Mercatino Conca (PU), 27 dicembre 2023
1Gv 1,1-4
Sal 96
Gv 20,2-8
1.
Rinnovo le più sentite condoglianze a don Erminio e ai familiari di don Marino. Condoglianze che formulo anche ai parrocchiani di Mercatino Conca, di Montealtavelio e di Piandicastello per i legami di paternità e di figliolanza che li uniscono a don Marino.
Senza nulla togliere al dolore dei familiari e senza sottovalutare la nostalgia delle sue comunità, sento che la partenza di don Marino tocca profondamente il nostro presbiterio, la nostra famiglia sacerdotale. Sì, il presbiterio è davvero la nostra famiglia. Don Marino è uno della famiglia che ci ha lasciato, improvvisamente e in punta di piedi. Ci siamo salutati e abbracciati, ma non sapevamo che sarebbe stata l’ultima volta, a fine novembre, durante il corso di Esercizi Spirituali a Ginestreto (PU). Mai avrei pensato che don Marino potesse partecipare, date le sue condizioni già precarie; invece, insieme a don Erminio, è venuto in mezzo a noi portando tanta gioia e contentezza. Dunque, un prete fedele anche agli appuntamenti di famiglia: così si costruisce la famiglia, anche con la presenza… il resto sono chiacchiere!
Momenti come questo, benché mesti, hanno l’effetto di fonderci ancora di più tra noi presbiteri. Al di là delle differenze di età, di formazione, di provenienza, riscopriamo il legame umano e soprannaturale che ci unisce in virtù del sacramento dell’Ordine, in virtù del comune amore sponsale al Signore Gesù che ci ha sedotti (e noi ci siam lasciati sedurre) e in virtù della dedicazione della nostra vita al servizio del Vangelo, dell’Eucaristia e del ministero della Riconciliazione. Ho sentito da molti confratelli che, durante il periodo natalizio, tanti sono andati a rinnovare il sacramento della Riconciliazione. Non abbiate paura ad andare a questo sacramento: la cosa principale non è l’elenco dei peccati che confessiamo (il Signore li sa già, sa anche quelli che non sappiamo), ma è bello professare la sua misericordia, sentirsi amati.
Come vorrei che quanti hanno apprezzato e amato don Marino – soprattutto giovani – si ponessero con verità la domanda: «Signore, io come posso servirti?». E chi sente la vocazione al sacerdozio rispondesse “sì”, con generosità e coraggio, e che tutti sentissimo quanto è necessario, utile e bello il ministero sacerdotale. Sono da lodare la dedizione del volontario, la dedizione al servizio dei poveri e alla promozione umana, ma chi pensa all’anima, chi pensa alle anime? Chi si fa prete e abbraccia, per amore, il sacro celibato non è solo… ha una famiglia, ha e riceve tanto amore, vive paternità vera e gode dell’affetto filiale. Sentite quale rapporto univa sant’Agostino alla sua comunità, in una testimonianza scritta alla morte di un amico: «E poi – scrive – c’erano altre cose che avvincevano il mio animo: le conversazioni e le risate insieme, lo scambio di affettuose gentilezze, la lettura in comune di libri piacevoli, fare insieme cose ora insignificanti ora importanti, contrasti passeggeri, senza rancore, come succede ad ogni uomo anche con se stesso, e con quei contrasti, peraltro così rari, rendere più gustosa l’abituale concordanza di vedute; insegnarci cose nuove a vicenda, sentire acutamente la nostalgia per gli assenti e accoglierli con gioia al loro ritorno: questi e altri simili segni, sgorganti da cuori che amano e si sentono riamati, ed espressi col contegno, con le parole, con lo sguardo e con mille graditissimi gesti, fondono insieme come fiamma gli animi e di molti ne fanno uno solo» (Sant’Agostino, Confessioni, IV,8).
2.
Quella di don Marino è stata un’esistenza missionaria. Rivolgo il mio sguardo, per quanto possibile, ad una vita come la sua nella quale si intrecciano iniziativa di Dio e corrispondenza umana, uno sguardo su un’esistenza veramente presbiterale con i suoi aspetti e le tappe caratteristiche. Nel Vangelo si dice di Gesù che la sua missione era di andare di villaggio in villaggio ad annunziare il Regno e a fare del bene (cfr. Mc 1,32; 6,6; At 10,38). E un prete è inviato, come Gesù, a passare da un luogo all’altro, da una comunità all’altra per permettere così a Gesù di continuare nel tempo il suo ministero.
Don Marino è membro della comunità Papa Giovanni XXIII; a Pietracuta apre una Casa famiglia e diventa sacerdote-padre affidatario; è fra coloro che aprono il centro diurno “Il nodo”. Il mondo diventa la sua “famiglia” con il servizio per sei anni in Mozambico. Rientrato in Diocesi è per decenni responsabile del Centro Missionario Diocesano. I campi di raccolta in Diocesi e i campi di un mese all’estero diventano appuntamento fisso per molti ragazzi e ragazze che negli anni, con don Marino, condividono lo spirito missionario. È parroco dal 1993 a Mercatino Conca, Piandicastello e Montealtavelio. A Mercatino, con don Oreste, vuole la Casa della Pace: giovani che rientrano dalle missioni per “contaminare” questa valle e farla crescere con le loro esperienze. Accoglienza, sorriso, determinazione, a volte anche cocciutaggine – sempre elegante – sono i tratti che hanno caratterizzato il suo servizio pastorale. Era fiero di mostrare nel suo studio i cimeli africani (pelle di serpente compresa, appesa alla parete), donati poi alla Diocesi per l’Ufficio missionario. È stato insegnante di religione nelle scuole medie fino alla pensione, con un occhio speciale ai giovani: “I giovani Valconca” (fiore all’occhiello della vallata). Sempre partecipe alle vicende lieti e tristi dei parrocchiani. «Che bello!»: suo modo frequente di intercalare.
3.
La liturgia della Parola ci fa meditare rispettivamente sull’incipit della “Lettera dell’Amore” – così viene chiamata la Prima Lettera di Giovanni – e sul Vangelo della risurrezione. Potevano esserci letture più appropriate?
Il Vangelo ci riporta alle prime luci dell’alba della Pasqua: Maria di Magdala, Pietro e Giovanni corrono al sepolcro e dal sepolcro, di ritorno, corrono per annunciare – dopo aver verificato la tomba vuota e i lini e il sudario accuratamente deposti – che Gesù è vivo! Lo annunciano per fede, con la fede, nella fede. Quale altro messaggio importa annunciare se non questo: ci riguarda, ci dà speranza, plasma la vita di noi “vivi tornati dai morti” (così san Paolo chiamava i cristiani nella Lettera ai Romani: Rom 6,13).
Permettete citi un detto ferrarese che i nostri vecchi assicurano d’aver sentito, a loro volta, dai loro vecchi. È un detto ironico, ma anche vero: “I preti cantano sul morto”. All’epoca i funerali erano una risorsa per i poveri preti di campagna, questa l’ironia (cantano perché guadagnano qualcosa). In verità, erano, sono, siamo annunciatori della risurrezione: abbiamo il coraggio di cantare in barba alla morte. Se togliete questo annuncio alla nostra predicazione, togliete tutto. Il resto è buona educazione o cortesia.
Qualcuno potrebbe pensare che da duemila anni non è cambiato granché sulla faccia della terra: Cristo non ha salvato nessuno, la risurrezione è un mito senza altro fondamento che la speranza umana di sopravvivere alla morte, si continua a peccare. È vero, il Signore non ha eliminato la morte, neppure il peccato, neppure la sofferenza. Ma, entrando fino in fondo nel dolore, nella disperazione e nell’annientamento, ha inaugurato un altro modo di attraversarli: l’ha fatto continuando a fidarsi del bene che era presente nella croce. È risorto perché ha creduto nella presenza del Padre, persino nel momento in cui sembrava assente: «Chi non ama rimane nella morte». «Passiamo da morte a vita amando i fratelli» (cfr. 1Gv 3,14). «Quello che abbiamo veduto e udito noi lo annunciamo anche a voi, perché anche voi siate in comunione con noi. E la nostra comunione è con il Padre e con il Figlio suo, Gesù Cristo. Queste cose vi scriviamo perché la vostra gioia sia piena» (1Gv 1,4). Così sia!