Omelia nella Solennità del Corpus Domini

Pennabilli (RN), Cattedrale, 14 giugno 2020

Dt 8,2-3.14-16
Sal 147
1Cor 10,16-17
Gv 6,51-58

Cari Pennesi,
mi dispiace che ci vediamo poco!
Questa chiesa, senza nulla togliere al vostro parroco, è la chiesa del Vescovo. Ma il Vescovo deve provvedere alla Diocesi, una Diocesi vasta e con strade impervie. Questo esordio è per dirvi che vi voglio bene e che avete una grande responsabilità, perché essendo Pennabilli città vescovile, siete il paradigma di ogni altra comunità. Ad esempio, i cristiani di Monte Cerignone, così come quelli di Borgo Maggiore, dovrebbero dire: «Copiamo da quelli di Pennabilli, nel fervore, nell’impegno, nell’apostolato».

Vengo alla festa del Corpus Domini: mediteremo, più che le singole letture, il mistero eucaristico nel suo insieme. Vi invito a concentrarvi su due aspetti: l’Eucaristia come forma dell’essere ecclesiale e l’Eucaristia come forma dell’agire ecclesiale.
Preciso il significato delle parole. La parola “forma” significa che ciascuno di noi, tutta la comunità, deve maturare, crescere, assomigliare sempre più a Gesù: prendere la sua forma. È un’opera che fa lo Spirito Santo. Lo Spirito Santo ci fa prendere la forma di Gesù, una forma che abbiamo già, anche se da sviluppare. Siamo stati creati per essere altri Gesù. È un’opera dello Spirito Santo, ma esige la nostra collaborazione.
Specifico le parole essere e agire. Essere e agire sono ambedue dimensioni necessarie, coessenziali, non disgiungibili. Essere senza agire non porta a niente; agire senza essere fa diventare ipocriti. Attenzione, poi, all’aggettivo ecclesiale; si tratta di una forma, quindi di un essere e di un agire, che non è individualistica, intimistica, ma che è la forma di un corpo, di una comunità, della Chiesa.

1.

L’Eucaristia forma dell’essere ecclesiale. Il termine “sacramento” fa pensare a qualcosa di sacro e insieme di misterioso, qualcosa che vela e svela nello stesso tempo. Vela e svela “qualcuno”, che però è presente. Non si vede perché è velato, ma appunto perché velato, attraverso quel velo, è avvolto nella sua presenza. Il discorso della sacramentalità ha le radici in tutta la storia della salvezza, nelle Sacre Scritture. Dio, invisibile, è un mistero, il primo mistero. Il profeta dell’Antico Testamento lo chiamava il «Dio nascosto» (Is 45,15). Il Dio dell’Antico Testamento si è svelato (o rivelato) in Gesù di Nazaret, il Cristo. Ma il Verbo di Dio, che ha assunto la nostra umanità e si è fatto uomo come noi, è nascosto nell’umanità; è un uomo vero ed è un uomo velo, che ricopre la sua divinità. Dio si fa vicino in Cristo, e Cristo è avvolto da un altro segno, da un ulteriore sacramento. È dovuto al grande desiderio di Gesù di manifestarsi maggiormente a noi, alla sua volontà di unirsi singolarmente e personalmente a ciascuno di noi. L’intenzione del nostro Dio – un Dio che ci ama alla follia, che dall’eternità è accanto all’uomo e che si è fatto vicinissimo con l’Incarnazione – è quella di donarsi nell’Eucaristia ad ogni uomo. Dio, mistero, sacramento, si fa presente nel Figlio umanizzandosi e si fa presente nel Sacramento dei sacramenti, l’Eucaristia, per farsi più intimo nel rapporto con noi.
La fede ci avverte: nell’Eucaristia c’è Qualcuno, c’è Cristo, la sua persona, con la sua umanità, con la sua divinità, con l’immensa ricchezza della sua vita. Sì, nell’Eucaristia c’è una vita tutta per noi. Che disponibilità! Se fossi giansenista direi “quanto spreco” (cfr. Gv 12,5)! Invece è amore. Ecco la prima e grande forma alla quale deve ispirarsi e improntarsi tutta la nostra piccola vita. La vita della Chiesa, comunità povera e ricca insieme, umano-divina (cfr. LG 8), è il sacramento di Cristo e del Cristo Eucaristico. Comunità di uomini, ma comunità nei cui membri – creature così deboli, così peccatrici (più ci si avvicina all’altare e più si sente d’essere peccatori) – c’è Cristo con tutta la sua grazia e il suo vigore. San Paolo: «Vivo, sì, ma non sono io che vivo! È Cristo che vive in me» (Gal 2,20). San Paolo era diventato tutto forma di Cristo. Tutti i cristiani, uomini come gli altri, fratelli tra fratelli, sono sacramenti di Cristo e devono vivere la vita di Cristo. «Voi, infatti – continua san Paolo –, siete morti e la vostra vita è ormai nascosta con Cristo in Dio» (Col 3,3). Siamo uomini che devono camminare al passo con Cristo, a contatto ininterrotto con lui, in conversazione con lui, soffrendo con Lui la sua Passione, ma godendo anche nella sua gioia (cfr. Col 1,24).

2.

L’Eucaristia forma dell’agire ecclesiale. L’Eucaristia – perché vita – non è soltanto presenza, ma anche attività, azione, movimento, che sprigionano dal “di dentro” dell’Eucaristia. E poiché è vita, l’Eucaristia è amore, che genera vita. Un’azione dal ritmo centripeto, cioè che attira per vie misteriose, avvolge, attrae, eleva, trasforma, santifica, divinizza. «Assumendomi – scrive sant’Agostino mettendo parole in bocca a Cristo – non sarai tu a trasformarmi in te, ma tu sarai assimilato a me!». Così faceva, del resto, Dio nell’Antico Testamento: «Ti ho amato di un amore eterno, per questo ti ho conservato la mia benevolenza e ti attiro a me…» (Ger 31,3).
Sant’Alfonso Maria de’ Liguori descrive l’attività centripeta di Gesù con questi verbi: «Chiama, aspetta, accoglie».
L’Eucaristia è anche un’azione dal ritmo centrifugo, perché dona, mobilita, coinvolge. Nei Vangeli, nelle parabole, Gesù si fa rappresentare da figure inquiete. Ad esempio, la donna che ha perso la moneta, tutta indaffarata a cercare, inquieta finché non la trova (cfr. Lc 15,8-9); il pastore che è inquieto finché non trova la sua pecora (cfr. Lc 15,4-6); il padre che va sul terrazzo della casa per vedere se torna il figlio che se n’era andato (cfr. Lc 15,11-24). Un Dio inquieto. Gesù vorrebbe da noi che avessimo parte alla sua inquietudine, che è il suo amore. «Siete sale – ci ha detto – per preservare la terra dalla corruzione» (cfr. Mt 5,13). «Siete lievito – ci ha detto – per elevare la massa in fragranza di vita» (cfr. Mt 13,33).
Oggi nel Vangelo dice: «Voi siete… per la vita del mondo» (Gv 6,51).
La Chiesa deve essere presente nel mondo perché sacramento di salvezza per il mondo: necessità di questa presenza, fuggendo dall’indifferenza e dal quietismo, ma anche necessità di non cedere all’attivismo.
Forse il Signore ha permesso che si arrivasse a questa situazione, pastorale e civile, che oggi viviamo, perché avvertissimo l’urgenza di tornare a metodi di evangelizzazione più poveri, più silenziosi, non presuntuosi, con l’uso di chissà quali mezzi, con l’imponenza di chissà quali strutture, ma con la convinzione di avere in mano la carta vincente. Più umiltà, più abbandono alla bontà del Signore e degli uomini (c’è tanta bontà attorno a noi), più compostezza, più semplicità. Se un’aggressività ha da esserci, che sia l’aggressività dell’amore. Mi piacerebbe fare mia questa “comunione d’anima” di san Paolo: «Per conto mio – scrive ai Corinti – mi prodigherò volentieri, anzi consumerò me stesso per le vostre anime, amando più intensamente…» (2Cor 12,15).
Adorando e mangiando l’Eucaristia possiamo apprendere e attingere forza per avere la forma di Gesù nel nostro essere e la forma della sua inquietudine nel nostro impegno per la nuova evangelizzazione.

Omelia nella S. Messa per sant’Antonio da Padova

Pennabilli (RN), Monastero Agostiniane, 13 giugno 2020

Is 61,1-3
Sal 88
Col 3,12-17
Lc 10,1-9

Il mio rapporto con la missione

La festa di sant’Antonio, straordinario messaggero del Vangelo, mi porta a condividere una riflessione sul mio rapporto con la missione e le missioni. Confidenzialmente!

Prima fase: ero un ragazzino che sognava le avventure. E quali se non quelle dei missionari col cappello da esploratore, la veste bianca, la croce alla cintura e la barba? Immaginavo le foreste dell’Africa e della Cina con leoni, elefanti, tigri… Poi, la visita e i racconti dei missionari reduci dai paesi di missione, che narravano di avventure, incontri, vittorie della croce: nuovi eroi come quelli dei primi tempi del cristianesimo. Insomma: tutto quanto poteva far sognare i ragazzi! Una prima fase, “fase puerile”, ma non priva di slanci e di immaginazione.

Seconda fase: ero un adolescente, studente di Liceo, che aveva incontrato Gesù e che avrebbe voluto che tutti potessero conoscerlo, amarlo e seguirlo. Erano gli anni del Concilio Vaticano II. Talvolta veniva in Diocesi qualche padre conciliare che invitava a coltivare desideri di generosità. Ricordo un vescovo del Camerun che invitava noi ragazzi ad andare, durante l’estate, ad insegnare il latino ai suoi seminaristi. Poi, ho incontrato la più missionaria tra i contemplativi: Teresa di Lisieux. Ho cominciato a pensare che anch’io potevo essere, come lei, missionario nel quotidiano: preghiera, sacrifici e… abbonamento alla rivista missionaria. Il sogno romantico delle terre lontane era ancora emozionante: slanci, cultura, esempi, l’esempio di mio fratello Silvio, che era riuscito a vincere il braccio di ferro col Vescovo per partire in missione come padre saveriano.

Terza fase: è il momento dell’adesione definitiva alla chiamata al sacerdozio; con due passaggi. Il primo. Non capivo se avessi “l’onore” di avere la vocazione: «Possibile che chiami proprio me?». Ero diventato amico del profeta Isaia; mi ritrovavo nel passo in cui Dio si chiede «chi manderò?». Isaia dice: «Se vuoi manda me» (cfr. Is 6,8). Secondo passaggio. L’incertezza viene superata da quel: «Non voi avete scelto me, io ho scelto voi» (Gv 15,16). Confidavo al padre spirituale che non avevo una particolare attrattiva particolare per quello che “fa” un prete, sentivo attrattiva per Gesù. Questa fu la fase più adulta della comprensione della missione. «Signore, se sono utile al tuo popolo, mi metto a disposizione (non recuso laborem!)». Anche questa terza fase, più adulta, era caratterizzata dalla soggettività. Mi rendevo conto, comunque, che la missione passava attraverso la mia terra, le strade della mia città sempre più secolarizzata…

Quarta fase: la scoperta della missione come evento pasquale, dinamismo dello Spirito. La missione ora mi appare tutta racchiusa in quel “come”, che ritorna tante volte nel Vangelo di Giovanni; ad esempio: «Come il Padre che ha la vita ha mandato me, e io vivo per il Padre, così anche colui che mangia di me vivrà per me» (Gv 6,57). Intendo il «per me» nei tre significati: «Grazie a me», «dedicato totalmente a me», «al posto mio». «Tu sarai membra della redenzione: donami le tue mani, la tua intelligenza, il tuo cuore», pareva dirmi Gesù. «Come il Padre ha mandato me, così io mando voi» (Gv 20,21). Non si tratta di un semplice invio, un’operazione di marketing del Vangelo o di propaganda. Qui si allude esplicitamente alla vita trinitaria e al suo dinamismo intrinseco, con l’effusione dello Spirito Creatore.
Seguitemi: andiamo insieme nel cenacolo la sera di Pasqua. Gesù entra e dice: «Pace a voi». Detto questo, mostra le mani e il costato, non per lamentarsi dei guai che gli abbiamo causato, ma per dire il suo amore: «Ecco i segni del mio amore che non si cancellano». Alita sui discepoli e dice: «Ricevete lo Spirito Santo, a chi rimetterete i peccati saranno rimessi» (cfr. Gv 20,19-23).
Tutte le apparizioni pasquali riferite dai Vangeli contengono l’invio missionario: Gesù Risorto manda, sempre. È così con Maria di Magdala, con le donne, con i discepoli sul monte, con Pietro sulle rive del lago, ecc. La missione è parte integrante del Vangelo. È Gesù continuato nella storia. La comunità del Risorto, ancorché piccolo gregge, turbato e perplesso come sul monte dell’Ascensione, è una comunità su cui si è posato l’alito creatore del Messia. Da subito è una comunità cattolica. La missione così intesa, in questa fase, è profondamente mistica ed altrettanto concreta. Comprende l’ascolto: ricordate il roveto ardente dell’esodo che comunica a Mosè: «Ho udito il grido del mio povero, ho visto la sua afflizione…» (cfr. Es 3,1-12). E comprende l’ardimento che Gesù chiede ai missionari (cfr. Lc 10,1-9). Così penso la visione di Paolo che sente un macedone che dice: «Vieni da noi!» (cfr. At 16,9-15), oppure quando fonderà la comunità di Corinto sulle parole di Gesù che dice: «Non scappare, non pensare che Corinto sia un luogo poco adatto per la missione, refrattario al Vangelo, perché lì mi sono preparato un popolo» (cfr. At 18,9-11).

Anche se li ho espressi in forma narrativa, sono i pensieri che mi sono venuti dopo aver letto i testi della liturgia di oggi e aver considerato la narrazione dell’esperienza cristiana di sant’Antonio. Da una parte l’invio missionario di Gesù («vi mando come agnelli in mezzo ai lupi» Mt 10,16) e dall’altra Antonio (si chiamava Fernando) con l’ardente desiderio di andare in Oriente ad evangelizzare. La promessa contenuta nell’oracolo di Isaia: «Lo Spirito del Signore è sopra di me e mi ha mandato ad annunciare…» (Is 61,1) e l’incontro di Antonio col carisma francescano della minorità (piccolezza), della fraternità e del servizio.
Poi, la Lettera ai Colossesi con l’invito di Paolo a vestirsi dei sentimenti di Cristo (cfr. Col 3,12), ad ospitare la sua parola e a far tutto nel suo nome, e l’attività apostolica di Antonio, consapevole e ferrato nelle Scritture, maestro di teologia per incarico di Francesco (un’eccezione!). In mezzo al popolo…

Quinta fase: la intravvedo guardando il missionario Antonio che, ancor giovane, ma consumato dalle fatiche per il Vangelo, a causa della sua prossimità con il popolo, si ritira vicino a Padova, all’eremo di Camposampiero, e si fa costruire una celletta su un robusto albero di noce per vivere immerso in Dio e nella natura. La missione totale: «Cupio dissolvi et esse cum Cristo» (Fil 1,23)!

Omelia nella Solennità del Corpus Domini

San Marino Città (RSM), Basilica del Santo, 11 giugno 2020

Dt 8,2-3.14-16
Sal 147
1Cor 10,16-17
Gv 6,51-58

«Il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo».

Cari fratelli,
torniamo a chiederci con franchezza: Che ci fa oggi un pane al centro della nostra città? Gesù risponde: «È un pane per la vita, necessario per la vita di ciascuno e di tutti». Questo pane unisce, educa, evangelizza.

1.

Unisce: unisce sguardi e cuori. Fa convergere propositi di condivisione. «Poiché vi è un solo pane, noi siamo, benché molti, un solo corpo: tutti, infatti, partecipiamo all’unico pane» (1Cor 10,17). Sappiamo bene quanto sia indispensabile l’unità in un mondo tanto diviso. Veniamo – anzi vi siamo ancora pienamente coinvolti – da un’esperienza forte di interdipendenza, che ha toccato ciascuna delle nostre persone e le nostre società: contagio e responsabilità di ciascuno per il bene di tutti. Il mondo è proprio un villaggio globale, la cui salute ora dipende paradossalmente anche dalla distanza che riusciamo a tenere con i vicini. Ci è imposto di purificare le relazioni prossime per guadagnare il senso profondo delle relazioni universali. «In una cultura sempre più individualista questo pane costituisce una sorta di antidoto, che opera nelle menti e nei cuori e continuamente semina in essi la logica della comunione, del servizio, della condivisione» (Benedetto XVI, Angelus, 26.6.2011).

2.

Questo pane posto al centro della nostra città educa. Ripropone un altro pane di cui la città ha assolutamente bisogno, un pane che sfama la dimensione vitale che è la spiritualità. Siamo in allarme per la ricaduta economica della pandemia. Ne soffriamo. Eppure «l’uomo – lo dobbiamo dire in questo momento – non vive soltanto di pane, ma di quanto esce dalla bocca del Signore» (Deut 8,14). Sentiamo di dover andare più in profondità. La chioma di un albero cresce, si espande, produce fiori e frutti in proporzione a quanto le radici si diramano, si affondano e si allargano. Fino a che punto siamo convinti, noi che siamo qui, del primato della spiritualità? Fino a che punto ne sono consapevoli le famiglie, le istituzioni, i responsabili delle istituzioni? A pagare le conseguenze di una impostazione basata soltanto su una dimensione sono i piccoli e i giovani. «I bambini domandavano pane, ma non c’era chi lo spezzasse loro», così il Libro delle Lamentazioni (Lam 4,4). Questo pane, così fragile e all’apparenza di poco conto, disarma la litigiosità, lo spirito di vendetta, l’avidità del denaro. Educando ci mette in ginocchio. L’uomo che si inginocchia, e si inginocchia solo davanti a Dio, è grande. Egli dichiara la sua libertà in faccia al mondo. È la lezione dei testimoni della coscienza e della verità: una lezione pertinente e urgente per questo tempo. Siamo assetati di spiritualità, una sete ancor più acuta in questi giorni difficili. Siamo stati messi con le spalle al muro, convinti – finalmente – della nostra fragilità. Che questa lezione non sia dissipata.

3.

Infine, questo pane evangelizza. Dice il lieto annuncio di un “Dio di pane”: «Io sono il pane vivo, quello disceso dal cielo». I giudei si misero a discutere aspramente: «Come può costui darci la sua carne da mangiare?». La risposta di Gesù è semplice e sconcertante: «Io vi faccio vivere». Dandoci se stesso inverte il corso della vita orientandola non più alla morte ma all’eternità. Gesù non ci è concorrente, nel senso che ci tolga qualcosa, semmai è concorrente perché corre con noi, perché offre un incremento, un accrescimento, una intensificazione di vita. Un di più!
Questo è il Vangelo che ci ha sorretto e ci ha dato speranza: una luce nel tunnel. Per molti di noi è stato così. Una settimana fa in cattedrale si è tenuta l’assemblea di fine anno e abbiamo sentito esperienze bellissime condivise da giovani e adulti che hanno testimoniato come hanno saputo attraversare quei momenti bui. Avremmo voluto – parlo per me e per i miei fratelli sacerdoti – esser più vicini a chi era malato; ci è stato possibile solo attraverso quella “telefonia” straordinaria che è la preghiera. Abbiamo pregato tanto e abbiamo fatto pregare piccoli e grandi, famiglie. Il Papa, in un’omelia si è rivolto ai vescovi in modo severo chiedendo: «Pregate per il vostro popolo?». Avrei voluto rispondere: «Sì, con molta passione!». Abbiamo espresso la vicinanza alle famiglie, ai giovani, agli insegnanti con i mezzi moderni della comunicazione.
La sposa del Cantico dei Cantici, celebre libro della Bibbia, cerca il suo diletto e, non trovandolo, implora: «Avete visto l’amante del mio cuore?» (Ct 3,3). Allora non vi era Gesù sulla terra; ora, invece, chi ama Gesù e lo va cercando lo trova nel sacramento dell’Eucaristia. «Amore infinito di Dio, degno di infinito amore! Ti sei abbassato per trattenerti con noi e unirti a noi. Verbo incarnato. Grande nell’umiliazione perché grande nell’amore. Come possiamo non amarti?». Al termine della Messa non potremmo percorrere le vie di San Marino con la processione, come di consuetudine; invito tutti a sostare in adorazione. Anche questo è un frutto di questo tempo: veniamo ricondotti all’adorazione e al silenzio contemplativo davanti al “Dio di pane”!

Omelia nella solennità della SS. Trinità

San Marino Città (RSM), chiesa di San Francesco, 7 giugno 2020

Es 34,4-6.8-9
Dn 3,52-56
2Cor 13,11-13
Gv 3,16-18

Forse per curiosità, forse per spiare o forse, più probabilmente, per timore dei Giudei, Nicodemo va di notte ad incontrare Gesù. E Gesù incomincia subito la conversazione parlando di noi e del nostro destino. Parla di una vita nuova per noi, di una possibilità ulteriore. Nicodemo fraintende e dice: «Com’è possibile nascere di nuovo quando uno è già grande?». Gesù riprende la parola ed è come se scostasse il velo che copre il mistero santo di Dio. Nel colloquio con Nicodemo, infatti, rivela qualche cosa della vita infinita di Dio. Dice che in Dio c’è della paternità, che in Dio c’è dell’amore, che in Dio c’è del dono, e rivela Dio Trinità. Noi usiamo parole analogiche per balbettare qualcosa di questo mistero. Parliamo di una Prima Persona, e lo chiamiamo Padre, parliamo di una Seconda Divina Persona, il Verbo, e di una Terza Divina Persona, lo Spirito Santo. Questa successione numerica non sta a dire che una è più grande e una è minore dell’altra. Sono tre Divine Persone che vivono l’una per l’altra, l’una nell’altra. Starei quasi per dire che in Dio c’è – consentitemi questo ardire – un abisso di povertà assoluta. Non sono tre Dei, tre sostanze. Immaginiamo di interpellare la Prima Divina Persona – possiamo farlo nella preghiera –: «Chi sei tu?». Ci risponderebbe che “non è”, perché è tutta “fuori di sé”, persa nel “tu” che gli sta di fronte. Allo stesso modo risponderebbero la Seconda e la Terza Divina Persona. «Chi sei tu?». «Io non sono, perché trovo la mia vera sostanza, la mia identità nell’altro».
Dio non è soltanto un abisso di povertà, è anche una voragine di ricchezza, di vita. È stato Gesù a rivelarci che Dio non è fatto di un sol blocco, ma è Trinità d’amore: lo anticipa a Nicodemo e lo svela a tutti noi. Noi siamo fatti per quella vita.
Contempliamo le tre Divine Persone. Che utilità ne ricaviamo? Quando Gesù parla di vita nuova non parla di un restauro della nostra natura, ma dice la nostra destinazione: essere nella Trinità. Non è solo utile e necessario saperlo, è soprattutto bello!
Trovarono negli indumenti di Blaise Pascal, il grande filosofo e matematico, un cartiglio con scritto: «Dio di Abramo, Dio di Isacco, Dio di Giacobbe, non dei filosofi e dei sapienti. Certezza, certezza. Sentimento. Gioia. Pace. Dio di Gesù Cristo (dal Memoriale)». Siamo chiamati a partecipare alla vita di “quei tre”. E possiamo avere con le tre Divine Persone un rapporto differenziato. Siamo rigorosamente monoteisti, ma è così grande l’amore nella Trinità che i tre sono uno. Possiamo considerarli così come si sono manifestati nella storia della salvezza. Gesù con Nicodemo non dice che Dio ha intenzione di amare il mondo, ma usa il passato remoto: «Dio ha tanto amato il mondo». Lo fa per dire che è un fatto compiuto, che si compie e che si compirà. La parola “mondo” c’è quattro volte in poche righe.
Mettiamoci di fronte alla Prima Divina Persona, il Padre, rivolgiamoci a lui. Le Sacre Scritture ci raccontano di lui, quello che ha fatto, quello che fa e quello che sarà per noi in un abbraccio di amore infinito, che è il paradiso. Se non sappiamo trovare parole nostre, sfogliamo il libro dei Salmi, sono uno più bello dell’altro. Ne cito qualcuno: «L’anima mia ha sete di Dio…» (Sal 63), «l’anima mia è come un cervo assetato che viene all’acqua» (cfr. Sal 42,2), «come un bambino in braccio a sua madre, così sei tu per me» (cfr. Sal 131), «Signore, tu mi scruti e mi conosci, tu sai quando siedo e quando mi alzo, ti cerco nel cielo, là tu sei, scendo negli inferi, dove la mia vita tante volte giace, eccoti» (cfr. Sal 139). Quante cose potremo vivere in compagnia con il Padre… La preghiera è compagnia, non è un proferir parole: ad un certo punto è il cuore che si dà…
La Seconda Divina Persona la conosciamo: è il Verbo incarnato: «Ciò che era fin dal principio, ciò che noi abbiamo udito, ciò che noi abbiamo contemplato e ciò che le nostre mani hanno toccato, ossia il Verbo della vita, poiché la vita si è fatta visibile, noi l’abbiamo veduta…» (1Gv 1,1-2). Lui in noi e noi chiamati ad essere in Lui. In Lui entriamo nella relazione con il Padre. Se volessimo qualche slide del Padre, come ce lo insegna Gesù, basterebbe prendere la parabola del “figliuol prodigo”. Gesù lo descrive come un padre che ci aspetta, che ci lascia anche la libertà di sbagliare, ma ci viene incontro, ci abbraccia, organizza una festa per noi, le sue viscere si commuovono…
La Terza Divina Persona è lo Spirito Santo, l’amore del Padre e del Figlio, consostanziale con il Padre e il Figlio, effuso su di noi, perché noi possiamo essere con il Padre e con il Figlio, per mezzo di Lui, attraverso Lui. Senza di Lui non avremmo l’audacia di entrare nel seno del Padre.
Non si finirebbe mai di parlare della Trinità… Farei la sintesi di quanto ho cercato di condividere con voi con tre preposizioni semplicissime. La preposizione “a”, che dice come siamo rivolti, aperti, spalancati, perduti e ritrovati, verso il Padre. La preposizione “in”, in Gesù, fatti una cosa sola con lui, come limatura di ferro attratta da un magnete. Gesù ci introduce nella stessa relazione che lui ha con il Padre.
La preposizione “per”: tutto questo per l’amore dello Spirito Santo che, come dice una canzone, ci mette «le ali per abitare gli spazi abitati da Dio». Tutto questo è ben espresso nella grande preghiera della Chiesa che è il canone della Messa, preghiera tutta rivolta verso il Padre, in Cristo: è lui che si offre al Padre e noi ci offriamo con il Figlio Gesù al Padre. Lo Spirito Santo ci dà l’ardire. Come il carro di fuoco che ha rapito Elia nell’alto, così lo Spirito Santo ci innalza e ci mette dentro a questa danza: così i padri antichi descrivevano la Santa Trinità (pericoresi).
Ci sarebbero molte cose da precisare… Questa contemplazione discende a noi – non inutilmente – perché tutta la vita possa diventare a mo’ della Trinità. Pensiamo a quanto sono importanti le relazioni e i rapporti, il parlare e il tacere, il dare e il ricevere. Forse la parabola più bella, più efficace, della Trinità è la famiglia, dove nessuno è superiore all’altro, dove ognuno vive per l’altro, dove ci si dona continuamente e ci si riceve. Questo è vero anche di ogni comunità. La comunione è un dono della Trinità. Certo, noi siamo nella storia, in divenire, e dobbiamo fare la fatica di trasformare la comunione in comunità. La Trinità è anche profezia, perché i cristiani, amandosi, diventano Chiesa, «sacramento o segno e strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano» (LG 1). La Trinità è anche epifania, cioè manifestazione del nostro destino, della nostra vocazione. Così sia.

Omelia nella S.Messa per la Festa del Crocifisso

Talamello (RN), 1° giugno 2020

Num 21,4-9
Sal 77
Gv 3,13-17

1.

«Bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo» (Gv 3,14). L’evangelista Giovanni allude alla Passione mentre Gesù, in questa conversazione con Nicodemo, gioca piuttosto sulle parole “salire” e “scendere” (cfr. Gv 3,13), senza mai ricordare la realtà della croce. «Il Figlio sarà innalzato», conferma più avanti, ma qui non è precisato se nella gloria o sulla croce (cfr. Gv 12,32). Tuttavia, lo strumento di supplizio diventa, attraverso il cambio di prospettiva che nasce nella fede e nell’amore del Padre, una scala verso la glorificazione, cioè l’effusione di questo amore sul mondo, lo Spirito Santo. Proprio per questo i nostri padri hanno voluto collocare la festa del Crocifisso di Talamello subito dopo la Pentecoste.

2.

In Occidente abbiamo insistito molto sulle raffigurazioni del “Christus patiens”, sottolineando che la sofferenza era necessaria per controbilanciare il peccato. Ricordo di quel bambino che, sfogliando un libro d’arte e guardando i Crocifissi e i particolari della crocifissione, sospira: «Gesù è morto così, che disgrazia!». Quel bambino, come tanti di noi, è stato educato ad esaltare il dolore, mentre è l’amore che salva!

3.

Chi si sa amato è in grado di uscire dal dualismo e sa percepire la presenza del bene anche nelle situazioni più tragiche, come quella di Gesù sulla croce. La sua morte, infatti, si rivela a chi guarda oltre come la guarigione dall’ingiustizia attraverso il perdono, in un atto d’amore supremo verso «chi non sa quello che fa» (cfr. Gv 23,34).
Come gli Ebrei nel deserto erano guariti dal veleno se guardavano il serpente di bronzo, così Gesù suggerisce di considerare la sofferenza e la morte, simbolo di ogni male, come il passaggio per scoprire l’amore del Padre. Si tratta di guardare a Lui (Sommo Bene), anziché guardare al proprio male!
Succede, talvolta, d’essere così ripiegati su noi stessi da ritenere necessario autoriscattare e pagare con la sofferenza il nostro “debito”, ma basta guardare il Bene oltre il male con una fiducia totale in Dio che non giudica ma salva… Preferiamo costruire la nostra salvezza con i nostri sforzi, i nostri mezzi e i meriti, anziché fidarci di un’altra salvezza.

4.

La croce è indicata da Gesù come il mezzo per guarire col potere trasformante dell’amore. Il virus più devastante è la sfiducia.
La croce di Cristo è gloriosa, come proclama la liturgia, perché segna il trionfo della salvezza attraverso la fiducia nell’amore del Padre. Non c’è in tutto il Vangelo e neppure nel resto delle Sacre Scritture una sola parola che consideri la croce gloriosa in se stessa. Ciò che è glorioso è unicamente il Crocifisso e lo è proprio perché è andato oltre i legni della croce mediante la risurrezione.
Due intuizioni del quarto Vangelo devono chiarire la nostra devozione alla Santa Croce:

  1. Quando guardiamo la croce non consideriamo tanto i due pezzi di legno perpendicolari (anche se d’oro… o artisticamente dipinti), guardiamo il “luogo” dell’azione salvatrice di Dio, dove si rende visibile.
  2. Mentre Gesù viene innalzato sulla croce passa per una tappa fondamentale della sua via verso il Cielo. Da qui il nostro atteggiamento di fede verso le croci che ci indicano la strada da percorrere e il nostro destino di risurrezione.

Omelia nella Solennità di Pentecoste

Pennabilli (RN), Cattedrale, 31 maggio 2020

At 2,1-11
Sal 103
1Cor 12,3-7.12-13
Gv 20,19-23

Spirito Santo, sei inafferrabile! Nel contemplarti la mente si smarrisce e le parole sono insufficienti. Ci confonde la ricchezza che affiora nei testi liturgici. La Prima Lettura ci fa contemporanei e ci fa entrare dentro a quella “casa di fiamma” che è il cenacolo. In quella casa gli apostoli ci vengono raffigurati come ubriachi, ubriachi di gioia: così li vede la folla di Gerusalemme. Infatti, un vento coraggioso li ha spinti ad uscire e a proclamare parole inaudite. Poi il Salmo: «Del tuo Spirito, Signore, è piena tutta la terra». Tutto il mondo è gravido dello Spirito, che è anima di ogni cosa; il Signore si è preparato un popolo, in una terra nuova e in un cielo nuovo. Siamo noi che non ce ne accorgiamo (cfr. 2Pt 3,13; Is 43,19).
La Seconda Lettura ci parla dello Spirito che suscita carismi e doni. Ai piedi della croce rivendichiamo l’unità nella Chiesa, a Pentecoste viene in evidenza la diversità come ricchezza. Poi, il Vangelo: lo avevamo letto la II domenica di Pasqua. In quell’occasione ci eravamo fermati perlopiù a meditare e commentare l’esperienza di Tommaso. Veniva spontaneo rivederci in lui, nella sua difficoltà a credere. Questa volta ci soffermiamo sull’apparizione senza Tommaso. Vi invito a fare una “zoomata” sul catenaccio che teneva chiusa la porta del cenacolo. È evidente che raffigura quello che sentono gli apostoli in quel momento, prima dell’effusione dello Spirito Santo. Ma quel catenaccio è pure metafora della paura che paralizza, che rende esitanti, che toglie la libertà. La paura toglie la voglia di fare, di proporre iniziative, di raggiungere mete. Può anche avere la forma di una strana timidezza, per il timore del giudizio degli altri. Una volta si denunciava questo timore come “rispetto umano”, la paura di testimoniare la fede sul posto di lavoro o con i vicini di casa; non è tanto il pudore di non voler manifestare i propri sentimenti, ma è principalmente paura di essere giudicati. Dietro la barricata sta sempre il nostro io, che vuol fare bella figura. Questa riflessione vale per la nostra vita personale, per le nostre piccole paure, ma più in generale vale per la Chiesa di oggi. A volte sembra mancare l’audacia di percorrere vie nuove e di seminare il Vangelo. Ho visto persone ritrarsi nel cammino della vita spirituale perché spaventate dalle esigenze di Dio, esitanti per la paura che il Signore chieda troppo. Ma il Signore non porta via, anzi offre, dona. Ho visto vocazioni rattrappirsi, rinsecchire, per la paura di non riuscire, per la paura del “per sempre”. Ho visto situazioni peggiorare, incancrenirsi, perché non c’era il coraggio di prendere decisioni, per paura di mancare di riguardo a qualcuno. Quante barche sono rimaste ancorate nel porticciolo e non hanno preso il largo! La causa è sempre l’io che ha paura, si difende, si trincera, chiude con il catenaccio. Oggi, a Pentecoste, il messaggio è proprio questo: non avere paura. Il Signore dà, non toglie; incoraggia e fa compagnia… Risuonano le parole che abbiamo riascoltato nel Centenario della nascita di San Giovanni Paolo II: «Non abbiate paura! Aprite, anzi, spalancate le porte a Cristo! Lui solo sa cosa c’è nel cuore dell’uomo».
Ecco, la Pentecoste. Gesù entra e fa il dono più grande. Tutta la storia della salvezza, dalla prima pagina della Bibbia fino all’ultima, non è altro che preparazione, annuncio e conferma dell’effusione dello Spirito. Il disegno di Dio si completa nella Pentecoste. Affermo – ma non si possono fare classifiche di questo tipo – che la Pentecoste è la festa più grande: è l’autocomunicazione di Dio. Il Padre invia il Figlio, il Figlio effonde lo Spirito già nel momento altissimo e tremendo della crocifissione. La Pentecoste in Giovanni è anticipata nel momento in cui Gesù «consegna lo spirito e tutto è compiuto» (cfr. Gv 19,30). E ci fu effusione di acqua e di sangue, i due simboli dello Spirito. Gesù era innalzato da terra, era inchiodato sulla croce. Nel cenacolo si certifica questa effusione: «Ricevete lo Spirito…». Gesù alita, soffia sulla comunità messianica. Una comunità timorosa, impacciata, perplessa. Come sul monte dell’Ascensione, benché dubitassero, ha affidato loro il suo Vangelo: «Andate in tutto il mondo…» (cfr. Mt 28,19). Il Signore entra a porte chiuse, effonde lo Spirito e manda in missione. «Come il Padre ha mandato me – dice Gesù – io mando voi». Come l’ha mandato? Gesù è stato mandato come il figlio del carpentiere, il figlio di una fanciulla di Nazaret, «senza apparenza né bellezza (cfr. Is 53,2). Come furono mandati i discepoli? Tra loro non vi erano sapienti, nobili, potenti (cfr. 1Cor 1,26-27). Così il Signore manda noi, così come siamo, perché a nostra volta comunichiamo lo Spirito col dono di noi stessi. Signore, rinnova dentro di noi i tuoi doni, riverbero dell’unico dono, il dono del tuo Amore. Così sia.

Omelia nella Veglia di Pentecoste

Pennabilli (RN), Cattedrale, 30 maggio 2020

Rivolgo prima di tutto un saluto affettuoso a chi partecipa a questa Veglia in streaming: «Sentitevi dentro, partecipi di quello che viviamo ora nella nostra cattedrale».

1.

Nei nostri programmi era prevista per oggi, 30 maggio, l’assemblea di fine anno pastorale, dentro lo splendore della Pentecoste, con la presenza di Maria. Un’assemblea che qualificherei “quasi sinodale”, con un duplice scopo. Il primo è quello di raccogliere i frutti che il Signore ha fatto crescere nella nostra Chiesa per dirgli il nostro grazie, per dire con riconoscenza che c’è davvero il Signore in mezzo a noi. Gli Ebrei si chiedevano: «Il Signore è in mezzo a noi sì o no?» (Es 17,7). Poi hanno potuto vedere i prodigi dell’esodo… Allo stesso modo noi vediamo prodigi nella nostra amata Chiesa diocesana unita alla Chiesa universale. Il secondo scopo dell’assemblea sarebbe stato quello di fare il punto della situazione. La pandemia ha imposto una sterzata, ma possiamo dire che abbiamo vissuto alla grande! Ne è prova quello che ci hanno detto gli amici che hanno raccontato la loro testimonianza. In un recente articolo ho scritto che in questo periodo abbiamo assistito alla «rivincita degli infinitamente piccoli». Ognuno nel suo posto, ognuno con la sua sensibilità, con le sue possibilità, ha cercato in questi mesi di testimoniare, di amare, di capire quello che il Signore voleva insegnarci attraverso questo avvenimento.
In questi anni, come Chiesa diocesana, abbiamo preso l’impegno di mettere a fuoco il cuore, il centro della nostra fede. Qualcuno pensa sia una cosa un po’ astratta: non accetto questa obiezione. È la cosa più concreta che ci sia. Ogni volta che viviamo la Parola riconosciamo il Risorto e la sua presenza, come è stato per i discepoli di Emmaus, come è stato per Maria di Magdala, come per i sette apostoli sul lago… Abbiamo imparato ad accoglierlo nei segni della sua presenza (i sacramenti) e nella frazione del Pane (l’Eucaristia).
Puntiamo su quello che è essenziale della nostra fede. Il problema davanti a noi è grande: lo smarrimento della fede in tanti. Qual è il nucleo della fede? Abbiamo sdoganato una parola che sembrava appannaggio degli “addetti ai lavori”: la parola kerygma, l’annuncio che Gesù è vivo, è in mezzo a noi, ci è vicino, ci accompagna e ci salva. Una parola accompagnata da “potenza da parte di Dio”. Allora siamo stati confortati dal sapere che non siamo nel “dopo Gesù”, siamo nel pieno della presenza di Gesù. Attraverso vari incontri, ascoltando tante persone, abbiamo preso la decisione di rifare, in qualche modo, l’iniziazione cristiana. Abbiamo incominciato mettendo a tema “la vita nuova”, la vita da risorti, che scaturisce dal Battesimo. Non si trattava di fare una campagna annuale sul sacramento del Battesimo, ma piuttosto di vivere in profondità e consapevolezza il mistero pasquale. E lo si vive attraverso i segni che Gesù ci ha dato: il primo di essi è il Battesimo. Molti sono battezzati senza avere mai deciso di volerlo essere. Ci siamo proposti di curare con più impegno e intelligenza la pastorale battesimale: si è aperto davvero un mondo! Il 98% degli italiani, secondo la statistica dell’ultimo censimento (2011), sono battezzati. Tante coppie vengono a chiedere il Battesimo per il loro bimbo; spesso per tradizione, per fare una festa di famiglia al “nuovo arrivato”… Viviamo bene queste occasioni! In Diocesi già varie parrocchie hanno un gruppo accanto al parroco che aiuta nella catechesi prebattesimale e nell’accompagnamento delle giovani famiglie. Un tempo sembrava fosse sufficiente il parroco, ma le cose cambiano quando, insieme al parroco, una coppia di sposi è presente alla preparazione dei genitori. Una coppia sa intrattenere le famiglie, sa come si tratta un bambino, ma soprattutto è in grado di far nascere relazioni.
Davanti a noi, per il prossimo futuro, dobbiamo mettere a fuoco un’altra dimensione fondamentale: la missione. Siamo missionari! Nella lettura evangelica dell’Ascensione abbiamo letto che i discepoli «dubitavano…» (qualche traduzione riporta: «Alcuni dubitavano…» cfr. Mt 28,17). Eppure, Gesù affida loro la cosa più preziosa: il Vangelo. Non fa prima un ripasso dalle beatitudini fino alla fine del Vangelo: si fida. E gli apostoli sono stati formidabili. Quando si riceve fiducia esplode il meglio di sé. È il segreto dell’educazione, rapporto che fa crescere.
Cosa vuol dire essere missionari? Si tratta di animare ambienti, cultura, politica, società, con il lievito e il sale del Vangelo. In quest’opera saremo corroborati da un sacramento: la Confermazione. Negli anni successivi dovremmo ripensare la nostra vita di Chiesa come comunione nello splendore della Trinità. La Trinità non è un teorema teologico, ma la vita stessa di Dio partecipata a noi. Noi siamo chiamati a vivere e a tessere rapporti a mo’ della Trinità.

2.

Quando è nata la Chiesa? C’è chi dice che è nata a Pentecoste, epifania della Chiesa, con porte e finestre spalancate e Pietro con gli apostoli che proclamano la risurrezione di Gesù (cfr. At 2,1-15). Qualcun altro dice che l’inizio della Chiesa è in Galilea, dove il Signore ha chiamato i Dodici, le colonne fondamento (cfr. 1Tm 3,15; Ef 1,20) del nuovo popolo di Dio. Altri dicono che la Chiesa è nata formalmente con l’invio missionario di Gesù, perché la Chiesa è sacramento di unità del genere umano con Dio e degli uomini fra loro (cfr. Mt 28,18-20; cfr. LG 1).
Io propendo per un’altra opinione: la Chiesa è nata con il “sì” di Maria (cfr. Lc 1,34-38). Nel momento del “sì” di Maria il Verbo si è fatto carne, ha unito a sé la natura umana. La Chiesa è questo, l’umano e il divino insieme. La Chiesa è il Corpo Mistico di Cristo. Stiamo attenti a non dare un significato troppo debole alla parola “mistico”: è “vero corpo”! Ricordate san Paolo, quando viene fermato sulla via di Damasco: «Saulo, Saulo… perché mi perseguiti?». Paolo non capiva; non credeva di perseguitare Gesù, ma la Chiesa. La Chiesa è il Corpo di Gesù. Col Battesimo i credenti diventano realmente le membra di Cristo. Come le sue membra umane, anche le membra mistiche, che siamo noi, sono chiamate a partecipare alla sua azione redentrice: «Tu sarai le membra della redenzione». Guai profanare il Corpo Mistico, creare disunità dentro la Chiesa! Soffro quando nella Chiesa c’è disunità; è la stessa sofferenza che sento per la profanazione del Corpo Eucaristico. Siamo scrupolosi nel custodire le Sacre Specie – è giustissimo –, ma siamo altrettanto scrupolosi nel custodire l’unità della Chiesa? La prima forma di rottura dentro al Corpo Mistico è il peccato. Quando siamo in peccato mortale profaniamo il Corpo Mistico del Signore. Si può profanare il Corpo Mistico anche con la chiacchiera, con le divisioni, con le critiche e con la disobbedienza ai vescovi…

3.

Dedico l’ultimo pensiero personalmente a voi che fate parte delle équipe pastorali. Ho tre parole da dirvi. La prima: grazie. Grazie per quello che fate, a volte senza avere riconoscimenti particolari. Vi incontrate, fate programmi, lavorate, pubblicate, forse ricevete critiche, oppure fate cose buone e nessuno se ne accorge. Grazie davvero, ve lo dico a nome di Gesù! Vi incoraggio a continuare ad impegnarvi, a famigliarizzare tra voi, non perché diventiate un gruppo chiuso, ma perché acquisiate sempre più competenze; per questo vi invito a partecipare ai convegni, agli incontri regionali e nazionali (la Diocesi sarà contenta di dare un contributo economico per questo). La seconda: cercate il gioco di squadra. È molto bello che la Veglia di questa sera sia stata organizzata da tre Uffici (Ufficio Catechistico, Ufficio Liturgico, Caritas). Ringrazio il parroco della cattedrale di Pennabilli che si è messo a disposizione. Abbiamo ricevuto, sia a livello di Consiglio presbiterale che di Consiglio pastorale, l’invito a ridimensionare il numero delle iniziative, a concentrarsi solo su alcune, ma frutto dell’intesa degli Uffici.
La terza: fare tutto con spirito di servizio. Dico ai sacerdoti presenti, e lo dirò a tutti: siate più attenti agli Uffici pastorali, perché hanno un compito importantissimo: aiutare la Chiesa diocesana ad essere presente su tutta la realtà; cogliere le esigenze che emergono; offrire una parola sapiente per ciascun ambito: l’evangelizzazione, la catechesi, il culto a Dio, la carità, la famiglia, i problemi sociali e del lavoro, la scuola e la cultura, i giovani, le vocazioni, lo slancio missionario ad gentes, la salute, la comunicazione. All’interno di questi settori, poi, ci sono tante altre specificità. A volte, c’è una fluttuazione di nomi: si parla di Centro diocesano, di Ufficio diocesano, di Servizio diocesano. Preferisco maggiormente la parola “Servizio” alla pastorale.
«Lo Spirito Santo guida la Chiesa verso la verità tutta intera (cfr. Gv 16,13), la unifica nella comunione e nel servizio, la costruisce e la dirige mediante i diversi doni gerarchici e carismatici, e la arricchisce dei suoi frutti» (LG 4). Così pensiamo la Chiesa, la nostra Chiesa!

Omelia nella Messa crismale

Pennabilli (RN), cattedrale, 28 maggio 2020

Is 61,1-3.6.8b-9
Sal 88
Ap 1,5-8
Lc 4,16-21

1.
«Canterò per sempre l’amore del Signore. Il Signore ha trovato me/ con il suo santo olio mi ha consacrato/ la sua mano e il suo braccio mi accompagna/. E io canto: tu sei mio Padre/, mio Dio e roccia della mia salvezza». Così parafrasando il Salmo responsoriale.

Cari fratelli presbiteri,
è per questo che siamo qui: per cantare all’amore del Signore, per la predilezione con cui ci ha scelti, per la decisione con cui ci ha inviati, per la certezza con cui ci accompagna mediante il suo Spirito: «Lo Spirito del Signore è su di me». Ognuno lo canti con gratitudine. È in mezzo a noi il Signore Gesù: egli «è colui che ci ama e ci ha liberati dai nostri peccati con il suo sangue, che ha fatto di noi un regno di sacerdoti per il suo Dio e Padre» (Ap 1,5-6).
Cari fratelli e sorelle presenti, pregate con noi, grati per il Battesimo e per l’unzione che ci ha resi popolo sacerdotale, profetico e regale. Pregate per noi, perché sappiamo vivere il sacerdozio ministeriale a vostro vantaggio.

2.
Nella liturgia dell’Ascensione abbiamo riascoltato con quale tono perentorio il Signore ha inviato i discepoli. Erano ancora scossi, increduli e perplessi: «Mi è stato dato ogni potere in cielo e in terra, andate dunque!» (Mt 28,18-19). Satana aveva tentato di lusingare Gesù sul monte altissimo delle tentazioni, promettendo gloria e potere (cfr. Mt 4,1-8). È il Padre che dà a Gesù il vero potere sul monte Calvario, per la sua obbedienza e spoliazione sulla croce. Andate, dunque, «non abbiate paura, io ho vinto il mondo (cfr. Gv 16,23)». Ricordate la visione di Paolo dalla quale ha inizio il suo ministero in uno dei luoghi umanamente più impossibili e refrattari al Vangelo: Corinto (cfr. At 18,9-13)!
La nostra missione è la stessa di Gesù: su lui, prima che su noi, scese lo Spirito per fasciare ferite, asciugare lacrime, spezzare catene, annunciare la grazia del Signore. Lo Spirito ora si posa su «vasi di creta» (2Cor 4,7), su strumenti fragili, bisognosi di incoraggiamento, di motivazioni solide e di compagnia. La buona notizia affidata alla nostra responsabilità è «potenza di Dio» (Rom 1,16), brilla di luce propria al di là delle nostre meschine presunzioni!

3.
Qualche tempo fa papa Francesco ha messo in evidenza le amarezze che possono condizionare la vita e la missione dei presbiteri. Prima di rinnovare le promesse sacerdotali guardiamole con serenità per poi superarle. Stride che chi porta il lieto annuncio, la gioia del Vangelo, lo faccia con animo amareggiato. Non è l’apostolo un servitore della gioia (cfr. 2Cor 1,24)? Seguiamo con parole nostre, passo passo, le riflessioni di papa Francesco.

4.
La prima amarezza può affiorare sul nostro cammino di fede. C’era dell’amarezza anche nei discepoli di Emmaus: «Noi speravamo… ma con tutto ciò sono passati tre giorni…» (cfr. Lc 24,21). È l’amarezza che affiora pian piano sui fallimenti, le delusioni, le fragilità, l’irraggiungibilità della meta. Talvolta, viene a causa di situazioni di deserto: aridità nella preghiera, apparente inefficacia della grazia, ricadute… Bisogna guardare dentro a questa amarezza; non è detto sia una colpa: è quello che sentiamo. Va accolta: può essere una grande occasione. La radice sta nel confondere attese e speranza.  Un conto sono le attese, un conto la speranza. Le attese nascono dai nostri progetti, dai nostri calcoli, da noi stessi. Inutile dire che qui il nostro io è al centro e magari sogna ricompense, avanzamenti, gratifiche… Vien da chiedersi: «Che cosa cerco veramente?». È necessario essere schietti con se stessi. È una situazione pericolosa sia quando le attese sono compiute: «Anima mia, hai a disposizione molti beni per molti anni, riposati, mangia e bevi e datti alla gioia» (Lc 12,20), sia quando arrivano le delusioni. La speranza, invece, attende, ma attende da un Altro. Sboccia quando non ci si difende più e ci si arrende, riconoscendo il proprio limite. Non si guarda a se stessi. Si capisce che non ci si salva da sé. Nasce allora l’abbandono fiducioso: «Come un bimbo in braccio a sua madre» (Sal 131,2). Un autore spirituale antico – l’autore della “Nube della non conoscenza” – scriveva ai principianti nel cammino spirituale: «Quando ti accorgi di non potercela fare in nessun modo a ricacciare quei pensieri, mettiti tutto accovacciato dinanzi a loro, come un soldato povero e debole, sopraffatto in battaglia e ragiona così dentro di te: “È da pazzi continuare a lottare con loro, ormai sono perduto per sempre”. In questo modo ti abbandoni a Dio, mentre sei nelle mani dei tuoi nemici. Ti prego di prestare molta attenzione a questo espediente. Infatti, se tu lo metti in pratica, va a finire, secondo me, che ti sciogli in lacrime. Sono peraltro certo che questo stratagemma, se lo si intende bene e per il verso giusto, non è altro che la vera e la piena conoscenza di quel che sei in realtà: un essere miserabile e corrotto, ancor peggio che niente. Una tale conoscenza e coscienza di sé è l’umiltà stessa e questa umiltà fa sì che Dio in persona, nella sua potenza, scenda a vendicarti dei tuoi nemici e che nel suo amore infinito ti risollevi a sé per asciugare i tuoi occhi spirituali così come fa un padre con il proprio figlio che sta per finire nella fauci dei cinghiali o di orsi inferociti (Anonimo, La nube della non conoscenza, Áncora, 1981, p. 191).

La mia concittadina, santa Caterina Vegri (1413-1463), ha scritto un’operetta ascetico-mistica intitolata “Le sette armi spirituali”. Le prime due armi, indispensabili per la vittoria, sono la diffidenza di sé, la confidenza in Dio.

5.
C’è amarezza nella vita del prete quando si isola dagli altri. Solitudine ed isolamento sono due distanze di natura diversa. La solitudine cristiana è quella di chi – chiusa la propria stanza – si intrattiene con il Padre nel segreto (cfr. Mt 6,6). Ma allora è una solitudine desiderata, cercata, perché virtù. È la solitudine creata in noi dalla vita interiore e necessaria alla vita interiore. È virtù che fa spazio, assicura condizioni, crea capacità di accoglienza, di accumulo e di custodia, come una conca con l’acqua che sale pian piano e trabocca. E di che cosa se non di amore? Solitudine piena d’amore, per amore, per l’Amore! Ma poi dona, effonde vita: è una benedizione! Come i nevai sulle cime dei monti che diventano torrenti e dissetano le valli… Ben diverso da questa solitudine evangelica è l’isolamento. L’isolamento è un dramma quando riguarda la vita del prete. Un prete isolato prima o poi si spegne.
Può essere isolato rispetto alla realtà stessa della grazia: non sente d’essere circondato “da amici celesti”. Ritiene che la sua vicenda, le sue afflizioni, non tocchino nessuno. Tiene lontano lo Spirito Santo.
Può essere isolato rispetto alla storia. Tutto sembra consumarsi qui e ora: vede solo se stesso. Non ha l’abitudine a mettersi nei panni degli altri. Ogni cosa si apre e si chiude con lui, dimenticando il senso continuo della storia del popolo di Dio a cui appartiene: come se nulla ci sia stato prima e nulla dopo. Un sintomo di questo isolamento è la tendenza a non considerare chi l’ha preceduto, a non far crescere quello che è iniziato prima di lui. Accade, talvolta, che entrando in una comunità, faccia “tabula rasa” di quello che c’è, senza preoccuparsi di continuare il bene che non ha iniziato lui. Personalizza troppo la sua impronta, senza tenere conto di chi sta intorno e di chi verrà dopo. Non si sente parte di un cammino comunitario.
C’è un isolamento anche rispetto agli altri. Si manifesta come incapacità di instaurare relazioni significative di fiducia e di condivisione. Gli altri sono antagonisti. Gli succede di “paragonarsi” con gli altri. Il paragone è un demone che porta all’autoreferenzialità o alla tristezza. Ricordate Saul allorché sentì le fanciulle della città che gli attribuivano mille, mentre a Davide attribuivano diecimila (cfr. 1Sam 18,7)? Quando mi isolo i problemi sembrano unici e insormontabili: «Nessuno può capirmi… ». Questo pensiero finisce per ingigantirsi e rinchiude sempre più nel proprio io. Il demonio non vuole che mi apra, che parli, che condivida… Il prete isolato si tira fuori da tutto, amaramente. Forse è anche bravo e geniale, ma si avvita su se stesso: non ha la dimensione del “noi”.

6.
Ci sono, poi, le amarezze nella vita del prete date talvolta dal rapporto con i pastori. Si perdona il vescovo se sbaglia; si tollera se ha sensibilità diversa, ma fa soffrire quando è autoritario, magari in forma delicata: allorché ha fretta di imporre progetti, ha ansia per le iniziative facendole diventare il metro della comunione. Ma la comunione non coincide con l’unanimità delle opinioni. È vero, i preti devono essere in comunione col vescovo e il vescovo con i preti: non è questione di democrazia, ma di paternità.
Un altro atteggiamento del pastore che può suscitare amarezze è la non equità: la tentazione di circondarsi dei “suoi”, dei “vicini”, con il rischio di non riuscire a distinguere tra chi compiace e chi consiglia in maniera disinteressata. Il pastore deve tenere conto dell’opinione di tutti, salvaguardando la rappresentatività del gregge, senza preferenze. Questi atteggiamenti del pastore fanno soffrire il gregge che spesso accetta senza esternare nulla. Il Codice di Diritto Canonico dice: «I fedeli hanno il diritto, anzi talvolta anche il dovere, di manifestare ai sacri pastori il loro pensiero su quel che riguarda il bene della Chiesa» (can. 212 § 3).
Ma c’è un’altra situazione nella quale il pastore può essere motivo di amarezza per il suo gregge: quando, preso dai molti uffici, dalle emergenze e dai problemi gestionali, trascura il “munus docendi”. Egli è maestro della fede, del retto credere… È suo compito vegliare «sulla integrità della fede, sulla santità della vita, sulla devozione autentica e sulla carità fraterna» (cfr. Messale Romano, Messa per la Chiesa locale, Post Communio).
Il popolo di Dio ha il diritto di avere dei preti che insegnano a credere e a pregare; i presbiteri hanno diritto di avere un vescovo che insegni a sua volta a credere e a sperare nell’unico Maestro, «via, verità e vita».
C’è abbondante materia per l’esame di coscienza del vescovo. Ma c’è anche l’invito ai presbiteri perché siano la sua consolazione. Così sia.

Omelia nella Solennità dell’Ascensione

San Marino Città (RSM), chiesa di San Francesco, 24 maggio 2020

At 1,1-11
Sal 46
Ef 1,17-23
Mt 28,16-20

«Il Signore illumini gli occhi del vostro cuore per farvi comprendere a quale speranza vi ha chiamati e quale tesoro di gloria racchiude la sua eredità fra i santi» (Ef 1,18). Siamo qui per spalancare occhi e cuore a questa speranza. In questi giorni abbiamo particolarmente bisogno di speranza; speranza di raggiungere il nostro capo, Gesù. Quando si dice “capo” si intende la testa del corpo di cui tutti noi siamo le membra. Noi formiamo con Gesù un solo corpo. Nella realtà soprannaturale siamo già collocati in Gesù. Pensate a quale bellezza siamo chiamati: per questa “osiamo la speranza”!
Oggi la Chiesa è tutta proiettata verso quello che è il suo destino. Nello stesso tempo l’Ascensione è una “solennità” che ci responsabilizza; Gesù dice: «Andate in tutto il mondo, annunciate a tutti il Vangelo, insegnate, battezzate. Tuffate, immergete – questo significa battezzare – tutte le creature nella Trinità Santa: Padre, Figlio e Spirito Santo». Dobbiamo diffondere questo annuncio: è un atto di amicizia verso tutti. Non è indottrinamento, tantomeno proselitismo. A Parma, nella sede dei Missionari saveriani, è stata collocata in cima all’istituto di quattro piani una statua di Gesù che con la mano destra alzata indica: «Andate in tutto il mondo».
Gesù – l’abbiamo letto qualche domenica fa – invita le donne a raggiungere gli apostoli: «Andate ad annunziare ai miei fratelli che vadano in Galilea e là mi vedranno» (Mt 28,10). Proprio là da dove erano partiti. Sul monte Gesù si trova di fronte ai suoi apostoli e ad un gruppo di donne. Da un certo punto di vista, non si può negare che il bilancio di quello che è stato il suo ministero sia abbastanza deficitario. Undici uomini, timorosi, perplessi. Gesù, però, ha una garanzia: sa che lo amano. Non hanno capito molto di lui, ma sono venuti tutti: hanno risposto all’appello. Gesù si rende conto della loro fragilità, ma non si mette a spiegare e a rispiegare… Dice l’evangelista: «Dubitavano». Del resto, che cos’è la fede se non un dubbio risolto? Gesù affida loro la realtà preziosissima che è il Vangelo, l’annuncio del Verbo che si è incarnato sulla terra. Il Vangelo è il concentrato del progetto di Dio su tutta l’umanità. Il Vangelo è il mistero pasquale: Gesù morto e risorto. Questo annuncio dev’essere esteso a tutti e Gesù lo consegna a questo drappello di uomini e a questo gruppo di donne. Avrebbe potuto scegliere ben altri strumenti, eppure ha scelto loro, perché sa che può contare sul loro amore. Il Vangelo, poi, ha una forza propria, una luce che brilla oltre il candelabro su cui è accesa. Post eventum diciamo che Gesù ha riposto bene la sua fiducia in loro. Questa è la logica di Gesù, logica del lievito che fermenta tutta la pasta, logica del granello di sale che dà sapore. Poi Gesù dice: «Ogni potere mi è stato dato». Durante le tentazioni Satana aveva detto a Gesù: «Se tu prostrato mi adorerai, tutto sarà tuo» (cfr. Mt 4,9). Gesù si sottrasse a questo invito al potere umano. Nel mistero pasquale, sul monte dell’Ascensione, il Padre gli dà ogni potere… Un potere che non è di questo mondo (cfr. Gv 18,36), ma è un potere vero. Gesù dice: «Dunque, andate», come dire: «Tutto è già pervaso dalla mia potenza, tutto è avvolto dall’amore incommensurabile di Dio. Andate, senza paura». «Ogni potere mi è stato dato in cielo e in terra: andate, dunque…». Vorrei che quel «dunque» si imprimesse nella nostra memoria per dare coraggio alla nostra testimonianza. Gesù pronuncia poi le parole che chiudono il primo Vangelo ma che non sono congedo: «Io sono con voi tutti i giorni fino alla fine del mondo». Abbiamo iniziato sottolineando l’audacia che ci infonde la speranza, adesso abbiamo un motivo in più per osare: Gesù è sempre con noi. Del resto, tutto il Vangelo di Matteo è attraversato da questa rassicurazione a partire dal nome che viene dato a Gesù, suggerito dall’angelo a Giuseppe: «Sarà chiamato Emmanuele, che significa Dio con noi». Poi, al centro del Vangelo, Gesù dice: «Dove due o più sono uniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro» (Mt 18,20). Nella conclusione del Vangelo: «Io sono con voi tutti i giorni» (Mt 28,20). L’Emmanuele ha lasciato segni della sua presenza. Un grande maestro della Chiesa, papa Leone Magno, nella sua Omelia dell’Ascensione precisa così: «Tutto ciò che fu visibile del nostro Redentore è passato nei segni sacramentali». Grazie, Signore, per la speranza che metti nei nostri cuori. Ci hai scelti, ci hai inviati e sei sempre con noi.

Omelia nella VI domenica del Tempo di Pasqua

San Marino Città (RSM), chiesa di San Francesco, 17 maggio 2020

At 8,5-8.14-17
Sal 65
1Pt 3,15-18
Gv 14,15-21

Come ci è stato ricordato all’inizio della celebrazione eucaristica, oggi il Vangelo ci mette nell’atmosfera dell’Ultima Cena. Gesù è consapevole di quello che sta per succedere, gli Apostoli un po’ meno… ma sono gravati da un certo clima di mestizia. Gesù conforta, consola gli Apostoli. Qualcuno potrebbe farsi una domanda: «Come si fa a consolare mettendo avanti la necessità di osservare i comandamenti?». Non si consola segnalando i doveri, semmai offrendo compagnia. In verità, Gesù non raccomanda l’osservanza di comandamenti; inizia questa parte del discorso semplicemente con una constatazione: «Se mi amate, osservate i miei comandamenti» (cfr. Gv 14,15). Nel contesto è tutt’altro che una ingiunzione o un ricatto, è un’affermazione: «Se mi amate, entrate in questa dinamica che io vi propongo… ». La parola “amore” è un po’ consumata, a volte abusata. Fino a questo punto del Vangelo Gesù non ha chiesto amore verso di sé; anzi, ha chiesto ai discepoli che si amino tra loro come lui ama. Ha chiesto e ha indicato l’amore del Padre, ma non per sé. Adesso lo chiede. «Se farete questo passo, se entrerete in questa logica – dice – vi troverete dentro ad un “ambiente divino”, ad una esperienza nuova». A tutti noi è capitato, quando ci siamo messi ad amare, di far risplendere il sole nelle nostre anime; tutto si è caricato di luce, di calore, di gioia. È un’esperienza possibile a tutti, perché chi ama è in Dio. Penso alle nostre giornate; ci capita di vivere momenti di buio, di oscurità, per tanti motivi. Se riusciamo ad uscire da noi stessi, dal guscio del nostro ripiegamento, troviamo la via d’uscita, quella che non pensavamo. Altre volte siamo sotto il peso della nostra inadeguatezza; ad esempio sei una mamma o un papà, un insegnante o un sacerdote e ti senti impari rispetto a quello che ti è chiesto. Ama. Su questo puoi contare, di amare sei capace, siamo fatti per amare. Così anche quando sentiamo le conseguenze di un errore, di uno sbaglio che abbiamo fatto, in quel momento se ci mettiamo subito fuori da noi stessi per amare, possiamo ricominciare. Ricominciare sempre. Quando Gesù parla dei comandamenti non si riferisce tanto ai comandamenti di Mosè; quelli sono universali e sono sempre da osservare. Gesù parla della sua logica, della sua mentalità. Parla di sé in fondo. In un altro punto dirà: il comandamento “mio” e “nuovo” (cfr. Gv 13,33). Il comandamento è lui, la sua persona: «Io sono la via, la verità e la vita. Se mi amate, vivrete come me, vivete in me, vivete me» (cfr. Gv 14,6). Possiamo vivere Gesù. Una frase di sant’Agostino che spesso viene citata è: «Ama e fa’ ciò che vuoi». Va capita bene, mettendola nel contesto. Sant’Agostino, in quella pagina, riferisce delle nostre incertezze, delle nostre scelte, dei bivi davanti ai quali tante volte ci troviamo: «Devo parlare o è meglio tacere? Devo andare o è meglio restare?». Sant’Agostino dice: «Tu hai il criterio fondamentale del discernimento. Se ami, se veramente nella tua coscienza senti che sei “fuori di te”… fa’ quello che vuoi, perché se ami veramente non puoi fare del male».
Poi, Gesù parla di un intrecciarsi di relazioni, quasi un “avvitamento”. Sembra un gioco di specchi: noi in lui, lui in noi, il Padre in lui e in noi, noi e Gesù nel Padre. C’è una spirale e tutti siamo dentro, immersi, uniti: un circuito d’amore. Gesù sta per fare una grande rivelazione: osa l’avventura dell’amicizia. L’amico dice tutto. Molti ammirano Gesù come Maestro, molti ne hanno una grande considerazione per il patrimonio che ha lasciato all’umanità. C’è chi lo adora ed è giusto. Ma tanti restano al di qua. Guardano Gesù come si guarda un esempio, ma non si lasciano catturare dalle sue parole, che invitano ad entrare nella relazione trinitaria. Qui Gesù rivela che Dio è Trinità d’amore: Padre, Figlio e Spirito Santo. Tante volte pronunciamo questi nomi: ogni volta in cui facciamo “il segno della croce”, il segno che ci unisce come cristiani. Nominiamo il Padre toccando la fronte, nominiamo il Figlio quando la mano scende sul petto e lo Spirito Santo quando tocchiamo le spalle. Gesù rivela la presenza dello Spirito Santo, lo chiama Paraclito, avvocato. Talvolta in parrocchia parlavo della Trinità e un amico ogni volta mi diceva: «Sono concetti troppo teologici…» e intendeva astratti. Ma la nostra fede è tutta racchiusa qui: essere ammessi a partecipare alla vita di “quei tre” e avere anche un rapporto differenziato con loro. È lo stesso Dio, un solo Dio ma in tre Persone. Le rende una cosa sola l’amore, un amore infinito, un amore “da Dio”. Ognuno è perduto nell’altro. Questa non è pura contemplazione astratta, misticismo, perché ha delle conseguenze formidabili. Anche noi siamo stati pensati, costruiti, creati con questo criterio. Anche per noi la vita è piena quando è vita di relazione, quando ci superiamo per uscire da noi stessi ed amare. Se uno studia un po’ di teologia spirituale si imbatte nella testimonianza dei grandi mistici. I grandi mistici sono stati dei grandi imprenditori, dei grandi costruttori. Teresa d’Avila vede la vita cristiana come un castello meraviglioso. La settima stanza, l’ultima, è quella dell’intimità gioiosa con lo Sposo, il Signore. E conclude dicendo: «È il momento in cui la persona che è arrivata lì compie opere ed opere». Domani ricorderemo i cento anni della nascita di san Giovanni Paolo II. Quando venne nella mia città restammo sorpresi di come pregava e come trascinava tutti noi nella preghiera, ed era un uomo sicuramente non fuori dal mondo, non campato in aria.
Vi auguro una buona settimana. In Italia sarà la prima della fase 2, mentre a San Marino la stiamo già vivendo. Fase rischiosissima, ma noi per la carità e l’amore reciproco cercheremo di osservare tutte le precauzioni. La distanza tra noi è per essere più uniti, è un atto d’amore concreto, un servizio che facciamo alla nostra comunità.