Omelia nelle Esequie di padre Mario Mattei

Secchiano (RN), 25 agosto 2020

Ap 21,1-5a.6b-7
Sal 26 (27)
Gv 11,21-27

1.
Siamo qui per pregare davanti al Signore della vita, il Risorto presente in mezzo a noi. Non dobbiamo mai tralasciare questa consapevolezza, perché il nostro ritrovarci sarebbe – come dice il profeta – una riunione di buontemponi (cfr. Ger 15,17) se non ci fosse la sua presenza tra noi. Veniamo da Lui subito introdotti a pensare al comune destino di risurrezione. «Io – dice Gesù – sono la risurrezione e la vita, chi crede in me non morirà per sempre» (Gv 11,25). Si è sbagliata Marta nel dire: «Se tu fossi stato qui mio fratello non sarebbe morto» (Gv 11,32). Gesù non ha detto che non sarebbe morto, ha detto: «Non sarebbe morto per sempre, in eterno».
Preghiamo per padre Mario, che possa subito abbracciare il suo Signore, e chiediamo a padre Mario di intercedere per noi, per i suoi cari, per la sua mamma. Chiedo la sua intercessione per il dono di tante vocazioni.
La sua vocazione l’ha portato a lasciare presto il suo paese – Secchiano – e la sua Diocesi di San Marino-Montefeltro; era ancora un ragazzo. Come Abramo «partì senza sapere dove andava» (Eb 11,8).
Appassionato di storia e di cultura, padre Mario è stato un ricercatore, uno storico, un archivista dell’Ordine degli Agostiniani. Ha scritto e pubblicato molto. Apprezzato come educatore a Recanati, ad Ancona e a Bologna. Dal borgo di Secchiano a Roma fino ad essere custode dei “beni sacri” del Pontefice, come sagrista in San Pietro e nelle Cappelle private, tra cui la Cappella Sistina.

2.
Che cosa aveva appreso padre Mario da colui che è stato il suo maestro, sant’Agostino? Meglio di me lo saprebbero dire i suoi confratelli e anche le monache di Pennabilli che l’hanno avuto tante volte ospite e sempre amico. Mi hanno detto di lui: «Padre Mario era una persona mite, disponibile, cordiale e generosa. Ha saputo vivere la sua vita, segnata dalla malattia, senza mai rinunciare ad essere generativo, fino all’ultimo». Mi ha colpito molto l’uso di questo aggettivo – “generativo” – adoperato per un consacrato. E in effetti, il “sì” detto nella fede, davvero, è sempre generativo. È stato così con Abramo, ormai anziano e senza discendenza, è stato così per la fanciulla e vergine Maria di Nazaret. L’uno padre e l’altra madre di tutti noi credenti.

3.
Per parte mia, ho ritrovato il cammino umano e spirituale di padre Mario in questa pagina di sant’Agostino, che anche noi possiamo prendere come programma di vita: «Accade a ciascuno di essere portato là dove ha da portarlo il proprio peso, cioè il proprio amore. Chi poi ama il bene sarà trasportato verso ciò che ama. Desideri essere dov’è il Cristo?». «Ama Cristo – risponde sant’Agostino –, e da questo peso verrai trasportato dove si trova il Cristo. Ciò che ti trascina e ti rapisce verso l’alto non ti permette di cadere in basso. Non cercare nessun altro mezzo per salire in alto: amando fai leva, amando sei trasportato in alto, amando ci arrivi» (Sant’Agostino, Discorsi, 65/A, 1; cfr. Confessioni 13,9). Ecco la grande lezione di Agostino, fulminea come una freccia in questa espressione che tante volte sentiamo: «Ama e fa’ ciò che vuoi».

4.
La Parola di Dio ci ha aperto la visione del Cielo, là dove ci porta e ci attrae il nostro amore: il paradiso. La rappresentazione del paradiso è direttamente ispirata dal secondo capitolo della Genesi con l’immagine di un giardino lussureggiante dove tutto sarà donato in abbondanza. Il libro dell’Apocalisse ne parla come di una nuova Gerusalemme, dove Dio asciugherà ogni lacrima, dove non ci sarà più la morte né il dolore (cfr. Ap 21,4). Questi testi si esprimono con immagini, non sono dei reportages. E tuttavia sono importanti: tutte le raffigurazioni hanno in comune promesse di gioia e di pace e, soprattutto, della visione felice di Dio e della comunione con lui.
Sant’Agostino descriveva così il paradiso: «Vedremo. Ameremo. Canteremo» (cfr. La città di Dio, XXII, 30). Vedremo quel volto che abbiamo cercato e desiderato tutta la vita, oggetto della nostra implorazione: «Risplenda su di noi, Signore, la luce del tuo volto» (Sal 4,7). Ameremo, perché siamo stati creati per questo. Là riconosceremo le relazioni – non più intaccate dall’impurità – che abbiamo costruito sulla terra; ognuno verso i propri cari, verso il grappolo di vita e di amici, tutti resi capaci di un amore sempre nuovo, perché di amare non si è mai sazi: «Quando dici basta, sei finito» (Sant’Agostino, Sermone 169). Canteremo per la gioia. Non ci sarà più limite di tempo e la gratuità non dovrà più guardarsi dai calcoli meschini di quaggiù.

5.
Ho chiesto alle monache di Pennabilli di indicarmi una caratteristica del sacerdozio di un Agostiniano. Mi hanno detto: «Nel presbiterio agostiniano tutti vivono da fratelli; impensabile una vita presbiterale che non sia comunitaria e fraterna. Così torna una frase di sant’Agostino: “Viviamo qui con voi e voi siete lo scopo della nostra vita: è nostro desiderio e impegno vivere insieme a voi costantemente nella Comunione con Cristo” (Discorso 355,1)».
Il presbitero agostiniano sa di essere chiamato ad una vita evangelica e di servizio, non solo attraverso il ministero, ma soprattutto attraverso la testimonianza di una vita tesa all’unità dove risplende «quanto sia bello e dolce che i fratelli vivano insieme» (cfr. Sal 133,1).
Chiedo a padre Mario di ottenere il dono di un presbiterio diocesano davvero risplendente per la fraternità e l’amicizia. Così sia.

Omelia nella XXI domenica del Tempo Ordinario

23 agosto 2020

Is 22,19-23
Sal 137
Rm 11,33-36
Mt 16,13-20

Si tratta di una pagina centrale del primo Vangelo. Gesù è in un momento di svolta: si lascia alle spalle la Galilea e sale a Gerusalemme. Da fine maestro pone una questione: «Che cosa dice la gente di me?». Nella risposta viene fuori un modo di fare, un modo di pensare, uno stile che è tipico nostro, purtroppo: quello di incasellare la persona. Allora Gesù viene immaginato attraverso cliché: un Giovanni Battista, un Elia, un Geremia o qualcun altro dei profeti. Si preferisce incasellare la persona in qualcosa di già vissuto, più comprensibile, mentre invece Gesù vuole una risposta personale, originale: «Voi chi dite che io sia?». Qui non valgono risposte generiche o imparaticce, ci vuole una risposta che sia frutto della vita con lui. Pietro darà una risposta stupenda: «Tu sei il Figlio di Dio, il Messia». Gesù si complimenta con lui, lo chiama “beato”, ma dirà: «Questa risposta te l’ha suggerita il Padre».
Tuttavia, nel Vangelo c’è tutto un itinerario di questo discepolo, che arriva a dire una parola che scaturisce dalla vita con Gesù, dalla relazione con lui.
Le foglie di un albero a noi sembrano tutte uguali, invece ogni foglia è diversa, così ogni persona è diversa, ha una storia diversa. Ecco il cammino di Pietro: cammina sulle acque e poi improvvisamente affonda e grida: «Signore, salvami!» (Mt 14,30); quando Gesù dice: «Volete andarvene anche voi? È troppo dura la mia proposta?» (cfr. Gv 6,67), Pietro dirà: «Signore, dove andremo, tu solo hai parole di vita eterna» (Gv 6,68). Nell’ultimo colloquio con Gesù Risorto gli viene chiesto: «Pietro, mi ami più di costoro?». «Certo, Signore, tu lo sai che ti amo». E poi ancora un’altra volta: «Pietro, mi ami?». «Ti voglio bene». Per la terza volta Gesù gli chiede se lo ama e Pietro si rabbuia un po’: «Signore, tu sai tutto, tu sai che io ti amo» (Gv 21,16-17). Ecco, Gesù ci conosce, ci conosce fino in fondo. Ricorderete quel bellissimo Salmo: «Signore, tu mi scruti e mi conosci, tu sai quando seggo e quando mi alzo…» (Sal 138,1). Non solo il Signore conosce me, ma è necessario che anche io conosca Lui e che sia una conoscenza che sgorga dalla vita.
Quel colloquio si concluderà con il conferimento del primato a Pietro. Gesù dirà: «Tu sei Pietro, su questa pietra edificherò la mia Chiesa». Gesù fa uso di tre immagini: l’immagine della roccia (da cui ricava il nome Pietro), l’immagine delle chiavi e l’immagine dello sciogliere e del legare. Questa prerogativa di Pietro continuerà nei suoi successori. Come potrebbe questo servizio permanere nella comunità messianica se finisse con Pietro?
Quando venne eletto papa Giovanni Paolo II un gruppo di pellegrini era andato a Roma per incontrarlo; nel gruppo vi era un ragazzo disabile seduto su una sedia a rotelle. Il desiderio era di occupare i primi posti per dargli la possibilità di ricevere personalmente la benedizione di Giovanni Paolo II, ma non fu possibile. Il Papa, pur nel tripudio della folla e nelle grida: “Viva il Papa!”, notò quel ragazzo e, svicolando dal servizio d’ordine, andò oltre la transenna, mise le sue mani sulla testa del ragazzo e gli disse: «Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa». Il ragazzo si commosse. Ciascuno di noi, nel proprio ruolo, nel proprio posto, è un pilastro, una colonna che sostiene tutta la comunità.

Omelia nella Solennità dell’Assunzione di Maria

Pennabilli (RN), Santuario B. V. delle Grazie, 15 agosto 2020

Ap 11,19; 12,1-6.10
Sal 44
1Cor 15,20-26
Lc 1,39-56

Maria fa visita alla cugina Elisabetta: il Vangelo ci descrive l’incontro delle due madri. E poi la visitazione dei due bimbi che esse portano in grembo. Le due donne sono felici di ritrovarsi, ma non si fermano a questo: dilatano il loro cuore ben al di là. Elisabetta – dice il Vangelo – è piena della presenza dello Spirito e le esce dal cuore una “beatitudine” dedicata a Maria: «Beata colei che ha creduto al compimento delle parole dell’Onnipotente». Già aveva salutato Maria come la «benedetta fra tutte le donne» dandone anche il motivo: Maria ha creduto, ha messo tutta la sua fede nel Signore. Chi di noi non ha delle prove nella fede? Ho trovato pace quando ho compreso che la fede è un dubbio superato. Maria ha messo tutta la sua fede, la sua fiducia, nelle mani del Signore. Così si è compiuta l’incarnazione: «Il Verbo si fece carne». Ecco perché Maria è beata! Nell’indirizzare a Maria questa beatitudine Elisabetta riconferma che la vera beatitudine è la Parola del Signore creduta e vissuta. Anche noi, nella Solennità dell’Assunta, veniamo invitati di nuovo a credere. A credere di più, a credere meglio, a credere che sono vere le parole che Gesù ci ha detto. Accettiamo la sfida.
Maria prorompe in un canto bellissimo, incomparabile, il “Magnificat”. Tante parole di quel canto di lode sono ricavate da preghiere dell’Antico Testamento, ma hanno una intonazione assolutamente nuova. Maria non parla quasi mai nei Vangeli e, se parla, è con poche e brevi parole. Unica eccezione: il “Magnificat”, dove Maria si mette davanti a Dio per cantare la sua azione in lei e nel suo popolo.
Se chiedessi a qualcuno, in confidenza: «Come vedi Dio? Cosa sai di lui?». Verrebbero fuori immagini frutto della fantasia, delle paure, delle angosce. Ben altre le immagini di Dio che Maria ci offre. Le tratteggio come in una fotografia.
Primo scatto: Dio è un Dio d’amore che fa meraviglie per noi, in noi e attraverso di noi.
Secondo scatto: Dio è l’Eterno, l’Onnipotente, che «disperde i superbi, rovescia i potenti, esalta i piccoli, gli affamati». Ho letto in un testo di p. Ermes Ronchi che, durante una dittatura latino-americana, venne vietato il canto del “Magnificat”! Indubbiamente è forte l’immagine dell’Onnipotente che rovescia i potenti dai loro troni, dalla loro presunzione e si prende cura degli affamati, degli umili, dei piccoli che ricolma di bene.
Terzo scatto: Dio è il Dio fedele all’Alleanza siglata con i Padri. L’esaudimento nella preghiera non è automatico, ma è certo. Dio ascolta la preghiera. Come diceva un caro amico sacerdote: «L’hai detto col Signore?»; allora basta così, ci pensa Lui, quando e come vuole». La preghiera fa sempre centro, perché è la voce di un figlio che penetra il cuore del suo papà.
Quarto scatto: Dio è il Dio della mia felicità. «L’anima mia magnifica il Signore». Così Maria vede Dio. E noi lo vediamo così? È questa la sostanza del cammino di fede: arrivare ad una conoscenza del Signore così luminosa! Può darsi che l’educazione ricevuta ci abbia portato a mettere in evidenza il “dito di Dio” puntato contro di noi. Ho avuto un periodo nel quale vedevo Dio come colui che scrutava per cogliermi in fallo. Cancellate questa idea! Qualcuno una volta mi ha detto: «Ma lei la fa facile!». Quando ti senti amato, stimato, valorizzato, dai il meglio. Invece, quando ti senti punito, osservato, inquisito, può nascere la malattia spirituale che si chiama ipocrisia. Davanti al Signore possiamo andare senza maschere… La Madonna fa il catechismo più bello che ci sia. Una persona che contempla i misteri del Rosario, pian piano mette a fuoco il volto di Dio: il Dio di Gesù Cristo. Provate a fare questo esercizio: rintracciare quello che il Signore ha fatto nella vostra vita, e poi magnificarlo. L’abbiamo fatto anche come Diocesi: ci siamo dati un Programma pastorale, abbiamo cercato di attuarlo e alla fine dell’anno ci siamo raccontati quello che il Signore ha fatto nelle nostre comunità. Sono emerse tante esperienze di Vangelo vissuto: quando vivi il Vangelo, il Vangelo ti trasforma in Gesù. I responsabili di questo incontro di fine anno pastorale hanno iniziato a chiamare quell’incontro il “pomeriggio del Magnificat”. Non sarebbe il nome ufficiale, ma ha assunto questo nome e ne sono felice. Ogni cristiano dovrebbe sapere a memoria il “Magnificat”. Proviamo ad impararlo, ma soprattutto impariamo a contemplare la fotografia di Dio che ci dà Maria

Omelia nella XX domenica del Tempo Ordinario

Eremo di Carpegna (PU), Santuario della Madonna del Faggio, 16 agosto 2020

Camminata del Risveglio

Is 56,1.6-7
Sal 66
Rm 11,13-15.29-32
Mt 15,21-28

Gesù si è stupito nel vedere tanta fede in una donna straniera. È cananea, non appartiene al popolo di Israele, ha un’altra cultura, un’altra religione; probabilmente non è mai salita al tempio di Gerusalemme, non recita, come i pii israeliti, lo “Shemà Israel” ogni mattina. È una persona che ha solo sentito parlare di Gesù. Ha un grande dolore perché la sua bambina è gravemente ammalata, posseduta da un demonio. Eppure, va da Gesù; è spinta, è attratta verso Gesù. Chi l’avrà attratta? In un altro punto del Vangelo Gesù dirà: «Nessuno viene a me se non è attirato dal Padre» (Gv 6,44; Mt 16,17). Il Signore ricorda che fuori dal recinto ci sono tante persone che il Padre attira a Gesù. Anch’io talvolta, come il profeta Elia, davanti al Signore innalzo i miei lamenti. Al profeta Elia è toccato di compiere il ministero in un momento di grande apostasia (allontanamento dalla fede). Lo incontriamo nella Bibbia mentre fugge dal suo ministero, perché ha la sensazione che non ci sia più niente da fare. Il Signore lo ferma, gli dà un pane che gli consenta di riprendere il cammino e gli dice: «C’è un popolo – tu non lo sai, non lo vedi, non lo conosci – che ho attirato a me». E subito, seduta stante, il Signore dà tre incarichi precisi ad Elia, quasi i punti di un Programma pastorale. Elia tornerà ad essere evangelizzatore (cfr. 1Re 19).
Quando l’evangelista Matteo ha raccolto l’episodio della mamma cananea rispondeva ad una problematica che era molto avvertita nelle comunità a cui indirizzava il suo Vangelo. Erano le comunità siro-fenice di Tiro, Sidone, Antiochia, che si trovavano ad essere composite: c’erano i cristiani che provenivano dal giudaismo, erano preparati dalla loro frequentazione alla sinagoga e dalla lettura della Bibbia e avevano riconosciuto il Messia. Poi, c’erano i cristiani che provenivano dal paganesimo, che non avevano fatto lo stesso cammino “catechistico”, ma erano felici di aderire al messaggio di Gesù, pronti a tutto per seguire il Vangelo. La comunità avvertiva una sorta di tensione. Matteo sottolinea che quello che è richiesto per appartenere al popolo di Dio, quello che qualifica come possibili discepoli di Gesù è la fede. Non è un’appartenenza etnica e neppure la tradizione o la cultura da cui si proviene; ciò che conta è credere, accettare la sfida, non sempre facile, del credere. Ecco l’esempio stupendo di quella donna che implora il suo “Kyrie eleison”.
Forse occorre spendere una parola non tanto per difendere Gesù, ma per spiegare il suo comportamento. Già un’altra volta si era comportato così con una mamma, la sua. Maria chiede il suo intervento per togliere dall’imbarazzo due sposi che hanno finito il vino alla festa di nozze. Gesù le risponde: «Donna, che ho a che fare con te? Non è ancora giunta la mia ora» (cfr. Gv 2,4). Tutti ci meravigliamo di questa risposta, ma la Madonna insiste, anzi organizza i servitori affinché attingano l’acqua che poi verrà trasformata in vino. Perché Gesù indugia? Qualcuno pensa che qui il Maestro voglia dare un insegnamento sulla preghiera. Qualcun altro dice che Gesù “ha fatto finta” per rendere ancora più strabiliante il miracolo. Il vero motivo è che Gesù non è un “guaritore”. Gesù è obbediente ad un piano, si attiene ad un disegno: è inviato alle pecore perdute d’Israele. Alla fine, compiendo il miracolo, apre una breccia. Dopo la sua vicenda pasquale il Vangelo non avrà barriere. Quando la donna sente dire da Gesù: «Non è bene dare il pane dei figli ai cagnolini», replica prontamente: «È vero!». «Però – continua – ai cagnolini si danno almeno le briciole». La cananea è la donna delle briciole. Lei sa che le briciole di Dio sono manifestazione della sua potenza. Gesù rimane stupito da quella fede e cambia! La fede conquista, fa cambiare Gesù: «Da quell’istante la bambina fu guarita».
Invito tutti a non perdere la fede, ad esercitarla nella preghiera, certi dell’esaudimento, quando Dio vuole, come vuole. La preghiera arriva sempre al centro, al cuore, se è fatta nell’umiltà e nella fede: questo è il primo insegnamento che ci portiamo a casa.
Altro messaggio: il Signore sta preparando un popolo. Maria canta nel “Magnificat” che il Signore è all’opera, al di là di quello che noi percepiamo. Prendiamo coraggio e fiducia per trasmettere la fede ai nostri giovani. Tutto quello che possiamo è il nostro esempio, soprattutto quello di voi genitori.
Il tema del Programma pastorale del prossimo anno consisterà nel farci sempre più persuasi che l’annuncio della risurrezione è per tutti: siamo tutti missionari! Ammaestrati dal Vangelo di oggi, sappiamo che non c’è un pagano, un miscredente, un lontano, che non possa rivolgersi al Signore, nel suo cuore, con la fede. Tutti sono candidati: guai se nel nostro cuore escludiamo qualcuno. In tutte le famiglie, a partire dalle nostre, c’è chi è praticante, c’è chi crede ma non pratica e chi non è credente, ma nel nostro cuore dobbiamo pensare che tutti sono chiamati. Il missionario è soprattutto colui che ha nel cuore questo sentimento verso tutti. Tutti candidati ad essere fratelli, tutti candidati ad avere Maria come madre. Tutti figli di Dio!
Così sia.

Omelia nella festa di San Lorenzo

Belforte all’Isauro (PU), 10 agosto 2020

2Cor 9,6-10
Sal 111
Gv 12,24-26

Saluto i miei confratelli sacerdoti, chi serve all’altare, le Autorità, il coro e tutti voi.
Abbiamo cantato: «Il Signore ama chi dona con gioia». A tutti piace essere amati: alla sposa dallo sposo e allo sposo dalla sposa, al maestro dagli alunni, al parroco dai parrocchiani… In virtù dell’essere amati, proprio perché amati, esprimiamo il meglio di noi stessi e il meglio di noi è: donare. Siamo stati creati per donare. Sant’Agostino dice che Dio «ama per amarci». Non è una tautologia, ma un’analisi psicologica che sant’Agostino fa. Amandoci, Dio suscita amore nella creatura. Se la creatura ci sta e corrisponde, Dio può amarla ancora di più e la creatura amerà, a sua volta, ancora di più. Qui sta tutta la dinamica dell’amore, con la conseguenza del dono e la sorpresa della gioia.
Veniamo, e ne siamo ancora coinvolti, da una grave epidemia. Di per sé non vengono pensieri di gioia, semmai di ansia, paura, solitudine, attese e diagnosi, sofferenze e lutti. Più di qualcuno ha fatto l’esperienza del crollo attorno a lui, quasi un terremoto, e del crollo in lui. Tante certezze sono andate in frantumi. Si è capito che di tante cose si può fare a meno, siamo stati portati all’essenziale, guardando ogni giorno alle piccole cose, piccole e grandi gioie: una telefonata, una serata a guardare insieme un film o a sfogliare un album di vecchie foto, il ritrovare la dimensione della preghiera fatta insieme, lo scoprire che la famiglia è piccola Chiesa domestica.
«Il Signore ama chi dona con gioia». Qualche volta – ammettiamolo – è stata una gioia un po’ “tirata”, perché abbiamo sorriso per non impensierire, per incoraggiare o per sdrammatizzare. Ma l’amore scende dove si dona, dove si ama, dove si sa dare un significato al soffrire. Preciso: donare non è fare un’elemosina, ma mettersi in gioco, perché nel dono c’è qualcosa di sé che viene ceduto. Il dono è qualcosa di me presso di te. Ogni tanto guardo l’anello che porto al dito e mi viene da pensare a papa Francesco che me l’ha donato. C’è qualcosa di papa Francesco in me.
«Il Signore ama chi dona con gioia… e lo benedice». Collego questa frase della Sacra Scrittura ad un’altra che suona così: «C’è più gioia a dare che a ricevere» (At 20,35). Gioia, dono, amore: tutte parole divine. La sera, quando siamo stanchi per le preoccupazioni, per le tante incombenze, spegniamo la luce e in un attimo ripercorriamo la giornata. Vediamo tante perle come in una collana, tenute insieme da quel filo che è la consapevolezza d’aver amato. Tutto questo ci insegna Lorenzo, un giovane che ama con intraprendenza, che ama “facendo”, fino al dono di sé. Lorenzo fu scelto dalla comunità di Roma per occuparsi della carità.
Il Salmo che abbiamo letto poco fa ci ha detto che è «beato l’uomo che teme il Signore». Preciso: il timore del Signore non è la paura. La mano di Dio non ha il dito puntato, ma è una mano tesa a soccorrere. Allora chi teme il Signore, cioè ha considerazione del Signore, a sua volta si fa mano che soccorre, che aiuta. Il Salmo ci ha detto: «Felice l’uomo che dà in prestito, che amministra i suoi beni con giustizia, che dona largamente ai poveri…». Così la tradizione ci ha tramandato l’esperienza cristiana di san Lorenzo, un santo della carità, attento alle povertà, disposto a mettersi in gioco. Il convincimento che sta alla base di ciò che Lorenzo fa non è altro che la certezza che il Regno di Dio è il tesoro, la perla, la realtà di valore assoluto. Per il tesoro vale la pena dare via tutto, se necessario (cfr. Mt 13,44-45). Questo ci dice con la sua vita Lorenzo. Amare è il più grande degli affari e per amare, Lorenzo, si fa povero. Come potrebbe donare se stesso se attaccato alle cose o ai soldi? A quel punto il Signore sorprende, perché dice a Lorenzo e ad ognuno di noi (per questo uso il “tu”): «Tu, sei mio tesoro e mia perla, sei degno di stima, prezioso ai miei occhi (cfr. Is 43,4); per te il Signore perde tutto e da ricco che è si fa povero, per arricchirti con la sua povertà (cfr. 2Cor 8,9). Tu sei il suo “affare”, e lo dice a ciascuno di noi: non si può che essere stupiti davanti a questo. Che cosa dobbiamo fare? Dobbiamo pensare di ogni fratello e di ogni sorella che ci è accanto che è “affare” di Dio, tesoro e perla. Chiediamo la grazia di saper andare oltre le apparenze, di vedere l’altro come Dio lo vede. Proviamo a pensare alle persone con cui è più difficile relazionarsi, alle persone che “a pelle” ci sono antipatiche… Consideriamo come Dio le ama, superando l’ostacolo più grande che sono i pregiudizi che vengono dalla diversità della razza, della cultura, della politica e anche quelli ecclesiastici. Lorenzo, quando gli fu chiesto di consegnare i tesori e le ricchezze della Chiesa, secondo la tradizione, mostrò i poveri: ecco il tesoro della Chiesa! Per questa sua ironia verrà condannato ad una morte atroce. Finirà come il chicco di grano di cui ci ha parlato il Vangelo. Siamo al capitolo 12 del Vangelo di Giovanni. Gesù capisce che la congiura contro di lui è alla stretta finale. È il momento più drammatico della sua vita, il suo Getsemani: «L’anima mia è turbata» (Gv 12,27). Gesù ha paura della morte, è sconvolto al pensiero dell’abbandono, delle sofferenze, del fallimento. È angosciato e prega Dio «con forti grida e lacrime» (Ebr 5,7) di risparmiargli quella prova. Fu ascoltato? Certamente. La preghiera è sempre ascoltata, anche se non a modo nostro. Fu esaudito per la sua pietà, non con il liberarlo dalla morte, ma liberandolo dal desiderio di salvare se stesso. Anche Gesù ha passato un’ora di oscurità. In quella notte il Padre lo illumina, gli fa capire che la sua passione non è il compimento di un destino crudele, ma il compimento della sua vocazione. Gli ricorda che il chicco di grano seminato per terra deve morire per portare frutto. Se vuole essere “l’uomo per gli altri” deve esserlo fino in fondo. Non deve ritirarsi, gettare la spugna nell’ora della prova. Il Padre gli fa capire che non può spezzare il cerchio del peccato, delle violenze, dei fanatismi, dell’odio che si abbattono su di lui come Agnello innocente e, nello stesso tempo, avere una vita tranquilla e onorata. «Venne allora una voce dal cielo: “L’ho glorificato e lo glorificherò”» (Gv 12,28). Gesù aggiunge: «La voce del Padre è per voi» (cfr. Gv 12,30).
Anche noi siamo tentati di fidarci più dell’istintivo amore di noi stessi che della parola del Vangelo. Ci succede di pensare: «Mi sta bene la fedeltà al Signore, purché non disturbi la mia quiete, non mi chieda di andare contro corrente, di andare incontro a prese in giro, contrasti, critiche. Sono pronto all’impegno comunitario, basta che il Signore non pretenda di sconvolgere le mie abitudini, i miei ritmi, i miei programmi… Mi piace fare qualcosa per gli altri (volontariato, servizi, ecc.) finché gli altri sono educati e riconoscenti, finché non irrompono nella mia vita e non mi lasciano più un momento per me stesso». Queste sono le grandi tentazioni. Impariamo da san Lorenzo a superarle. Così sia!

Omelia nella XIX domenica del Tempo Ordinario

Carpegna (PU), 9 agosto 2020

1Re 19,9.11-13
Sal 84
Rm 9,1-5
Mt 14,22-33

Ci sono diverse scene in questo Vangelo. Ad ognuna potremmo trovare un titolo.
Prima scena: la solitudine orante di Gesù. Gesù, dopo che la folla ha mangiato (il prodigio della moltiplicazione dei pani e dei pesci aveva suscitato una tale euforia che volevano farlo re, al posto di Erode), manda via i discepoli indicando loro la barca. Perché Gesù vuole allontanare i discepoli più intimi? Perché non si sbaglino, perché sono ancora fragili e potrebbero lasciarsi ubriacare dall’euforia derivante dal miracolo e cedere alla tentazione del messianismo trionfalistico che Gesù non vuole. «Prendete la barca e andate all’altra riva»: li manda dall’altra parte del lago, in territorio siro-fenicio, territorio dei pagani. Poi, Gesù stesso congeda la folla, si sottrae e va sulla montagna, solo, a pregare. L’evangelista Matteo non ci dice nulla di quella preghiera; sappiamo però che, qualche pagina prima, Gesù ha insegnato a pregare: «Padre Nostro, che sei nei cieli, sia santificato il tuo nome, venga il tuo regno, sia fatta la tua volontà…». Gesù passa tutta la notte a parlare con il Padre (fino alle quattro o alle cinque del mattino), per sintonizzare la sua anima sulla volontà del Padre. Nel capitolo 16 del Vangelo di Matteo ci sarà la grande svolta: Gesù va verso Gerusalemme e sa bene cosa succederà. Altro che una folla che lo osanna, altro che trionfi…
Seconda scena: il grande tema della fede. I discepoli vedono Gesù. San Marco, che racconta lo stesso episodio con altri particolari, dice che Gesù «li sorpassò». Matteo, invece, dice: «Camminava sull’acqua». Il camminare sull’acqua (per i pochi presenti che c’erano, nella semioscurità delle prime luci dell’alba) era una prova dell’origine divina di Gesù. I discepoli hanno di fronte il Messia o, come dice Matteo in vari passaggi, il «Dio con noi» (Mt 1,23; Mt 28,20; cfr. Mt 18,20). Nella letteratura biblica e rabbinica il mare, favoloso, profondo, misterioso, pieno di animali stravaganti, è visto come l’avversario di Dio, la creatura che si ribella. Gesù cammina sull’acqua: è il Signore! È un piccolo miracolo quello che sta per accadere, un miracolo quasi “inutile”, a tu per tu, che Gesù fa nella semioscurità.
Ci chiediamo: perché Pietro chiede anche lui di camminare sull’acqua? C’è chi pensa che Pietro voglia partecipare ad una esperienza straordinaria. Pietro è un po’ come la folla della moltiplicazione dei pani e dei pesci e pensa: «Gesù sta facendo una cosa straordinaria, anch’io voglio camminare dietro a Gesù. Voglio essere nei primi posti nel suo corteo». Qualcun altro dice che Pietro voglia dimostrare il suo coraggio. Pietro ha un carattere impetuoso: «Signore, comanda che io venga a te sull’acqua». In effetti, per un po’ cammina sull’acqua. Pensate ai “sì esistenziali” che abbiamo detto al Signore; ad esempio nel matrimonio: quel giorno non sapevate che cosa sarebbero stati gli anni del cammino insieme, ma avete detto “sì” con fiducia ed è stato, talvolta, un camminare sull’acqua, sia per problemi economici, sia per problemi di carattere educativo con i figli, oppure per problemi di natura affettiva, di intesa, di coniugalità e può essere successo di pensare di non farcela a camminare su quelle acque. Il Signore è colui che ci tende la mano. Facciamo una zoomata sulla mano forte del Signore.
Terza scena: una liturgia improvvisata su una barca. Quelli che sono sulla barca riconoscono Gesù, il Signore, e prostratisi lo adorano e fanno la grande professione di fede: «Davvero tu sei il Figlio di Dio». Si prostrano come i magi: «Prostrati lo adorarono» (Mt 2,11); oppure come le donne nella mattina della risurrezione: «Prostratesi lo adorarono, abbracciati i suoi piedi» cfr. Mt 28,9); come gli apostoli sul monte dell’Ascensione: «Quando lo videro, gli si prostrarono innanzi; alcuni però dubitavano» (Mt 28,17). Il dubbio ci accompagna sempre; la fede non è altro che un dubbio superato. «Davvero tu sei il Figlio di Dio». Pietro lo dirà a Cesarea di Filippo quando Gesù fa l’inchiesta: «Chi sono io per voi?» (Lc 9,18). E lui dirà: «Tu sei il Figlio di Dio» (Lc 18,20). Questa risposta la darà anche il centurione romano ai piedi della croce: «Veramente quest’uomo era Figlio di Dio!» (Mc 15,39).
Buona settimana con queste immagini nei cuori.

Omelia nella XIX domenica del Tempo Ordinario

Maciano (RN), 8 agosto 2020

Festa di San Luigi Gonzaga e di San Pasquale Bailonne

1Re 19,9.11-13
Sal 84
Rm 9,1-5
Mt 14,22-33

Il commento al Vangelo è una cosa seria, non si deve partire con una battuta ma, data la confidenza, permettetemi di cominciare con un proverbio ferrarese, di cui faccio la traduzione: «Te ne accorgerai nel friggere!». Si dice così alla persona che intraprende qualcosa di impegnativo e difficile con troppa disinvoltura: «Ti accorgerai cammin facendo che l’avventura nella quale ti sei imbarcato è tutt’altro che semplice».
Pietro cammina sulle acque dietro a Gesù. È bello che Pietro voglia tener dietro a Gesù. Chi può criticarlo? Fa dei passi camminando sul mare. Penso anche al singolare sentiero dei genitori, quando hanno deciso di sposarsi; non sapevano che cosa sarebbe stato scritto su quel rotolo che giorno dopo giorno sono andati svolgendo. L’amore era grande e hanno deciso di fondare una famiglia. Ma quante prove! Penso a chi riceve la cattedra per insegnare: parte con tanto entusiasmo, poi vengono i momenti di difficoltà, in cui gli alunni non ascoltano e non si impegnano, ecc. Anche un vescovo, dopo esser stato chiamato, dice: «Signore, comanda che io venga a te camminando sul mare», senza sapere che cosa voglia dire fare il vescovo…
La prima preghiera che esce dal cuore di Pietro è indubbiamente molto bella: «Signore, che io cammini dietro di te anche sull’acqua». Nel linguaggio biblico il mare è la creatura descritta come avversaria di Dio, è luogo misterioso abitato dai mostri marini, dal Leviatan. Gesù sull’acqua ci cammina. «Camminare sul mare» significa credere che la potenza di Dio è più grande degli spiriti che vi sono presenti e accettare che la fede può tutto e nulla impossibile per chi crede (cfr. Mt 17,20). L’evangelista Matteo sottolinea molto questo aspetto per dire che Gesù è il Signore. La Sacra Scrittura, in vari punti dice: «Dio domina le acque del mare» (cfr. Am 5,8; Sal 65,8; 89,10; 135,6; Is 51,15; Ez 27,4; tutta l’epopea dell’esodo è vittoria di Dio sul mare: cfr. Sal 77,20). Allora, la preghiera di Pietro: «Comandami, Signore, di venire a te camminando sul mare» significa tutta la sua adesione e tutta la sua fede in Gesù Signore.
Mentre Pietro fa dei passi sull’acqua, Gesù è davanti a lui, gli ha spalancato le braccia dicendo: «Non aver paura, vieni!». Vorrei dire ai fidanzati che intraprendono il cammino verso il matrimonio, vorrei dire a chi ha una piccola impresa e adesso è in un momento di difficoltà, le stesse parole di Gesù: «Fidati, buttati!». Permettete questa metafora: più si pedala nonostante il buio, più la dinamo fa luce. Se si sta fermi per paura del buio, non si va avanti e si resta nel buio.
Dopo i primi passi verso Gesù, Pietro prende coscienza che sotto di sé ha l’abisso. È come quando si prende coscienza che davanti a sé c’è un impegno smisurato e il futuro presenta il conto… Si pensa di non potercela fare. Vengono lo spavento, la paura, l’incertezza, il dubbio. Pietro ci è maestro perché, presa coscienza della sua fragilità, intona un’altra preghiera a distanza di un minuto dalla precedente: tra le due c’è un abisso! «Signore, salvami!»: una preghiera autentica, che sgorga dal cuore. È una preghiera che tutti noi possiamo fare. Se in mezzo a noi c’è qualcuno che si è messo in cammino e si rende conto della difficoltà ed è nel momento in cui sprofonda, sappia che noi preghiamo per lui, perché non tema, perché abbia coraggio. Gesù è lì davanti a lui.
Il brano di Vangelo si conclude con un solenne atto di adorazione sulla barca. Alcuni si chiedono: «Come mai, se sono partiti verso sera, al tramonto, alla quarta veglia nella notte sono ancora sul lago? Non ci vuole così tanto tempo per andare all’altra riva del lago di Tiberiade». Evidentemente il vento era molto forte, c’era una grande burrasca. In quella situazione i discepoli passano dalla paura al coraggio, dal dubbio alla certezza, dalla disperazione alla lode: «Veramente tu sei Figlio di Dio!».
Domenica scorsa abbiamo letto di un grande miracolo compiuto da Gesù, uno dei più grandi: ha moltiplicato pani e pesci per cinquemila persone. Un miracolo utilissimo. Tant’è vero che – se stiamo al Vangelo di Giovanni – vogliono farlo re. Ma Gesù si ritira in disparte. Non cerca la fama, non si ritira neppure per mettersi al sicuro allorché lo informano che Giovanni era stato decapitato (Mt 14,12-13). Gesù non fa il miracolo per ingraziarsi la gente, ma soltanto per misericordia, per amore di quelle persone. Il secondo miracolo, quello che fa nella semioscurità delle prime ore dell’alba (o delle ultime della notte), per un amico, è un miracolo “inutile”, un miracolo fatto per motivi di cuore, per l’amicizia che ha per Pietro, perché non vada a fondo. Eppure, questo secondo miracolo mi è molto caro e mi illumina. «Signore Gesù, salvami!». E lui mi dice: «Non avere paura». Ho bisogno che me lo dica!

Omelia nella XVIII domenica del Tempo Ordinario

Scavolino (RN), 2 agosto 2020

Is 55,1-3
Sal 144
Rm 8,35.37-39
Mt 14,13-21

Consideriamo attentamente la location del prodigio della moltiplicazione dei pani. Se ricordate, qualche domenica fa, leggevamo che Gesù salì su una barca e parlò da quel luogo instabile alla folla, che invece voleva avere i piedi ben piantati per terra. La barca che è adagiata sulle onde dice tutta la difficoltà, ma anche tutta la fiducia che è necessaria alla scelta evangelica. Anche noi, a volte evitiamo la fatica di credere; vogliamo stare ben piantati nelle nostre sicurezze. Qui cambia la location: questa volta è Gesù che scende, mette i piedi a terra, ma è per una condivisione, per farsi prossimo, perché c’è tanta folla che ha fame, che ha bisogno. Spesso sentiamo l’invito ad essere “in uscita”, a frequentare le periferie. Non si tratta tanto delle periferie intese in senso locale, ma di un decentrarsi, un uscire da noi, un andare fiduciosamente verso l’altro per accoglierlo, “farci uno” con lui, per ascoltarlo, per aiutarlo: siamo fratelli.
In questo brano si vedono due mentalità a confronto. La mentalità del gruppo degli apostoli i quali dicono: «Signore, questa gente non se ne va spontaneamente, congedala; qui non è possibile dar da mangiare a tutta questa gente. C’è solo erba». L’altra mentalità, quella di Gesù, invece è: «Date voi loro da mangiare, mettete insieme quel poco che avete e vedrete che è possibile». Allora vengono portati i cinque pani e i due pesci. È così che dobbiamo interpretare il Padre Nostro. Noi diciamo: «Padre… Dacci oggi il nostro pane quotidiano», ma qui Gesù dice: «Date voi il pane quotidiano».
Gesù passa dal lago, dal deserto, a questo tappeto verde e lì il prodigio viene raccontato dall’evangelista Matteo con espressioni che ci fanno pensare immediatamente al Pane trasformato e al Pane che trasforma: allusione abbastanza esplicita all’Eucaristia. A tutti noi sarebbe piaciuto essere fra quei cinquemila, assistere al prodigio e magari trattenere anche un pezzo di pane per noi come ricordo, come souvenir: è il pane della moltiplicazione!
In realtà è molto più bello, insieme ai discepoli di Emmaus, dire: «Gesù resta con noi» (Lc 24,29) e nutrirci di Lui che rimane nel dono di quel pane spezzato. Gesù, più che restare nei nostri tabernacoli dorati, vuole che quei tabernacoli si aprano, vuole che gustiamo il suo Pane, la sua Eucaristia.
Questo miracolo – è narrato sei volte nei Vangeli – ne comprende altri: Gesù sa moltiplicare i miracoli! Per esempio, il primo miracolo è che non è vero che la gente non ascolta, che non ha voglia di sentire i maestri, anzi non se ne va, vuole ascoltare. Il Vangelo, la Parola di Gesù, la Persona di Gesù era ed è attrattiva, crea ascolto, attenzione. Un altro miracolo è che ci sia qualcuno che effettivamente i cinque pani e i due pesci li cede. Nel racconto di Giovanni è un ragazzo che condivide la merenda che si era portato da casa e la mette a disposizione, mentre l’apostolo Andrea dice: «Che cos’è questo per tanta gente?» (Gv 6,9). Terzo miracolo: quel poco che viene messo a disposizione sfama, perché condiviso con cinquemila persone; serve a Gesù per fare il tanto, ma quel poco ci vuole. Gesù invita a metterci nei panni di chi ha fame, di chi è nella necessità; ci chiede di decentrarci, di uscire da noi stessi e di vivere nella carità, solo allora siamo suoi discepoli. Un altro miracolo nel miracolo sono le ceste di avanzi raccolte. Noi andiamo a Lui con le nostre ceste vuote e torniamo con ceste ricolme.
Proviamo ad avere presente questa pagina di Vangelo, ripensiamola ripetutamente, e proviamo a viverla: vedremo miracoli!

Omelia nella Solennità di San Leo

San Leo, 1° agosto 2019

Gn 12,1-4
Sal 16
Fil 4,4-9
Mt 7,21-27

«Al mondo c’è una sola tristezza: quella di non essere santi» (Léon Bloy). E la santità che cos’è in fondo? Corrispondere alla grazia battesimale. Lasciamoci sorprendere dalla bellezza di questa vocazione. Diceva san Paolo ai cristiani di Corinto: «Non vi sono tra voi molti sapienti, non molti potenti, non molti nobili…» (1Cor 1,26). Eppure, il Signore ha chiamato proprio voi. Nel giorno di san Leone torna questo invito. I santi sono nella Chiesa energie rigeneratrici. E per essere santi non è necessario che gli altri lo sappiano. Comunque «ci sono molti più santi che nicchie…» (Honoré de Balzac).
Sono davanti ad un’assemblea di cristiani consacrati nel Battesimo. Si dirà che la santità è un dono di Dio, che non va scambiata con lo sforzo ascetico, con il self made man, con il perbenismo delle anime probe, simili a ciottoli ben levigati e rotondi nel torrente, che non danno fastidio a nessuno. È vero, la santità è ben altro… Quello che dispiace è che siamo sordi ai richiami del maestro interiore che ci chiama alla santità, al quale talvolta rispondiamo come gli Ateniesi a san Paolo all’areopago: «Su questo argomento ti sentiremo un’altra volta» (At 17,32).
L’abbondanza della Parola di Dio ci travolge, ma non le diamo la possibilità di filtrare attraverso la crosta che abbiamo sull’anima e non ci lasciamo inzuppare, non le permettiamo di essere fradici di lei. Succede, a partire da me, a partire da noi presbiteri, d’essere più preoccupati di servire la Parola di Dio con parole forbite, oppure di servirci della Parola di Dio per sdoganare le nostre idee. E che dire dell’altro grande dono per la nostra santità che è l’Eucaristia, il miracolo quotidiano, sacrificio e mensa, presenza personale del Signore con la sostanza del suo vero corpo, sangue, anima e divinità. Devo riconoscere che a noi presbiteri succede di passar sopra – è soltanto un piccolo particolare – anche a quel breve momento di silenzio nel “post Communio”, che è così vivamente raccomandato dalla liturgia, momento personale, che non toglie nulla allo spirito di comunità, al contrario: un popolo intero che cade nel più profondo raccoglimento crea un silenzio assordante. Nel colloquio personale con Colui che si dà a noi siamo messi davanti alla nostra verità e, senza umiliarci, ci rende umili e fa salire dal cuore la nostalgia della santità. Eucaristia e vita eucaristica. C’è una critica pungente di un filosofo rivolta ai virtuosi: «Ve ne sono di tali che amano gli atteggiamenti, pensano che la virtù sia un atteggiamento; le loro ginocchia si piegano e le loro mani si congiungono, ma il loro cuore non ne sa nulla» (Friedrich Nietzsche, Così parlò Zarathustra). Critica terribile! Mi inginocchio, congiungo le mani, dico, canto… Ma che ne sa il mio cuore di quello che sto dicendo? Mi rivolgo, anzitutto, a voi laici che in virtù del Battesimo siete chiamati alla santità: che nessuno ne dubiti! Quante volte abbiamo ricordato l’universale chiamata alla santità come ce la suggerisce il Concilio Vaticano II. Un capitolo intero della Lumen Gentium è dedicato a questo. Ognuno di noi battezzati consideri se stesso “membra della redenzione”. La redenzione passa attraverso ciascuno di noi. Paolo arriva a dire: «Completo nella mia carne ciò che manca dei patimenti di Cristo» (Col 1,24). Ognuno si pensi chiamato.
Cari laici, non siete solo oggetto delle nostre cure pastorali, ma partecipi della missione. Arrivate molto più in là di quanto non arriviamo noi presbiteri. Il Concilio sottolinea perfino come i ragazzi siano apostoli dei ragazzi (cfr. AA 12). Questa è la corresponsabilità dei laici, chiamati all’apostolicam actuositatem (azione cattolica). Fatevi avanti, non sottraetevi agli inviti dei vostri parroci, mettetevi a disposizione, continuate ad aiutarci, anzitutto col vostro esempio. Ci siete davvero maestri con la vostra fedeltà alla vita. Non lo dico per compiacenza. Dico ai miei sacerdoti: quando sbuffiamo per la stanchezza, pensiamo alle mamme che non hanno mai un momento di quiete per sé; quando ci lamentiamo per la strada da fare per arrivare in centro diocesi, pensiamo ai parrocchiani che ogni giorno fanno chilometri per andare al lavoro, d’estate e d’inverno… Chiedo a san Leone che non manchi il dono della santità dei laici a tutta la Chiesa. Ribadisco, per noi sacerdoti, l’utilità e la necessità di ascoltare i laici; anzitutto dare loro tutta la nostra considerazione, ma non “per gentile concessione”. È inaudito che vi siano parrocchie nelle quali i Consigli, pastorale e degli affari economici, sono soltanto sulla carta. Inaudito che da parte del presbitero non ci siano fiducia e affidamento di compiti ai laici, nella catechesi, nella liturgia, nella carità, nel canto, ecc. Particolarmente odioso è l’atteggiamento di poca considerazione verso le donne, a volte persino di esclusione. Dico ai laici: «Aiutate la comunità, assumendovi la principale delle vostre responsabilità che è l’animazione delle realtà temporali, in primis la cultura e la politica».
Tornerò presto su alcune preoccupazioni e denunce espresse dal Presidente dei Vescovi italiani, il Cardinale Bassetti, sulla questione della omotransfobia. Mentre siamo spaesati dal virus, mentre siamo in spiaggia o sui sentieri alpini, le commissioni parlamentari preparano e discutono leggi che non possiamo accettare.
Ve lo dice l’ultimo dei vescovi della Chiesa cattolica, però rivestito dell’autorità apostolica: ho ricevuto tanto dai laici, donne e uomini. Talvolta uso l’espressione – consentitemela, anche se è un po’ audace – sono stato generato dalle mie comunità come sacerdote, senza nulla togliere all’imposizione delle mani nel sacramento dell’Ordine. Che sofferenza sapere di sacerdoti che non sanno trattare con i laici, «che la fanno da padroni nella Casa di Dio» (cfr. 1Pt 5,3), che non si lasciano mettere in crisi, non si lasciano aiutare e, quando è necessario, correggere. È un lavoro: sento che lo devo fare per primo su me stesso e lo raccomando ai miei fratelli presbiteri. La santità è un tesoro, un tesoro in vasi di creta, il vaso della nostra fragile umanità (cfr. 2Cor 4,7). Che il Signore continui a metterci accanto sorelle e fratelli che ci dicano la verità e ci aiutino a migliorare e che noi riusciamo ad accogliere tutto questo senza permalosità, senza puntigli, senza meschinità, ma con fiducia e con cuore aperto. Non è solo utile e necessario, ma bello: è l’esperienza della nostra fraternità. Siamo pieni di speranza. Quando la Chiesa sembra dare segni di stanchezza, una segreta germinazione le prepara nuove primavere di santità. Malgrado tutti gli ostacoli che noi frapponiamo, i santi rinasceranno sempre! Così sia!

Omelia nella Solennità di San Leone a Pennabilli

Pennabilli (RN), Cattedrale, 1° agosto 2020

Gn 12, 1-4
Sal 15
Fil 4, 4-9
Mt 7, 21-27

Parlo dalla cattedra. Condivido con voi un certo disagio nelle celebrazioni solenni: le vorremmo più famigliari, ma talvolta è necessaria anche una certa formalità. Le liturgie solenni le dobbiamo vivere con quella che san Giovanni della Croce chiama la “virtù del coro”, la dodicesima stella nella Salita al Monte Carmelo. La “virtù del coro” consiste nello spossessarsi di sé, nel saper mettere da parte anche la propria sensibilità… La santa liturgia prevede questi momenti di particolare solennità, che non distolgono dal raccoglimento, dall’intimità profonda della preghiera. Non si tratta di una cerimonia, è davvero un popolo che incontra il suo Dio, che si mette davanti alla sua maestà.
Rivolgo un saluto particolare ai leontini. Oggi pomeriggio saremo nella cattedrale di San Leo per continuare la lode, il canto e il ringraziamento per il dono grande che san Leone ci ha fatto portando il Vangelo nella nostra terra. Saluto con affetto i pennesi, che sono venuti numerosi.

1.

Oggi la nostra Diocesi è in festa: onora uno dei due santi patroni e fondatori, san Leone, lo scalpellino di Arbe. Il miglior modo di onorare i santi è quello di imitarli (Erasmo da Rotterdam). Oggi noi peccatori abbiamo l’occasione di una grande riscossa nel riproporci la santità.
Per tutti – laici e presbiteri – l’invito è di riconsiderare il sacramento del Battesimo, che ci ha reso figli di Dio, fratelli di Cristo, tempio dello Spirito Santo. Frasi fatte? Dizioni formulari che sanno di catechismo? No. Sono, anzi, la mappa per la nostra preghiera di contemplazione. Basterebbe sostare su ciascuna di queste tre proposizioni, con tutto quel che ne consegue. Tutti noi siamo dei consacrati, tesori e perle di Dio: «Tu sei prezioso ai miei occhi, tu sei degno di stima e io per te svendo anche l’Egitto» (cfr. Is 43,4). Dio dona il Figlio per avere per sè questi tesori e queste perle.

2.

Permettete un caro saluto e una speciale considerazione ai presbiteri chiamati dal Vescovo ad avere un legame particolare con lui e con la cattedrale: i Canonici che, insieme, costituiscono il Capitolo della Cattedrale. Questa mattina viene completato il numero di questo “sacerdotum collegium” (cfr. CIC 503) con un nuovo presbitero, parroco della cattedrale di San Leo, il canonico don Carlo Giuseppe Adesso.

3.

Invito il canonico Carlo Giuseppe e tutto il Collegio canonicale a ripensare i criteri con i quali il Vescovo li investe nuovamente; criteri che sono indicati e che sono ripresi dal Direttorio per il ministero pastorale dei Vescovi (cfr. Congregazione per i Vescovi, Apostolorum successorum, nn. 155, 186, 242).
I Canonici siano esperti nella dottrina, esempio di vita sacerdotale, pastori che svolgono lodevolmente il ministero (cfr. CIC 503, 509 §2). Criteri mai acquisiti una volta per tutte, ma continuamente da maturare, soprattutto per chi è più giovane.
Il Capitolo della Cattedrale, dal Vaticano II in poi, ha acquisito un nuovo volto, se vogliamo meno funzionale e istituzionale: alcune prerogative del Capitolo sono passate ad altri organismi di partecipazione, come il Collegio dei Consultori, il Consiglio presbiterale, a cui il Vescovo è tenuto a ricorrere per ascoltarne il parere.
La natura del canonicato non è da vedersi in una prospettiva di onorificenza e tanto meno di carriera o di titolo da aggiungere al proprio nome, ma è da vedere in un’ottica di servizio. Ne tengano conto i Canonici, ma ne tenga conto anche il Vescovo che deve farsi accompagnare; per lui è un’esigenza necessaria. Il Vescovo è consapevole della sua dignità e del valore dell’imposizione delle mani per cui è diventato portatore della pienezza del sacerdozio. Tuttavia, ha bisogno di aiuto.

4.

Vediamo il servizio che i Canonici devono rendere al Vescovo.
Anzitutto, il servizio alla preghiera del Vescovo per il suo popolo. Mosè teneva le mani e le braccia alzate per l’intercessione e così il popolo avanzava nella conquista. Era pesante per Mosè stare in quella posizione. «Aronne e Cur, uno da una parte e uno dall’altra sostenevano le sue mani, così le sue mani rimasero ferme fino al tramonto del sole» (Es 17,12).  Il Vescovo ha bisogno di voi Canonici in quello che è il suo primo ministero: stare davanti al Signore per la sua Chiesa! Allora vi dico, cari Canonici, pregate con me, venite più spesso in cattedrale con me. Pregate per me.

5.

Il Capitolo della Cattedrale ha un altro servizio: rendersi disponibile ad un esercizio credibile di unità col Vescovo. Direte che è un impegno sacramentale e ontologico per ogni presbitero… Certo, ma i Canonici sono chiamati a farne una esperienza più forte ed un esercizio più costante. Devono essere un segno per tutti i confratelli! Unità affettiva ed effettiva, unità di cuore e di pensiero (il che non significa omologarsi, è l’unità di cui parla san Paolo nella 1Cor), unità esemplare, da intendersi non come entrare nella “cabina di comando” o in un conventicolo di giudizi sugli altri. Se c’è una pagina che più di tutte può accompagnarci in questa esperienza di unità è quella che ci ha lasciato sant’Ignazio di Antiochia, un’immagine che riprende più volte nelle sue lettere: «Il vostro presbiterato ben reputato degno di Dio è molto unito al vescovo – scrive agli Efesini – come le corde alla cetra». «Ciascuno diventi un coro – prosegue – affinché nell’armonia del vostro accordo, prendendo nell’unità il tono di Dio, cantiate ad una voce sola». E aggiunge: «Nessuno si inganni: chi non è presso l’altare (l’altare dove celebra il Vescovo), chi non partecipa alla riunione, è un orgoglioso e si è giudicato. Sta scritto: “Dio resiste agli orgogliosi”. Stiamo attenti a non opporci al vescovo per essere sottomessi a Dio» (Ad Ef IV,1; V,1). Dunque, lievito di unità e lievito di fraternità, per l’intero presbiterio: esperienza reale e consapevolezza di questa missione. Non dice forse il Vangelo che un pizzico di lievito fa fermentare tutta la pasta (cfr. Mt 13,33)?

6.

Un’altra prerogativa ancora. Il sacerdotum collegium è deputato ad essere e a farsi canto. Non alludo alle eventuali prestazioni canore dei Canonici, ma indico un atteggiamento: essere per la lode alla maestà divina. È proprio del Capitolo della Cattedrale – almeno in qualche circostanza – intonare la Liturgia delle Ore, a nome e ad esempio di tutto il popolo di Dio, popolo sacerdotale. Del resto, i Padri non chiamano talvolta il Cristo stesso Canticum Patris?
Ancora sant’Ignazio di Antiochia: «La Chiesa è come un coro: il vescovo presiede i suoi concerti che, simili ai concerti dei Cieli, non tacciono né giorno, né notte (Ad Ef 4,1). Ignazio allude alle assemblee liturgiche, ma nello spirito del grande vescovo, le assemblee liturgiche sono esse stesse il simbolo di un altro concerto, più intimo e più vasto nello stesso tempo, «il concerto della carità unanime nel quale – continua Ignazio – si canta Gesù Cristo». Te per orbem terrárum sancta confitétur Ecclésia!
Ci può essere in qualche nostra reminiscenza seminaristica un ricordo curioso e talvolta lugubre della riunione dei Canonici. Ma quando questo concerto risuona, in verità sprigiona un fascino irresistibile. La Casa di Dio si costruisce cantando: «Cantando aedificatur Ecclesia» (Sant’Agostino, D 27,1). Le pietre vive si adunano, si organizzano, si intonano invitandosi reciprocamente alla gioia: «Congaudentes jubilemus/ harmoniae novum genus/ concordi melodia;/ deponamus vetus onus/ dulcisque resultet sonus/ ex nostra concordia» (antico Inno per la liturgia della Dedicazione della Chiesa citato da Henri de Lubac in Meditazione sulla Chiesa, c. VI, pp. 231-32, Ed. 2014). «Giubiliamo di comune gioia, concordi nella melodia di un nuovo genere di canto; deponiamo il vecchio peso e un dolce suono cantiamo per la nostra concordia».

7.

Allora, traboccando dalla comunità riunita nella cattedrale, la carità si diffonde al di fuori. Essa «vuole cantare con tutta la terra» (Sant’Agostino, D 33, 5). Qui sta la grande forza della testimonianza della Chiesa. Questo è il suo trionfo. Ci sono altre battaglie, altri trionfi… Ma il primo è sicuramente quello di colmare il popolo dell’amore di Dio. Quel trionfo che noi siamo troppo inclini a concepire secondo prospettive umane. È il trionfo che la Chiesa ottiene nello Spirito, quando si abbandona al suo soffio. È la gloria che essa irradia quando appare come la “Donna vestita di sole” (cfr. Ap 12,1).
Santità, canto, bellezza, gioia, missione: realtà tutte collegate e da collegare!
Così sia.