia nella I domenica di Quaresima

Pennabilli, Cappella del Vescovado, 1° marzo 2020

Gen 2,7-9; 3,1-7
Sal 50
Rm 5,12-19
Mt 4,1-11

«Avete ricevuto uno spirito da figli» (Rom 8,15).
Mi propongo di ripetere ogni giorno l’annuncio più bello e robusto che ci sia: ho ricevuto uno spirito da figlio! Non tutti siamo padri o madri, fratelli o sorelle, mariti o mogli… ma tutti siamo figli. Se esistiamo è perché qualcuno ci ha generati. Una esperienza ovvia e per questo dimenticata. Veniamo dai nostri genitori e, in ultimo, da Dio che ha messo in noi – unici fra tutte le creature – il suo stesso Respiro. Dio è Padre! Noi suoi figli, «e lo siamo realmente» (1Gv 3,1). Da qui discende l’antropologia della nostra inviolabile dignità e della comune dipendenza filiale: dipendenza che dona vita, fa crescere e conduce alla felicità (cfr. Sal 17,36). L’orgoglio talvolta ne oscura la giusta comprensione. L’affidamento al Padre va purificato da equivoci: sentimenti di paura, di ansia, retaggio di esperienze non felici nel rapporto padre-figlio. Col Salmo 131 possiamo cantare: «Io sono tranquillo e sereno come un bimbo svezzato in braccio a sua madre (Dio è anche madre!), come un bimbo svezzato è l’anima mia». Eppure, siamo tentati di pensare: sono solo; se non mi do da fare, chi pensa a me? La prima forma della tentazione è sostituire il Padre con le cose: «Dì che queste pietre diventino pane… ». La seconda è quella del “pinnacolo del tempio”, la tentazione che demolisce la fede con la sua caricatura: «Chiedi a Dio un miracolo: buttati giù…». La terza è quella del potere: «Prendimi come tuo dio e avrai tutto il potere del mondo. Abbandona il Dio che dice beati i poveri, che si propone di conquistare il mondo con la follia della croce e l’ingenuità dell’amore». Le tre tentazioni sono un attacco frontale alla fede nel Dio Padre annunciato da Gesù. E sbagliarsi su Dio è il peggio che possa capitare. Il racconto delle tentazioni ci riporta al supremo comandamento: «Ho posto davanti a te la vita e la morte, scegli! Ma scegli la vita» (cfr. Dt 30,19). L’inganno consiste nel far credere che bastino alla nostra vita e al nostro futuro un pezzo di pane, un po’ di potere, di successo, e così cancellare la nostra fame di cielo e di bellezza. Camminiamo con l’abbraccio forte del Padre.
Qualche tempo fa sono andato in una famiglia per portare la Comunione ad una cara nonnina. Era a letto. Una donna esile, con qualche dente sopravvissuto che il sorriso fa intravvedere. Da quel che si poteva intuire, meno di un metro e mezzo di altezza. Parlavo con la figlia, che mi confidava le difficoltà dei figli (uno studente e l’altro disoccupato) e del ménage famigliare. Evidente la preoccupazione. Intervenne la nonnina – pensavamo che non sentisse – ed esclamò con la sua vocina: «Ma ci sono io!». Ingenuità e simpatia di questa uscita…
Mi ha fatto pensare al Padre invisibile ma presentissimo, l’Onnipotente che sente il pianto di un bambino nel deserto (cfr. Gn 21,17). È il Dio di cui ci parla Gesù! È il Dio che Gesù ha sempre presente (cfr. Gv 11,42). Così si vincono le tentazioni! Non siamo soli.

Omelia nel Mercoledì delle Ceneri

Studi di San Marino RTV, 26 febbraio 2020

Gl 2,12-18
Sal 50
2Cor 5,20-6,2
Mt 6,1-6.16-18

C’è una parola che ritorna continuamente in questa liturgia ed è la parola “convertirsi”. Quello che è paradossale è che, ad un certo punto, questa parola viene attribuita anche al Signore. Preghiamo che lui si converta verso di noi, che ci usi misericordia. Per noi convertirci significa non tanto avere consapevolezza del nostro peccato – abbiamo già questa consapevolezza e ci fa soffrire –, ma soprattutto prendere consapevolezza della bontà del Signore. Come dice il Salmo: «Tenero e misericordioso è il Signore, lento all’ira e pieno di amore».
Nella Seconda Lettura si fa riferimento ad un tempo favorevole; l’espressione, nella lingua in cui è scritto il Nuovo Testamento, il greco, si traduce con kairós. In greco ci sono due parole per esprimere la parola “tempo”: krónos è lo scorrere delle lancette dell’orologio, l’allungarsi delle ombre verso sera e lo splendore in pieno giorno; per kairós si intende il tempo come grazia, come tempo fortunato.
Questa sera vogliamo vedere nella nostra preghiera quello che accade in questi giorni nel mondo e nel nostro Paese con occhi di speranza. Anzitutto prendiamo coscienza che siamo fratelli, che dobbiamo aiutarci, volerci bene. Penso che per molti di noi è stato uno dei primi sentimenti: condividere con gli altri, farsi carico dell’apprensione altrui. Ci siamo sentiti molto più uniti in questi giorni. Siamo grati per coloro che, per professione, si prendono cura di chi è malato o si adoperano per la prevenzione. Poco fa ho incontrato il responsabile della Protezione Civile della Repubblica di San Marino e ho potuto vedere tanto impegno e desiderio di fare del proprio meglio.
È un tempo favorevole, un tempo di grazia, anche il prendere coscienza della nostra fragilità, un grande aiuto a vivere bene sotto lo sguardo del Signore che ci è vicino e ci accompagna nella prova. Lui ha vissuto prove grandi.
Il mio pensiero va ai popoli che hanno vissuto tante volte queste situazioni di fragilità e di difficoltà. Penso anche ai cristiani che in questi giorni, per precauzione, non si incontrano in assemblea. Pregano ancora di più nelle loro case, ma questo “digiuno eucaristico” forzato aumenta certamente il desiderio e aiuta a sentire nostalgia della comunità. Molti dei miei sacerdoti stanno osservando questa disposizione, che ho dato in comunione con i vescovi delle diocesi vicine. È un dispiacere non celebrare in chiesa questo rito così suggestivo.
Infine, vorrei dire una parola sulle raccomandazioni di Gesù, molto chiare. Gesù nomina tre pratiche che si vivevano anche al suo tempo: il digiuno, l’elemosina e la preghiera. Domanda che siano gesti autentici, fatti non per “farsi vedere”, non per mettersi in mostra e neanche per vantarsi davanti a Dio, ma per recuperare l’atteggiamento filiale di fiducia in lui. Così sia.

Omelia nella S.Messa in suffragio di don Luigi Giussani

San Marino Città, chiesa di San Francesco, 22 febbraio 2020

Lv 19,1-2.17-18
Sal 102
1Cor 3,16-23
Mt 5,38-48

Questa sera ci ritroviamo nella memoria di don Giussani. Tanti lo considerano un padre, altri un testimone importante della fede, tutta la Chiesa un dono per questo tempo difficile. E lui, di sé e della sua opera, era stupefatto: «Tutto per me si è svolto nella più assoluta normalità, e solo le cose che accadevano suscitavano stupore, tanto era Dio a operarle facendo di esse la trama di una storia che mi accadeva e mi accade davanti agli occhi». Cristo era il centro di gravità del suo pensiero e del suo cuore. In don Giussani vedo la concretizzazione di questa parola di san Paolo: «Tutto è vostro, ma voi siete di Cristo e Cristo è di Dio» (1Cor 3,22-23). Apparteniamo al Signore… Addirittura, Dio ci propone di fare come fa lui. Come fa? Lo dirò alla fine.
La parola di Gesù: «Ma io vi dico…», ha risuonato nel nostro cuore tutta la settimana. Con questa frase – che rivela un Gesù michelangiolesco – Gesù ci dice: «State certi che dietro a quello che vi propongo sta la mia presenza, la mia forza». Ma: «Sulla tua parola»!
Quando risuona dentro al cuore questa parola pronunciata con autorità si vincono tentazioni, si superano difficoltà, si prendono decisioni, si affrontano cammini. Le parole di Gesù smascherano le nostre meschinità, i nostri adattamenti, la nostra mediocrità. Gesù radicalizza le esigenze della volontà di Dio e a noi non resta che ripetere come Pietro: «Signore, getterò le reti… Accetto i tuoi programmi» (cfr. Lc 5,5). Come a dire: «Lo vuoi tu? Lo voglio anch’io!».
Nella pagina evangelica della scorsa domenica abbiamo meditato le prime quattro “antitesi”; si chiamano “antitesi” perché introdotte da «avete inteso che fu detto… Ma io vi dico…», ma in realtà non sono antitesi: Gesù non smentisce quello che «avete inteso», semplicemente radicalizza, va all’esigenza più profonda di quello che è stato detto. Nella pagina odierna troviamo altre due antitesi – «ma io vi dico…» – che risuoneranno in questi ultimi giorni prima della Quaresima. Gesù pronuncia due antitesi che sono ancora più clamorose, perché riguardano il perdono e l’amore al nemico, presupponendo che ognuno di noi possa avere dei nemici. Le Sacre Scritture alla legge della giungla hanno fatto subentrare la legge del taglione: «Occhio per occhio, dente per dente» (cfr. Es 21,24; Lev 24,20; Deut 19,21). La legge della giungla era quella di Lamec (cfr. Gen 4,24), che vendicherà sette volte tanto chi gli ha fatto del male. La legge del taglione pone dei limiti, appunto: «Occhio per occhio, dente per dente». Ma Gesù contrappone il perdono che esclude totalmente lo spirito di vendetta. Siamo tutti almeno sfiorati da questo sentimento, a volte confuso con la giustizia; ma tante volte dobbiamo ammettere che è la nostra personalità che si è sentita umiliata, schiacciata, non riconosciuta…
Poi Gesù fa tre esemplificazioni: porgere l’altra guancia, dare anche il mantello, percorrere un altro miglio per chi chiede di percorrerne uno. Porgere la guancia non implica un atteggiamento di passività, ma il desiderio di far riflettere l’avversario, di sorprenderlo, di disarmarlo. Anche Gesù non ha gradito la sberla del soldato durante il processo; ha replicato: «Se ho parlato male dimostrami dov’è il male, ma se ho parlato bene perché mi percuoti?» (Gv 18,23). Così per il cedere il mantello. Il creditore era tenuto a restituire il mantello preso in pegno, ma la tunica no. Con questa direttiva Gesù vuole che ogni lite venga appianata. Percorrere due miglia con chi chiede di farne uno con lui. Ricorda il Cireneo, requisito per un servizio pubblico: aiutare il condannato che non ce la fa più a camminare per raggiungere il luogo della crocifissione. Gesù comanda la disponibilità totale. Non so con quali sentimenti il Cireneo abbia portato la croce del Signore, ma chiedo al Signore che ci aiuti ad essere Cireneo, aiutando chi ci sta accanto.
Nell’ultima antitesi troviamo il vertice di questa serie di insegnamenti del Signore: quello sul perdono. Amare il nemico, a prescindere da razza, religione e qualunque altra considerazione. Fare come fa Dio. Come fa Dio? Fa splendere il sole, e comincia dai cattivi: «Fa splendere il suo sole sui cattivi e sui buoni». Apre ogni alba con i suoi raggi. Proponiamoci in questi giorni di essere sole nel nostro ambiente di vita, nella nostra casa, nel quotidiano nel quale siamo impegnati. Così sia.

Omelia nella Consacrazione di Raffaella Rossi nell’Ordo Virginum

Cattedrale di San Leo, 1° febbraio 2020

Os 2,16.21-22
Sal 27
1Gv 4,7-16
Mt 25,1-13

Oggi si apre in Diocesi l’esperienza dell’Ordo Virginum. Il nome, Ordo Virginum, è austero e antico, ha la sua origine carismatica nei primi secoli della Chiesa, ma è una proposta vocazionale per le donne di oggi che vogliono consacrarsi a Dio con cuore indiviso. Qualcuna di loro si è espressa così: «Un carisma antico per donne nuove». Si tratta di donne che, dopo un attento discernimento e un tempo congruo di preparazione, decidono di vivere nel mondo col proprio lavoro, inserite nella Chiesa locale, legate da amicizia con altre sorelle che hanno fatto la medesima scelta.
Al momento stabilito si presentano al Vescovo per mettere nelle mani della Chiesa il loro proposito.
Sin dai primi secoli del cristianesimo nelle comunità cristiane vi erano donne che sceglievano la verginità come risposta alla radicalità evangelica. La vergine si donava al Signore attraverso una consacrazione pubblica e solenne, continuando a vivere nel mondo, coltivando e mettendo a servizio il proprio carisma nella Chiesa locale.
A partire dal IV secolo, con la costituzione di nuove forme di vita religiosa comunitaria, la consacrazione verginale nel mondo andò via via scomparendo (come il diaconato permanente) e bisognerà attendere il Concilio Vaticano II per vedere rifiorire questa forma di vita e promuovere la revisione del Rito di Consacrazione, approvato poi definitivamente il 31 maggio 1970 da Paolo VI. Proprio quest’anno, dunque, è il cinquantesimo anniversario del ripristino dell’Ordo Virginum. Nel momento in cui, durante il rito (una liturgia nuziale!), Raffaella si stenderà per terra, la Chiesa militante si unisce alla Chiesa del Cielo, mentre pregheremo le litanie dei santi (solo una minima parte di essi verranno nominati).
Nell’Ordo Virginum si coniugano insieme laicità (Raffaella svolge la professione di insegnante di storia e filosofia) e speciale consacrazione, verginità e maternità (il Signore le darà tanti fratelli da custodire con affetto materno), secolarità (vive nel mondo) ed ecclesialità (si metterà a servizio della Chiesa locale). Non è legata ad un istituto particolare oppure ad un ordine religioso, ma realizza la propria vocazione nella Chiesa particolare, in obbedienza al Vescovo, nella concreta situazione della propria comunità cristiana. Qui abbiamo la comunità che ci ospita, San Leo, dove c’è la prima cattedrale della nostra Diocesi, la comunità di Monte Cerignone, le colleghe di Raffaella e gli studenti, le ragazze dell’Ordo Virginum e tanti amici e fedeli.
È bello ricordare la concomitanza: oggi celebriamo in Diocesi la Giornata della vita consacrata. Ognuno di noi ha ricevuto il Battesimo, radice di tutte le vocazioni e di ogni forma di vita.

«Ti farò mia sposa – dice il Signore – ti farò mia sposa per sempre, nella fedeltà e nell’amore». Tutte le dichiarazioni d’amore sono emozionanti, ma questa ha una bellezza e una pienezza inimmaginabili.
Cara Raffaella, non ti togliamo nulla nel dire che anche noi ci sentiamo chiamati, anche noi amati immensamente dal Signore. Il Battesimo ha segnato per ciascuno di noi come una consacrazione. Allora viviamo insieme con te questo momento. Non ci sfiora minimamente il pensiero che la verginità sprechi, sciupi, la tua vita. Così non ci lambisce il dubbio che la tua sia una vita di rinuncia; anzi, da oggi si allargheranno per te, Raffaella, gli spazi della carità. Ancor meno pensiamo che il passo che compi oggi ti accartocci su te stessa in una sorta di intimismo sterile.
Cari fratelli, Raffaella sposa il Risorto che l’ha chiamata e le dischiude davanti una vita piena di senso, un orizzonte di amori allargati, ma non meno intensi, e le fa sperimentare una nuova forma di fecondità, femminilità nell’amore. E l’amore, si sa, non ha mezze misure. Ecco le parole che accompagneranno la consegna dell’anello nuziale: «Ricevi l’anello delle mistiche nozze con Cristo e custodisci integra la fedeltà al tuo sposo». La verginità consacrata, a ben pensare, è risposta a quel desiderio di donare tutto al Signore che ha avuto la sua anticipazione nella risposta della Vergine di Nazaret e nel suo «sì» la prima straordinaria realizzazione. Ci sono teologi che vedono nel «sì» verginale e purissimo di Maria l’istante preciso, puntuale, in cui nasce la Chiesa. Il Dio che ha bussato alla casa di Nazaret si è unito alla nostra carne nel momento in cui una creatura fragile come quella di Maria ha detto un «sì» libero, totale. Lì Dio è diventato uomo e l’uomo ha ricevuto la possibilità di diventare Dio. E che cos’è la Chiesa se non questa unità di divino e di umano; prima embrione e poi popolo, popolo grande. E la Chiesa riparte, si rigenera al sussurro di ogni «sì»: il «sì» di Maria, il «sì» di Raffaella, ma anche il nostro «sì». Ed è il «sì» totale della Chiesa. Ecco perché vedo che quello che celebriamo questo pomeriggio qui nella cattedrale di San Leo è ecclesiale, almeno per cinque motivi (ce ne sarebbero altri).
È ecclesiale perché la Chiesa accoglie questa consacrazione, la fa sua, la benedice e, accogliendola in questo momento, la indica, la incoraggia e ricorda che tutti noi, nel Battesimo, in diverse forme vocazionali, la stiamo vivendo. È il Battesimo che la rende possibile: sapessimo la potenza racchiusa in questo segno! L’acqua del Battesimo è scaturita dal cuore di Cristo trafitto sulla croce.
È ecclesiale perché il tipo di vita a cui Raffaella è chiamata è segno della Chiesa sposa e madre, che sa di essere povera, anzi vuole esserlo, perché non possiede altro che la Parola di Dio e i Sacramenti; una Chiesa che vuole andare ai poveri, a condividerne la condizione, a promuoverli umanamente, culturalmente e spiritualmente.
È ecclesiale perché questo tipo di vita è strumento per la Chiesa. In te, attraverso te, Raffaella, la Chiesa può dedicarsi a quello che è più necessario, che è la compagnia con lo Sposo, lo stare tutta ai suoi piedi e solo per il suo Signore, per tutto il tempo, per sempre, in modo che poi abbiano efficacia l’attività e la fecondità del servizio.
Poi, è ecclesiale perché interpreta l’esigenza della missione a cui siamo fortemente richiamati per le necessità di questo tempo e per l’invito che ci rivolge papa Francesco. Ci dev’essere nella Chiesa chi, ispirato da Dio, prega per gli altri, «al posto di» quelli che non pregano e «a vantaggio di» quelli che non riescono a pregare. La preghiera salva, l’amore può tutto; la gioia e la bellezza comprese in questa consacrazione evangelizzano. Ecco le parole che accompagneranno la consegna del libro della preghiera: «Ricevi, Raffaella, il libro della Liturgia delle Ore; la preghiera della Chiesa risuoni senza interruzione nel tuo cuore e nelle tue labbra, come lode perenne al Padre».
Infine, è ecclesiale perché la vita consacrata – e l’orizzonte si allarga a tutte le vocazioni – è la gloria e la forza della Chiesa (quelli che mi conoscono sanno che quando racconto la Diocesi esordisco quasi sempre così: «600 kmq, 70mila abitanti e… 7 monasteri! Poi le suore di vita attiva, dedite al servizio, all’aiuto agli anziani e ai bambini, ed ora – novità – l’Ordo Virginum»). Nella Chiesa risplende il primato dell’amore, la fedeltà del Signore alla sua sposa, l’indissolubilità dell’azione e della contemplazione insieme. Teresa d’Avila dice che quando un contemplativo va avanti nel cammino «compie opere ed opere» (Teresa d’Avila, Castello interiore, VII, 4, 6) e ne parla nelle Settime Stanze, ormai in cima al Castello, con cui Teresa descrive metaforicamente il cammino della vita cristiana come vita sponsale.
Nella pagina evangelica che il diacono ha proclamato abbiamo ascoltato un racconto rocambolesco. Innanzitutto, si parla di uno sposo, ma non della sposa; poi lo sposo arriva a mezzanotte, mentre i bottegai sono ancora aperti, tanto che si dice che chi non ha preso l’olio possa ancora andare a comprarlo. Entrato lo sposo sbarrano le porte e il corteo dorme. Ci sarebbero tanti particolari di questa parabola che andrebbero spiegati. Eppure, è bello questo racconto, perché dice che il Regno è simile a dieci ragazze che sfidano la notte, armate solo di una piccola luce, attrezzate di niente… Sono consapevoli che l’olio è a rischio, occorre vigilanza. Dieci piccole luci nella notte, donne coraggiose che si mettono per strada e osano sfidare il buio e il ritardo del sogno che hanno custodito. Hanno l’attesa nel cuore, perché aspettano qualcuno, uno sposo e la promessa di un abbraccio in fondo a quella notte. Ci credono. Ci crediamo anche noi! Così sia.

Omelia nella S.Messa per le Esequie di mons. Elio Ciacci

Sant’Agata Feltria, 13 gennaio 2020

2Cor 5,6-10
Mt 5,2-12

Cari familiari,
Cari sacerdoti, religiose e religiosi,
Signor Sindaco,
Cari fedeli tutti,
con l’offerta di questa liturgia l’anima di mons. Elio Ciacci viene accompagnata al cospetto di Dio, mentre affidiamo la salma alla “nuda terra”, come ha chiesto nel suo testamento, in attesa della risurrezione.
L’impressione che ricevevo nell’incontro con mons. Ciacci era quella di un’anima in pace. In pace con Dio, in pace con se stesso e con gli altri. Una persona serena e rassicurante, padrona di sé, riservata, prudente, paziente, sempre umilmente sorridente. Egli ora è giunto a vedere, fissata e premiata in abbondanza per gli sforzi compiuti per raggiungerla, la Pace, trasformata da provvisoria in eterna, da umana (pur attraversata dalla grazia) a pace in pienezza, per sempre, divina.
Nella Prima Lettura san Paolo ci dice che tutti dobbiamo comparire davanti al tribunale di Dio, ciascuno per ricevere la ricompensa delle opere compiute. Ora racconto opere, ma nel far questo non contravvengo al suo desiderio di reticenza. Il mio è un “Magnificat” per quello che il Signore ha fatto nella sua creatura. Penso soprattutto alle opere di mons. Ciacci legate al ministero e ai ministeri a cui il Signore lo ha chiamato. Dunque, lode, riconoscenza, a Colui dal quale viene ogni dono. Il Signore l’ha chiamato ed elevato al ministero sacerdotale, facendolo collaboratore, amico e – per la profondità del suo rapporto con Cristo – sposo. Il Signore l’ha associato alla dignità e alla funzione di presidenza della comunità del popolo di Dio, come maestro, sacerdote, pastore, con poteri immensi. Poteri di perdono, di verità, di santificazione e, per quanto riguarda mons. Ciacci, doni di intimità ineffabili. Una spiritualità forse tradizionale, secondo gli schemi della formazione di allora, ma solidissima, ben radicata e poi coltivata anche attraverso la sua appartenenza all’Istituto Sacerdotale del Sacro Cuore.
Fu chiamato a diverse e successive mansioni: parroco, direttore spirituale del Seminario, vicario generale, cancelliere. Poi, a servizio dalle care suore, le Monache Clarisse e le Suore Dorotee di Sant’Agata Feltria, che dobbiamo ricordare insieme alle Maestre Pie dell’Addolorata.
Fu parroco di una parrocchia piccola, San Donato, parrocchia di quei tempi, quando ogni tabernacolo poteva avere il suo sacerdote. Qui, mons. Elio fondò in pochi anni l’Azione Cattolica in tutte le sue diramazioni; promosse un’intensa pastorale vocazionale; esercitava la direzione spirituale. Ci sono sacerdoti, un missionario laico, suore, che sono frutto della sua preghiera e della sua guida spirituale e lo ricordano con affetto e immensa gratitudine.
Il Signore lo convocò in Seminario come direttore spirituale dei candidati al sacerdozio. Un ministero nascosto, ma delicatissimo, tra i giovani per aiutarli nelle difficoltà del discernimento, della decisione e della formazione. Un ministero importante, tra i più importanti, determinante in foro interno per i ministri della Chiesa. In Seminario mons. Ciacci è rimasto per quasi vent’anni. In quel periodo imitò gli anni oscuri di Nazaret del Signore Gesù ed esercitò l’arte delle arti, cioè moderare e modellare la personalità spirituale delle anime. Poi, il servizio di vicario generale accanto a due vescovi, un incarico preminente della Curia diocesana, in aiuto al vescovo per il governo della Diocesi (come dice il Codice di Diritto Canonico), da affidarsi ad un presbitero dottrinalmente sicuro, degno di fiducia, stimato dal presbiterio e dall’opinione pubblica, saggio, moralmente retto, con esperienza pastorale ed amministrativa, capace di instaurare autentiche relazioni umane. Mons. Ciacci, a causa della malattia e della mutilazione della voce, conscio dei suoi limiti, seppe mettersi da parte, senza risentimenti ma ancora e sempre a servizio, discreto, silenzioso, fedele nell’ufficio di cancelliere vescovile. Ministeri vari, ma tutti dell’unico ministero sacerdotale; ministeri conclusisi con la sofferenza, il nascondimento, il raccoglimento, l’attesa, ministero – anche questo – quanto mai attivo e fecondo soprannaturalmente. «Quando sono debole, è allora che sono forte» (2Cor 12,10). Non posso tralasciare alcune parole del Signore – lette poco fa nel Vangelo – che sembrano applicarsi alle virtù con le quali mons. Ciacci si dedicò alle sue opere, potremmo dire il suo stile: «Beati i poveri in spirito, beati i misericordiosi, beati i puri di cuore, beati gli operatori di pace». Queste virtù partono da una beatitudine, una felicità, ma portano alla pienezza della beatitudine, della felicità: «… perché di essi è il regno dei cieli, perché ricevono il possesso della terra, perché hanno il contraccambio della misericordia, perché godono la visione di Dio» (cfr. Mt 5,3-9).
Preghiamo. Che da quella felicità, da quella pace, mons. Ciacci interceda per il nostro lavoro pastorale, per le vocazioni al sacerdozio e la formazione dei candidati, per la comprensione del primato di Dio su tutto e l’intelligenza delle necessità della comunione tra noi e col Signore e per la necessità e la bellezza della lode a lui, Cristo. Così sia.

Omelia nella festa del Battesimo di Gesù

San Marino Città, Basilica di San Marino, 12 gennaio 2020

Is 42,1-4.6-7
Sal 28
At 10,34-38
Mt 3,13-17

Pellegrinaggio della parrocchia di Fiorentino alla Basilica di San Marino

(da registrazione)

Rivolgo un saluto speciale alle Autorità presenti e ai miei Confratelli, ma soprattutto ai bambini, ai ragazzi e alle loro famiglie.
Nella nostra splendida Basilica è racchiuso, come in uno scrigno, il nostro Santo Patrono e Fondatore, Marino.
Conoscete bene la sua storia, in particolare quello che si riferisce alla vicenda straordinaria da cui è nata la nostra Nazione, piccola, ma grande nei suoi ideali.
Al termine della Messa – come sapete – verrà consegnata a ciascuna famiglia una statuetta che riproduce la scultura situata sopra l’altare, perché il legame col santo Marino sia sentito in tutte le famiglie. Questa preziosa consegna avviene nel giorno in cui Gesù va al fiume Giordano per ricevere il Battesimo. Il racconto comincia con una disobbedienza: Giovanni Battista non vuole battezzare Gesù. «Tu sei il Signore, non hai bisogno di venire purificato come noi». Ma Gesù insiste: «Devi battezzarmi. Deve compiersi ogni giustizia» (cfr. Mt 3,14-15). Perché vuole essere battezzato? Qual è il significato del Battesimo di Gesù? Si può riassumere in un verbo, il verbo discendere. Dal VI secolo a.C. una delle preghiere più formidabili che facevano gli Ebrei era il Salmo 63 dove si cantava: «Oh, se tu squarciassi i cieli e scendessi». In fondo è il grido di ogni creatura umana: «Signore, fatti conoscere!». Ho riletto in questi giorni, per l’ennesima volta, l’incontro del Cardinal Federigo con l’Innominato nei Promessi Sposi. Quando il Cardinale va incontro all’Innominato, egli sta lottando dentro il suo cuore e si sottrae all’abbraccio. Ma il Cardinale chiede perdono per primo all’Innominato, dicendo che avrebbe dovuto cercarlo prima, per andare a parlargli di Gesù. L’Innominato, nell’atto di ritrarsi, dice: «Dio, Dio, se lo vedessi! Se lo sentissi!». È quello che a volte capita anche a noi di esclamare: «Signore, fatti conoscere! Davvero sei vicino a noi?». Il Cardinale replicò: «Ma chi più di te sente la sua presenza? Questa presenza che ti inquieta, che ti turba, ma che adesso ti abbraccia» (cfr. A. Manzoni, I promessi sposi, cap. 23). E avvenne la bellissima narrazione del Capitolo 23 del romanzo. «Se tu squarciassi i cieli e scendessi!».
Nel Natale i Cieli si sono squarciati, è sceso il Figlio di Dio, il Verbo, in Gesù di Nazaret. Dopo trent’anni di vita nascosta Gesù si reca sulle rive del fiume Giordano, scende nell’acqua e fa la fila con i peccatori, con le persone che si sentono sbagliate e patiscono della loro condizione. Gesù è solidale con loro e con loro scende in quelle acque risananti. È quello che proclamiamo tutte le domeniche nella preghiera del “Credo”: «Per noi uomini e per la nostra salvezza discese dal cielo». D’ora in poi, quando pregheremo il “Credo”, ci rimarranno impresse quelle parole che si riferiscono alla discesa nel Santo Natale e alla discesa al fiume Giordano. Ed ecco uno spettacolo grandissimo: si apre il Cielo. È un linguaggio simbolico, ma «si udì una voce». Mentre Gesù saliva dalle acque, il Padre dice tre cose (parla solo due volte nei Vangeli), che ci riguardano, perché le pronuncia su ciascuno di noi: «Tu sei figlio mio, l’amato, sorgente della mia gioia».
«Tu sei figlio mio»: ognuno di noi può dire che Dio è papà. A volte si dice che Dio è come i nostri papà, ma piuttosto è il contrario: i nostri papà devono essere come Dio.
«Tu sei l’amato»: ognuno di noi può dire di essere amato personalmente, di essere il prediletto.
«Tu sei sorgente della mia gioia»: ognuno di noi può dire di essere la gioia per Dio.
In quel momento, con quelle parole, da una parte Dio raccomanda Gesù, lo accredita come Messia, ma nello stesso tempo, dall’altra parte dice: «Ciascuno di voi, unito con Gesù, ha questo destino».
Quando andavo all’università ho approfondito un testo scritto da un certo Joseph Ratzinger intitolato “Un popolo messianico”. Il professor Ratzinger è diventato poi papa Benedetto XVI. Noi siamo il popolo del Messia: dobbiamo avere un sano orgoglio per questo. Oggi parliamo del Battesimo di Gesù, ma non possiamo non accennare al nostro Battesimo. Ci siamo trovati cristiani senza aver mai deciso di esserlo. Bisogna che decidiamo di esserlo! Questo è il nostro più grande impegno. Quello di voi ragazzi è che partecipiate alla catechesi parrocchiale; quello di noi adulti la riscoperta del Battesimo. Il Battesimo, dato quando si è bambini, deve svilupparsi, crescere. Mi viene da paragonare il Battesimo ad un seme, il seme della sequoia. La sequoia è un albero altissimo; può raggiungere 104 metri di altezza e 9 metri di diametro. La sequoia imponente che vediamo oggi è stata un piccolo seme. Se quel seme fosse stato tenuto nel cassetto, sarebbe rimasto così. Invece, piantato nella terra, è diventato un grande albero. Allo stesso modo il seme del Battesimo deve svilupparsi. Oggi, ricordando san Marino, che ad Acquaviva, secondo la tradizione, ha fatto i primi Battesimi, siamo ridiventati cristiani. Ho iniziato la celebrazione ammirando lo splendore della nostra Basilica, ora abbasso gli occhi e ammiro questo popolo, un “popolo messianico”. Che cosa si viene a fare in chiesa alla domenica? Si viene a sentirsi dire che siamo amati immensamente, che siamo la gioia del Signore. Ecco perché non vogliamo mai più mancare. Così sia.