Grande partecipazione alla Seconda Giornata Eucaristica

Oltre 250 partecipanti, un’ampia relazione biblico-artistica tenuta da suor Maria Gloria Riva sul tema della “benedizione”, 15 gruppi sinodali a confronto su formazione alla vita e alla fede: è la Seconda Giornata Eucaristica diocesana, tappa importante nel cammino pastorale di quest’anno (quasi un Congresso eucaristico diffuso). Unanime nel report dei gruppi la centralità della famiglia nell’opera educativa con quello che è chiamata ad essere e a vivere.
Riparte la peregrinatio dell’icona di Emmaus per le parrocchie della Repubblica di San Marino verso la Terza Giornata Eucaristica diocesana del 7 aprile prossimo.

Scarica la relazione di suor Maria Gloria Riva

Qui il link per la videoregistrazione

Nella Pieve di San Leo una preghiera ecumenica

Guidati dalla corale di San Leo, il vescovo Andrea Turazzi, il pastore valdese Alessandro Esposito e padre Gabriel Cerbu della Chiesa Ortodossa Rumena hanno celebrato i primi Vespri della Domenica. Il pastore Alessandro ha tenuto una meditazione sul “Magnificat” interpretando i sentimenti di Maria di Nazaret di fronte «alle grandi opere di Dio». I presenti all’incontro di preghiera erano particolarmente commossi nel vedere leader di diverse confessioni pregare insieme, esprimere sentimenti di stima reciproca e compiere gesti di sincera amicizia. Ribadito il desiderio di Gesù: «Che tutti siano uno».

Omelia nella III domenica del Tempo Ordinario

Valdragone (RSM), 21 gennaio 2024

Domenica della Parola
Seconda Giornata Eucaristica

Gio 3,1-5.10
Sal 24
1Cor 7,29-31
Mc 1,14-20

Quella mattina sulle rive del lago accade una cosa straordinaria e il mondo non lo sa. Che ne potevano sapere i pescatori di Cafarnao o di Tiberiade che in quel momento iniziava la missione pubblica di Gesù!
L’evangelista Marco scrive questi fatti dopo la risurrezione di Gesù e vede in quell’alba sulle rive del lago il Big Bang della risurrezione, cioè lo splendore della signoria, della regalità, di Dio. Questa è la prima cosa che voglio far risuonare e noi siamo fortunati ad essere lambiti, raggiunti, travolti da questa bella notizia: Dio si interessa di noi, ci vuole bene e ci benedice. Un giorno Gesù prenderà in mano il pane… Voi sapete cosa c’è dietro il pane e la sua storia: la fatica, la seminagione, il marcire nella terra, lo spuntare, il crescere, il maturare, il macinare, l’impastare e poi quel pane. Ecco, il Signore benedice quel pane fino a farlo diventare luogo della sua presenza.
Su quel pane si concentra anche la nostra benedizione. Perché noi vogliamo benedire Dio, vorremmo che tutti potessero proclamare quell’Amen nel cuore della Messa, e vorremmo coinvolgere tutti nella lode. Per questo mettiamo tutto l’impegno, nelle nostre comunità, perché le celebrazioni siano belle, perché l’Eucarestia sia partecipata – come avete detto nei report inviati in centro Diocesi – con canti appropriati, con lo splendore dei riti, l’eleganza che rende bella la nostra chiesa (posso testimoniarlo!). Dunque, in quel pane si concentra il massimo della benedizione, quella discendente, che è la benedizione di Dio, e quella ascendente, la nostra, che gli rende grazie e dice bene di Lui.
Quand’è che Gesù comincia la sua attività pubblica? Quand’è che sale lo splendore del Regno di Dio? Sembrano dettagli per specialisti. No, sono realtà che urgono nel cuore di chi scrive: dopo che Giovanni fu arrestato è stato messo a silenzio colui che è la voce. Dunque, c’è un vuoto, una mancanza, un’assenza. E su questa mancanza, su questa assenza, scende e viene Gesù, il Verbo di Dio. Si direbbe quasi che, in questo momento, Gesù scopra la sua vocazione, o meglio, la espliciti; ed è proprio la sua vocazione proprio nel momento in cui c’è una mancanza. Ricordate il profeta Isaia? Nella visione ode la voce del Signore: «Chi manderò e chi andrà per noi?». Sembra quasi che Dio cerchi braccia e il profeta audacemente risponde: «Eccomi, manda me» (Is 6,8). La vocazione ha di questi slanci! Si vede un bisogno, si vede una difficoltà, si vede una mancanza. Questo è un appello: «Tocca a te!».
Gesù annuncia il Regno di Dio e la conversione. Ho sentito molto, in questi mesi – lo condivido con voi che siete i miei fratelli – la necessità di una conversione. Quando celebriamo l’Eucarestia, appaiono due identificazioni. La prima: il pane che spezziamo, il calice della benedizione che condividiamo, per opera dei sacerdoti diviene sull’altare corpo, sangue, anima e divinità di Nostro Signore Gesù Cristo. La nostra fede si impegna; i sensi non ci aiutano, perché continuano ad apparire gli accidenti: il pane col suo colore, nella sua forma, ecc. Noi crediamo a questa presenza e abbiamo costruito cattedrali meravigliose, tabernacoli d’oro per custodire questa presenza. Dove sta la conversione? La conversione è nel credere che – cito san Paolo –, «poiché c’è un solo pane, noi, pur essendo molti, siamo un solo corpo. Tutti, infatti, partecipiamo dell’unico pane» (1Cor 10,17). La conversione che devo fare, alla quale vorrei invitare anche voi, sta nel considerare che nell’Eucarestia noi diventiamo Corpo di Gesù, suo Corpo mistico. E, se metto tutto l’impegno per credere nella presenza reale di Cristo sull’altare (prima identificazione), voglio impegnare tutta la fede anche nel credere che noi siamo suo Corpo, suo Popolo. Mentre la prima identificazione è opera del Signore, opera della sua Parola, questa seconda identificazione richiede la nostra corrispondenza, la nostra responsabilità; esige l’unità e la comunione tra noi come fratelli, l’uscita dal nostro io, il superamento di ogni egoismo e individualismo. Allora il sacramento del Corpo e del Sangue di Cristo è tale perché la Chiesa (e in essa ognuno di noi), si faccia dono agli altri, sacramento di unità, di pace, per quanti sono accanto e per quanti sono lontani. Allora l’incorporazione a Cristo non può essere, non può ridursi, non può immiserirsi ad un fatto individuale o individualistico, emotivamente gratificante. L’Eucaristia non può essere soltanto fonte di belle riflessioni, di belle parole. Non parole, l’Eucaristia, invece, è – dico tre sostantivi, ognuno dei quali ha una sfumatura diversa – incentivo, spinta e slancio all’azione. In questo senso dico che l’Eucarestia è programma, via, imperativo, oltre che grazia che ci è donata. Cristo si è fatto Eucaristia per noi, perché noi ci facciamo Eucaristia per gli altri. Quando Gesù sulle rive del lago dice: «Convertitevi e credete al Vangelo» (forse è un’estensione indebita, un’applicazione impropria, ma in questo contesto credo sia lecita), penso la conversione come inversione dall’intimismo alla consapevolezza della nostra responsabilità. «Il Regno di Dio è vicino, convertitevi e credete al Vangelo». Sì, Signore, noi come Pietro, Andrea, Giacomo, Giovanni, crediamo alla tua Parola e crediamo possibile la conversione.
I primi versetti del Vangelo di oggi e i versetti che raccontano la vocazione degli apostoli sono strettamente connessi, perché il racconto della vocazione e della risposta degli apostoli non è altro che l’attuazione di quella conversione che il Signore chiede. «Convertitevi e credete»; si tratta di un’endiadi, figura retorica per dire con due parole lo stesso concetto: convertirsi e credere coincidono. Ti converti, credendo a Gesù, credendo a Gesù avviene la conversione. Così sia.

Seconda Giornata Eucaristica

«Benedisse il pane…»

«La fiducia supplicante del Popolo fedele di Dio riceve il dono della benedizione che sgorga dal cuore di Cristo attraverso la sua Chiesa»: con queste parole si apre una recente Dichiarazione sul senso pastorale delle benedizioni del Dicastero per la Dottrina della Fede. Esse compendiano in modo molto chiaro il secondo dei quattro verbi con cui il nostro Vescovo Andrea ha voluto “adornare” le quattro Giornate Eucaristiche diocesane; la seconda delle quali verrà celebrata domenica 21 gennaio presso la Casa San Giuseppe di Valdragone a partire dalle ore 15.

“Benedire”. Gesù benedisse il pane: con questa azione, presa dalla tradizione della cena rituale ebraica, Gesù ha voluto dare la propria benedizione non solo a quell’alimento che aveva tra le mani, ma a tutte le fatiche umane, alle sofferenze, ai sacrifici personali, che simbolicamente sono rappresentati dall’ostia, “frutto della terra e del lavoro umano”. La benedizione “sgorga dal cuore di Cristo” e ci raggiunge attraverso l’azione della Chiesa. Ma “benedire”, cioè il “dire-bene” di Dio, è molto antico: la Bibbia è piena di gesti di benedizione! E ciò è vero anche e nonostante il nostro peccato: Dio non smette di benedirci, anche se talvolta non corrispondiamo al suo amore o ci allontaniamo dal suo disegno di salvezza per noi.

Ci aiuterà nella scoperta di questa “azione” di Dio suor Maria Gloria Riva, la quale, accompagnata dalle Monache dell’Adorazione Perpetua, ci proporrà anche un momento di dialogo. Sì, perché se “benedire” è un’azione divina, è anche vero che l’uomo stesso è chiamato, a sua volta, a benedire il creato e il suo Creatore. Per questo, l’azione diametralmente opposta alla benedizione è la “concupiscenza” – come ci suggerisce il Vescovo nella scheda del Programma Pastorale – cioè la tentazione di trattenere le cose e goderne solo per sé. Il contrario della “benedizione” e, dunque, la vera “maledizione” per l’uomo è di pensare di poter vivere autonomamente, sciolto da quei legami che sono necessari per la vera vita. Ciò, per altro, porta a vivere tutto sotto il dominio dell’ansia, nella prospettiva di avere tutto sotto controllo, spadroneggiare sugli altri e dover “apparire” in un certo modo. Ancora una volta, dunque, il cristianesimo dimostra la propria convenienza, perché Cristo è venuto a togliere i lacci del male e ci ha proposto, attraverso la “benedizione”, una concreta via di liberazione.

Questo implica che nessuno di noi può mancare all’appuntamento del 21 gennaio! Segniamo sulle nostre agende questo incontro, facciamo di tutto per essere presenti. Dopo l’utilissima e ricca catechesi di suor Gloria, attraverso le indicazioni consegnateci il Giorno del Mandato, affronteremo 4 domande fondamentali e utili a rendere più vera e più bella la nostra Chiesa diocesana. Il contributo di ciascuno è indispensabile per discernere quale volto le nostre Comunità devono assumere. Non abbiamo il diritto di lamentarci, se prima non avremo contribuito a costruire la Chiesa. I lavori, svolti sinodalmente, verteranno intorno a tematiche molto concrete, affinché sia più facile “benedire” Dio, gli altri e il mondo, affinché la nostra testimonianza espliciti l’amore salvifico del Signore. Ma il “fare la nostra parte” quel giorno potrà realizzarsi anche in un momento di intimità con Gesù, in un rapporto “esclusivo” con Lui attraverso l’Adorazione eucaristica che accompagnerà tutte le fasi del convegno. Certamente non mancherà di portare frutti abbondanti di bene nelle nostre vite: una vera e propria “benedizione”. La presenza del nostro Vescovo – successore degli Apostoli – e la possibilità di vivere con lui l’esperienza intima del Cenacolo è a garanzia del fatto che quel giorno non solo parleremo di Dio, ma lo vivremo e ne saremo completamente avvolti.

Ecco, allora, l’invito pressante a cambiare i nostri piani, se abbiamo già fissato altri impegni, e a fare di tutto per non mancare a questo pomeriggio, appuntamento con la storia e il destino. Concluderemo la giornata con la celebrazione eucaristica e sarà così anche un modo per ringraziare il Signore per i dieci anni della presenza tra noi di mons. Andrea Turazzi.

Don Marco Scandelli
Direttore Ufficio Catechistico Diocesano

Scarica la Lettera-invito del Vescovo Andrea

Scheda per la preparazione

ARMENIA e ARTSAKH – Ritorno al Paradiso

Il Coordinamento delle Aggregazioni Laicali di San Marino invita a partecipare a questo incontro:

«ARMENIA – ARTSAKH. Ritorno al Paradiso»

VENERDÌ 26 GENNAIO 2024
Ore 20,45

SALA MONTELUPO – DOMAGNANO – RSM

Intervengono:

TERESA MKHITARYAN
Fondatrice del “Germoglio”, associazione con sede a Lugano che promuove progetti umanitari in Armenia

RENATO FARINA
Giornalista

“Ora voglio ricordare un’altra tragedia che ferisce il cuore degli uomini, e dei cristiani in particolare: è la sorte di migliaia e migliaia di Armeni dell’Artsakh [Nagorno-Karabakh] che sono scacciati dalla loro terra per rifugiarsi nell’Armenia. Non ho le competenze che hanno Loro [gli ambasciatori e i politici presenti (ndr)] per orientare la riflessione così delicata, che tocca rapporti internazionali, ma penso agli uomini, donne, bambini e agli anziani. Viene davvero da chiedere giustizia per loro, la cui vita e storia vale certamente di più che qualsiasi progetto politico e di qualsiasi vantaggio economico.

Mons. Andrea Turazzi, Omelia per l’Insediamento dei Capitani Reggenti, 1° ottobre 2023

Pellegrinaggio a Roma con i Vescovi in Visita “ad limina apostolorum”

Carissimi,
dal prossimo 26 febbraio al 1° marzo avrò la gioia di vivere insieme agli Arcivescovi e ai Vescovi dell’Emilia Romagna la mia prima “Visita ad limina apostolorum”.
Insieme alla gioia non nascondo una certa trepidazione per l’incontro con papa Francesco e con i Dicasteri della Curia Romana. Chiedo la vostra preghiera e quella di tutta la Diocesi.
Mi propongo di consegnare l’omaggio della nostra Chiesa agli apostoli Pietro e Paolo, portare tutti sulla tomba degli apostoli per rinnovare la fedeltà al Signore Gesù e al suo Vangelo e rinsaldare i vincoli dell’unità con tutta la Chiesa e il Papa.
Il programma della Visita è molto intenso, ma è prevista una pausa per partecipare all’Udienza pubblica con il Santo Padre insieme ai fedeli delle nostre Diocesi. Per questo, il Servizio diocesano Pellegrinaggi ha organizzato un pellegrinaggio diocesano nei giorni di martedì e mercoledì 27-28 febbraio. Due saranno i momenti principali: Udienza col Santo Padre in Aula Paolo VI (ore 9.30) e S. Messa con tutti i Vescovi dell’Emilia Romagna nella Basilica di San Giovanni in Laterano (ore 15.30). Allego le note organizzative.
Speriamo di essere in tanti!

Vescovo Andrea

Scarica il programma dettagliato

Giornata dei giornalisti

E’ ormai tradizione celebrare la ricorrenza del Santo Patrono degli operatori della comunicazione, san Francesco di Sales, con i giornalisti e gli addetti all’informazione.
Quest’anno la Diocesi intende dare un carattere più interattivo all’incontro, con un tempo più disteso e aperto ad un pubblico più vasto. La comunità cristiana incontra gli operatori della comunicazione mercoledì 24 gennaio presso la Casa salesiana di Murata (San Marino Città, via don Bosco 12 – RSM).
Questo è il programma:

Ore 20 – Accoglienza e buffet offerto dalla Diocesi
Ore 21 – Introduzione al tema: “Quale notizia serve? La persona al centro della comunicazione” (don Jean-Florent Angolafale, esperto in comunicazione istituzionale)
A seguire Tavoli di dialogo e confronto
Ore 22.30 – Conclusioni

La serata si colloca a dieci anni dall’inizio del pontificato di papa Francesco che tanta importanza ha dato e dà alla comunicazione.
L’invito a partecipare può essere esteso a colleghi, amici e a quanti sono interessati all’evento.

Francesco Partisani
Direttore Ufficio Comunicazioni Sociali
Diocesi San Marino-Montefeltro

Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani

La Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani è un’iniziativa internazionale di preghiera ecumenica nella quale tutte le confessioni cristiane pregano insieme per il raggiungimento della piena unità che è il volere di Cristo stesso: «Perché tutti siano una sola cosa; come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch’essi in noi, perché il mondo creda che tu mi hai mandato (Giovanni 17,21).
Da sempre le diverse confessioni hanno pregato per l’unità, ma separatamente. In particolare verso la fine del Settecento e nel corso dell’Ottocento si svilupparono diverse iniziative di preghiera con questa intenzione, specialmente in area protestante e anglicana. Inizialmente furono guardate con sospetto, se non proibite, dall’autorità cattolica.
Il primo Ottavario, in forma simile all’attuale, nacque su iniziativa di due ministri in relazione epistolare tra loro: l’inglese Spencer Jones, anglicano, e l’americano Paul James Francis Wattson, episcopaliano (anglicano americano). Nell’anno 1907, il rev. Jones suggerì l’istituzione, per il 29 giugno di ogni anno, di una giornata di preghiera per il ritorno degli anglicani, e di tutti gli altri cristiani, all’unità con la Sede Romana. L’anno seguente Wattson ampliò l’idea, proponendola in forma di un’ottava allo scopo di domandare a Dio “il ritorno di tutte le altre pecore all’ovile di Pietro, l’unico pastore”. È precisamente a questo anno (1908) che viene fatta risalire convenzionalmente la nascita ufficiale dell’attuale settimana.
Wattson decise di iniziare l’ottavario il giorno della festa della Confessione di Pietro (variante protestante della festa della Cattedra di San Pietro che si festeggiava il 18 gennaio), e di concluderlo con la festa della Conversione di San Paolo. Da allora queste due date (18 e 25 gennaio) segnano l’inizio e la fine dell’Ottavario nell’emisfero settentrionale.
In ambito cattolico l’iniziativa fu esplicitamente approvata da diversi pontefici (Pio X e Benedetto XV) ma non come preghiera comune con gli altri cristiani: i cattolici erano invitati a pregare “per il ritorno a Roma dei dissidenti”, tanto che per un certo tempo Wattson, nel frattempo convertitosi al Cattolicesimo Romano, la chiamò “Chair of Unity Octave” (Ottavario per l’Unità della Cattedra) per enfatizzare la relazione tra l’unità dei cristiani e il papato.
In ambito protestante, il movimento ecumenico Faith and Order (Fede e Costituzione) nel 1926 propose a sua volta un ottavario che iniziasse però la domenica di Pentecoste (tradizionalmente considerata la commemorazione della fondazione della chiesa di Cristo). Oggi questo periodo è adottato in molti paesi dell’emisfero meridionale, in cui gennaio è tempo di ferie.

La Settimana si celebra ogni anno tra il 18 e il 25 gennaio con un tema generale e a partire da un passo biblico appositamente scelto e da un sussidio elaborato congiuntamente, a partire dal 1968, dalla commissione Fede e costituzione del CEC (protestanti e ortodossi) e dal Pontificio consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani (cattolici).
Il tema per la prossima Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani (18-25 gennaio 2024) prende ispirazione dal dialogo tra Gesù e il dottore della legge che nel Vangelo di Luca precede la parabola del buon samaritano: “Amerai il Signore Dio tuo e il prossimo tuo come te stesso” (Luca 10,37).
In diocesi cercheremo di vivere questo momento con la preghiera del vespro in Pieve a San Leo sabato 20 gennaio 2024 alle ore 20,30 alla presenza del Vescovo Andrea, del Pastore Valdese della Chiesa di Rimini e del Pope Ortodosso della Chiesa Ortodossa Rumena presente a San Marino.
Il Pastore Valdese Alessandro Esposito ci introdurrà in una riflessione sul magnificat.

Don Giuliano Boschetti

Omelia nella II domenica del Tempo Ordinario

Maciano (RN), 14 gennaio 2024

1Sam 3,3-10.19
Sal 39
1Cor 6,13-15.17-20
Gv 1,35-42

Questo brano mi rimanda al tempo della mia ricerca vocazionale; mi sono visto non solo nel discepolo Andrea, ma anche nel discepolo “innominato”: ogni lettore del Vangelo può rivedersi in lui. In questa pagina di Vangelo vediamo una raffica di sguardi, inseguimenti, inviti. Nella lettura liturgica ci siamo fermati al versetto 42, ma nei versetti seguenti c’è una sorta di reazione a catena: Andrea, Pietro e Giovanni vanno a raccontare l’incontro a Filippo; poi Filippo lo racconta a Natanaele…
Giovanni Battista, che ci ha accompagnato lungamente nel Tempo dell’Avvento, puntando il dito acclama: «Ecce, Agnus Dei», vedendo passare Gesù. Il suo sguardo su Gesù è profondo e intuitivo. Giovanni fissa Gesù Lo guarda, lo fissa e invita i suoi discepoli a seguirlo. Andrea e l’innominato sono della cerchia di Giovanni Battista, che ha trasmesso loro questa ansia di attesa del Messia.
Gesù si volta e volge il suo sguardo su di loro; altrettanto farà con Pietro e con Natanaele, che gli dirà: «Mi hai visto sotto il fico, ma io non ti ho visto…» (cfr. Gv 1,48). E Gesù concluderà dicendo: «Vedrai cose più grandi di queste» (Gv 1,50).
Dopo gli sguardi ci sono gli inseguimenti, con Gesù che passa. I discepoli vedono Gesù di spalle. Si può ricordare la pagina del libro dell’Esodo in cui Mosè implora: «Signore, che io possa vedere il tuo volto». Dio mette la mano davanti alla cavità della roccia dove si trova Mosè e Mosè può soltanto vedere il Signore di spalle: non si può vedere Dio e restare in vita. Invece, qui Gesù “si voltò”, “si è fatto volto” perché lo possano inseguire. Anche gli apostoli tra loro si inseguono in una sorta di staffetta attorno a Gesù.
Poi ci sono gli inviti: «Maestro, dove abiti?». «Venite e vedrete».
A proposito di Giovanni Battista si può notare il contrasto fra come lui presenta Gesù e come Gesù ama essere incontrato. C’è una leggera vena di ironia: le parole di Giovanni Battista rappresentano un fotogramma ad altissima definizione, che ritrae Gesù con termini biblici e teologici elevatissimi. Lo chiama “l’Agnello”. Probabilmente la parola “agnello” per noi non significa tantissimo; forse abbiamo fatto l’abitudine alle parole del sacerdote che, in vari momenti della Messa, evoca l’Agnello di Dio, ad esempio nel Gloria, o quando alza l’Ostia santa per la Comunione, quando si invoca tre volte “l’Agnello di Dio che toglie i peccati del mondo”. La parola “agnello” ai contemporanei di Gesù ricordava la notte dell’esodo, quando Mosè aveva detto: «Uccidete un agnello e con il suo sangue segnate gli stipiti delle vostre case: quel sangue sarà sangue che salva, che mette al sicuro». I primi discepoli, quando sentono la parola agnello, pensano immediatamente all’agnello di cui scrive il profeta Isaia, l’agnello che prende sulle spalle le nostre iniquità, che viene trafitto a causa nostra, al posto nostro, e diventa l’agnello che redime (cfr. Is 53). Lo stesso tema è trattato nel libro del profeta Geremia: l’agnello mansueto, che viene condotto al macello (cfr. Ger 11,19). L’agnello era atteso per il momento definitivo, escatologico; sarebbe stato colui che avrebbe rinnovato il mondo: agnello vittorioso. Nell’Apocalisse la figura dell’agnello ritorna sedici o diciassette volte. Giovanni, nel suo Vangelo, vede in Gesù Crocifisso, nell’era in cui al tempio si sacrificavano gli agnelli, il vero Agnello immolato, a cui non è spezzato alcun osso (cfr. Es 12,46), secondo il rituale. Quello che ha detto il Battista è vero, va meditato, è importante per la formazione e il cammino di fede, ma Gesù si pone subito su un altro livello, quello dell’interpersonalità. Allora vengono fuori non soltanto gli scambi di sguardo, ma gli inviti: «Maestro, dove dimori?». “Dimorare” significa molto di più dell’indirizzo di casa, anche perché Gesù ha lasciato Nazaret e da quel momento è itinerante. «Dove dimori?», significa «dove sosti?», «dove dormi?», per dire l’amicizia che Gesù vuole creare con i suoi discepoli. E loro vanno dietro a lui.
A questo punto c’è una pausa, un silenzio: non ci viene detto nulla di quella giornata nella quale i due restano con Gesù: l’amicizia ha i suoi spazi e i suoi tempi di intimità. Siamo noi a dover occupare quello spazio, abitare quel silenzio.
La domanda di Gesù è: «Che cosa cercate?». Sapeva bene che cosa cercassero. Probabilmente i discepoli erano imbarazzati, avendo alle spalle il loro maestro, Giovanni Battista, mentre andavano ad incontrare un perfetto sconosciuto, presentato con parole così solenni e “ad alta definizione”. Gesù fa una domanda sui loro desideri e li conduce, per così dire, nel loro giardino interiore. Non è una domanda sui precetti, ma sul loro desiderio: parola ricca e densa di significato. Gesù vorrebbe che, fra i tanti desideri, facessero spazio dentro di loro per cogliere il Desiderio, perché lui è capace di colmarlo. “Desiderio” è parola latina composta dalla preposizione “de” e dalla parola “sidera” (le stelle). Questa parola nasce da un’intuizione ancestrale: l’uomo proviene dalle stelle, da cielo, è fatto di cielo. Ma sulla terra fa esperienza della lontananza. Da qui la tensione verso l’origine e l’infinito. Gesù si propone come colui che compie il nostro desiderio più profondo.
Dopo che sono stati una giornata con lui – «erano le quattro del pomeriggio (l’hanno ricordato per tutta la vita)» – si vede l’entusiasmo col quale i discepoli tornano da quell’incontro, ma anche il loro cambiamento. A Pietro, Gesù cambia addirittura il nome dopo averlo appena visto: «Tu non sei Simone, ma Pietro», che vuol dire “la pietra”, il fondamento della futura comunità.
Ricordo che ad un incontro col gruppo dei giovani universitari e lavoratori, a cui partecipavano anche ragazzi in ricerca, con vari desideri (tra cui anche quello di trovarsi la fidanzata!), un giovane affermava di essere “credente, ma non praticante” e un amico camerunese scoppiò a ridere. Non capiva come fosse possibile essere credenti e non praticanti (era diventato cristiano da adulto), cioè, essere cristiani ma non abitare con Gesù.
Quali sono i luoghi dove Gesù dimora?
Innanzitutto, come ho già detto, nel nostro giardino interiore. Un altro è nell’esperienza della famiglia e della comunità. Pensiamo al rapporto fra Maria e Giuseppe. Gesù lo dirà nel Vangelo: «Dove due o più sono uniti nel mio nome, io abito in mezzo a loro, “dormo” in mezzo a loro» (cfr. Mt 18,20). Gesù dimora nella nostra chiesa parrocchiale, casa tra le case dove il Signore ha posto il suo nome, dimora nel Tabernacolo dove lui rimane come presenza, azione e autodonazione. Ma c’è una dimora alla quale tutti dobbiamo puntare: è la dimora nella quale Gesù ha preparato dei “posti”. Abbiamo paura dell’ignoto, ma le parole di Gesù sono bellissime: «Vado a prepararvi un posto e quando sarò andato vi chiamerò e dimorerete con me insieme al Padre» (cfr. Gv 14,2-4). Che questa settimana torni spesso questo dialogo: «Maestro, dove abiti?». «Che cosa cerchi?». Alla fine del Vangelo di Giovanni vedremo che Gesù cambierà la domanda rivolgendosi alla Maddalena; non dirà più «che cosa cerchi?», ma «chi cerchi?».

Omelia nella Messa esequiale per don Marino Gatti

Mercatino Conca (PU), 27 dicembre 2023

1Gv 1,1-4
Sal 96
Gv 20,2-8

1.

Rinnovo le più sentite condoglianze a don Erminio e ai familiari di don Marino. Condoglianze che formulo anche ai parrocchiani di Mercatino Conca, di Montealtavelio e di Piandicastello per i legami di paternità e di figliolanza che li uniscono a don Marino.
Senza nulla togliere al dolore dei familiari e senza sottovalutare la nostalgia delle sue comunità, sento che la partenza di don Marino tocca profondamente il nostro presbiterio, la nostra famiglia sacerdotale. Sì, il presbiterio è davvero la nostra famiglia. Don Marino è uno della famiglia che ci ha lasciato, improvvisamente e in punta di piedi. Ci siamo salutati e abbracciati, ma non sapevamo che sarebbe stata l’ultima volta, a fine novembre, durante il corso di Esercizi Spirituali a Ginestreto (PU). Mai avrei pensato che don Marino potesse partecipare, date le sue condizioni già precarie; invece, insieme a don Erminio, è venuto in mezzo a noi portando tanta gioia e contentezza. Dunque, un prete fedele anche agli appuntamenti di famiglia: così si costruisce la famiglia, anche con la presenza… il resto sono chiacchiere!
Momenti come questo, benché mesti, hanno l’effetto di fonderci ancora di più tra noi presbiteri. Al di là delle differenze di età, di formazione, di provenienza, riscopriamo il legame umano e soprannaturale che ci unisce in virtù del sacramento dell’Ordine, in virtù del comune amore sponsale al Signore Gesù che ci ha sedotti (e noi ci siam lasciati sedurre) e in virtù della dedicazione della nostra vita al servizio del Vangelo, dell’Eucaristia e del ministero della Riconciliazione. Ho sentito da molti confratelli che, durante il periodo natalizio, tanti sono andati a rinnovare il sacramento della Riconciliazione. Non abbiate paura ad andare a questo sacramento: la cosa principale non è l’elenco dei peccati che confessiamo (il Signore li sa già, sa anche quelli che non sappiamo), ma è bello professare la sua misericordia, sentirsi amati.
Come vorrei che quanti hanno apprezzato e amato don Marino – soprattutto giovani – si ponessero con verità la domanda: «Signore, io come posso servirti?». E chi sente la vocazione al sacerdozio rispondesse “sì”, con generosità e coraggio, e che tutti sentissimo quanto è necessario, utile e bello il ministero sacerdotale. Sono da lodare la dedizione del volontario, la dedizione al servizio dei poveri e alla promozione umana, ma chi pensa all’anima, chi pensa alle anime? Chi si fa prete e abbraccia, per amore, il sacro celibato non è solo… ha una famiglia, ha e riceve tanto amore, vive paternità vera e gode dell’affetto filiale. Sentite quale rapporto univa sant’Agostino alla sua comunità, in una testimonianza scritta alla morte di un amico: «E poi – scrive – c’erano altre cose che avvincevano il mio animo: le conversazioni e le risate insieme, lo scambio di affettuose gentilezze, la lettura in comune di libri piacevoli, fare insieme cose ora insignificanti ora importanti, contrasti passeggeri, senza rancore, come succede ad ogni uomo anche con se stesso, e con quei contrasti, peraltro così rari, rendere più gustosa l’abituale concordanza di vedute; insegnarci cose nuove a vicenda, sentire acutamente la nostalgia per gli assenti e accoglierli con gioia al loro ritorno: questi e altri simili segni, sgorganti da cuori che amano e si sentono riamati, ed espressi col contegno, con le parole, con lo sguardo e con mille graditissimi gesti, fondono insieme come fiamma gli animi e di molti ne fanno uno solo» (Sant’Agostino, Confessioni, IV,8).

2.

Quella di don Marino è stata un’esistenza missionaria. Rivolgo il mio sguardo, per quanto possibile, ad una vita come la sua nella quale si intrecciano iniziativa di Dio e corrispondenza umana, uno sguardo su un’esistenza veramente presbiterale con i suoi aspetti e le tappe caratteristiche. Nel Vangelo si dice di Gesù che la sua missione era di andare di villaggio in villaggio ad annunziare il Regno e a fare del bene (cfr. Mc 1,32; 6,6; At 10,38). E un prete è inviato, come Gesù, a passare da un luogo all’altro, da una comunità all’altra per permettere così a Gesù di continuare nel tempo il suo ministero.
Don Marino è membro della comunità Papa Giovanni XXIII; a Pietracuta apre una Casa famiglia e diventa sacerdote-padre affidatario; è fra coloro che aprono il centro diurno “Il nodo”. Il mondo diventa la sua “famiglia” con il servizio per sei anni in Mozambico. Rientrato in Diocesi è per decenni responsabile del Centro Missionario Diocesano. I campi di raccolta in Diocesi e i campi di un mese all’estero diventano appuntamento fisso per molti ragazzi e ragazze che negli anni, con don Marino, condividono lo spirito missionario. È parroco dal 1993 a Mercatino Conca, Piandicastello e Montealtavelio. A Mercatino, con don Oreste, vuole la Casa della Pace: giovani che rientrano dalle missioni per “contaminare” questa valle e farla crescere con le loro esperienze. Accoglienza, sorriso, determinazione, a volte anche cocciutaggine – sempre elegante – sono i tratti che hanno caratterizzato il suo servizio pastorale. Era fiero di mostrare nel suo studio i cimeli africani (pelle di serpente compresa, appesa alla parete), donati poi alla Diocesi per l’Ufficio missionario. È stato insegnante di religione nelle scuole medie fino alla pensione, con un occhio speciale ai giovani: “I giovani Valconca” (fiore all’occhiello della vallata). Sempre partecipe alle vicende lieti e tristi dei parrocchiani. «Che bello!»: suo modo frequente di intercalare.

3.

La liturgia della Parola ci fa meditare rispettivamente sull’incipit della “Lettera dell’Amore” – così viene chiamata la Prima Lettera di Giovanni – e sul Vangelo della risurrezione. Potevano esserci letture più appropriate?
Il Vangelo ci riporta alle prime luci dell’alba della Pasqua: Maria di Magdala, Pietro e Giovanni corrono al sepolcro e dal sepolcro, di ritorno, corrono per annunciare – dopo aver verificato la tomba vuota e i lini e il sudario accuratamente deposti – che Gesù è vivo! Lo annunciano per fede, con la fede, nella fede. Quale altro messaggio importa annunciare se non questo: ci riguarda, ci dà speranza, plasma la vita di noi “vivi tornati dai morti” (così san Paolo chiamava i cristiani nella Lettera ai Romani: Rom 6,13).
Permettete citi un detto ferrarese che i nostri vecchi assicurano d’aver sentito, a loro volta, dai loro vecchi. È un detto ironico, ma anche vero: “I preti cantano sul morto”. All’epoca i funerali erano una risorsa per i poveri preti di campagna, questa l’ironia (cantano perché guadagnano qualcosa). In verità, erano, sono, siamo annunciatori della risurrezione: abbiamo il coraggio di cantare in barba alla morte. Se togliete questo annuncio alla nostra predicazione, togliete tutto. Il resto è buona educazione o cortesia.
Qualcuno potrebbe pensare che da duemila anni non è cambiato granché sulla faccia della terra: Cristo non ha salvato nessuno, la risurrezione è un mito senza altro fondamento che la speranza umana di sopravvivere alla morte, si continua a peccare. È vero, il Signore non ha eliminato la morte, neppure il peccato, neppure la sofferenza. Ma, entrando fino in fondo nel dolore, nella disperazione e nell’annientamento, ha inaugurato un altro modo di attraversarli: l’ha fatto continuando a fidarsi del bene che era presente nella croce. È risorto perché ha creduto nella presenza del Padre, persino nel momento in cui sembrava assente: «Chi non ama rimane nella morte». «Passiamo da morte a vita amando i fratelli» (cfr. 1Gv 3,14). «Quello che abbiamo veduto e udito noi lo annunciamo anche a voi, perché anche voi siate in comunione con noi. E la nostra comunione è con il Padre e con il Figlio suo, Gesù Cristo. Queste cose vi scriviamo perché la vostra gioia sia piena» (1Gv 1,4). Così sia!