Omelia nella XVII domenica del Tempo Ordinario

Sassofeltrio (PU), 26 luglio 2020

1Re 3,5.7-12
Sal 118
Rm 8,28-30
Mt 13,44-52

C’è una domanda che facciamo al Signore più volte in un giorno – talora senza farci molto caso –, nel Padre Nostro: «Venga il tuo Regno». Cos’è il Regno di Dio?
Il Regno di Dio non è una cosa, è “qualcuno”: è Gesù! «Venga il tuo Regno» equivale a dire: «Vieni, Signore Gesù, porta la tua signoria, forte, umile e bella».
Questa domenica, facendo seguito ad altre sette parabole, ci viene detto che il Regno è una realtà con un valore assoluto, tanto che lo si può paragonare ad un tesoro e ad una perla. Nell’antichità, non essendoci le banche come oggi, chi rimediava un po’ di denaro o aveva dei beni li custodiva in un forziere che interrava perché rimanesse al sicuro. Gesù paragona il Regno di Dio (l’amicizia con lui, la vita nuova che lui ci dà) al tesoro più formidabile che ci sia. Allora racconta di un tesoro nascosto e di quanto fa quel contadino che, mentre ara il suo campo, inciampa nella fortuna della sua vita: spostando la terra si accorge del tesoro. Gesù invita a guardare che cosa fa quel contadino: va a casa, non parla con nessuno, poi compra quel fazzoletto di terra. Dà via tutto per assicurarselo. Immagino l’avranno anche criticato, per lo scarso valore di quel terreno… Lui solo sa del tesoro. Per quel tesoro prende tutto quello che c’è sul campo. Nel campo non c’è niente da buttar via, tutto diventa prezioso. Proprio come nella nostra settimana… La iniziamo con un rapporto profondo col nostro tesoro che è Gesù, pertanto prendiamo con fiducia tutto quello che capiterà di bello, di noioso, di difficile, comprese le amarezze. Allo stesso modo prendiamo la nostra famiglia, la nostra vocazione. Prendiamo tutto perché nelle zolle di quel campo c’è un tesoro!
Un particolare importante: l’uomo fortunato che inciampa nel tesoro è pieno di gioia! Ha fatto l’affare della sua vita.
La seconda mini-parabola è la storia di un collezionista. Il collezionista è instancabile nel cercare, non è mai sazio, perché vuole la perla più bella, la moneta più antica, il francobollo più pregiato. Bene raffigura il nostro cuore inquieto che non trova pace finché non trova la sua perla (cfr. Sant’Agostino, Le Confessioni, 1.1). Quando diciamo: «Venga il tuo Regno», Gesù dice: «Ecco, sono io…», altro che la perla, altro che un francobollo, altro che una moneta.
Mentre nelle parabole precedenti Gesù ha dato spiegazioni, così nella parabola del seminatore e nella parabola della zizzania e del buon grano, in queste Gesù lascia da parte la didattica, cerca la provocazione, sembra dire: «E tu che fai?». I nazaretani gli hanno risposto picche, e noi?
Quando leggo le Sacre Scritture trovo scritto che anche il Signore ha il suo tesoro, la sua perla: siamo noi (cfr. Is 43,1-8)! Ciascuno di noi è il suo tesoro, la sua perla: per noi ha dato tutto (cfr. Fil 2,6-11).
Ieri sono andato a celebrare la Messa all’Assemblea dell’Associazione Papa Giovanni XXIII (associazione che ha una grande attenzione al sociale e si occupa dei ragazzi disabili o in difficoltà). Ho parlato con alcuni di loro che mi hanno confidato: «Questi bambini, questi ragazzi sono i nostri tesori».
Il Regno di Dio è il nostro tesoro; noi siamo il tesoro di Dio; il Signore ci dice: «Guarda i poveri, gli ammalati, quelli che fanno fatica… sono tesoro, sono perla».

Omelia nella XVI domenica del Tempo Ordinario

Passo della Mendola (TN), 19 luglio 2020

Sap 12,13.16-19
Sal 85
Rm 8,26-27
Mt 13,24-43

Buon grano tra cattive erbe, minuscoli grani di senape fra le zolle e un pizzico di lievito nella farina: immagini che Gesù somministra per curare la nostra impazienza e la nostra sfiducia. Ognuno provi a pensare a quando gli accade di perdere la speranza, di essere scontento, di sentirsi frustrato per gli scarsi risultati. Ecco, il Vangelo può dare risposte. Gesù, attraverso la parabola del buon grano e della zizzania, ha voluto anzitutto confidarci che lui sa stare nella complessità, anche nella complessità più complessa che è quella dei rapporti. Può darsi che Gesù, nel raccontare questa parabola, abbia tratto ispirazione da fatti di cronaca di campagna, magari invidie fra agricoltori, ma più verosimilmente Gesù si ispira a quella insoddisfazione che i suoi discepoli gli manifestano. È vero, nel cuore degli uomini da sempre convivono l’aspirazione alla bellezza e dall’altra la mediocrità. Da una parte il desiderio di bontà e dall’altra esplodono bolle di odio, oppure desideri di pace da un lato e guerriglie dall’altro. Il cuore umano è fatto così.
Gesù parla della piccola realtà nascosta che è il Regno… in realtà è Lui stesso, che si è calato in questa umanità: un uomo fra miliardi e miliardi di esseri umani. Gesù ha accettato di entrare nella vicenda della storia: non la teme, siede a mensa con i peccatori ed è disposto anche a cammini di croce. La parabola del buon grano e della zizzania sta a rivelarci questo. Gesù vuole così i suoi discepoli.
Siamo nel punto focale della parabola; a confronto, più che due persone, sono due modi di pensare: da una parte il modo di pensare di Gesù, che vuole che il bene cresca nonostante il male, anzi vuole che l’amore, crescendo, soffochi il male che ha attorno; dall’altra il modo di pensare dei servi, i quali vorrebbero fare piazza pulita di tutto ciò che non va… In fondo è l’atteggiamento di quei discepoli che, impazienti, si aspettavano di vedere il Regno di Dio esplodere in tutta la sua bellezza subito, immediatamente, mentre invece è un instaurarsi paziente, lento, attraverso tante prove. Questo fa pensare a tanti nostri atteggiamenti, come quando siamo delusi dall’irrilevanza che può avere la presenza cristiana nel mondo, o quando constatiamo tanti insuccessi. Gesù ci chiede di avere la mentalità del lievito, la mentalità del piccolo seme. Gesù sembra dire: «Abbi pazienza, lascia crescere, impara ad attendere e poi vedrai il campo pieno di una messe risplendente». Allora camminiamo con pazienza nella fiducia del Regno di Dio che avanza.

Omelia nella XV domenica del Tempo Ordinario

Bascio (RN), 12 luglio 2020

Is 55,10-11
Sal 64
Rm 8,18-23
Mt 13,1-23

Messa conclusiva del Campo organizzato
dall’Azione Cattolica Settore Adulti: «Eccomi, manda me» (Is 6,8)

Carissimi,
la parabola che medito insieme a voi la dedico a coloro che si sentono missionari. Per espansione penso ai genitori, agli educatori, agli insegnanti… Non tratterò l’attualizzazione morale della parabola, con la spiegazione di che cosa rappresentano il terreno sassoso, il terreno coperto dai rovi o la strada.
Prima di cominciare vorrei che fermaste la vostra attenzione – è necessario per l’evangelizzatore – sul contrasto fra Gesù, che sta sulla barca e parla da quel pulpito così instabile, e la folla che sta sulla terraferma, alla ricerca di cose sicure. Trasportate questo confronto alla nostra vita di credenti. A volte non ci fidiamo abbastanza, vogliamo stare, appunto, sulla terraferma, mentre Gesù chiede che accettiamo il rischio, che non ci lasciamo prendere dalla paura quando ci troviamo nell’instabilità: c’è lui sulla barca!

Veniamo alla parabola. Il protagonista assoluto – non siamo noi, che siamo terra buona o sassosa – è l’evangelizzatore: Gesù che esce a seminare. La storia della sua seminagione è caratterizzata da un triplice fallimento. Certamente non è per la sua incapacità a compiere il suo mestiere: il fallimento è causato dal terreno. Il vertice della parabola è laddove si dice che il seme, l’ultima manciata di semi, ha prodotto un triplice raccolto. Addirittura, c’è un’iperbole: produce il cento per uno! La parabola risveglia in noi una domanda come missionari e come educatori: come la mettiamo con i fallimenti, con le delusioni? Anche Gesù si è trovato in queste condizioni. Dal capitolo 10 in poi per Gesù c’è una svolta, un’ascesa pericolosa verso Gerusalemme. La domanda che facciamo al Vangelo è proprio questa: come dobbiamo reagire quando da missionari, da educatori, incontriamo tanti fallimenti?

La risposta della parabola è la seguente: «Stai tranquillo, ci sarà un raccolto abbondante». Anche il Messia ha vissuto il dramma di vedere la Parola di Dio non ascoltata, anche lui è passato attraverso uno scacco; anzi, è previsto. Nel caso di Gesù era il rifiuto di Israele. La storia di Israele è tutta una cavalcata verso l’arrivo del Messia, ma quando arriva non viene accolto. Quanta semente Gesù ha sprecato… Nondimeno è stato generoso, prodigo di seminagione.

Un piccolo aiuto ce lo dà la Seconda Lettura, tratta dalla Lettera di San Paolo ai Romani, che parla di una realtà sottoposta all’infermità e ci sono delle grida: il grido della natura, sottoposta alla caducità; il grido dei figli degli uomini, che desiderano sia manifestata la loro vera condizione di figli di Dio, ma hanno l’impressione che il Padre sia lontano, irraggiungibile; il grido dello Spirito, solidale con noi. La risposta è che verrà rivelato. Direte: nell’aldilà, nell’eternità. Vorrei, invece, che questa parola del Vangelo ci desse coraggio nell’oggi, nelle difficoltà che dobbiamo affrontare. Con la speranza si continua a seminare, si continua a dire, si continua ad insegnare, si continua a voler bene. I fallimenti li dobbiamo mettere in conto, ci dobbiamo convivere, perché le cose stanno così. Il Vangelo non è un’iniezione con una sostanza analgesica che non fa sentire i dispiaceri, le delusioni… Li sentiamo, ma nondimeno siamo in quella prospettiva. Tutta la natura si innalza verso la luce, ma contemporaneamente la radice deve scendere in profondità. Questo è il nostro cammino di cristiani. Andare in profondità vuol dire la fatica, la rinuncia a noi stessi, la convivenza con i fallimenti. Nella misura in cui si accetta questa logica, nella speranza, si cresce e si va verso la luce.
Concludo con quello che diceva Gesù del chicco di grano: «Se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto» (Gv 12,24). Ritorno all’iperbole: un solo chicco ne fa altri cento. Così sia.

Omelia nella XIV domenica del Tempo Ordinario

Fiorentino (RSM), 5 luglio 2020

Zc 9,9-10
Sal 144
Rm 8,9.11-13
Mt 11,25-30

Questa pagina tratta dal capitolo 11 del Vangelo di Matteo viene chiamata “la perla” del primo Vangelo.
Per entrare meglio nel brano, faccio due premesse. La prima riguarda l’esplosione di gioia di Gesù. Nessuno dubita che Gesù avesse un cuore gioioso. Così lo vediamo alle nozze di Cana. È pieno di gioia nella casa degli amici Maria, Marta e Lazzaro (si è addirittura lasciato profumare da Maria!), quando accoglie i bambini mentre gli apostoli li cacciano. Qual è la miccia che fa esplodere la sua gioia? Lo vedremo tra poco.
La seconda premessa: finalmente sappiamo com’è il contenuto della preghiera di Gesù. I Vangeli (soprattutto quello di Luca) parlano di Gesù che prega, che sparisce per cercare i luoghi più adatti alla preghiera. Ma, tolto il Padre Nostro e la grande preghiera sacerdotale del Vangelo di Giovanni, Gesù non lascia trapelare le preghiere che rivolge al Padre. Certo, pregava i Salmi, perfino sulla croce quando non aveva più fiato. Ma la sua preghiera personale, più intima, più segreta, non è stata registrata. «Ti rendo lode, o Padre…»: è una preghiera di ringraziamento, di lode, rivolta al Padre. Lo chiama per nome.
Veniamo al perché della gioia di Gesù. Gesù viene da una situazione piuttosto deludente: dopo l’inizio del suo ministero in Galilea cominciano le resistenze al suo messaggio. Giovanni Battista era stato imprigionato e anche lui ha dubbi riguardo a Gesù. Lui, il precursore, manda una delegazione per sapere: «Sei tu colui che deve venire o dobbiamo aspettare un altro?» (Mt 11,3). E Gesù manda a dire: «Ditegli che ai poveri è annunciato il Regno di Dio, che i malati sono risanati, che i ciechi recuperano la vista…». A Cafarnao non farà miracoli e dirà: «Nessun profeta è ben accetto in patria» (Lc 4,24). È il momento della crisi. Ci sono “posti vuoti” (e non perché obbligati dal lockdown!). Più tardi Gesù dirà: «Volete andarvene anche voi?» (Gv 6,67). È bello vedere Gesù che si sorprende del Padre, perché quei “posti vuoti” adesso sono affollati dagli ultimi, dai piccoli, dai semplici e questo è motivo di grande gioia. È un po’ quello che accade nel racconto del “banchetto nuziale” (cfr. Mt 22,1-11). Racconta di quel re che preparava le nozze per suo figlio e aveva mandato a chiamare gli invitati ad uno ad uno, ma ognuno di loro si scusò con i motivi più svariati. Il protagonista della parabola non tollera i “posti vuoti” e manda i servi ad invitare chi sta ai crocicchi delle strade. Non tollera la sala del suo Regno vuota, la vuole piena: è un Padre che aspetta tutti i suoi figli. Ecco il motivo della gioia di Gesù.
Un altro dettaglio. Gesù non ha detto: «Queste cose hai tenute nascoste ai sapienti e ai dotti», quasi che ci sia una categoria di persone costituita dai sapienti e dai dotti. La traduzione corretta è: «…Queste cose hai tenute nascoste a sapienti, a dotti…», come per dire che ci sono sapienti e dotti che non comprendono il mistero del Regno. «Queste cose» il Padre le ha rivelate «a piccoli». Non c’è nessun discredito per la cultura, per i saperi. Gesù parla di una sapientia cordis che hanno i semplici. Anche noi possiamo essere «semplici», cioè puer evangelicus (bambino evangelico). È puer evangelicus chi si fida di Dio, chi si abbandona a Lui, chi ricomincia sempre. Sottolineo una caratteristica dei bambini: i bambini capiscono immediatamente chi vuole loro bene. «Padre, così a te è piaciuto». Gesù parla del suo rapporto col Padre e del rapporto del Padre con lui e lascia intendere che questa sapienza viene dal rapporto con il Padre. Gesù conclude dicendo: «Venite a me, voi tutti…». Non raduna per fare un corso di teologia o per dar vita ad una filosofia. Dice: «Venite per stare con me. Siete stanchi, oppressi, peccatori; siete pescatori, esattori delle imposte, uomini del contado… Venite a me, state con me». Poi Gesù apre il suo cuore. È un cuore di uomo: Gesù conosce il cuore, i sentimenti che si muovono in esso. È un cuore divino, squarciato: tutto dona, non trattiene nulla per sé; c’è una eccedenza di amore. È un cuore sempre aperto: per l’eternità!

Discorso di ringraziamento ai medici, agli infermieri e agli operatori sanitari dell’Ospedale di Stato della Repubblica di San Marino

Cailungo (RSM), Ospedale di Stato, 2 luglio 2020

Rivolgo un doveroso ringraziamento ai dirigenti dell’Ospedale di Stato della Repubblica di San Marino per aver accolto il mio desiderio di questo incontro. Saluto cordialmente la Reggenza e le Autorità presenti, saluto i medici, gli infermieri, gli operatori sanitari e quelli della Protezione Civile. Saluto il Cappellano, le suore e tutti i volontari che, a vario titolo, si sono messi a disposizione.
Nel corso di questi mesi così travagliati vi siete applicati a fronteggiare l’emergenza sanitaria con generosità e impegno. Siete stati un segno visibile di umanità che scalda il cuore. Nel turbine di un’epidemia con effetti sconvolgenti e inaspettati la vostra presenza affidabile ha costituito un punto di riferimento, prima di tutto per gli ammalati, ma anche per i famigliari che, non avendo la possibilità di far visita ai loro cari, hanno trovato in voi altre “persone di famiglia”, capaci di unire la competenza professionale con quelle attenzioni che sono concrete espressioni di amore. I pazienti hanno sentito spesso di avere accanto a loro – prendo le parole di papa Francesco – «angeli che li hanno aiutati a recuperare la salute e nello stesso tempo li hanno consolati, sostenuti e, qualche volta, accompagnati fino alla soglia dell’incontro finale con il Signore». Ci sono stati momenti e casi nei quali avete testimoniato la vicinanza di Dio a chi soffre, siete stati silenziosi artigiani della cultura della prossimità e della tenerezza; oltre che con la somministrazione di cure importanti, talvolta avete saputo essere vicini con piccoli segni – ma non per questo meno importanti – come una carezza, il passare un cellulare… Tutti gesti che dicono umanità. Questo ha fatto bene anche a noi, noi nella società civile, costretti alla lontananza precauzionale e contenitiva. Adesso è il momento in cui fare tesoro di tutta l’energia positiva che è stata investita, una ricchezza che in buona parte può e deve portare frutto per il presente e il futuro delle nostre Istituzioni di Sicurezza Sociale. Questo richiede l’impegno, la forza e la dedizione di tutti. Possiamo dire che tante sono state le testimonianze di amore generoso e gratuito che hanno lasciato un’impronta indelebile nella coscienza e nel tessuto della società, insegnando quanto ci sia bisogno di vicinanza, cura, sacrificio per alimentare la fraternità e la convivenza civile. Tutto questo non da soli, ma insieme e con la grazia di Dio. Come credenti ci spetta di testimoniare che Dio non ci abbandona, ma dà senso anche a questa realtà e al nostro limite e che con il suo aiuto possiamo affrontare le prove più dure. Dio ci ha creato – così insegna la fede cristiana – per la comunione con lui, per la fraternità tra noi ed ora più che mai si è dimostrata illusoria la pretesa di puntare tutto su se stessi, facendo dell’individualismo il principio guida della società, di fronte alla grande lezione di solidarietà e di vicinanza. Appena passata l’emergenza potrebbe succedere di scivolare e ricadere in questa illusione: «Chi fa da sé, fa per tre». Abbiamo visto che abbiamo bisogno gli uni degli altri, di qualcuno che si prenda cura di noi, che ci dia coraggio. Può succedere anche che ci dimentichiamo che abbiamo bisogno di un Padre, il Signore Dio, che ci tenda la mano. Pregarlo, invocarlo, non è illusione; illusione, semmai, è pensare di farne a meno. La preghiera è l’anima della speranza.
Ho ricevuto un biglietto da un amico africano che mi esprimeva tutta la solidarietà del suo popolo. «Noi capiamo bene quello che vivete – mi ha scritto –, perché noi lo viviamo sempre». È stato come ricevere un cazzotto. Ci sono milioni di persone che soffrono per la fame, un miliardo per la sete. Io vivo nella parte Nord del pianeta, quella parte che pensava che tutto andasse bene, che non potesse succedere una cosa di questo tipo. Ricordo benissimo la telefonata al signor Segretario di Stato la domenica sera in cui ho ricevuto il protocollo che chiedeva la chiusura delle chiese e delle scuole e la richiesta di eventuali ambienti per ospitare ammalati. Come tutti voi, ho provato spavento e, insieme, ho sentito di essere un corpo solo con gli altri e solidale con il pianeta. Fino a quel momento credevo di essere (e me ne vantavo) «un sano in un mondo malato»…
Vi ringrazio. Vorrei non sentiste l’espressione della mia gratitudine come una formalità. Mi è dispiaciuto non aver potuto fare visita agli ammalati. Ma ci siamo fatti presenti agli ammalati attraverso tanti di voi medici, infermieri, operatori sanitari. Nei giorni precedenti la Pasqua ho consegnato un cartoncino-preghiera che penso sia arrivato sul comodino dei pazienti per aiutarli a «fare Pasqua». Grazie davvero. Concludo dandovi la benedizione del Signore.
La parola “benedizione” significa “dire bene”: dico bene di voi, dico bene del nostro Ospedale e, in un certo senso, dico bene anche di questa esperienza che tanto ha insegnato sul piano della solidarietà e della preghiera.
In quei giorni chiesi ad un tecnico che andava per le case a riparare gli elettrodomestici: «Cosa fa la gente chiusa in casa?». Erano le prime settimane di lockdown. Mi ha risposto: prega. Abbiamo imparato la solidarietà, ad essere più sapienti, ma anche a pregare. Ripeto: la preghiera è l’anima della speranza.

Omelia nella XIII domenica del Tempo Ordinario

San Marino Città (RSM), chiesa di San Francesco, 28 giugno 2020

2Re 4,8-11.14-16
Sal 88
Rm 6,3-4.8-11
Mt 10,37-42

Lasciamoci sorprendere dal Vangelo! Se torneremo a casa (oppure cambieremo canale o spegneremo la televisione, per chi segue la celebrazione in tv) e ci rimarrà un interrogativo o una inquietudine vorrà dire che il Vangelo ha raggiunto il suo scopo. Noi pensiamo di aprire il Vangelo, ma in verità è il Vangelo che apre noi.
Questa mattina c’è un clima un po’ festaiolo, perché è l’inizio delle vacanze per tanti, nonostante l’incombenza del virus, e questo Vangelo è come un cazzotto sulla bocca dello stomaco. Per dieci volte Gesù introduce con il pronome relativo “chi” delle esigenze radicali: «Chi ama padre o madre più di me, […] chi ama figlio o figlia più di me, […] chi non prende la propria croce, […] chi avrà tenuto per sé la propria vita…». Perché questa parola apparentemente severa, dura, così radicale? Gesù sta annunciando l’avvenimento più atteso di tutta la storia: un avvenimento luminosissimo, radioso, portatore di gioia, ma anche minaccioso, che è il Regno di Dio, la regalità di Dio. Questo avvenimento è stato preparato da tutta la storia e adesso, nei giorni di Gesù, questo avvenimento “esplode”. Sembra quasi che Gesù dica: «Si salvi chi può (in senso buono ovviamente)!».
Partecipai ad una conferenza importante. La sala era gremita. A tenere la conferenza era un celebre biblista, Rinaldo Fabris. Commentava i brani in cui Gesù esprime il compimento del Regno e tutta la radicalità della sequela. A proposito di questi “detti”, un distinto signore si alzò in piedi (era un professore dell’Università di Ferrara) e chiese: «Padre, qui Gesù che cosa intende dire veramente? Che genere letterario adopera?». Si fece un grande silenzio nella sala. Rinaldo Fabris si alzò in piedi e disse semplicemente: «Gesù ha proprio detto queste parole, così». Restammo tutti stupiti perché in fondo quel professore universitario non aveva fatto altro che esprimere ad alta voce i pensieri di tutti. Cercavamo tutti di interpretare e misurare quelle parole. Rinaldo Fabris ci fece capire che davanti a Gesù bisognava prendere una decisione. Noi a volte siamo chiusi nelle nostre abitudini da “benpensanti” o praticanti di una religiosità senza slanci. Quando ci capiterà di stupirci? Per questo motivo ho esordito augurando che il Vangelo ci metta in crisi, susciti stupore, faccia nascere preghiera nell’ascolto delle parole di Gesù. La storia ha fatto la sua parte, dividendo il mondo “prima di Cristo” e “dopo Cristo” per dire l’evidenza che il Regno di Dio è esploso con Gesù, è venuto sulla terra. Per Regno si intende la signoria salvifica di Dio.
Ho bisogno di fare due precisazioni. La prima è questa. Qui Gesù non parla alle future monache o ai futuri eremiti: è un discorso che fa a tutti. Tutti siamo invitati a prendere una decisione davanti a Gesù e ad essere radicali nella nostra decisione. La seconda è che Gesù non è contro la gioia del vivere, contro la storia, contro la bellezza. Non c’è nessun dualismo. Basti pensare a quanto Gesù abbia amato il padre e la madre… Quando Gesù introdurrà Maria e Giuseppe nella consapevolezza che ha un’altra paternità, dice il Vangelo che Gesù torna a casa, a Nazaret, ed è loro sottomesso, cioè ritorna ad una vita normalissima di fiducia e di disponibilità a lasciarsi educare da Maria e da Giuseppe. Poi, Gesù dice anche che il discepolo avrà cento case, cento campi, cento fratelli, cento sorelle… e tanta gioia (cfr. Mt 19,29).
Mi soffermo su una delle frasi introdotte dal pronome relativo “chi”: «Chi accoglie voi, accoglie me, chi accoglie me accoglie colui che mi ha mandato». C’è come un “avvitamento” attorno al verbo “accogliere”. Ciò sta a significare che l’avvento del Regno di Dio non è una faccenda puramente umana, ma un avvenimento trinitario. La regalità di Dio è Dio che ci prende dentro, per cui l’umile missionario e chiunque di noi “vive Gesù”, ha questa consolazione: porta il Signore. E chi l’accoglie, accoglie il Signore, che è dentro a questo avvenimento. Inoltre, chi accoglie il Signore accoglie il Padre e c’è presenza dello Spirito Santo. Dunque, la missione non è un fatto organizzativo, non è un’operazione di marketing, non è la ricerca di strategie per convertire le persone, è qualcosa di divino che ci esplode tra le mani. Ciascuno di noi ne è l’artificiere.
Aprendo la Messa abbiamo detto: «O Dio che ci hai reso figli della luce…». Ognuno di noi è un figlio della luce; ha dentro di sé la luce. Il Battesimo è stato come il fiammifero che ha appiccato l’incendio nel cuore. «… Fa’, o Signore, che non ricadiamo nelle tenebre, ma che restiamo sempre luminosi nello splendore della tua verità». E qual è la verità? È un elenco di nozioni, un teorema? No. La verità è la Persona di Gesù, il Regno di Dio. Gesù dice: «Sceglietemi come fosse la prima volta, abbracciatemi, perché vi do la pienezza della vita, che è la ricompensa». Basta soltanto offrire un bicchier d’acqua… Anche se ci pare di non saper spiegare il Vangelo non importa: viviamolo. È la più bella delle esegesi!

Omelia nella XII domenica del Tempo Ordinario

San Marino Città (RSM), 21 giugno 2020

Ger 20,10-13
Sal 68
Rm 5,12-15
Mt 10,26-33

Comincio con una confidenza: mi sono regalato la carta geografica con i percorsi di san Paolo, grande apostolo e grande missionario. Ha percorso circa 20.000 km, con i mezzi di allora, sulle strade di allora. Ha affrontato il Mar Mediterraneo, smisurato per la comprensione di quel tempo. È approdato a Malta, da lì è arrivato in Italia, a Pozzuoli e poi a Roma. I testimoni antichi assicurano che ha raggiunto anche la Spagna.
Perché esordisco in questo modo? Per agganciarmi al discorso missionario pronunciato da Gesù e che l’evangelista Matteo raccoglie nel capitolo 10. Abbiamo letto soltanto la finale, ma un tema di tutto il capitolo 10 è questo: la missione è un atto di itineranza. Certo, si può essere missionari anche da contemplativi; basti pensare alla piccola Teresa di Lisieux, che è stata proclamata patrona delle missioni pur non essendo mai uscita dal suo monastero. Tuttavia, il Signore manifesta la necessità che la buona novella che Gesù ha sussurrato nel nostro cuore sia proclamata «dalle terrazze» (Mt 10,27) a tutti e che «la Parola corra» (cfr. Rom 10,18). Si tratta di un atto di giustizia, ma anche di amicizia verso tutti i popoli della terra. Non è un dettaglio da poco: l’essere missionari si radica profondamente nella nostra identità di cristiani. Trovo dell’inquietudine, in senso buono, addirittura nella Trinità. Le tre Divine Persone sono in movimento, in danza, in pericoresi l’una nell’altra, in un dono d’amore infinito in cui trovano la loro essenza. Un unico Dio in tre Persone. È un Dio missionario, perché manda. Pensate all’atto della Creazione: non è stato altro che, in fondo, l’esprimere da parte di Dio, liberamente, il suo dinamismo, la sua volontà di amare e di donare l’essere. Torno a precisare che parlo di inquietudine, ma togliete tutto quello che c’è di negativo in questa parola. Il Padre è “inquieto” fino a mandare il Figlio per redimere l’umanità e salvare il mondo. Il tema della missionarietà si radica nella vita intima di Dio. E chi c’è di più “inquieto” di Gesù in questa accezione di dinamismo, di desiderio di partecipare a quella che è la gioia del Regno di Dio? Gesù dirà: «Sono venuto a portare il fuoco, e come vorrei che questo fuoco fosse già acceso» (Lc 12,49). Anche nelle parabole, nei piccoli dettagli, emerge tutta questa benefica inquietudine: la donna che spazza la casa per cercare la moneta perduta e non si dà pace finché non l’ha trovata… chissà in quale fessura del pavimento si è cacciata quella monetina (cfr. Lc 15,8-9)! Così il pastore che lascia novantanove pecore per cercare la centesima che si è smarrita nei greppi delle colline aride della Palestina. Poi finalmente torna a casa felice con la pecora che si era perduta sulle sue spalle (cfr. Lc 15,4-6). Anche il padre della celebre parabola del “figliuol prodigo” è sulla terrazza e guarda se il figlio ritorna. È un padre inquieto, “missionario” (cfr. Lc 15,20). La missione non nasce dall’esigenza di propaganda: questa idea è assolutamente estranea al Vangelo. Come dice spesso il Papa, noi non facciamo missione “per proselitismo”: la missione è un’esigenza della vita pasquale. Se riguardate i racconti della risurrezione di Gesù, vedrete che ogni racconto si conclude con dei verbi di moto: «Andate a dire», «Annunciate a tutti», «Dite ai miei discepoli che vadano in Galilea». Noi non siamo altro che delle scintille del grande evento della risurrezione nel quale siamo immersi, scintille in movimento: la missione. Gesù ci raccomanda di non avere paura. Da dove possono venire le paure per un missionario? Gesù dice per tre volte: «Non abbiate paura». La prima: «Non abbiate paura perché non vi è nulla di nascosto che non sarà svelato». Quindi, quello che sentite all’orecchio annunciatelo. Non tenetevelo per voi, non chiudetevi nel catacombismo, non chiudevi nel “rispetto umano”. Chiede che abbiamo il coraggio di testimoniare la nostra fede. «Non abbiate paura – ripete Gesù – non siate reticenti». Certo, occorre una testimonianza che sia proporzionata, trasparente e contestuale. Una testimonianza proporzionata alla situazione, al luogo. Una testimonianza trasparente: far parlare la vita. Poi, Gesù insiste ancora: «Non abbiate paura della persecuzione». Domani, 22 giugno, ricorderemo in Diocesi san Tommaso Moro, un uomo di grande cultura, filosofo, letterato e martire, vissuto all’inizio del XVI secolo. Viene chiamato dal sovrano Enrico VIII a rivestire la carica di Cancelliere del Regno di Inghilterra. Tommaso è incorruttibile, assolutamente lontano dalla ricerca del proprio interesse. Ad un certo punto sa resistere alle pretese del Re e obbedisce alla sua coscienza e ai principi che significavano fedeltà al Signore, alla sua Chiesa. Fu rinchiuso nella torre di Londra e poi, non avendo cambiato parere, fu decapitato. Tommaso Moro è di quelli che non hanno avuto paura. Ci ha lasciato anche una preghiera per chiedere il buonumore. C’era ben altro a cui pensare nella torre di Londra…
Gesù dice per la terza volta: «Non abbiate paura», come a dire «siate audaci, fatevi speranza in un mondo ferito». Questo è il tema del Convegno che si terrà domani, al quale parteciperanno persone impegnate nella politica, nell’amministrazione e nell’educazione. Ma non è solo per loro, è per tutti. Preghiamo “per loro”, preghiamo “con loro”.
Qualche tempo fa ho letto nelle Fonti Francescane quello che san Francesco insegna riguardo l’obbedienza. Parla di tre livelli di questa virtù. Primo livello: fare quello che ti viene comandato, secondo il tuo stato di vita, secondo le esigenze. Secondo livello: chiedere licenza, cioè sottoponi quello che ti viene in mente al discernimento del Superiore. Terzo livello: chiedere di andare ad annunciare il Vangelo “agli infedeli”, cioè andare nelle terre lontane a parlare di Gesù (FF 736, Vita seconda di Tommaso da Celano, c. CXII). L’obbedienza più grande è ascoltare l’urgenza missionaria che sboccia dal nostro cuore rinnovato dalla Pasqua. Così sia.

Omelia nella Solennità del Sacratissimo Cuore di Gesù

Pennabilli (RN), Cattedrale, 19 giugno 2020

Dt 7,6-11
Sal 102
1Gv 4,7-16
Mt 11,25-30

Oggi, Solennità del Sacro Cuore di Gesù e Giornata della santificazione sacerdotale e ricordo, fra le altre cose, della visita di papa Benedetto XVI alla Diocesi e alla cittadina di Pennabilli. Un motivo di preghiera, questa sera, è la gratitudine al Signore per averci dato la gioia di aver avuto tra noi il Santo Padre.
Dico una parola sul Santo Vangelo appena proclamato. Parto da una constatazione: non sappiamo quasi niente di cosa diceva Gesù nella sua preghiera intima. Sappiamo che spariva nella notte e si intratteneva col Padre, ma nessuno ha mai riferito che cosa dicesse, quale fosse il contenuto della sua preghiera. Nel Vangelo di questa sera ci viene detto che Gesù erompe in un inno di giubilo: «Ti lodo, Padre…». Nel suo cuore c’è la lode perché vede quello che Dio fa nei piccoli. Gesù stava attraversando un momento di crisi; le città del lago nelle quali aveva fatto il suo primo apostolato, dopo una iniziale accoglienza, lo rifiutano al punto che dovrà dire sconsolato: «Un profeta non è accettato nella sua patria» (cfr. Mt 13,57). Poi, le autorità religiose cominciano a fare muro contro di lui. È un momento nel quale deve constatare che davanti a lui – come accade ai nostri parroci – ci sono tanti posti vuoti. Molti se ne sono andati. Un giorno dirà ai Dodici: «Volete andarvene anche voi?» (Gv 6,67). Però vede che quei posti sono occupati adesso da persone semplici, persone che gridano al Signore, che sentono che da sole non ce la possono fare, che hanno bisogno di lui. Allora attorno a Gesù si forma un popolo nuovo di umili, di semplici, di poveri. È commovente vedere Gesù che si meraviglia del Padre e sentire il suo inno di giubilo. Vorremmo accostarci al suo cuore. Propongo, per la meditazione personale e per l’incontro con Gesù nell’Eucaristia, di considerare tre cose sul cuore di Gesù.

La prima. Il cuore trafitto sulla croce è quello di un uomo, è il cuore che è stato tessuto dalla sua mamma che lo ha generato. È il cuore che è stato educato da Maria e da Giuseppe, un cuore umano. Il Verbo di Dio ha voluto amarci con un cuore umano; ha voluto provare quello che proviamo noi, quando il nostro cuore palpita per una forte emozione, quando soffre di qualche abbandono. Gesù vuol sentire i battiti, del cuore quando è nella gioia e nell’incanto: un conto è sapere teoricamente e un conto è vivere. Gesù ha voluto amarci con un cuore da uomo. Non possiamo dirgli: «Signore, cosa vuoi sapere di quello che passo io!». Quello che passiamo noi, l’ha passato anche lui: è in grado di capire, di sentire e di compatire.

La seconda. Il cuore di Gesù è cuore di un Dio squarciato; è il cuore di un innocente condannato ingiustamente, è il cuore di colui che si è caricato del peccato del mondo; è un cuore che dona tutto, perché da quel cuore squarciato escono acqua e sangue, che per noi credenti sono simbolo del Battesimo e dell’Eucaristia, doni che ci fanno vivere.

La terza. Questo cuore squarciato rimane aperto, è aperto anche adesso e per sempre: è il cuore di Gesù Risorto. Gesù si presenterà un giorno a Tommaso, che metterà il suo dito nella ferita, senza provare repulsione. È una ferita sempre aperta, a dimostrazione dell’amore che Dio ha per tutti noi. Restiamo in questo amore. Contempliamo il cuore umano, il cuore divino, il cuore sempre spalancato.

Omelia nella Celebrazione eucaristica per i def.ti nel periodo della pandemia

San Marino Città (RSM), Basilica del Santo, 18 giugno 2020

Deut 8,2-3.14-16
Sal 22
Mt 11,25-30

Eccellenze,
Signore e Signori,
fratelli e sorelle,
anche noi, come descritto nel breve resoconto biblico dal Deuteronomio, abbiamo attraversato un deserto pieno di insidie, un deserto grande e spaventoso, luogo di serpenti e di scorpioni velenosi, terra assetata e senz’acqua. Per noi quel deserto fu dominato da virus invisibili. Il Signore ha permesso questo attraversamento. La Parola di Dio non dice che fu castigo, adopera altre espressioni, altra logica. Fu «per metterti alla prova», «per sapere quello che avevi nel cuore», cioè per metterti a nudo. «Ti ha fatto provare la fame», ma per poterti dare la manna. La manna è un pane del Cielo, significa gratuità, sorpresa, la sorpresa della solidarietà, della bontà che c’è in tanti cuori. «Ti ha messo in cammino per farti felice nel tuo avvenire». Questa è la lettura che il libro del Deuteronomio fa del cammino dell’esodo, questo attraversamento così penoso.

Se dovessimo tradurre con linguaggio corrente questi paradossi ricorrerei al celebre romanzo di H. Hemingway, dove alla domanda «per chi suona la campana», fa rispondere «quella campana suona per te». Tocca a noi non lasciar cadere quanto è accaduto senza trarne profitto. Nella prova, nella sofferenza, nel dolore, quante lezioni di vita: riscoperta della fede e della preghiera; stupore di fronte ad una realtà più grande del nostro minuscolo cabotaggio; solidarietà, interdipendenza, disciplina, controllo di sé; distanziamento dal vicino per salvaguardare il bene di tutti, il bene più grande; sforamento di quella bolla di sapone che tanto spesso ci fa prigionieri. Non chiederti «per chi suona la campana», quella campana «suona per te», per farti conoscere, per farti vedere quello che hai nel cuore, per far sì che tu sappia metterti a disposizione, per darti la manna della solidarietà, per farti felice nel tuo avvenire.

Abbiamo attraversato un grande deserto, ma non ne siamo ancora usciti del tutto. Se l’emergenza sanitaria nella nostra Repubblica – ne parlavo oggi con il Signor Segretario di Stato alla Sanità – sembra ormai superata, o comunque contenuta, in altre nazioni è ancora viva ed è appena iniziata l’emergenza economica, intrecciata con quella sociale: un deserto ancora più vasto e insidioso. Siamo in questo guado, tra la sensazione di avere scampato il pericolo più grande e la consapevolezza di avere di fronte altre lotte, da sostenere insieme, con prudenza e determinazione. Siamo nella situazione di chi corre il rischio di rilassarsi, cantar vittoria, dimenticare il Signore e i buoni propositi maturati durante il cammino nel deserto. C’è un verbo che ricorre nel testo del Deuteronomio: ricordare. Ricordare letteralmente significa “rimettere dentro al cuore”, rimettere dentro al cuore gli avvenimenti vissuti in questi mesi. Vari di noi qui presenti sono parenti e amici di persone che ci hanno lasciato, per “Coronavirus” o per altre malattie, nei mesi delle restrizioni più rigorose, e hanno vissuto un dolore talmente profondo da non poterlo dimenticare. Il rischio, semmai, è che non si riesca a rimetterlo dentro al cuore, cioè a rielaborarlo, perché è un masso che rimane sulla soglia del cuore. Vengono in mente le parole delle donne che sono andate al sepolcro di Gesù: «Chi toglierà la grossa pietra dal sepolcro?» (Mc 16,3). Nelle settimane e nei mesi appena trascorsi ci siamo scontrati con il limite, con la nostra fragilità, con la sofferenza, con l’isolamento e con la morte. Noi solitamente tendiamo a nascondere la morte, a medicalizzarla, ad accettarla fatalisticamente, ma abbiamo dovuto ascoltarla, perché la morte parla comunque.

Mi viene in mente il film di Bergman “Il settimo sigillo”, dove c’è una partita a scacchi con la morte: un’espediente cinematografico-letterario eloquente. Ci siamo scontrati, poi, con quell’ingiustizia che è la solitudine di chi è morto così. Non possiamo permettere che qualcuno scompaia nel nulla, poi occultato. La morte, infatti, incomincia sempre prima nell’abbandono, quando la vita perde valore, o meglio quando noi non sappiamo più vederne il valore. Le preghiere, pur sommesse, e il suono delle campane ci hanno ammonito che la vita non deve finire nella solitudine senza che la comunità sia coinvolta. Grazie per chi ha pensato, progettato e realizzato questo nostro incontro di preghiera, questa sera. Non possiamo accettare che la persona diventi un numero. Nei giorni di “contabilità funebre” l’immagine dei mezzi militari che trasportavano una quantità incalcolabile di bare hanno dato a tutti con sgomento le proporzioni di quello che stava succedendo. Per chi ama, questo è inaccettabile; per noi, come per i tanti per i quali non è stato possibile celebrare i funerali per dare l’ultimo saluto ai loro cari. Ci siamo detti tutti: «Strano, quasi surreale, disumano». Se il male ha provato a rendere ogni defunto un numero, l’amore fa esattamente il contrario: per chi ama, l’amato non diventa mai uno dei tanti; l’articolo tra coloro che si amano non sarà mai l’articolo indeterminativo, non sarà mai “uno” ma “lui”, non sarà mai “un tale”, ma “mio fratello, mia sorella, il mio amico”. Un numero non ha volto, e Dio ci ama personalmente, ce lo insegna la sapientia cordis. Dio ama uno ad uno, conosce ciascuno, perfino i capelli del nostro capo li ha contati, apprezza quel bicchier d’acqua offerto all’assetato che passa accanto. L’amore non perde nulla dell’amato e non vuole perdere nulla, perché tutto è importante. «Venite a me – dice Gesù nel Vangelo – voi tutti che siete stanchi e oppressi». Dice «venite a me» non per introdurci in un nuovo sistema di pensiero oppure in una nuova morale, ma «venite a me» per «trovare ristoro». Per me, per ciascuno, nominare Cristo deve equivalere ad un confortare la vita. Il discorrere di Gesù, come stiamo facendo adesso, deve diventare un racconto di speranza e di libertà, altrimenti è la prova che quelle parole non vengono da lui. Andiamo da Gesù, andiamo a scuola da lui, scuola di vita: «Imparate dal mio cuore», dice Gesù. Il cuore si fa maestro. Gesù lo si impara, imparando il cuore. Così sia.

Omelia nella festa della Dedicazione della Cattedrale

Pennabilli (RN), Cattedrale, 17 giugno 2020

1 Re 8,22-23.27-30;
Sal 94;
1 Pt 2, 4-9;
Lc 19,1-10

Abbiamo cantato: «Rendiamo grazie a Dio nella sua dimora» (cfr. Sal 94).
Cari fratelli e sorelle, due sono state le richieste che rivolte al Signore all’inizio di questa solenne celebrazione, anniversario della Dedicazione della nostra cattedrale. Abbiamo chiesto di potervi offrire un servizio degno, irreprensibile, in questo luogo così ben tenuto; e abbiamo chiesto di ottenere frutti di redenzione: vorremmo avere la stessa felice ventura di Zaccheo. Il Signore è entrato da lui e Zaccheo è cambiato. Il Signore ci ha dato il privilegio e la gioia di costruire una casa tra le nostre case, perché noi qui potessimo accorrere, attingere grazie e favori necessari per il nostro cammino. Questa cattedrale fu costruita allorché le circostanze sociali urbanistiche imposero la traslazione delle strutture episcopali dalla città di San Leo ad altro sito. Avendo individuato tale spazio proprio qui, fra i castelli di Penna e dei Billi, il vescovo di allora, Giovanni Francesco Sormani, progettò una cattedrale decorosa, come cattedrale vicaria. Questa disposizione divenne normata dal decreto di san Pio V: era il 1570. Vari altri furono i restauri e le nuove Dedicazioni; l’ultima, quella del 2000, ad opera di mons. Paolo Rabitti, che è spiritualmente presente in mezzo a noi (sarebbe venuto se non fosse stato impedito dalla situazione di pandemia). Lo ricordiamo con affetto, con gratitudine e con venerazione. «Ma è proprio vero – si chiedeva Salomone – che Dio abita sulla terra?». «I cieli dei cieli non possono contenerti Signore, tantomeno questa casa che io ho costruita». Salomone si rendeva conto che Dio non lo si poteva rinserrare in un limite, in un luogo, tuttavia il Signore gli ha detto: «Lì sarà il mio nome», cioè “una mia particolare presenza”. Questo spazio che ci raccoglie in unità – siamo qui questa sera a nome di tutta la Diocesi – è per noi segno e strumento della nostra unione con il Signore. Noi accorriamo alla cattedrale e il Signore qui ci aspetta, ci dà appuntamento e, insieme a tutta la comunità diocesana, ci fa sua sposa (Chiesa-sposa) e, di più, suo grembo, perché garantisce d’essere presente in mezzo a noi. Noi pensiamo d’aver fatto una cosa bella per lui, ma è lui che ha fatto e fa per noi. I nostri padri hanno edificato questo luogo santo, ma il Signore continua a edificarci come tempio vivo facendoci crescere come Corpo mistico. Nella Seconda Lettura Paolo dice alla comunità di Corinto: «Voi siete l’edificio di Dio». Di sé dice: «Io sono stato come un sapiente architetto, ho iniziato l’opera, ho posto il fondamento, altri costruiranno». Penso alla successione apostolica dei vescovi; uno ha posto il fondamento e altri proseguono l’opera. Ecco il mistero della Chiesa, qui presente e diffusa nel mondo, che «avanza nel suo pellegrinaggio fra le persecuzioni del mondo – in alcuni luoghi sono reali, sanguinose – e le consolazioni di Dio» (cfr. LG 8), fino al raggiungimento della sua pienezza, la città santa, la Gerusalemme celeste. Là non c’è più bisogno del tempio e neppure del sole, perché il Signore risplenderà.

Un Padre della Chiesa, Ignazio di Antiochia, scrive ai cristiani di Smirne, nell’Asia Minore (attuale Turchia): «Là dove c’è il vescovo, là ci sarà la comunità. Allo stesso modo che là dove c’è Cristo, là c’è la Chiesa Cattolica». Questa affermazione – siamo all’inizio del II secolo, nell’epoca immediatamente post-apostolica – ci fa comprendere il fondamento della cattedrale. Nella tradizione della Chiesa dove c’è il vescovo c’è anche il segno del suo presiedere la Chiesa, cioè la cattedra. La cattedra episcopale è il segno della successione apostolica nella testimonianza del Vangelo, nella sua interpretazione. Colui che siede sulla cattedra è il vescovo, che è il garante della fede, perché la successione apostolica (gli anelli che uniscono me al mio predecessore, il mio predecessore al suo e così via fino ad arrivare alla radice) è molto più di una trasmissione di poteri, è l’inserzione nell’apostolicità della Chiesa, nella sinfonia di tutte le altre chiese. La Chiesa diocesana è unita alle altre, ma è Chiesa completa. La cattedra, allora, è simbolo che identifica il luogo in cui il vescovo presiede la Chiesa, predica il Vangelo, veglia sull’autenticità della devozione, promuove la testimonianza della carità e fa di tutto per conservare l’unità. È in questa chiesa, chiamata anticamente domus ecclesiae, da cui la parola duomo, che dall’VIII sec. in Occidente si individuerà il luogo della cattedra episcopale, definendo questo luogo come chiesa cattedrale. Vi sono ragioni teologiche ed ecclesiali, oltre che storiche e culturali, per dare una considerazione speciale alla cattedrale. Questa Solennità della Dedicazione è “giusta e doverosa”.

Nell’attuale situazione che sta vivendo la Chiesa oggi, dobbiamo porci delle domande. Il problema, infatti, non è avere una cattedrale; basterebbe chiamare un’impresa e dei bravi artisti. Il problema è vivere la cattedrale. Oggi la comunità diocesana raramente sente e discerne il significato della “chiesa del vescovo”. Faccio alcuni esempi. In alcuni casi – ho presente celebri cattedrali francesi – assistiamo all’espropriazione stessa della cattedrale, ridotta ad un museo per turisti, soprattutto laddove è un monumento, un’opera d’arte. Non so se i vescovi abbiano qualche responsabilità in questo. Ci sono altri casi – penso, ad esempio, la cattedrale di Pozzuoli – collocate in una zona della città disabitata o riservata ad uffici; chiese sul monte, magari su un promontorio bellissimo, ma in una zona irraggiungibile. Queste cattedrali irraggiungibili appaiono sempre più lontane dai luoghi dove scorre la vita: è una contraddizione in termini. C’è poi la situazione in cui, come la nostra, il territorio e il ridimensionamento del sito, hanno tolto delle possibilità alla cattedrale di essere visitata, frequentata, vissuta.

Provo, allora, a dare qualche suggerimento per ripensare la cattedrale.

  1. Non bastano gli adattamenti e i restauri per farla vivere. Che cosa deve essere la cattedrale in una chiesa che non è più il centro, il fulcro della città? Sto pensando alle grandi città: la cattedrale non è più il centro, neppure urbanisticamente. Come pensare una cattedrale in una Chiesa che si scopre missionaria, in uscita, che vuol raggiungere uomini e donne là dove sono, non avendo possibilità di convocare a sé?

Risposte possibili. Bisognerebbe riproporre (e insistere con i sacerdoti) la prassi consapevole di cristiani maturi nella fede che, almeno alcune volte all’anno, si recano alla cattedrale per manifestare la comunione della loro parrocchia con le altre comunità della Chiesa locale. Inventare occasioni, perché le persone vengano in cattedrale.

  1. Celebrare nella cattedrale gli eventi pastorali diocesani più significativi e sinodali. Ad esempio, l’inizio del nuovo anno pastorale – sarà il prossimo 27 settembre – così come il momento di verifica di fine anno. Ritornare a celebrare in cattedrale la Giornata della Vita consacrata e tante altre Giornate unitarie. Convenire alla cattedrale.
  2. Nella cattedrale si celebrano le ordinazioni diaconali, sacerdotali ed episcopali e si celebra il conferimento dei ministeri istituiti. La cattedrale è la Chiesa madre (quando ci sono le ordinazioni l’obiezione è che in cattedrale non ci stanno tutti gli invitati… Si possono attrezzare schermi e altoparlanti perché tutti possano seguire la celebrazione).
  3. Far sì che il Capitolo della Cattedrale diventi un segno del clero vicino al Vescovo. Come Mosè si è circondato di collaboratori per tenere le mani alzate in preghiera, così il gruppo dei Canonici della cattedrale. La scarsità dei sacerdoti rende comprensibile la loro difficoltà a convenire qui, ma qualche volta all’anno sarebbe bello convenissero.
  4. Sarebbe bello promuovere annualmente l’accensione di una lampada ad olio, ad esempio da parte di un vicariato che porta qui, in cattedrale a Pennabilli, in pellegrinaggio, l’olio che tiene accesa la lampada per ricordare il centro sacramentale della nostra Chiesa locale, la cattedrale (già lo è il Giovedì Santo con la Messa crismale).

In conclusione, si tratta di instaurare una nuova consapevolezza del vivere la cattedrale, forse è meglio dire vivere la Chiesa, e di recuperare un’ecclesiologia pratica della Chiesa locale. Se non si è uniti al vescovo non si è la Chiesa. O la cattedrale è simbolo eloquente dell’unità e dell’unicità della Chiesa locale, oppure è ridotta ad un museo o ad un santuario per le devozioni personali. Così però non vive più del ministero di cui è soggetto, cioè farsi segno dell’apostolicità della Chiesa, anche quando non ci fosse il vescovo e lo si attendesse. La cattedrale resta, perché resta l’apostolicità della Chiesa. La cattedrale ne è il segno permanente.