Omelia nella Liturgia della Passione di Nostro Signore Gesù Cristo

Pennabilli (RN), Cattedrale, 10 aprile 2020

Is 52,13- 53,12
Sal 30
Eb 4,14-16; 5,7-9
Gv 18,1- 19,42

Di fronte a Gesù, che patisce e muore sulla croce, c’è un interlocutore. È l’umanità che nell’orazione del lunedì santo ha pregato così: «Guarda, Dio onnipotente, l’umanità sfinita per la sua debolezza mortale». Umanità poi redenta. Questa umanità, tutta intera, come un sol uomo, è rappresentata dal malfattore che confessa il suo peccato e la gloria di Cristo e perciò riceve la promessa di essere con lui in paradiso: «Oggi». Notate: l’ultimo colloquio di Gesù sulla terra è con un malfattore. L’ultimo che parla, tra noi umani, al Gesù terreno è questo malfattore. Il racconto del “buon ladrone”, di per sé, è proprio dell’evangelista Luca; noi, invece, abbiamo ascoltato il racconto giovanneo della Passione, ma anche in esso non è ignorata del tutto la presenza dei due malfattori (cfr. Gv 19,18). È una sottolineatura – questa che ora mi accingo a commentare – della liturgia e della pietà orientali, che incentrano la meditazione su questo “compagno di via” che il Signore Gesù si è scelto. Egli è compagno sulla via della croce, e poi sulla via del Regno. L’ultima parola con la quale si chiude il racconto della crocifissione e si delinea l’attesa della risurrezione è appunto la memoria del ladro e la speranza di essere ricordato dal Signore nel suo Regno. «Ricordati di me, Gesù, nel tuo Regno» (cfr. Lc 23,42): questa esclamazione orante ritorna continuamente nella liturgia orientale, liturgia che proclama il ladrone come ladro fedele, ladro riconoscente, ladro teologo, ladro giusto. Quattro aggettivi che possono benissimo qualificare ciascuno di noi.
Ladro fedele. Come lui, anche noi – non per i nostri meriti ma per la meraviglia della elezione divina – siamo divenuti discepoli: i fedeli di Gesù. Il Signore ci ha raccolti fra i “rottami” di questa umanità nel momento della resa dei conti: ogni momento lo è, in qualche modo. Ce lo siamo trovati al nostro fianco e ci ha ammessi alla sua compagnia; egli fa delle nostre membra – se lo vogliamo – membra di redenzione con le sue.
Rimaniamo sempre molto stupiti da questa coincidenza: com’è accaduto l’incontro fra Gesù e il ladrone? Perché proprio in quel giorno, in quell’ora, in quel momento? Un caso? Una cosa così importante non può accadere per caso. È un dono!
Ladro riconoscente. Come il ladro, anche noi vogliamo essere riconoscenti per il dono che abbiamo ricevuto. Come il lebbroso risanato, torniamo sui nostri passi per dire grazie. Il profeta denunciava quanti non sapevano essere riconoscenti e grati: «Ho allevato e fatto crescere figli, ma essi si sono ribellati contro di me. Il bue conosce il proprietario e l’asino le greppie del suo padrone, ma Israele non conosce e il mio popolo non comprende» (Is 1,2-3). Questa è l’ingratitudine. Quel ladro è riconoscente. E noi?
Ladro teologo. È teologo perché sa vedere nel Crocifisso – ridotto come un verme, insanguinato, deriso, torturato – il Messia Re, il Signore. Penetra, intuisce il mistero salvifico della crocifissione; va oltre le apparenze ed entra nella verità di quella crocifissione. La liturgia orientale fa pregare così tutti i giorni all’Ora nona: «La tua croce, o Cristo, in mezzo ai due ladri fu come una bilancia di giustizia; l’uno fu trascinato nell’Ade dal peso della bestemmia, l’altro, alleggerito dai peccati, fu guidato alla conoscenza della teologia. O Cristo, Dio, gloria a te».
La liturgia orientale azzarda un confronto fra il ladro e Pietro. «Pietro – continua la liturgia – ti ha rinnegato, mentre il ladro gridava “Ricordati di me, o Signore, nel tuo Regno”». Questo confronto è molto illuminante. Pietro aveva ragione a fondare la sua fiducia sulla rivelazione del mistero di Gesù, che gli era stato svelato «non dalla carne e dal sangue, ma dal Padre» (Mt 16,17). Ma, fin da Cesarea di Filippo, Pietro aveva patito lo scandalo della croce. Eppure, non si può confessare autenticamente la divinità di Gesù senza confessare insieme il mistero della sua passione, morte e risurrezione. Pietro e gli altri amici fuggono e cadono, ma non tanto per viltà o per debolezza, quanto per lo scandalo della croce di Cristo, della sconfitta.
Ladro giusto. Compiuto l’atto di fede, il ladro ottiene la salvezza, la giustificazione, e diventa il tipo di tutta l’umanità salvata, non per le opere giuste da noi compiute, ma per la misericordia del Signore, attraverso il lavacro di rigenerazione e di rinnovamento nello Spirito nel sangue di Cristo. Oggi è finito l’esilio di Adamo, che era stato allontanato dal giardino. Oggi, nel compiersi del mistero pasquale, l’uomo peccatore – il ladro reso giusto – ritorna nel paradiso, capofila, dietro a Cristo di tutta l’umanità peccatrice, indegna. L’umanità redenta, partecipando ai patimenti di Cristo, confessando il proprio peccato e la sua gloria, incontra – sovrabbondante – la grande misericordia. Sono cose grandi… eppure sono proprio per noi!

Omelia nella S.Messa in Coena Domini

Pennabilli (RN), 9 aprile 2020
 
Es 12,1-8.11-14
Sal 115
1Cor 11,23-26
Gv 13,1-15

Prima di consegnarsi alla morte Gesù affidò alla Chiesa il nuovo ed eterno sacrificio. La liturgia chiama questo sacrificio “convito nuziale”. Convito nuziale del suo amore. Dopo un invito così lusinghiero entriamo, sia pure in punta di piedi, nel cenacolo che è qui; entriamo a nome di tanti fratelli, dispiaciuti di non poter essere presenti fisicamente a motivo della pandemia. Ci rendiamo subito conto che il cenacolo non è tanto un luogo fisico, piuttosto uno spazio spirituale, un’atmosfera di stupore, un luogo di Vangelo. Il cenacolo costituisce l’icona a cui la nostra Chiesa locale vuole ispirarsi, perché nel cenacolo è rappresentato quello che è chiamata ad essere, cioè “grembo” che genera vita cristiana, che dice cura, raccoglimento, ma anche apertura. I personaggi che abitano il cenacolo sono modelli di una spiritualità ecclesiale.
Prima di tutto nel cenacolo si gusta «quanto è buono e quanto è soave che i fratelli vivano insieme» (cfr. Sal 133,1). Il cenacolo è il luogo a cui Gesù riconduce i discepoli, perché vivano intensamente la Pasqua: lo chiede espressamente. È la sala grande e addobbata, al piano superiore, in cui si gusta l’Eucaristia. Là Gesù lava i piedi agli apostoli e, insieme al Sacramento dell’Eucaristia, istituisce il Sacramento del Sacerdozio. Il cenacolo è il luogo nel quale Gesù ha pronunciato i discorsi di addio, pieni della promessa dell’effusione dello Spirito. Nel cenacolo Gesù rivolge al Padre la preghiera sacerdotale e consegna ai discepoli il “comandamento nuovo”, che è il suo testamento, la sua ultima e definitiva volontà: «Amatevi gli uni gli altri» (Gv 15,17). Il cenacolo è lo spazio nel quale si è compiuto l’evento della Pentecoste: l’effusione dello Spirito Santo. Dal cenacolo, apparendo a porte chiuse, Gesù inaugura la missione, inviando alle genti gli apostoli, con i suoi stessi poteri per la remissione dei peccati. Nel cenacolo troviamo l’atmosfera per un’intimità profonda: «Rimanete in me e io in voi…» (Gv 15,4). «Non vi chiamo più servi ma amici» (Gv 15,15). C’è l’apertura dei cuori: Giovanni posa il capo sul petto di Gesù (cfr. Gv 13,25); Tommaso mette la mano nella ferita sul cuore (cfr. Gv 20,27). C’è la rivelazione piena: «Mostraci il Padre e ci basta» (Gv 14,8)… E dopo aver detto: «Io sono la via, la verità, la vita, chi vede me vede il Padre» (Gv 14,6; Gv 12,45), gli apostoli possono dire: «Adesso parli apertamente» (Gv 16,29). Se paragoniamo la vita cristiana al battito del cuore, il cenacolo rappresenta il primo movimento, cioè il convenire per attrazione. La nostra Chiesa locale ha bisogno di ritrovarsi con pienezza in questo momento. Poi, il secondo momento sarà la missione fuori dal cenacolo. Come il sangue che viene richiamato al centro del cuore e poi viene mandato ad irrorare ogni parte del corpo: momenti diversi e successivi, ma inseparabili in un organismo vivo.
Chi valutasse questo mio parlare come intimismo o vago spiritualismo dimentica le notti passate da Gesù in preghiera, non ricorda l’intimo suo conversare con il Padre, persino sulla croce, col Salmo 17: «Padre mio, nelle tue mani affido il mio spirito» (cfr. Lc 23,46), o col Salmo 22: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?» (cfr. Mt 27,46; Mc 15,34). La vita interiore è stata ed è la risorsa delle grandi anime apostoliche. Se in questo tempo di “Coronavirus” abbiamo una lezione è quella di averci fatto ritrovare l’umiltà e l’umiltà è indispensabile per la preghiera. E la preghiera ci porta alla vita interiore.
Ho ricevuto da tanti la testimonianza, qualche volta la protesta, per lo struggente desiderio di partecipare alla Messa e poter fare la Comunione. Come non raccogliere questa sera, la sera della cena di Gesù con i suoi, la sera dell’istituzione dell’Eucaristia, questo desiderio?
I nostri parroci, pur consapevoli che è tutt’altra cosa, ci propongono, di tanto in tanto, la Comunione spirituale. Si tratta di un pio esercizio reso celebre da sant’Alfonso Maria de’ Liguori, napoletano verace. La Comunione spirituale ha tre elementi che la valorizzano.

  1. La Comunione spirituale è una professione di fede nell’Eucaristia. È molto bella, potremo farla anche quotidianamente, perché si inizia con la dichiarazione: «Signore, io credo che sei presente nel Santissimo Sacramento, offerto dai sacerdoti sull’altare. Ciò avviene per l’ammirabile conversione di tutta la sostanza del pane e del vino nella sostanza del corpo, sangue, anima e divinità di Nostro Signore Gesù Cristo. Facendo la Comunione spirituale si rinnova questo atto di fede. Desideri l’Eucaristia, ti rammarichi di non poterla ricevere, ma intanto professi la fede della Chiesa.
  2. Nella Comunione spirituale si esprime un desiderio. Questo desiderio è già, in qualche modo, una forma della presenza del Signore. La presenza del Signore è racchiusa nel desiderio perché è lui che lo suscita. Il desiderio dice assenza, ma reclama un compimento, indica una presenza avvertita come promessa. Il Signore mantiene la sua promessa: «Ecco – dice – io sto alla porta e busso, se qualcuno mi apre io verrò a lui, cenerò con lui e lui con me» (Ap 3,20). Questo svolgersi del desiderio è un po’ quello che accade alla protagonista del Cantico dei cantici. È notte. La fanciulla è salita nella stanza superiore, si è tolta la veste, si è lavata i piedi, sta per addormentarsi, sussurra: «Io dormo, ma il mio cuore veglia» (Cant 5,2). Sente bussare alla porta. La prima reazione è un rinvio, una sospensione. Ma poi il profumo dell’amante la risveglia: corre, scende per le scale, per l’incontro amoroso. Ma lui se n’è andato. Così com’è, in vestaglia, la fanciulla si precipita a cercarlo, corre per le vie, c’è un inseguimento e ci sono le guardie della città che la fermano. Ma l’incontro è soltanto rinviato di un po’. Ci sarà e sarà indicibile. La Comunione spirituale è un mezzo, uno stratagemma dei direttori spirituali, per educarci al desiderio. Cavar fuori, rendere esplicito il desiderio, accrescerlo, potenziarlo. Chi fa tutto questo se non l’amante, il Signore? Il Signore ci sta a questo “gioco d’amore”. Allora viviamo così questo tempo. La presenza del diletto è un dono, non un diritto. Forse questo digiuno, questa astensione, questa pausa che fanno tanto soffrire, ce lo ricordano. Ricordati: l’Eucaristia è un dono. Pensa ai cristiani che solo raramente possono partecipare all’Eucaristia. Ricorda quelli che desidererebbero riceverla, ma in obbedienza alla Chiesa si astengono. Rompiamola con le Comunioni abitudinarie, mettiamo più cuore nel rito. Lo vado ripetendo: verrà il momento in cui potremo finalmente accorrere all’Eucaristia, tanto desiderata. Fra tre settimane? Fra un mese? Fra due mesi? Non lo sappiamo, ma allora sarà come fare la Prima Comunione. Ve la ricordate la Prima Comunione? Che palpitazione, che emozione… Prepariamola!
  3. Nella Comunione spirituale c’è lo spazio per il colloquio “a tu per tu” con il Signore. Siamo un popolo che si raduna in Santa Assemblea, la Chiesa. Siamo una famiglia, che si riunisce allo spezzare del pane, ma siamo anche l’amico che si intrattiene con l’amico, lo sposo che incontra la sposa. La sposa del Cantico cerca il suo diletto e non trovandolo chiede: «Avete visto l’amato del mio cuore?» (Cant 3,3). Al tempo del poeta ispirato che ha composto il Cantico dei Cantici non vi era Gesù sulla terra, ora invece se uno ama Gesù e lo va cercando con ardore, lo trova sempre, lo trova nel sacramento dell’Altare. Questo è il mio augurio per tutti noi in questa notte santa.

Omelia nella Domenica delle Palme

Pennabilli (RN), Cattedrale, 5 aprile 2020

Is 50,4-7
Sal 21
Fil 2,6-11
Mt 26,14- 27,66

«Andate in città da un tale e ditegli: “Il Maestro dice: Il mio tempo è vicino; farò la Pasqua da te con i miei discepoli”» (Mt 26,18).
La lettura della Passione secondo Matteo comincia proprio così: «Farò la Pasqua da te». È il desiderio di Gesù: fare la Pasqua con ciascuno di noi.
Signore, tu vedi questa cattedrale assolutamente vuota e chiusa a causa della prepotenza di un virus finora sconosciuto. Come possiamo accoglierti in modo conveniente? Questa parola rivolta a «quel tale» è per ognuno di noi: «Signore, tu vedi il cuore afflitto, provato, che fatica a riaversi da settimane di ansia, di chiusure, di diffidenze e non sa fino a quando…».
Ci stai dando una lezione: ci chiedi di guardare a te, di uscire dai nostri ripiegamenti, di guardare alla tua Passione e al dono che hai fatto di te stesso sulla croce e, con questo sguardo e in questo sguardo, vedere e abbracciare il dolore, la passione, di tante sorelle e di tanti fratelli. Comprendiamo – adesso più ancora e sulla nostra pelle – che la famiglia umana è profondamente una, interdipendente, relazionale, spiritualmente, biologicamente, economicamente, culturalmente; contiene in sé, come suo DNA, la fraternità, che è dono e compito. Ci riceviamo come fratelli e abbiamo il compito di vivere la fraternità. Ce lo ricordava papa Francesco nel momento straordinario di preghiera in tempo di epidemia del 27 marzo scorso: «Con la tempesta è caduto il trucco di quegli stereotipi con cui mascheravamo i nostri “ego” sempre preoccupati della propria immagine; ed è rimasta scoperta, ancora una volta, quella (benedetta) appartenenza comune alla quale non possiamo sottrarci: l’appartenenza come fratelli». Allora anche il nostro sguardo, Signore, si estenda su tutto l’orizzonte, abbracci il tuo progetto, «ut omnes unum sint» (Gv 17,21) e che la tua Chiesa allarghi davvero la sua tenda, come ci sta quotidianamente ricordando papa Francesco. Tu dici, Signore: «Ecco, sto alla porta e busso. Se qualcuno mi apre io verrò da lui, cenerò con lui e lui con me» (Ap 3,20). Veniamo da una Quaresima di digiuno dalla Santa Eucaristia. Ne abbiamo nostalgia, soffriamo dell’assenza di quel pane necessario per il cammino, soprattutto per questo cammino difficile. Ci fai capire, a dispetto del  modo a volte superficiale e scontato di nutrircene, quanto questo pane sia prezioso e indispensabile. A volte ci chiediamo se questa circostanza non costituisca una purificazione e non ci unisca di più ai cristiani costretti alla lontananza dai Santi Misteri. In questi giorni abbiamo preso coscienza di altre forme della tua presenza. Il «due o più» nella comunità ecclesiale, nella famiglia, soprattutto in questi giorni. «Dove due o più sono uniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro» (Mt 18,20). E poi la tua presenza nel fratello: «L’avete fatto a me» (Mt 25,40). Anche un bicchier d’acqua fresca non perde il suo significato. Inoltre, ci insegni ad adorare Dio «in spirito e verità»: aprire la sua Parola, leggerla insieme, portarla nel cuore e farne il riferimento per i nostri rapporti reciproci.
Tu, Signore, vuoi “fare Pasqua” ardentemente con noi: «Desiderio desideravi hoc Pascha manducare vobiscum» (Lc 22,15).
Ecco, nell’Eucaristia, svelato il significato della tua Passione. La cena che tu prepari per i tuoi discepoli è la chiave per capire l’intera tua vita, prossimità totale con noi fino al dono della vita: «Avendo amato i suoi, li amò sino alla fine» (Gv 13,1).
Nella tua Passione ci insegni – lezione indispensabile per questi giorni – la piena fiducia nel Padre, mai venuta meno perfino nel momento terribile della percezione della sua assenza. «Con forti grida e lacrime» (Ebr 5,7) hai pregato e sei stato esaudito. Intendiamoci: l’esaudimento fu il saper vivere da figlio e da fratello, per noi, la tua Passione. Così ridici a ciascuno di noi, anche oggi, «guarda se in me vedi altro che amore» (Angela da Foligno, Memoriale, IV, 193).

Discorso in occasione dell’Insediamento dei Capitani Reggenti

San Marino, 1° aprile 2020

Eccellenze,
un’immagine mi balena nel cuore in questa circostanza: quella di una staffetta nella quale ci si passa un rotolo di pergamena sigillato. Chi cede la Reggenza ha avuto in sorte di trovarci scritti eventi importanti. Tra i previsti l’incontro quotidiano, e sempre nuovo, con i cittadini, ognuno con il suo carico di attese, a volte di rivendicazioni, sempre bisognosi di attenzione. Nel semestre passato i Capitani Reggenti uscenti avevano il mandato di moderare il rito tra i più delicati della nostra Repubblica: le elezioni politiche. Tra gli imprevisti la tragedia, tutt’ora in corso, della pandemia da Covid-19. Mai avrebbero immaginato che quel rotolo riservasse tale sorpresa. Dico grazie per la Loro sollecitudine e la Loro dedizione. Vorrei, se ce ne fosse bisogno, togliere dal cuore ogni timore di non aver fatto abbastanza, sentimento che proviamo tutti.
Ora il rotolo sigillato passa nelle mani dei nuovi Capitani Reggenti; anche a loro dico grazie per il “sì” che hanno pronunciato accogliendo la proposta che il Consiglio Grande e Generale ha rivolto Loro. Un “sì”, in un certo senso, al buio, perché chiamati a svolgere un altro segmento dello stesso rotolo senza sapere cosa contiene. Ci auguriamo e auguriamo Loro di traghettarci verso “il dopo Covid-19”. Chi è costituito in autorità diviene punto di riferimento: a lui si chiede anzitutto di essere presente, reperibile, disponibile. Poi, di essere luce: nel buio una luce, per piccola che sia, si vede da lontano. Brillare, non tanto di luce propria, ma della luce delle nostre tradizioni civili, giuridiche, ideali. Un punto di riferimento dà sicurezza. È normale che chi è persona pubblica cada sotto il giudizio di tutti: accontenta e scontenta. Che fare? Pensare, decidere, agire sempre secondo coscienza, illuminata, retta e serena. Dunque, presenza, luminosità, sicurezza.
L’immagine del rotolo sigillato è familiare, in questi giorni, alla liturgia della Chiesa (Lettera agli Ebrei). Si dice del Messia che, entrando nel mondo, prima ancora di aprire il rotolo, proclami con fiducia: «Ecce, venio: in capite libri de me scriptum est». Che il Messia sia Loro di esempio.
Eccellenze, vi accompagniamo con tutta la stima e la considerazione.

Saluto del Vescovo ai Capitani Reggenti in pellegrinaggio alla Basilica del Santo Marino

San Marino Città (RSM), Basilica del Santo, 1° aprile 2020

Eccellentissimi Capitani Reggenti,
rinnovo il mio augurio per il vostro mandato.
Mi ha fatto particolarmente contento questo vostro pellegrinaggio alla Basilica del Santo Marino. So che siete passati davanti alla sede della Protezione Civile e poi farete sosta all’Ospedale di Stato: tutti luoghi che ci richiamano alla responsabilità necessaria per la grave epidemia che si è abbattuta anche sulla nostra Repubblica. Papa Francesco l’ha paragonata ad una tempesta!
Permettetemi di citare alcune parole del Papa: «La tempesta smaschera la nostra vulnerabilità e lascia scoperte quelle false e superflue sicurezze con cui abbiamo costruito le nostre agende e i nostri progetti… La tempesta pone allo scoperto tutti i propositi di “imballare” e dimenticare ciò che ha nutrito l’anima dei nostri popoli; tutti quei tentativi di anestetizzare con abitudini apparentemente “salvatrici”, incapaci di fare appello alle nostre radici e di evocare la memoria dei nostri anziani, privandoci così dell’immunità necessaria per far fronte all’avversità» (Papa Francesco, Momento straordinario di preghiera in tempo di epidemia, 27 marzo 2020).
L’anima del nostro popolo sammarinese e le sue radici sono una sintesi, forse unica, sicuramente originale, di come la dimensione religiosa e la dimensione civile possano coesistere, dando vita ad una comunità capace di esprimere, in forza di questa sintesi, il massimo di rispetto della persona e di democrazia.
Le nostre istituzioni, e la Reggenza in particolare, portano nella loro forma e nella loro sostanza questa impronta. Questa è la prima risorsa da recuperare per la ricostruzione.
Chiediamo l’intercessione del nostro Santo Fondatore. Andiamo avanti insieme verso il futuro, ben piantati sulle antiche radici.

Omelia nella V domenica di Quaresima

San Marino Città (RSM), 29 marzo 2020

Ez 37,12-14
Sal 129
Rm 8,8-11
Gv 11,1-45

A prima vista pare un semplice miracolo, un gesto di potenza da parte di Gesù, che fa rivivere un morto per consolare una famiglia disperata. In realtà, al centro del racconto vi è Gesù con le sue clamorose dichiarazioni. Attorno a lui si muovono vari personaggi, che prendono diverse posizioni. Propongo un esercizio per la preghiera: in quale dei personaggi mi identifico? Quale posizione prendo?

Qualcuno potrebbe decidere di mettersi nel gruppo dei discepoli che assistono alla scena e vi partecipano. I discepoli sanno quanto Gesù era amico di Lazzaro; dicono tra loro: «Vedi come lo amava». E poi, rivolgendosi a Gesù, provano a consolarlo: «Il tuo amico è in fin di vita. Ci dispiace. Per lui è finita. Rassegnati. Fattene una ragione e pensa ad altro». Anche loro amano Gesù, ma di fronte al dolore, alla morte, alla sconfitta, sanno solo cercare di chi è la colpa. L’abbiamo sentito nella pagina evangelica di domenica scorsa (il racconto del “cieco nato”): «Se è cieco, di chi è la colpa? Sua o dei suoi genitori?». I discepoli sono solo capaci di fare condoglianze. Gesù, invece, non sopporta i soliti discorsi. «Questa malattia non è per la morte, ma per la gloria di Dio». Un invito a capire come questa sconfitta possa essere trasformata in luce, in vittoria, dai disegni di Dio.

Qualcuno di noi potrebbe mettersi nei panni dei parenti di Lazzaro. Costoro sono credenti, ma la loro è una fede interessata, incline a chiedere miracoli: «Non poteva far sì che questi non morisse?». Non chiediamo tanto – sembrano dire – solo un po’ di salute, qualche anno in più di vita; quasi che il Signore – questo è il retropensiero – fosse tirchio, insensibile; mentre invece lui sta per offrire molto di più: la vittoria sulla morte. Dirà, infatti: «Tuo fratello risorgerà». Altro che tirchio e insensibile! Gesù piange, si commuove. Questa mattina il Santo Padre ha invitato a fare di questa giornata “la giornata delle lacrime”. Gesù ha pianto varie volte nella sua vita terrena, perché si è messo nei panni delle persone. Non guarda insensibilmente. Ha pianto su Gerusalemme, che non accettava l’invito alla conversione, ha pianto nel giardino del Getsemani e piange per la partenza dell’amico Lazzaro. Forse in questi giorni, travolti dalle cronache dei telegiornali, può succedere che si formi come una patina nel nostro cuore, non per cattiveria, ma quasi per difesa. Non ci si lascia commuovere fino in fondo, a meno che non sia coinvolto uno di famiglia o un amico intimo. Proviamo, quando entriamo nella preghiera, a lasciarci commuovere, come Gesù. Chiediamo il dono di saper piangere.

Qualcuno di noi potrebbe identificarsi nelle sorelle di Lazzaro, Marta e Maria, ognuna col suo temperamento. Marta e Maria compiono un vero itinerario, un vero cammino di fede. All’inizio sono renitenti, anche loro si lamentano come gli altri: «Se tu fossi stato qui… Ora è troppo tardi». Ma poi l’affetto per Gesù riveste in loro la speranza: «Sappiamo che risorgerà nell’ultimo giorno». Un’ulteriore provocazione di Gesù le invita ad andare oltre la comune speranza ebraica nella vita eterna, a credere che chi è unito a lui nella fede e nell’amore risorge già ora, esce dal sepolcro. Del resto, l’evangelista Giovanni ci dirà nella Prima Lettera che «passiamo dalla morte alla vita quando amiamo» (cfr. 1Gv 3,14). È vero che si muore tante volte nella vita, basti pensare ai distacchi, agli abbandoni, ai fallimenti, alla malattia, all’invecchiamento (tutte morti in qualche modo), ma è anche vero che si comincia da bambini, poi si va avanti da giovani, da adulti e da anziani, ad amare e ogni volta che si ama – lo dice la Parola di Dio – «si passa da morte a vita». Quanta risurrezione anche in questi giorni così difficili! Dedizione agli altri, a volte a distanza, ma c’è una prossimità più forte che si raggiunge con la preghiera e con l’uso di mezzi di comunicazione (c’è chi, in questi giorni, si è finalmente “alfabetizzato” e riesce a usare meglio il cellulare, il computer, le videochiamate, a fare riunioni in videoconferenza… Attraverso questi mezzi si trova comunione, ci si aiuta, si fanno riflessioni costruttive). Ebbene, le due sorelle fanno tutto questo cammino. «Non ti ho detto che se credi vedrai la gloria di Dio?»: sono parole che ci fanno crollare e ci fanno ricordare che Lazzaro è stato rianimato, ma non fu risurrezione definitiva, perché poi è morto di nuovo. Se uno crede in Gesù, vive con lui, sta con lui, fa questa esperienza di fede profonda. Chiediamo a Gesù che ci doni la fede, chiediamo a noi di alzare lo sguardo. Lui ci dice: «Guardami!». Gli antichi raffiguravano la morte come il passaggio di un fiume. La creatura, quando è sul bordo di questo fiume, ha paura, non osa avanzare, prende il sopravvento l’insicurezza. È normalissimo. Gesù tende la mano e dice «guardami, abituati ad essere sotto questo mio sguardo». Questa settimana ascolteremo il suo invito: «Guardami, stai con me». Questo ci preparerà a vivere la risurrezione.

Preghiera presso il cimitero di Pennabilli

27 marzo 2020

1.

In questi giorni di epidemia le nostre comunità cristiane si adeguano responsabilmente a quanto chiedono le autorità, ma non rinunciano a vivere meglio possibile il messaggio del Vangelo ed a testimoniarlo, oggi anche con la visita ai cimiteri. Un’opera di misericordia. Sono qui nel campo santo di Pennabilli, la città vescovile centro della Chiesa particolare di San Marino-Montefeltro. Ma idealmente varco la soglia di tutti i cimiteri della Diocesi per fare una preghiera di suffragio, specialmente per quanti sono morti a causa del Coronavirus.
Sono qui per sentire il respiro della Chiesa intera: Chiesa che è nello stato di purificazione, Chiesa dei beati che sono già nella luce e nella festa del Cielo, Chiesa di noi che siamo nel tempo dell’esodo e della lotta. Non tre Chiese, ma un’unica Chiesa corpo mistico del Signore e sua sposa.
Son qui per compiere un gesto di misericordia verso chi ci ha lasciato senza poter dare un ultimo saluto ai suoi cari, senza quella stretta di mano che fa sentire vicinanza e “compassione”, senza un rito funebre nel quale le famiglie, gli amici e la comunità esprimono la loro pietà.
Infine, sono qui anche per promettere che – quando la prova sarà superata – renderemo loro onore insieme ad una preghiera corale di suffragio.

2.

La pandemia mette in crisi quella supponenza che può tradursi in dimenticanza della nostra fragilità fino a nascondere la morte. Come discepoli di Gesù crediamo nella risurrezione e in forza di questa nostra fede attendiamo la vita eterna senza confonderla con la pretesa e l’illusione di essere immortali. Come creature siamo mortali e la morte, unitamente alle tante morti che dobbiamo attraversare nella vita, è parte integrante della nostra umana avventura. “Memento homo quia pulvis es et in pulverem reverteris”. In questo momento in cui tanti si rendono conto, quasi improvvisamente, di essere mortali, come Chiesa, insieme e pubblicamente, abbiamo un messaggio da testimoniare e da trasmettere in forza del nostro Battesimo e del mandato ricevuto da Gesù (cfr. Mt 28,19-20).

3.
L’annuncio della speranza cristiana si fa ancora più urgente e forse persino più udibile e atteso dai nostri fratelli e dalle nostre sorelle in umanità.
È il momento di una testimonianza discreta e appassionata della “speranza” che ci abita e ci anima (cfr. 1Pt 3,15).
Con questa consapevolezza diventeremo capaci di quell’ottimismo che è l’unico ad essere alla portata della nostra umanità.
Annunciare il Vangelo della vita comporta la capacità e il coraggio di stare dentro la sofferenza e persino la morte. La morte è chiamata nella liturgia “dormizione”, e i luoghi dove i morti dormono in attesa della risurrezione sono chiamati “cimiteri”, cioè “dormitori”, ma si deve considerare che la serenità della nostra morte è frutto della “dura morte” del Signore Gesù che l’ha vissuta non come liberazione dalla vita, ma come dono per affermare che l’amore è più forte della morte.
San Paolo nella Prima lettera ai Tessalonicesi – il primo scritto del Nuovo Testamento – scriveva: «Non vogliamo fratelli lasciarvi nell’ignoranza circa quelli che sono morti, perché non continuiate ad affliggervi come gli altri che non hanno speranza. Noi crediamo, infatti, che Gesù è morto e risuscitato; così anche quelli che sono morti Dio li radunerà per mezzo di Gesù insieme con lui. Questo vi diciamo sulla parola del Signore… Confortatevi dunque a vicenda con queste parole» (1Tes 4,18).
In questa esortazione c’è compassione e c’è fede. Del resto, la liturgia cristiana non conosce lacrime, se non lacrime asciugate.

Omelia nella IV domenica di Quaresima

San Marino Città (RSM), chiesa di san Francesco, 22 marzo 2020

1Sam 16,1.4.6-7.10-13
Sal 22
Ef 5,8-14
Gv 9,1-41

Questa stupenda pagina di Vangelo è la storia di un uomo che soffre: un cieco dalla nascita; un cieco dal punto di vista clinico, ma soprattutto dal punto di vista esistenziale. Noi spontaneamente lo pensiamo innocente, ma nella mentalità dell’epoca, quando c’era una malattia, si cercava sempre un colpevole: «È colpa sua o dei suoi genitori?». Quindi, il cieco è vittima di un giudizio di tutti, a cominciare dai discepoli di Gesù (sono loro che pongono la questione). È vittima anche della legge e della intransigenza dei farisei; vittima, perfino, della emarginazione della sua famiglia. «Ha l’età – dicono – parlate con lui…» (cfr. Gv 9,21). È il dramma dell’isolamento, della solitudine dell’uomo che soffre. Questo pensiero raggiunge certamente chi, in questo momento, vive una situazione simile. Ma a questo dramma partecipa Gesù. Non sappiamo il nome del “cieco nato”; non sappiamo nulla di lui. Gesù lo guarisce nonostante sia sabato. Ma questo non fa che scatenare il furore dei farisei che pensano addirittura di mettere a morte Gesù. Un giorno Gesù conoscerà, per esperienza diretta, l’abbandono da parte di tutti, la sofferenza, la solitudine. Verrà crocifisso fuori dalla città. L’uomo che recupera la vista è davvero una persona semplice, che ci riesce simpatica. Si lascia fare da Gesù quello che gli dice: prende l’impiastro che Gesù ha preparato, va a lavarsi gli occhi a Siloe e poi testimonia, con semplicità e coraggio, a chi gli fa domande. Sette volte viene interrogato. Per lui non c’è nessuna ombra, nessun dubbio: «Non ci vedevo, adesso ci vedo». «Perché tentennare tanto?», sembra dire il cieco. Non basta questo segno? Per questa sua bella disposizione di cuore quest’uomo accoglie la luce. Ad essere illuminata non è soltanto la sua esistenza fisica, ma anche la sua vita interiore. Così, lui potrà fare la sua bella professione di fede: «Io credo, Signore». Quella cecità esistenziale trova la luce, il senso della sua vita.
Questa mattina il Santo Padre, durante la Messa in Santa Marta, ha aperto il suo breve pensiero citando una frase di sant’Agostino: «Ho paura del Signore che passa». Ha spiegato che non si tratta della paura del Signore: sant’Agostino non aveva paura di Gesù, come non l’abbiamo noi. Ma paura di perdere un’occasione preziosa. Paura di non accorgersi del suo passaggio. Paura perché al suo passaggio vengono fuori i veri sentimenti: esce il meglio e il peggio! In effetti, vediamo nel brano quasi una divaricazione tra le persone che sono davanti a Gesù. Gesù dice: «Io sono la luce del mondo; di fronte a me non si può restare indifferenti». Il cieco si apre; i farisei si chiudono ostinatamente. Anche noi siamo posti di fronte a questo dramma, perché il Signore potrebbe risplendere invano davanti a noi, se ci chiudiamo. Nella Seconda Lettura, Paolo dice agli Efesini: «Badate bene, voi non siete delle tenebre, siete della luce» (cfr. Ef 5,8). Bisogna situare nel contesto questa frase di san Paolo. Molti dei primi cristiani abitavano nei tuguri a ridosso del grande tempio, l’Artemision. Era un tempio meraviglioso, un traforo di marmi bianchi, splendenti, una delle sette meraviglie del mondo antico. Davanti al tempio era stato scavato un lago che rifletteva la luce del sole. L’Artemision era il manifesto della presunta luminosità della religiosità pagana. Di fronte ad esso san Paolo dice: «Voi siete luce». I cristiani non devono temere. Non devono stare nel buio come i pipistrelli. Devono portare la luce.
Invito tutti noi ad avere questa mentalità di luce. Gesù ci ha illuminati. È accaduto nel Battesimo. Come dicevamo la scorsa domenica, non siamo soltanto anfore riempite di acqua, ma siamo, a nostra volta, sorgenti di acqua. Così oggi possiamo dire, in virtù del Battesimo, che siamo sorgenti di luce.
Faccio una proposta per questi giorni. Vorrei fossimo uniti tra noi: uniti facciamo più luce, con le parole dell’amicizia, dell’incoraggiamento, della speranza. Troviamo il modo in famiglia di fare una preghiera semplice, intonata dai bambini, che sono più disinvolti e coraggiosi, e in quel momento accendiamo una piccola luce. Ci ricorderà la luce che ci è stata data nel giorno del nostro Battesimo.

Fattiva collaborazione per il bene comune

È Quaresima inoltrata. Per i cristiani è il tempo del loro esodo: un cammino reale che li sottopone, come tutti, ad una prova che purifica la loro fede e la loro azione. C’è chi immagina un Dio che dovrebbe fare esattamente quello che ci si aspetterebbe da lui, ossia sconfiggere il male in un baleno, ma è una figura costruita sui propri bisogni.
La realtà ci sta mettendo davanti al Dio vero, quello della Rivelazione biblica: un Dio che ascolta il grido di Israele e fa udire la sua voce a Mosè; spinge il popolo a mettersi in cammino, mentre lui cammina con loro, e apre il mare al suo passaggio. Ma in fondo questo Dio non piace, perché costringe chi vuole conoscerlo davvero ad andare nel deserto dove non c’è il cibo dell’Egitto, l’acqua scarseggia e i serpenti sono una minaccia reale. Affrontando la prova il popolo diventerà adulto. Dunque, non una fede in un Dio “tappabuchi”, né una fede miracolistica, ma una fede come abbandono fiducioso e coraggio intraprendente fino al dono di sé. Riprenderemo, poi, le attività e il servizio pastorale come discepoli più maturi.
Da oggi si aggiungono restrizioni ulteriori sui luoghi di culto. Decisione presa dalla Repubblica di San Marino con Decreto-legge n.52 del 20/3/2020, art.1 n.1.r.
Motivazione: ragioni di prevenzione e di contenimento del contagio.
Una decisione così radicale sta suscitando reazioni comprensibili: la rivendicazione del libero esercizio del culto e la possibilità della “chiesa aperta” come segno di speranza (anche se, di fatto, non si dovrebbe andare in chiesa per le limitazioni di movimento già stabilite). Reazioni degne di rispetto. Occorre, però, riflettere senza spinte emotive e riconoscere che la situazione che le autorità son chiamate a governare è di una complessità mai vista, della quale possiamo cogliere solo alcune evidenze. Non spetta alla Chiesa, ma allo Stato legiferare in ordine alla salute pubblica.
È questo e soltanto questo il piano sul quale si devono assumere decisioni circa l’accesso ai luoghi di culto, senza richiamare principi che sanno tanto di ideologico. Prudenza e cautela sono per i cattolici, anzitutto, ossequio alla loro coscienza. In tempo di emergenza come quello presente la comunità cristiana sa trovare vie nuove per adorare Dio «in spirito e verità» e per esprimere fraternità solidale, come già sta cercando di fare.

Continua a leggere

Omelia nella Solennità della Beata Vergine delle Grazie

Pennabilli (RN), Cappella del Vescovado, 20 marzo 2020

“Venerdì Bello”

Prv 8,22-31
Sal 44
Ef 1,3-6.11-12
Lc 1,26-38

1.

La liturgia della Parola ha esordito con un tratto del libro dei Proverbi. Vi sono riferite espressioni fortissime: «Il Signore mi ha creata sin dall’inizio della sua attività, prima di ogni sua opera. Dall’eternità sono stata costituita, fin dal principio quando ancora non aveva fatto la terra e i campi e le prime zolle del mondo, quando fissava i cieli, io ero là». Parole che si riferiscono alla Sapienza increata di Dio, parole che si riferiscono, leggendole nel contesto di tutte le Sacre Scritture, al Verbo. Il Concilio Vaticano II ci autorizza ad applicarle alla Madre del Signore, allo stesso modo fa anche la liturgia. Così dice la Lumen Gentium: «La predestinazione eterna della incarnazione del Verbo fu anche la predestinazione della Beata Vergine Maria ad essere la Madre di Dio. […] Assunta in Cielo non ha deposto questa funzione di salvezza, ma con la sua molteplice intercessione continua ad ottenerci le grazie della salvezza eterna. Con il suo materno amore si prende cura dei fratelli del Figlio suo che sono ancora pellegrini e posti fra tanti pericoli ed affanni» (LG 61).

2.

Predestinazione della missione redentrice del Verbo e, in lui, predestinazione della madre… Che bello!
Anche noi predestinati da Dio, come dice la Seconda Lettura, «ad essere suoi figli adottivi» (Ef 1,5), conformi al Verbo, «primogenito di tutta la creazione» (Col 1,15). Siamo pensati dall’eternità, pensati nel Verbo e pensati con una Madre così! Quello che è detto per il Verbo incarnato vale per tutta la Chiesa, per tutti noi. La Chiesa è prefigurata fin dal paradiso terrestre, nella figura di Eva; ma in realtà ancora più anticamente, cioè da sempre, occorre vederla in Dio, prima dell’inizio del mondo: «Essa fiorisce con il Cristo dalla volontà del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. In quella misteriosa sapienza che presiede con il Creatore alla creazione stessa si deve ravvisare la Chiesa» (H. De Lubac, Meditazione sulla Chiesa, 2014, p. 52). Che bello questo disegno su di noi, questo squarcio che abbraccia passato, presente, futuro! A questa contemplazione ci conduce la Seconda Lettura.

3.

Il Vangelo ora ci prende per mano e ci fa entrare nella casa di Nazaret. Dal Cielo del Cielo, al Cielo sulla terra: Nazaret. Entriamo nella casa di Nazaret in punta di piedi. Impariamo alla scuola di Maria il raccoglimento, condizione prima e indispensabile per andare in profondità ed ascoltare quello che il Signore vuole dirci, oggi e in questo tempo così difficile.
L’angelo entrò da lei, la fanciulla di Nazaret. Anche la mia Nazaret, pur tra tante voci che l’attraversano, può essere casa del raccoglimento, atmosfera spirituale, spazio formativo. Un luogo interiore ed un luogo esteriore, vero angolo di preghiera, forse disadorno, ma col sapore di quella casa, la casa di Nazaret. È lì che Dio mi sfiora, mi passa accanto. Dio non ci sfiora solo nelle belle liturgie della nostra cattedrale, in quella che avremmo dovuto celebrare al Santuario della Madonna delle Grazie (accanto a me potete vedere la riproduzione di come era anticamente l’affresco della Madonna; probabilmente le persone più anziane la ricordano così), ma anche nel quotidiano più feriale. Così in questa Messa, dove il sublime confina con questa candida tovaglia, con il calice e con il pane che è stato preparato.
Nazaret è anche il nostro cuore, quando lo custodiamo e lo difendiamo dal chiacchiericcio, dalla impertinenza dei giudizi, dall’invadenza dell’immaginazione e, in questi giorni, dalle nubi oscure della disperazione e del panico.
La prima parola che esce dalla bocca dell’angelo è una parola di gioia: «Rallegrati, Maria». Anche nel mondo antico c’era ben poco da stare allegri. È troppo riduttivo pensare a questa parola e tradurla con “Ave”. Le parole del saluto angelico appartengono più alle promesse messianiche che al galateo; invitano Maria alla gioia prima ancora che si espliciti il dialogo con le sue conseguenze. Non si tratta di una gioia effimera e intimistica. È gioia per un amore incondizionato che precede la sua vita; per una presenza che renderà colma di significato la sua esistenza e decisiva la sua missione verso l’umanità. Allo stesso modo Dio vuole entrare nella nostra vita, vuole abitare la nostra povertà, fecondare le nostre sterilità, illuminare il nostro buio. La parlata dell’angelo a Maria è costituita da un rammendo di citazioni bibliche. In questo modo viene svelato alla Vergine il compimento delle antiche promesse. Ed è ciò che fa prendere coscienza a Maria del suo destino eccezionale e che a noi annuncia la vera identità del nascituro. Colui che la fanciulla di Nazaret sta per concepire è il Messia! Dio finalmente visita il suo popolo. Noi non sapremo mai come è avvenuto il concepimento, ma questo non è essenziale: dobbiamo rispettare l’intimità di una donna. Anche nella nostra vita è accaduta un’annunciazione: il Verbo vuol prendere carne in noi. Come Maria gli diciamo: «Eccomi!».

4.
La mia riflessione cambia un po’ di tono – perdonatemi – ma è necessario. Dobbiamo porci onestamente e con molto rispetto una questione di non poca importanza: se cioè la protesta, anche garbata, contro le restrizioni imposte dalle autorità (ma prima dalla nostra coscienza) in questi giorni, è animata dalla fede o non piuttosto da una religiosità che va purificata. Quello che sto dicendo non è estraneo alla spiritualità nazaretana, ad una spiritualità profondamente mariana. Attenzione a non lasciarsi catturare dal falso zelo. Questo tempo ci impone un digiuno eucaristico che per noi costituisce una novità, una novità che fa soffrire, ma purtroppo è una triste necessità in tante regioni del mondo in cui mancano i sacerdoti o non vi sono le condizioni per celebrare la Messa. Mi sovviene il pensiero alla Chiesa perseguitata; ricordo la testimonianza del vescovo Van Thuan, di come tentava di celebrare, quando gli era possibile, nelle prigioni dei Viet Cong; penso ai cristiani delle regioni sterminate di alcune zone dell’America meridionale, dove c’è un sacerdote per un territorio vasto come l’Emilia Romagna; penso sommessamente anche ai cristiani che per la loro condizione di vita familiare non possono ricevere l’Eucaristia, pur desiderandola fino alle lacrime. Stiamo assistendo ad una “domanda di Eucaristia” che è di conforto. Quasi sempre questa richiesta esprime un desiderio che è frutto di una vita spirituale intensa. Ma l’atteggiamento di alcuni, senz’altro in buona fede, ci fa comprendere che vi sono degli aspetti da mettere a fuoco. Parafraso un pensiero espresso da un mio confratello vescovo: «Nella richiesta troppo insistente dell’Eucaristia non di rado c’è fede sincera, ma non sempre matura. Si dimentica che la salvezza viene dalla fede e non dalle opere, benché sante, sicché ci si affida alle buone pratiche senza confidare in Dio, al punto da stimare i suoi doni più di Dio stesso, più della sua volontà. Come bambini si afferra avidamente il dono senza ascoltare le parole amorose di chi lo porge. Si è concentrati più sul proprio grido che sul volto di Colui che si china per ascoltarci».
Questo ci dice che c’è un grosso lavoro da fare per aiutarci tutti a cogliere il senso e la profondità del Mistero eucaristico e si possono sperare grandi frutti da una catechesi ben fatta, che faremo. Intanto però occorre ricordare che il Signore è realmente presente con il suo Spirito tra coloro che sono riuniti nel suo Nome: «Dove due o più sono uniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro» (Mt 18,20). Queste parole escono dal cuore di colui che ha detto: «Questo è il mio corpo… Prendete e mangiate» (cfr. Mt 26,26). Queste e quelle ugualmente “vere”. È presente nella Parola e continua realmente a nutrire chi la legge e la medita: «Non di solo pane vive l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio» (cfr. Mt 4,4). Il Signore vivo si fa prossimo nel povero: «Avevo fame, mi hai dato da mangiare…» (cfr. Mt 25,31-46). Il Signore è nel desiderio stesso dei sacramenti: «Ecco: sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me» (Ap 3,20). Inoltre, ha la sua dimora in chi osserva i suoi comandamenti: «Se osserverete i miei comandamenti rimarrete nel mio amore» (Gv 15,10). «Voi siete i tralci, io sarò la vite. Chi rimane in me produce molto frutto» (Gv 15,5). Termineremo la celebrazione eucaristica con l’atto di consacrazione alla Madonna.