Omelia XXIX domenica Tempo Ordinario

Dogana (RSM), 18 ottobre 2020

S. Cresime

Is 45,1.4-6
Sal 95
1Ts 1,1-5
Mt 22,15-21

Tenete conto, ragazzi e adulti, che siamo nel Cenacolo. Lo Spirito del Signore mette nel nostro cuore non parole, ma sentimenti di fede, desideri di essere come ci vuole Gesù.
Per capire questa pagina di Vangelo bisogna avere chiaro il quadro della società e della cultura al tempo di Gesù. La Palestina è una provincia dell’Impero Romano. Da una parte c’erano i Romani con l’imperatore. Cesare è il nome del primo degli imperatori, appellativo che i successori si attribuiranno (anche l’imperatore del Sacro Romano Impero si chiamerà “Cesare”, in tedesco “Kaiser”, in russo “Zar”). In questo contesto, quando diciamo “Cesare” intendiamo il potere costituito. Dall’altra parte, nella società giudaica, c’erano i farisei, gli scribi, i sacerdoti, che mal sopportavano la presenza dei Romani. C’era poi un gruppo, gli Zeloti, che erano agguerriti contro i Romani. Spesso, come in questo caso, i farisei e gli scribi si servono degli Erodiani, vicini al re Erode, un re “fantoccio”, subalterno ai Romani. Si vuole mettere in difficoltà Gesù: questa è la prima di quattro inchieste: «Chi comanda in Palestina? Comanda l’imperatore o comanda Dio?». Era una domanda cattiva, perché costringeva Gesù a prendere una posizione. Se avesse detto: «Comandano i Romani», gli Zeloti si sarebbero infuriati. Se invece Gesù avesse detto il contrario, avrebbe delegittimato l’occupazione straniera. Gesù dà un colpo d’ala al discorso: «Restituite a Cesare quello che gli compete». Non “dare” a Cesare, ma “restituire” a Cesare quello che è di Cesare (è così nella lingua greca). Che cosa dà Cesare? Le strade, gli ospedali, le scuole, le palestre… Gesù dice: «Pagate le tasse; se siete miei discepoli non potete essere “ladri” usando il bene comune senza contribuire». Poi, Gesù dice: «Restituite a Dio quello che è di Dio». A Dio appartengono il nostro cuore, la nostra intelligenza, la nostra volontà, la nostra persona. Nessuno può pretendere di possedere un altro, di usarlo come gli pare e piace, perché noi apparteniamo al Signore. Siamo figli. Ad un certo punto Gesù dice: «Datemi una moneta». Il tributo era, in fondo, una cifra risibile. A Gesù viene data la moneta ed egli dice: «Di chi è l’immagine?». «Di Cesare». «E l’iscrizione?». Dietro la moneta c’era scritto: «divino imperatore». Gesù ridimensiona subito: di divino c’è solo Dio. Lui è la divinità. In questo momento Gesù dice a tutti noi, in modo particolare a voi che state per ricevere la Cresima: «Avete impresso nel vostro cuore l’immagine di Dio». Dio ci ha creato «a sua immagine e somiglianza» (Gn 1,26). L’iscrizione che portiamo è quella del santo Battesimo. Da quando siamo stati battezzati quell’immagine è stata rinnovata: siamo tesoro di Dio, la sua moneta preziosa, una moneta viva, che vale molto più dell’oro e dell’argento: «Tu sei prezioso ai miei occhi – dice il Signore – e io ti stimo (cfr. Is 43,4)».
Cari ragazzi, tra un istante vi chiederò se siete disposti davvero a credere in Dio, in Gesù, nello Spirito Santo, nella Chiesa. Risponderete forte e chiaro: «Credo». Poi stenderò le mani su di voi: un gesto antico, carico di significato, per chiedere allo Spirito di Dio di scendere su di voi. Lo Spirito verrà con i suoi doni, che ben conoscete. Dopo passerò da ciascuno di voi intingendo il pollice su un profumo mescolato con olio, il crisma (da cui la parola “Cristo”, “cristiano”, che vuol dire “unto”, “profumato”) e traccerò sulla vostra fronte un segno. Sentirete subito il profumo; poco dopo non sentirete più la sua fragranza, ma il segno rimane, invisibile e incancellabile, paragonabile ad un bacio che Gesù Cristo imprime sulla vostra fronte. Domattina, svegliandovi, ricordate il bacio di Gesù: un bacio vale più di molte parole.
Vi darò poi un piccolo “buffetto” per dire: «Tocca a te, cammina!». Quel gesto mi fa pensare alla pagina della Bibbia che racconta la storia di Sansone. Ci voleva un assalto definitivo contro i Filistei. Sansone cattura delle volpi, le chiude in un serraglio, ad ogni coda lega una torcia, dà fuoco alla torcia e spalanca le porte del serraglio. Le volpi partono a tutta velocità e vanno ad incendiare i campi di grano dei Filistei (cfr. Gc 15,4-8). Ovviamente l’incendio a cui vorrei invitarvi è un incendio d’amore, di bontà… a scuola, in palestra, in famiglia. Senza farsi vedere: «Non sappia la destra quello che fa la sinistra» (Mt 6,3). Mi incanto al pensiero di vedere voi ragazzi come dodici volpi che verranno sguinzagliate e accenderanno di amore chi incontreranno. Ricordate il detto di Gesù: «Sono venuto a portare il fuoco sulla terra; e come vorrei che fosse già acceso!» (Lc 12,49). Il fuoco dell’amore.

Intervento in occasione della Veglia missionaria diocesana

Chiesanuova (RSM), 16 ottobre 2020

C’è una parola, che forse non avete mai sentita, molto importante nella teologia e nelle catechesi dei Padri della Chiesa. Più si va indietro nel tempo più ci si avvicina alla sorgente che è il Nuovo Testamento, che sono gli apostoli, la Chiesa degli inizi. Questa parola è stata tradotta e viene espressa con sinonimi: relazione, rapporto, unità. Però la parola greca è molto più suggestiva: pericoresi, cioè “danza”. Dio è “pericoresi”, cioè unità di tre Persone uguali e distinte. Le tre Divine Persone danzano – la danza è movimento, esprime gioia, coinvolge tutto l’essere – l’una dentro l’altra, l’una con l’altra, l’una per l’altra, al punto da essere una cosa sola: Dio Trinità d’amore. Provenendo dalla tradizione politeista romana e greca, siamo sempre stati prudenti nel parlare della Trinità. Ci hanno insegnato il segno della Croce: Dio che è Padre, Figlio e Spirito Santo, ma non siamo stati educati ad un rapporto differenziato con le tre Divine Persone. Le tre Divine Persone sono così unite, così “amanti” l’una dell’altra, che non facciamo torto a nessuna delle tre se ci rivolgiamo a volte a una e a volte all’altra. Le tre Divine Persone, proprio perché la danza è esuberante, infinita, straripante, decidono di creare: tutt’e tre le Divine Persone creano. Quando l’uomo si perde, le tre Divine Persone inviano il Verbo. Il Verbo viene in mezzo a noi a prenderci per mano affinché entriamo anche noi nella danza con “i Tre”. Gesù è missionario perché mandato dal Padre e dallo Spirito per venire ad ingaggiarci in questa danza, nella pericoresi. La vita cristiana è questa. Poi Gesù manda lo Spirito. Noi, adesso, siamo nel tempo dello Spirito, che è anche tempo di Gesù, che è anche tempo del Padre.
Come vorrei una Diocesi tutta missionaria! Guardando e contemplando questa nostra vocazione, dobbiamo essere affascinanti, gioiosi, nonostante i dispiaceri, e invitare chi ci sta attorno a questa danza.
Per fare una Diocesi missionaria bisogna che ognuno sia missionario. Per cominciare, sarete missionari se la prossima volta che fate la Comunione presentate a Gesù il grappolo di persone che volete introdurre nella danza, un grappolo di persone da coltivare nel cuore, per cui pregare, a cui stare vicini con un messaggio, un sorriso, una telefonata, una parola buona. Santa Teresa di Lisieux ha preso in cura varie persone. Uno era un condannato alla ghigliottina: ha dato la vita perché si convertisse. Così ha sostenuto un seminarista e un missionario. Teresa, ancor giovanissima, si ammalò di tubercolosi. A volte la malattia le rendeva difficile anche salire i gradini. Allora, ogni passo lo trasformava in un atto di coraggio e di amore per il cammino di quel missionario.
Decidete voi chi è il vostro grappolo, ma non troppo grande!

Discorso al Corso di giornalismo: “Conflitti ed esodi di massa. Il ruolo dei Piccoli Stati tra promozione del dialogo e tutela dei minori”

Fiorentino (RSM), 15 ottobre 2020

Porgo il mio saluto adoperando l’incipit dell’ultima enciclica di papa Francesco: Fratelli tutti (citazione dalle “Fonti Francescane”).
Saluto il Direttivo della Consulta per l’Informazione e tutti i partecipanti a questo Corso di giornalismo dal titolo così impegnativo, stimolante e ampio: “Conflitti ed esodi di massa. Il ruolo dei Piccoli Stati tra promozione del dialogo e tutela dei minori”.
Parto da un’esperienza personale. La prima volta che nella Basilica di San Marino ho celebrato la Messa per l’Insediamento degli Ecc.mi Capitani Reggenti fui colpito dai numerosi partecipanti e dal loro portamento compassato, elegante, attento. Ero in San Marino appena da qualche settimana. Soltanto alla fine della celebrazione ho saputo che i presenti erano i rappresentanti delle Ambasciate accreditate presso la Repubblica di San Marino. Sei mesi dopo, quando ho ripetuto la celebrazione, avevo una consapevolezza diversa che mi ha portato a provare commozione. Avevo davanti a me – per così dire – un bozzetto del mondo unito: la piccola Repubblica di San Marino riuniva insieme rappresentanti di diverse nazioni, rivelandosi capace di relazioni, di ospitalità, di dialogo e di convivialità. L’ho vista con occhi nuovi, come una realtà geograficamente piccola, ma con una grande densità di valori, personalità e stile. Immagino come dietro a quell’appuntamento istituzionale che si ripete due volte all’anno, insieme alla forza della tradizione, vi sia tutta una rete di contatti, di scambi, di mutuae relationes preziosissime, soprattutto oggi.
Da quando siamo entrati nel nuovo millennio sono accaduti eventi di portata mondiale che hanno lasciato tracce profonde nelle biografie personali, ma anche nelle dinamiche sociali, con oscillazioni fra due prospettive: consapevolezza dell’interdipendenza della globalità e tendenza alla difesa dell’identità. Cito tre eventi di questi primi vent’anni del nuovo millennio. L’11 settembre 2001 ci ha costretto a mettere a tema la questione del rapporto fra le culture. Si parlava di “scontro di civiltà”.  Con la crisi finanziaria del 2008 si è toccata con mano l’interdipendenza economica, il ruolo dei poteri forti nel determinare l’economia dei singoli paesi. Ora siamo coinvolti a livello planetario dalla pandemia. «Siamo tutti sulla stessa barca», ha detto papa Francesco nel celebre discorso del 27 marzo. A proposito di navigazione, di barche e di rotte verso l’Europa penso all’evento epocale che sono le migrazioni…
Siamo alla ricerca di un equilibrio fra riconoscimento dell’autonomia individuale, della libertà e dell’autodeterminazione da una parte e, dall’altra parte, le esigenze derivanti dall’appartenenza ad una nazione, ad un popolo, ad un gruppo. In questo contesto mi faccio attento – è un’autorità riconosciuta, mondiale – al pensiero di papa Francesco che sta aiutando a definire una grammatica delle relazioni sociali. No ad una società chiusa in se stessa, individualista, no al globalismo dominato dalla finanza. Il mondo porta in sé la vocazione all’unità: «Tutto è collegato» (Laudato si’, 91). «Siamo un’unica umanità, come viandanti, fatti della stessa carne umana, come figli di questa stessa terra che ospita tutti noi» (Fratelli tutti, 8). Quando scrive la Laudato si’, anche nell’ambiente della Chiesa c’è chi sussurra: «Il Papa deve parlare di Dio!». In realtà la Laudato si’ è un testo di teologia e di antropologia: è l’uomo che viene messo in relazione con Dio, la creazione con il Creatore. Il Papa ribadisce tre principi fondamentali (preferirei chiamarli tre proposte esperienziali, anziché principi).

1. Siamo in relazione. Non possiamo non esserlo: la relazione è costitutiva del nostro essere. Relazione con gli altri, con l’ambiente, con il cosmo e con l’Oltre (Dio). Si parla di “creato” e l’allusione è evidentemente al Creatore. Sembra un discorso ovvio, eppure tante volte l’abbiamo dimenticato, affermando che esiste un “io” a prescindere, un “io” del tutto autonomo e indipendente. Ce lo ricorda l’ombelico: noi siamo stati in relazione ancor prima di nascere. Possiamo esistere solo dentro a reti di relazione. Un giorno chiesi a bruciapelo ad uno studente di antropologia, mentre insieme stavamo salendo la scaletta per andare al campo sportivo: «Che cos’è l’uomo?». «Un figlio», rispose. Effettivamente non tutti siamo mariti o mogli, non tutti siamo padri o madri, ma tutti siamo figli. Sembra un’osservazione elementare… È la prima evidenza di questa grammatica delle relazioni sociali.

2. Questa relazione dinamica si svolge su tutti i livelli: famiglia, amici, vicini di casa, colleghi di lavoro, ma anche nei mondi culturali, relazioni a cui apparteniamo. Ci sono relazioni digitali che arrivano ad abbracciare il mondo intero, relazioni gioiose, liberanti e altre che sono faticose e subite. Tutto questo lo viviamo adesso in una sorta di vortice. Abbiamo bisogno di limiti, di confini, di disciplina per arginare intemperanze e condizionamenti, ma soprattutto abbiamo bisogno di prenderci cura delle relazioni in profondità.
Narro ancora una esperienza tratta dall’ambito che mi appartiene. L’anno scorso abbiamo cominciato in novembre a preparare il Programma pastorale della Diocesi. Abbiamo fatto ragionamenti e stilato un cartellone. Non c’è mese senza un convegno, non c’è settimana senza un incontro, non c’è giorno senza un’iniziativa. Quando siamo entrati nel lockdown è stato come se l’inchiostro sul cartellone si squagliasse. Ci siamo chiesti: «Se eliminiamo le iniziative, i convegni, gli incontri è finita per noi?». C’è stato un momento di smarrimento. Siamo stati ricondotti da questa esperienza al silenzio e soprattutto all’ascolto. Ci siamo messi di fronte ad un’icona biblica (Es 3,1-10): il racconto di Mosè davanti al roveto ardente. È un’icona, cioè qualcosa che travalica l’esperienza personale di Mosè. Mosè si era ingaggiato in un’opera di liberazione di sua iniziativa, con criteri suoi, ed era finito in un clamoroso fallimento. Al punto da fuggire; poi prende moglie, ha dei figli, diventa imprenditore a servizio di Ietro, lo suocero. Un giorno vede un roveto che arde senza consumarsi e sente una voce che usa questa grammatica, coniuga questi verbi: Dio osserva l’oppressione che pesa sul suo popolo, ode il suo grido di dolore, conosce la sofferenza dei suoi che vivono nella povertà e nell’umiliazione. Per questo scende ed entra nella storia per intervenire in essa. Ernst Bloch nel libro Ateismo nel cristianesimo (1968) dà una definizione di Dio suggestiva: Dio non è colui che “sta sopra”, ma colui che “cammina davanti”.

3. Nessuna relazione può pensarsi chiusa, cioè indipendente e sganciata da ciò che sta “oltre”. La relazione deve pensarsi aperta anche a ciò che la supera, non solo al pianeta, agli uomini, ma anche al mistero che si spalanca alla coscienza, al senso religioso. Il Papa ci ricorda che questo tipo di ascolto ridimensiona ogni pretesa di assolutezza.
Questa grammatica è importante; spinti dalla pandemia in cui stiamo vivendo dobbiamo ripensare queste relazioni: noi col pianeta, noi con Dio e poi aver cura di queste relazioni. Buon lavoro!

Omelia nella XXVIII domenica del Tempo Ordinario

#FlashdiVangelo

Is 25,6-10a
Sal 22
Fil 4,12-14.19-20
Mt 22,1-14

Con la parabola dell’invito alle nozze si conclude l’insieme delle parabole dette “del giudizio”. E il “giudizio” è questo: tragicamente Gesù viene rifiutato dal suo popolo, ma nasce un popolo nuovo, tale non per l’appartenenza etnica, ma per l’adesione di fede. Ecco il significato profondo di questa parabola. Sottolineo altri due aspetti.
Il primo. L’invito del re è “ad una festa”: spesso viviamo la fede cristiana, come qualcosa di pesante e frustrante, che tarpa le ali. No, è l’invito ad una festa, ad una festa di nozze. Il Signore non tollera che, nella sua casa, ci siano posti vuoti. Si direbbe quasi – consentitemi – che è un inguaribile ostinato: vuole a tutti i costi riempire la sala. Dopo il primo round di inviti, passa al secondo: «Andate nei crocicchi delle strade, fate venire…».  La chiamata è per tutti. Nella libertà. Ma succede che non tutti aderiscono. Gesù non ha mai pensato, mai promesso, che la sua Chiesa avrebbe goduto di chissà quali folle. Dovrà vivere sempre nella logica del lievito.
A proposito di crocicchi delle strade e di persone chiamate, racconto un’esperienza di qualche settimana fa. Avevo dato appuntamento ad un amico che doveva passare a prendermi a San Marino. Mi trovavo ad un incontro in centro storico, dove le auto non possono entrare. Sono sceso alle porte della città per aspettare il passaggio. Quell’attesa si è fatta più lunga del previsto e mi sono messo ad osservare la gente che passava: coppie di fidanzati, mamme con il bimbo nella carrozzella, vigili urbani, ragazzi che portavano le pizze in qualche famiglia con una bicicletta assistita… Vincendo il mio malumore per questa attesa ho iniziato a pensare ad ognuna di quelle persone come amata da Dio. Via via che passavano i minuti, la mia osservazione al crocicchio della strada diventava preghiera. Sentivo che ogni persona era chiamata. Del resto, tutta la Sacra Scrittura la si può leggere sotto la parola “chiamata”, “vocazione”. Non era forse il popolo d’Israele il popolo “eletto”? Gesù, poi, ha promesso il suo Regno agli Ebrei, ai pagani, a tutti… Tutti candidati al suo banchetto!
Concludo con un invito: anche noi abbiamo crocicchi quotidiani dove incontriamo persone e viviamo relazioni. Proviamo ad avere lo sguardo del Padre che veglia, che fa crescere, che accompagna con simpatia, che vuole tutti nella “sala del banchetto”, che non tollera posti vuoti.
Quella sera, tornando a casa, ho scritto sul mio diario alcune frasi che condivido con voi: «Sono anch’io ad un incrocio decisivo per la mia vita: con la mia fretta (non ho mai tempo), con la mia sbadataggine (arrotolato sui miei pensieri non mi accorgo di nulla), con le mie incertezze (libero davanti al bivio delle scelte). Eppure, sono chiamato all’affare più grande: il Regno di Dio! Mi capita di esitare: metto mille scuse, sono troppo impegnato per aver tempo d’ascoltare… Metto perfino il Signore in condizione di non riuscire a combinare un appuntamento con me, perché non trova una data libera sulla mia agenda. Ma è tanto grande il suo desiderio di avermi, anzi, di averci. Neanche Dio può stare solo!».

Omelia nella XXVII domenica del Tempo Ordinario

Macerata Feltria (PU), 4 ottobre 2020

Is 5,1-7
Sal 79
Fil 4,6-9
Mt 21,33-43

Ancora una parabola. Attenzione, se il Signore parla nuovamente della vigna e adopera espressioni affettuose, riconducibili al Cantico della vigna di Isaia (cfr. Is 5), qui però l’intento non è morale: l’intento principale non è sapere se questa vigna ha dato dei frutti oppure no. Qui Gesù racconta una storia. Soltanto alla fine i suoi interlocutori capiranno che sono coinvolti in essa.
È la storia di un padrone che dà la sua vigna in affitto ad alcuni contadini. Quando viene il momento del raccolto, quei vignaioli scacciano gli ambasciatori inviati dal padrone, che vengono bastonati e uccisi. Il padrone ne manda altri, a più riprese, e alla fine manda il proprio figlio, l’erede, che viene anch’egli assassinato. Dunque, una storia di cattiveria e di sangue. Eppure c’è una svolta nella parabola. Gesù domanda ai suoi interlocutori: «Quando verrà il padrone della vigna che cosa farà di quei contadini?». Attenzione alla risposta dei discepoli (forse è quella che daremmo anche noi): «Quei malvagi li farà morire miseramente e darà in affitto la vigna ad altri contadini». Invece Gesù dice che dalla vicenda dell’uccisione del figlio, la pietra scartata, vi sarà futuro, un “di più”: quella vigna estenderà i suoi tralci in tutto il mondo. Il Signore non vuole che la storia finisca. Questo ci dà consolazione. Se pensiamo alla vigna della nostra vita, constatiamo fallimenti e debolezze, eppure il Signore trasforma la storia e la fa diventare storia di salvezza. Ora comprendiamo meglio la dizione formulare che a volte si usa: storia della salvezza. La Bibbia è tutta una storia di vicende, a volte sanguinose, di peccati e di infedeltà; eppure su queste righe storte il Signore scrive dritto.
Mi viene in mente un episodio: in una famiglia un bambino aveva il suo angolo di studio, con la sedia, la scrivania, i quaderni… Una volta gli accadde di rovesciare l’inchiostro e di fare una grande macchia sul muro. Appena qualche giorno prima era venuto l’imbianchino e in casa c’era ancora il profumo della vernice fresca. La macchia era un brutto sgorbio in quella parete bianca. «Che cosa farà il papà quando arriva stasera?»: è come la domanda provocatoria che fa Gesù ai suoi ascoltatori. La mamma ebbe questa idea: prese dei colori e trasformò quello sgorbio in tanti fiori variopinti. Alla sera, quando il papà tornò, fu molto contento dell’angolo studio del suo bambino.
Iniziamo la settimana avendo nel cuore questa buona notizia. Il Signore trasformerà i nostri fallimenti. Attraverso il suo sacrificio darà di più se avremo l’umiltà di consegnarli al suo cuore!

Omelia nell’Insediamento degli Ecc.mi Capitani Reggenti

San Marino Città (RSM), Basilica del Santo, 1° ottobre 2020

Gen 4,3-10
Sal 61, 2-6
Mt 25,31-40

Eccellenze, Signore, Signori,
abbiamo implorato: «Ascolta, o Dio, il mio grido, sii attento alla mia preghiera. Dai confini della terra io ti invoco» (Sal 61,2-3). La nostra preghiera davvero si fa grido. Raccoglie l’urlo di ogni Abele, fratello oppresso, insidiato e ucciso.
«Dai confini della terra…». Tutti gli uomini sono davvero fratelli; desiderati, pensati, voluti, creati dall’unico Padre. “Fratelli tutti”: da quello che ci è accanto, a quello lontano, dall’anziano a quello appena concepito nel grembo.
Oggi il grido si fa implorazione per la prova che attraversa il nostro paese e tutta l’umanità: il dramma del contagio e – altrettanto pericoloso – il contagio del dramma che condiziona pesantemente la socialità.
Abbiamo vissuto due estremi. Da una parte il congedo solitario di una generazione di persone anziane, morte, per così dire, due volte, perché decedute in solitudine, private anche della cerimonia funebre e, dall’altra parte, abbiamo constatato come gli esseri umani siano capaci di replicare all’eccesso di male con un eccesso di bene, che si è tradotto in dedizione e cura, spinte fino ad una fedeltà eroica, fino al dono di sé! Ecco una risorsa di umanità che nessun insulto patologico è riuscito a cancellare: il bene non è un evento solitario, ma è qualcosa che si vive insieme, dove fede e speranza portano alla carità.
La pandemia ha scavalcato tutte le recinzioni artificiali, mostrando – come ci ha ricordato papa Francesco – che siamo davvero «tutti sulla stessa barca» (cfr. Meditazione del Santo Padre, Sagrato della Basilica di San Pietro, 27 marzo 2020) e non possiamo continuare a contenderci qualche centimetro quadrato a poppa o a prua, nella noncuranza per la rotta da tenere in un mare in tempesta. «Siamo membra gli uni degli altri», direbbe san Paolo, che ricordava ai Corinti: «Vos non estis vestri (voi non vi appartenete)» (1Cor 6,19).
Purtroppo, la realtà della interdipendenza e della solidarietà può essere minacciata dal virus dell’individualismo. Non si può essere “globali” nella finanza e non nella fraternità, nella circolazione delle merci e non nel riconoscimento della dignità, nel profitto e non nel welfare, nella libertà e non nella giustizia.
Sì, c’è un’analogia fra il contagio virale della pandemia e il contagio globale dell’individualismo che trasmette l’attaccamento ai propri egoismi, anche negli “alveoli interstiziali” (per usare un’immagine divenuta ricorrente in questi giorni) dove avviene lo scambio tra pubblico e privato, tra noi e gli altri.
Se siamo autonomi lo siamo non per essere soli, ma per condividere spiritualmente la fraternità, per ampliare in estensione ed in profondità le nostre capacità relazionali. Per questo, le sofferenze della pandemia non ci lasciano indifferenti. Ci guardiamo bene dal rispondere all’appello della corresponsabilità con le parole di Caino: «Sono forse il custode di mio fratello?» (Gen 4,9). Tocca a noi liberare le risorse dell’amore fraterno.
«Ho avuto fame, mi avete dato da mangiare; ho avuto sete, mi avete dato da bere; ero straniero e mi avete ospitato…». Verrebbe da rispondere: «Quando mai, Signore?». E Lui: «Ogni volta che avete fatto queste cose ad uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me» (cfr. Mt 25,35-40).

San Marino, fondatore della nostra Repubblica, ha iniziato una tradizione di fraternità e di amore alla vita, di cui siamo fieri. La Repubblica ha saputo accogliere con generosità donne, uomini e famiglie in pericolo per la guerra e per forme di persecuzione. Ha una tradizione di rispetto per la vita e la libertà di ogni fratello, valori fondanti che non si vuole perdere. C’è a San Marino un popolo cristiano che ama e difende ogni vita, un popolo responsabile e intraprendente, che chiede alla politica, nella differenza dei ruoli e nel rispetto del dibattito istituzionale, di essere protagonista nella difesa del bene comune, certo che il primo bene è la vita del più debole e indifeso.
«Sono forse il custode di mio fratello?». Noi tutti diciamo “sì”: «Sono custode di mio fratello, disposto ad allargare gli spazi della fraternità».

Discorso all’Assemblea diocesana unitaria del Mandato

San Marino Città (RSM), chiesa dei Santi Pietro, Marino e Leone, 27 settembre 2020

La chiesa risuona ancora dei canti di una comunità in festa ed è ancora profumata dalla fragranza del Sacro Crisma della Prima Messa e dell’Ordinazione sacerdotale di un nostro giovane, don Mattia Benedettini, prete e prete salesiano. Diciamo grazie al Signore per il dono di questo giovane che è cresciuto qui, nell’oratorio, e invochiamo senza stancarci il dono di tante vocazioni di speciale consacrazione. Ieri una ragazza, suor Rita Letizia, a Sant’Agata Feltria ha fatto la sua professione semplice. Preghiamo anche per lei.
Tiro alcune conclusioni per questo straordinario pomeriggio, “festa del rientro”, “celebrazione del Mandato” a voi, operatori pastorali, e “lancio del nuovo Programma diocesano”. Lo faccio attraverso tre figure.
La prima. Vi succede di giocare a carte? In un certo senso oggi proviamo l’emozione della “ridistribuzione delle carte”, che rende il gioco più interessante, stimola le capacità, apre a nuove possibilità. Fuori di metafora: se ci è chiesto un “sì” nella fede, questo è sempre generativo.
La seconda immagine è presa dal libro del Qoelet. Si parla di una corda che è solida perché intrecciata a tre capi (cfr. Eccl 4,12). Se fosse uno solo si spezzerebbe, ma tre insieme sono più resistenti: “Funiculus triplex”.
Ci tengo a rimarcare la concatenazione dei passaggi pastorali, perché stiamo sviluppando un’unica esperienza: l’incontro con Gesù Risorto (il Big Bang della nostra fede), l’innesto in questo mistero attraverso il sacramento del Battesimo e l’irresistibile esigenza di comunicarlo a tutti, la missione. Si sbaglia se si dice che quest’anno facciamo la campagna della missionarietà. No, siamo sempre a quella mattina del giorno di Pasqua o, se volete, al giorno della Pentecoste. C’è tutta una vita che, illuminata dalla Pasqua, può trasformarsi e far luce. Una testimonianza trasparente, contestuale, innovatrice per il nostro territorio, per la nostra città. Dunque, la missione non è un altro tema, ma approfondimento ulteriore della dinamica pasquale.
Terza immagine: il quaderno che vi verrà dato tra poco. Lo sviluppo del Programma pastorale tocca ciascuna delle nostre parrocchie. Si è parlato anche di “sinfonia” (Bach ha fatto dei corali ad otto voci, tutte intonate). Tutte le parrocchie, tutti i gruppi, tutti i movimenti, tutto quello che è diocesano, dev’essere intonato a questa proposta. Ogni realtà la applica, la interpreta, la realizza in base alle proprie esigenze e alle proprie risorse.
Oggi non avete parlato, siete stati solo ascoltatori, ma il 22 maggio 2021, vigilia di Pentecoste, ci scambieremo i doni, le esperienze dell’anno. Ci racconteremo come avremo saputo essere, con fantasia e creatività, speranza in un mondo ferito. Buon cammino!

Omelia nell’Ordinazione presbiterale di don Mattia Benedettini sdb

San Marino Città (RSM), chiesa dei Santi Pietro, Marino e Leone, 26 settembre 2020

Ger 1,4-9
Sal 97
2Cor 4,1-2.5-7
Gv 15,9-17

Un saluto affettuoso a tutti, soprattutto alla signora Alba, mamma di Mattia, che ho conosciuta quando abbiamo pregato insieme a papà Cesare.
Saluto la famiglia Salesiana. È bello che sia presente così numerosa.
Solo la Parola di Dio può spiegarci compiutamente ciò che qui e adesso sta per accadere, sia su di noi – perché lo Spirito scenderà su questa Chiesa – sia su di te, caro don Mattia. Anche uno sguardo soltanto terreno resta affascinato: qui c’è una bellezza che diventa splendore. È un fatto.
Avete sentito la breve biografia di Mattia che è stata appena letta. Caro Mattia, Dio è entrato nella tua vita non come un’idea, un’emozione o una filosofia. È vero, importanti sono stati l’oratorio, gli amici, le frequentazioni (ti immagino quand’eri liceale qui a San Marino)… Posso dire che è stata un’irruzione inattesa, a tratti anche sfidante, da parte di una Persona che ti ha messo in movimento e ha infranto lo scorrere di una giovinezza come tante. Quanti gruppi, quanti amici, quanti maestri… Non posso non ricordare il tuo primo parroco, don Pino, e la tua maestra della Scuola d’infanzia, suor Maria, qui presenti.
Una voce si è fatta sentire: «Prima di formarti nel grembo di tua madre ti conoscevo e ti ho stabilito profeta» (cfr. Ger 1,5). Come Geremia non hai potuto trattenere la sorpresa. «Ahimè, Signore Dio, io non so parlare, perché sono giovane» (Ger 1,6). Una reazione che non è una sottrazione per ignavia, ma consapevolezza della propria inadeguatezza. Poi, la replica del Signore: «Ecco, ti metto le mie parole sulla bocca» (Ger 1,9). Così dicendo il Signore stende la mano su di te, accarezza le tue labbra. Notate la concretezza…
Tra poco ci saranno l’imposizione delle mani e gli abbracci, anche se, per la circostanza, solo col cuore. La tua vocazione, come ogni altra vocazione, è una prova dell’esistenza di Dio!
Abbiamo attualizzato il racconto della vocazione del profeta Geremia, caratterizzato da una straordinaria semplicità. Il profeta racconta come Dio l’ha chiamato, come egli abbia provato a resistere e come Dio l’ha vinto e rassicurato. Più avanti Geremia dirà: «Mi hai sedotto, Signore, e io mi sono lasciato sedurre, mi hai fatto forza e hai prevalso» (Ger 20,7). Il Signore ha confermato la chiamata e assicurato la sua prossimità e protezione. Uno schema classico, si direbbe. Però un’avventura personalissima e sempre nuova, unica, la tua, Mattia.
Ecco, messaggero di Dio, porterai esclusivamente la Parola di Dio, non le tue opinioni o le tue parole. Il tempo che verrà è come un rotolo di pergamena sigillato. Chi può leggere quello che contiene scritto?
Noi preghiamo e ti siamo vicini perché tu possa dire con totale fiducia: «Ecco, Signore, io vengo», senza aver disteso quel rotolo. «In capite libri, de me scriptum est, ecce venio» (Sal 39,8): sono le parole che l’autore della Lettera agli Ebrei mette sulle labbra del Verbo che si incarna. Allora farai esperienza di una forza insospettata… Ma da dove vengono questo coraggio, questa libertà, questa energia (cfr. Mc 6,1-6)?
Nel contempo farai esperienza della fragilità, spaesante talvolta. Sarai forte perché il Signore stesso agirà e parlerà attraverso di te, sarai fragile per il tuo limite e per la percezione di essere, talvolta, inascoltato e incapace di scalfire l’indifferenza di tanti.
Un caro amico prete, mi scrisse: «Ho l’impressione di essere un “vu’ cumprà”. Non interessa a nessuno quello che ho da dire». Ma non è così: c’è molta sete di infinito, molto desiderio di verità e di ricerca di Dio. Il Signore metterà in moto le tue risorse, sconosciute forse persino a te, trasformerà la tua debolezza in tenacia incrollabile. «Noi – scrive l’apostolo Paolo – non predichiamo noi stessi, ma Gesù Cristo, il Signore». E aggiunge: «Quanto a noi, siamo i vostri servitori per amore di Gesù» (2Cor 4,5). Ecco, servo per amore. Un giorno mi hai confidato una sintesi del carisma e della pedagogia di don Bosco a proposito dei cuori che, a volte, sembrano impenetrabili, i cuori degli adulti, ma anche quelli dei giovani. La frase è questa: «Essere instancabili cercatori del punto accessibile al bene che c’è in ogni giovane, in ogni persona». Davvero ogni cuore racchiude nel profondo, come dentro ad una oscura miniera, quella luce che il Creatore fa brillare all’inizio di ogni esistenza. Come ci ha ricordato san Paolo nella Seconda Lettura: «Dio disse: “Rifulga la luce dalle tenebre”» (2Cor 4,6). Che ognuno, attraversato “il punto accessibile”, possa scoprire questa luce e la sua dignità di figlio a somiglianza di Cristo. Introdurre a questa esperienza è l’appassionante “mestiere” del prete, del prete salesiano. Paolo adopera l’immagine del “vaso di creta”, che rende bene l’idea della fragilità dello strumento che il Signore ha scelto. La creta è un materiale non particolarmente prezioso, ma nasconde un tesoro.
Dunque, è grande la chiamata, grande il progetto, grande la promessa. «Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi» (Gv 15,16): questa è la chiamata. «Nessuno ha un amore più grande di questo, dare la vita per i propri amici» (Gv 15,13): questo è il progetto. «Non vi chiamo più servi, ma amici, perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena» (Gv 15,11): questa è la promessa.
Siamo in una di quelle pagine evangeliche in cui è custodita l’essenza del cristianesimo, le cose determinanti della fede. Le rileggo: «Come il Padre ha amato me, io ho amato voi. Rimanete nel mio amore» (Gv 15,9). «La strada c’è, ci siete già dentro, allora restate, non andatevene, non fuggite via – sembra dire Gesù – rimanete in questo amore».
Spesso succede di resistere e persino di difenderci dall’amore. Abbiamo il ricordo di tante ferite, illusioni; ci aspettiamo tradimenti, ma Gesù propone la sua pedagogia: «Amatevi gli uni gli altri» (Gv 15,12). Non semplicemente «amate», ma «amatevi gli uni gli altri», nella reciprocità, nella comunione di cui la comunità è la concretizzazione. Con la parola che fa la differenza cristiana: «Come io vi ho amato». Come Cristo che lava i piedi, che non manda via nessuno, che va in cerca dell’ultima delle sue pecorelle. E perché rimanere in questa logica? Per essere nella gioia! Dio è un Dio felice, perché parla nella sua gioia; si rivela come un Dio gioioso che vuol far crescere dei figli felici, che amano con cuore libero e forte, e di questo provino piacere, gustandone la bellezza. Così sia.

Intervento al Collegio plenario dei Docenti dell’Istituto Superiore di Scienze Religiose interdiocesano “A. Marvelli”

Rimini (RN), 14 settembre 2020

Cari Docenti,
sono contento di essere qui con voi per dirvi la mia gratitudine per quello che state facendo per la Chiesa e in particolare per le nostre Diocesi di Rimini e San Marino-Montefeltro.
Un saluto affettuoso a mons. Francesco Lambiasi e al direttore dell’Istituto, prof. Natalino Valentini, col quale sono spesso in contatto, facendomi partecipe della vita dell’Istituto. Ritengo che la fatica che facciamo per sostenere e incrementare la riflessione sulla fede e il servizio formativo alle nostre comunità sia di fondamentale importanza. A volte siamo tanto presi dal fare, dal rincorrere scadenze che rischiano di rubarci l’essenziale. Mi rendo conto, sempre più, come sia importante e decisivo privilegiare questa apertura e intelligenza davanti al mistero del Signore.
Mi presento: sono originario di Ferrara; ho lavorato molto nella pastorale dei ragazzi; per vent’anni sono stato direttore spirituale nel Seminario diocesano e, infine, parroco alla periferia della città. Mi sento un po’ vostro collega perché ho fatto per alcuni anni lezione all’Istituto di Scienze Religiose di Ferrara (insegnavo Catechetica e Teologia spirituale).

Attraverso quattro immagini vorrei dirvi quello che sto vivendo come vescovo di San Marino-Montefeltro. Parto dal positivo: mi trovo in una Chiesa raggiante, anche se ha sofferenze, dubbi e tensioni. È raggiante perché gode della presenza di Gesù Risorto. È una Chiesa grembo perché molto impegnata nell’iniziazione cristiana e nell’aggancio a quel vasto popolo che accompagna i bambini e i ragazzi ai sacramenti (a volte, purtroppo, poco apprezzato). È una Chiesa che va riscoprendo sempre di più i laici (nonostante qualche resistenza o ritardo). Ciò a causa del venir meno di tante forze “clericali”, ma soprattutto per convincimento, sulla base del Battesimo e dell’universale chiamata alla santità e all’apostolato.
L’ultimo fotogramma col quale descrivo la Chiesa di San Marino-Montefeltro, è quello di una Chiesa inquieta. Ho partecipato all’applauso fragoroso quando, a Firenze, in Santa Croce, Papa Francesco ha detto: «Mi piace una Chiesa Italiana inquieta, sempre più vicina agli abbandonati, ai dimenticati, agli imperfetti. Desidero una Chiesa lieta col volto di mamma, che comprende, accompagna, accarezza» (Papa Francesco, Discorso al Convegno ecclesiale della Chiesa Italiana, Firenze, 10 novembre 2015). Dunque, una Chiesa inquieta perché vive le tensioni di oggi: incertezze, ansie, cedimenti alla mentalità secolarizzata, calo di presenze, scandali… Ma c’è anche un’accezione positiva nell’aggettivo “inquieto” applicato alla Chiesa: una Chiesa protesa a tutti, nella costante ricerca del dialogo; una Chiesa che è come una madre che non si dà pace per i suoi figli; una Chiesa che cerca senza sosta, si libera da schemi e sa mettersi in questione. Certo, l’equilibrio non è semplice. Si può trovare l’equilibrio camminando piano sul filo, ma c’è anche chi lo trova girando più forte come il giroscopio.
Sento la responsabilità di vescovo afferente a questo Istituto Superiore di Scienze Religiose. Dico grazie a voi professori e a tutto il personale per il servizio che svolgete e di cui gode la mia Diocesi. Penso ai 35 docenti di Religione Cattolica che si sono formati qui ed hanno un rapporto costante con voi; ai diaconi (9 già ordinati) e ai candidati diaconi che si preparano al ministero in questo Istituto. Voi garantite un appoggio competente a diversi Uffici Pastorali e siete disponibili a sostenere corsi di Sacra Scrittura nelle zone periferiche della Diocesi. Penso ai seminari nei quali ci aiutate ad affrontare problematiche e temi di attualità. Vi penso come una comunità “laboratorio”: offrite il sapere della teologia, della patristica, della storia, ma fate anche ricerca. Non posso non esprimere il mio compiacimento per la rivista scientifica che l’Istituto pubblica.

«Dio ha posto alcuni come maestri…» (1Cor 12,28): quando avete detto “sì”, avete accolto un vero e proprio ministero. Il ministero del teologo e il Magistero della Chiesa sono realtà che si armonizzano. L’insegnante dell’Istituto è uomo di Chiesa, uomo nella Chiesa, uomo della Chiesa e uomo a servizio della comunità. Egli ama la bellezza della Chiesa.
Cari amici, la Chiesa ha rapito il vostro cuore: è la vostra patria spirituale. Per dirla con l’evangelista Giovanni, la Chiesa è «vostra madre». Dice, infatti, Gesù ai discepoli, a voi teologi: «Ecco mia madre, ecco i miei fratelli» (cfr. Gv 19,27). Nulla di ciò che tocca la Chiesa vi lascia indifferenti o insensibili. Proprio perché uomini della Chiesa siete coinvolti nel suo oggi. Ma ne amate anche il passato, ne meditate la storia, ne venerate e ne esplorate la Tradizione e questo non per un vezzo, e neppure perché disprezzate o sottovalutate la Chiesa nel nostro tempo, al contrario. E se il teologo ama ricordare col pensiero i tempi della Chiesa nascente, lo fa perché – come dice sant’Ireneo – in essa riecheggiano ancora le parole di Gesù, il suo sangue scorre ancora caldo. Senza cadere nel mito dell’Età dell’oro… Il teologo, uomo della Chiesa, sa che Cristo è sempre presente, oggi come ieri, per continuare la sua vita, non per ricominciare ad ogni epoca o ad ogni anno pastorale. Non fossilizza la Tradizione, non gli verrebbe mai in mente di richiamarsi, contro l’insegnamento attuale del Magistero, a qualche antico stadio della dottrina o della sua istituzione. Crede che Dio abbia rivelato tutto una volta per sempre, per mezzo del Figlio suo. San Giovanni della Croce, rivolgendosi a Dio dice: «Perché una volta ti manifestavi con segni e sogni, mentre adesso…». Gli viene risposto: «Ma io ho già detto tutto in Gesù Crocifisso (cfr. Giovanni della Croce, Salita al monte Carmelo, libro 2, c. 22)». Bisogna che il teologo sappia concepire e vedere insieme Sacra Scrittura, Tradizione e Magistero.
Sacra Scrittura, Tradizione e Magistero sono quel funiculus triplex che “tiene” perché intreccio di queste tre realtà («…una corda a tre capi non si rompe tanto presto» Eccl. 4,12). La fedeltà del teologo al Magistero non lo dispensa dal dovere di nutrirsi delle Sacre Scritture, della Parola di Dio, il cui studio resterà sempre l’anima della teologia. Non ci si forma alla teologia per un godimento intellettuale o a titolo di curiosità, la stessa con cui si visitano i monumenti. Il teologo è a totale servizio della comunità. Non esita ad impegnarsi per la difesa e per l’onore della sua fede, ma non è estremista, diffida degli eccessi, ci tiene a pensare non solamente con la Chiesa, ma nella Chiesa e questo implica una fedeltà profonda, una partecipazione intima. Si sente figlio, figlio di famiglia nella Chiesa. La fedeltà non si tradurrà mai in durezza, in disprezzo degli altri, in aridità di cuore. L’attaccamento alle verità della fede non sopprime in lui il dono dell’accoglienza. Sa che la Chiesa deve essere un “sì”: chi l’avvicina o la sfiora deve percepirla così.
Voi insegnanti, e tutti i pastori, devono avere una grande cura affinché non ci sia mai un’idea che a poco a poco prenda il posto di Gesù Cristo.
Questo il mio augurio per voi, con tutto il cuore e con immensa gratitudine per quello che fate.

Intervento al Collegio plenario dei Docenti dell’Istituto Superiore di Scienze Religiose interdiocesano “A. Marvelli”

Rimini (RN), 14 settembre 2020

Cari Docenti,
sono contento di essere qui con voi per dirvi la mia gratitudine per quello che state facendo per la Chiesa e in particolare per le nostre Diocesi di Rimini e San Marino-Montefeltro.
Un saluto affettuoso a mons. Francesco Lambiasi e al direttore dell’Istituto, prof. Natalino Valentini, col quale sono spesso in contatto, facendomi partecipe della vita dell’Istituto. Ritengo che la fatica che facciamo per sostenere e incrementare la riflessione sulla fede e il servizio formativo alle nostre comunità sia di fondamentale importanza. A volte siamo tanto presi dal fare, dal rincorrere scadenze che rischiano di rubarci l’essenziale. Mi rendo conto, sempre più, come sia importante e decisivo privilegiare questa apertura e intelligenza davanti al mistero del Signore.
Mi presento: sono originario di Ferrara; ho lavorato molto nella pastorale dei ragazzi; per vent’anni sono stato direttore spirituale nel Seminario diocesano e, infine, parroco alla periferia della città. Mi sento un po’ vostro collega perché ho fatto per alcuni anni lezione all’Istituto di Scienze Religiose di Ferrara (insegnavo Catechetica e Teologia spirituale).

Attraverso quattro immagini vorrei dirvi quello che sto vivendo come vescovo di San Marino-Montefeltro. Parto dal positivo: mi trovo in una Chiesa raggiante, anche se ha sofferenze, dubbi e tensioni. È raggiante perché gode della presenza di Gesù Risorto. È una Chiesa grembo perché molto impegnata nell’iniziazione cristiana e nell’aggancio a quel vasto popolo che accompagna i bambini e i ragazzi ai sacramenti (a volte, purtroppo, poco apprezzato). È una Chiesa che va riscoprendo sempre di più i laici (nonostante qualche resistenza o ritardo). Ciò a causa del venir meno di tante forze “clericali”, ma soprattutto per convincimento, sulla base del Battesimo e dell’universale chiamata alla santità e all’apostolato.
L’ultimo fotogramma col quale descrivo la Chiesa di San Marino-Montefeltro, è quello di una Chiesa inquieta. Ho partecipato all’applauso fragoroso quando, a Firenze, in Santa Croce, Papa Francesco ha detto: «Mi piace una Chiesa Italiana inquieta, sempre più vicina agli abbandonati, ai dimenticati, agli imperfetti. Desidero una Chiesa lieta col volto di mamma, che comprende, accompagna, accarezza» (Papa Francesco, Discorso al Convegno ecclesiale della Chiesa Italiana, Firenze, 10 novembre 2015). Dunque, una Chiesa inquieta perché vive le tensioni di oggi: incertezze, ansie, cedimenti alla mentalità secolarizzata, calo di presenze, scandali… Ma c’è anche un’accezione positiva nell’aggettivo “inquieto” applicato alla Chiesa: una Chiesa protesa a tutti, nella costante ricerca del dialogo; una Chiesa che è come una madre che non si dà pace per i suoi figli; una Chiesa che cerca senza sosta, si libera da schemi e sa mettersi in questione. Certo, l’equilibrio non è semplice. Si può trovare l’equilibrio camminando piano sul filo, ma c’è anche chi lo trova girando più forte come il giroscopio.
Sento la responsabilità di vescovo afferente a questo Istituto Superiore di Scienze Religiose. Dico grazie a voi professori e a tutto il personale per il servizio che svolgete e di cui gode la mia Diocesi. Penso ai 35 docenti di Religione Cattolica che si sono formati qui ed hanno un rapporto costante con voi; ai diaconi (9 già ordinati) e ai candidati diaconi che si preparano al ministero in questo Istituto. Voi garantite un appoggio competente a diversi Uffici Pastorali e siete disponibili a sostenere corsi di Sacra Scrittura nelle zone periferiche della Diocesi. Penso ai seminari nei quali ci aiutate ad affrontare problematiche e temi di attualità. Vi penso come una comunità “laboratorio”: offrite il sapere della teologia, della patristica, della storia, ma fate anche ricerca. Non posso non esprimere il mio compiacimento per la rivista scientifica che l’Istituto pubblica.

«Dio ha posto alcuni come maestri…» (1Cor 12,28): quando avete detto “sì”, avete accolto un vero e proprio ministero. Il ministero del teologo e il Magistero della Chiesa sono realtà che si armonizzano. L’insegnante dell’Istituto è uomo di Chiesa, uomo nella Chiesa, uomo della Chiesa e uomo a servizio della comunità. Egli ama la bellezza della Chiesa.
Cari amici, la Chiesa ha rapito il vostro cuore: è la vostra patria spirituale. Per dirla con l’evangelista Giovanni, la Chiesa è «vostra madre». Dice, infatti, Gesù ai discepoli, a voi teologi: «Ecco mia madre, ecco i miei fratelli» (cfr. Gv 19,27). Nulla di ciò che tocca la Chiesa vi lascia indifferenti o insensibili. Proprio perché uomini della Chiesa siete coinvolti nel suo oggi. Ma ne amate anche il passato, ne meditate la storia, ne venerate e ne esplorate la Tradizione e questo non per un vezzo, e neppure perché disprezzate o sottovalutate la Chiesa nel nostro tempo, al contrario. E se il teologo ama ricordare col pensiero i tempi della Chiesa nascente, lo fa perché – come dice sant’Ireneo – in essa riecheggiano ancora le parole di Gesù, il suo sangue scorre ancora caldo. Senza cadere nel mito dell’Età dell’oro… Il teologo, uomo della Chiesa, sa che Cristo è sempre presente, oggi come ieri, per continuare la sua vita, non per ricominciare ad ogni epoca o ad ogni anno pastorale. Non fossilizza la Tradizione, non gli verrebbe mai in mente di richiamarsi, contro l’insegnamento attuale del Magistero, a qualche antico stadio della dottrina o della sua istituzione. Crede che Dio abbia rivelato tutto una volta per sempre, per mezzo del Figlio suo. San Giovanni della Croce, rivolgendosi a Dio dice: «Perché una volta ti manifestavi con segni e sogni, mentre adesso…». Gli viene risposto: «Ma io ho già detto tutto in Gesù Crocifisso (cfr. Giovanni della Croce, Salita al monte Carmelo, libro 2, c. 22)». Bisogna che il teologo sappia concepire e vedere insieme Sacra Scrittura, Tradizione e Magistero.
Sacra Scrittura, Tradizione e Magistero sono quel funiculus triplex che “tiene” perché intreccio di queste tre realtà («…una corda a tre capi non si rompe tanto presto» Eccl. 4,12). La fedeltà del teologo al Magistero non lo dispensa dal dovere di nutrirsi delle Sacre Scritture, della Parola di Dio, il cui studio resterà sempre l’anima della teologia. Non ci si forma alla teologia per un godimento intellettuale o a titolo di curiosità, la stessa con cui si visitano i monumenti. Il teologo è a totale servizio della comunità. Non esita ad impegnarsi per la difesa e per l’onore della sua fede, ma non è estremista, diffida degli eccessi, ci tiene a pensare non solamente con la Chiesa, ma nella Chiesa e questo implica una fedeltà profonda, una partecipazione intima. Si sente figlio, figlio di famiglia nella Chiesa. La fedeltà non si tradurrà mai in durezza, in disprezzo degli altri, in aridità di cuore. L’attaccamento alle verità della fede non sopprime in lui il dono dell’accoglienza. Sa che la Chiesa deve essere un “sì”: chi l’avvicina o la sfiora deve percepirla così.
Voi insegnanti, e tutti i pastori, devono avere una grande cura affinché non ci sia mai un’idea che a poco a poco prenda il posto di Gesù Cristo.
Questo il mio augurio per voi, con tutto il cuore e con immensa gratitudine per quello che fate.