Omelia nella XVII domenica del Tempo Ordinario

Pennabilli (RN), Santuario B.V. Grazie, 25 luglio 2021

Celebrazione eucaristica con i Referenti della Camminata del Risveglio

2Re 4,42-44
Sal 144
Ef 4,1-6
Gv 6,1-15

Quest’anno nel Programma pastorale della Diocesi è in evidenza il fatto che ogni battezzato è missionario. Quando ascoltiamo i missionari, rimaniamo impressionati dal loro ardore, dal loro coraggio e dalla loro predicazione: sono un dono e diciamo grazie.
Non c’erano, quel giorno, che cinque pani e due pesci. Niente di più. Cibo davvero irrisorio per cinquemila persone, ma tra loro era presente colui che è il Pane di vita. «Chi viene a me – dirà Gesù – non avrà più fame» (cfr. Gv 6,35). Con questo niente offerto da un ragazzino Gesù ha sfamato la folla. Ha rotto quei pani, li ha spezzati in piccole porzioni e li ha condivisi. Nel Vangelo di Giovanni, a differenza dei Vangeli sinottici, Gesù non consegna il pane ai discepoli perché lo distribuiscano: è lui stesso che lo dà. Ma lui, in fondo, si è lasciato a sua volta spezzare offrendo la sua vita come cibo. Questo segno – i teologi dicono che è un segno prolettico, cioè anticipatore – annuncia la croce. Sul Golgota Gesù è stato spezzato come questi pani per essere condiviso, per dare la vita al mondo. E tutto questo ci rinvia a quelle che sono le nostre ferite. Anche noi a volte ci sentiamo un po’ spezzati; la vita assomiglia ad uno sbriciolamento, ma può essere presa anche come una Eucaristia. Sì, Signore, ci uniamo alla tua offerta. Accettiamo di essere consegnati, spezzati, offerti, perché viviamo la tua Pasqua. In noi vive la tua vita e noi possiamo dire che non viviamo per noi, ma tu vivi in noi.
C’è un altro dettaglio significativo nel Vangelo. Gesù torna ad andare di qua e di là dal lago. Propone una traversata, ma la vera traversata a cui invita Gesù non è di tipo nautico: è il passaggio dalla superficialità di una esistenza dove tutto si compra – «Dove compreremo così tanto pane?» –, alla dimensione della gratuità e della fiducia. Siamo di fronte alla sproporzione tra la nostra disponibilità e le necessità del mondo: ciò che abbiamo a disposizione è veramente poco, però, se non ci fossero quei cinque pani e due pesci, non ci sarebbe la moltiplicazione. Gesù ci dice che la nostra vita così piccola, così modesta, ha risorse infinite. Il problema è che a volte non ci crediamo, non ci fidiamo. Eppure, quel poco è indispensabile perché Dio lo possa moltiplicare.
A volte ci capita di guardare solo o soprattutto la nostra pochezza, la nostra insufficienza e questo pensiero produce amarezza, un avvitamento su noi stessi e non si considerano, invece, le necessità degli altri e l’invito del Signore: siamo ripiegati su di noi e non crediamo abbastanza al dono ricevuto. Bisogna crederci. Mi riferisco soprattutto alla vostra vocazione ad essere referenti della Camminata del Risveglio. Siamo appassionati del mattino della Pasqua, del mattino della Pentecoste: la Camminata del Risveglio ha anche questo rimando. Ciascuno di voi ha a che fare con la sua comunità, il suo borgo, e col grappolo di persone da accompagnare non solo alla Camminata del Risveglio, soprattutto durante questo mese che la precede, ma anche durante l’anno. Il 22 agosto saremo all’Eremo di Carpegna. Dovremo essere persuasi noi e persuadere le persone a noi affidate della bellezza di convergere tutti verso la Madonna del Faggio.
Concludo riferendomi ad una legge della geometria: tutto ciò che sale verso un unico punto converge. Buon convergimento e buona conversione!

Omelia nella XVI domenica del Tempo Ordinario

Mercato Vecchio (PU), 18 luglio 2021

Professione come Oblati di Cristian Valenti e Angelo Migliozzi

Ger 23,1-6
Sal 22
Ef 2,13-18
Mc 6,30-34

«Per l’ammirabile conversione di tutta la sostanza del pane nel Corpo di Gesù Cristo e di quella del vino nel suo prezioso Sangue si contiene veramente, realmente e sostanzialmente il Corpo, il Sangue, l’Anima e la Divinità del medesimo Gesù Cristo». Eucaristia: tesoro della Chiesa! Vale più di ogni altra realtà. Per questa realtà vale la pena dare tutto. Continuo a dire “realtà”, ma sarà bene che dica la “Persona del Signore”, che è in mezzo a noi.
Angelo e Cristian, con la vostra scelta di vita, povera, casta, obbediente, aiutate tutti noi a considerare l’Eucaristia come la fonte e il culmine di tutta la vita, di tutta la missione della Chiesa. Voi, con il carisma di Maria Maddalena dell’Incarnazione, accompagnati dalle sorelle, in unità con tutta la famiglia degli Adoratori e delle Adoratrici, ci state indicando una dimensione esistenziale, un’antropologia di prim’ordine: l’adorazione! Adorare è attitudine profondamente umana; significa esprimere gratitudine, dare lode, dichiarare amore, chiedere perdono e stare con le mani alzate, le braccia elevate per tutti, e soprattutto il silenzio che attende.
Veniamo al Vangelo. Ci parla degli apostoli che tornano dalla missione che Gesù ha loro affidato. Dice il Vangelo «che tornano da Gesù». Di solito nel Vangelo di Marco c’è molte volte «andare da lui», «tornare da lui», con il pronome personale, mentre qui c’è il nome: Gesù. Quante cose evoca il nome di Gesù! Quanta tenerezza!
Gli apostoli gli parlano di quanto hanno fatto e di quanto hanno insegnato. Gesù li invita al riposo con lui, in un luogo solitario, loro soli. Sembra quasi una drammatizzazione del Salmo 23 che abbiamo cantato: «Il Signore è il mio pastore, su pascoli erbosi mi fa riposare, ad acque tranquille mi conduce…». Un giorno Gesù estenderà l’invito a tutti: «Venite a me, voi tutti che siete affaticati e oppressi e io vi darò riposo» (cfr. Mt 11,28). Dunque, un invito al riposo, alla sosta, ad un tempo di intimità con lui. Qualcuno forse pensa: «Tempo perso!», mentre la terra di Israele è piena di ciechi che gridano lungo i bordi della strada, di madri da consolare, di lebbrosi da sanare, di peccatori da recuperare, di intelligenze e cuori bisognosi di ritrovare senso. Gesù invita i messaggeri a tornare a lui. Se fossi il parroco, a questo punto orienterei la meditazione su temi pertinenti a questo tempo di vacanza, con l’immancabile considerazione che purtroppo tanti non ne hanno la possibilità; offrirei una riflessione sull’utilità del tempo libero, ma ancor più sulla necessità di essere liberi a tempo pieno; inviterei a dedicare tempo alla preghiera, a non tralasciare la Messa, a non trascurare la lettura di un buon libro e – perché no? – a preparare una bella Confessione. Ma c’è dell’altro… Come talvolta accade, nel Vangelo ci sono delle apparenti contraddizioni, situazioni che confliggono fra loro, che fanno scintille: sono scintille preziosissime. Qui, ad esempio, Gesù invita alla solitudine, indica un luogo per il riposo e poi fa dietrofront: quando vede la folla che lo insegue sente la compassione; la compassione sembra far cambiare qualcosa nei programmi di Gesù. È come se per Gesù il vero riposo non consista tanto nello stare in disparte quanto nel prendere su di sé gli altri, le relazioni, soprattutto chi ha bisogno.
Sorge spesso in noi il dilemma tra preghiera e lavoro, come se si dovesse scegliere fra l’una e l’altro. In realtà, la tensione non è tanto fra azione e contemplazione, ma piuttosto fra ansia e serenità. L’unica cosa importante è cercare il Regno di Dio e il Regno di Dio consiste nell’amare, una capacità che ognuno costruisce e allarga dentro di sé. E’ meno faticoso – dopo tutto – accogliere l’altro che difendere le proprie rigidità che stancano tanto, perché chiedono troppe energie per difenderle. I rapporti, soprattutto in alcuni momenti, fanno paura, perché, come la contemplazione, esigono il vuoto interiore. Eppure, è questo vuoto che riposa. «Marta, Marta, ti agiti per molte cose», così ha detto Gesù alla donna sfinita dai preparativi per il pasto. E continua: «Una cosa sola importa: il riposo di Maria per ascoltare lui, la sua capacità di lasciare tutto per accoglierlo» (cfr. Lc 10,41-42). Gesù non si tira indietro di fronte alle molteplici relazioni; sembra che non lo affatichino. La compassione desta in lui un altro riposo. Viene a proposito quanto scrive sant’Agostino: «Dove c’è l’amore, dove si ama, non si sente la fatica e, anche quando c’è fatica, si ama questa fatica».
Carissimi Angelo e Cristian, come gli apostoli, imparate da Gesù ad essere – perché contemplativi e adoratori – sempre più a disposizione. Non appartenete a voi stessi! Continuate ad ascoltare, con i vostri fratelli e le vostre sorelle, il grido dell’umanità ed a consegnarlo alla compassione del Signore.

Omelia nella XIV domenica del Tempo Ordinario

Belforte all’Isauro (PU), 4 luglio 2021

60° anniversario di ordinazione presbiterale
di don Francesco Alessandrini

Ez 2,2-5
Sal 122
2Cor 12,7-10
Mc 6,1-6

Quando si incontra un profeta si pensa subito a chi legge il futuro. Nella Prima Lettura, Ezechiele, raccontando la sua esperienza, dice ben altro: «Lo Spirito entrò in me, mi fece alzare in piedi…». Avrebbe preferito star seduto, stare nascosto, non essere al centro. Invece: «…E io ascoltai colui che mi parlava. Mi disse: “Io ti mando ai figli di Israele”». Dunque, il profeta è uno investito dallo Spirito di Dio, inviato ai fratelli per annunciare la Parola di Dio, anzi a parlare per incarico di Dio. C’è una sfumatura significativa tra i due termini, perché il profeta, ad un certo momento, proprio per l’attitudine che ha all’ascolto, pronuncia parole che sanno di Cielo, di Paradiso, di Dio. Impresa non facile, rischiosa, perché il profeta propone spesso una parola scomoda.
I nazaretani andavano tutti i sabati in sinagoga, ma Gesù aveva cominciato a dire parole completamente nuove, sorprendenti, al punto da scioccare: i nazaretani “inciampano” su Gesù. «Ma da dove gli viene questa sapienza? Ha ascoltato il rabbi con noi ogni sabato. Da dove gli viene questa parola così nuova?».
Caro don Franco, mi unisco a te con tutto il cuore e, insieme con te, vorrei adoperare le parole di Maria – so che vuoi molto bene alla Madonna e che lei ha una tenerezza particolare per te –, parole di ringraziamento e di lode al Signore: «Perché ha guardato alla mia piccolezza e ha fatto in me cose grandi». Dentro a questo grazie, che tu dici ora celebrando l’Eucaristia, c’è la mia partecipazione e c’è la partecipazione grata di tutto un popolo. A volte guardiamo al prete come ad un animatore sociale. Si dice del prete che è l’uomo che dà consigli, che sa essere vicino, ed è vero. Ma è quel suo salire i gradini dell’altare che costituisce l’essenziale.
Don Franco, tutti diciamo grazie per i sessant’anni in cui hai celebrato l’Eucaristia. Quando eravamo studenti ci dicevano di celebrare ogni Messa come se fosse la prima, come se fosse l’ultima, come se fosse l’unica.
Per l’effusione dello Spirito Santo sei stato pastore buono in mezzo al gregge; hai celebrato i Battesimi, hai introdotto un popolo nel seno della Trinità, perché battezzare significa “tuffare” nella Trinità Santa; hai benedetto tanti matrimoni, famiglie cristiane; hai accompagnato ammalati e li hai segnati con l’olio per la guarigione interiore; hai dispensato il perdono dei peccati e la gioia di essere nuovi.
All’origine della missione del prete c’è una chiamata singolare. Un giorno il Signore si è avvicinato ad un ragazzo, Francesco Alessandrini, e gli ha detto: «Dammi le tue mani, dammi i tuoi piedi, dammi il tuo cuore e la tua intelligenza, perché io voglio fare di te una mia presenza». Il ragazzo, allora, si sarà spaventato… Ma ha detto il suo “sì”!
Il prete è la persona più povera di questo mondo, è del legno di cui tutti siamo fatti, è della stoffa di tutti noi. Quando parla autorevolmente dice parole non sue, parole di un Altro; compie azioni sublimi, ma non sono azioni sue, sono azioni di un Altro. E anche lui, come l’apostolo Pietro, deve pregare: «Signore, allontanati da me, sono un peccatore»; e gridare: «Signore, salvami!». È la persona più povera di questo mondo, ma nel contempo è la persona più straordinariamente ricca, perché pronuncia parole sovrumane: «Questo è il mio corpo, questo è il mio sangue…», «Io ti assolvo…».
Il coro ha cantato: «Ecce sacerdos»: parole misteriose, ma non perché sono in latino. «Tu es sacerdos in aeternum secundum ordinem Melchisedech» è una parola che colloca il sacerdote in una dimensione soprannaturale. Cosa vuol dire essere sacerdote secondo l’ordine di Melchisedech? L’espressione propria dell’Antico Testamento conteneva una punta di polemica, perché c’era un altro ordine sacerdotale, strutturato sociologicamente: era il sacerdozio ebraico. Vi era un cerimoniale raffinatissimo, solenne, spettacolare, che lo riguardava. Che cosa celebrava il culto dell’antica legge, dell’antico Israele? Si potrebbe dire, semplificando e schematizzando, che per prima cosa il sacerdozio si costituiva per separazione. C’era un popolo sacerdotale, il popolo di Israele, per questo separato dagli altri popoli. Di mezzo al popolo di Israele, era stata scelta una tribù, la tribù di Levi, separata dalle altre tribù per il culto. Nella tribù di Levi veniva eletta una sola famiglia sacerdotale e il sommo sacerdote, preso da quella famiglia, una volta all’anno saliva i gradini del tempio ed entrava nel Santo dei Santi per fare la grande oblazione; non poteva candidare se stesso, sapeva che non poteva raggiungere l’Altissimo, allora prendeva un agnello immacolato, lo metteva sul fuoco e, alla fine, che cosa restava di questa sorta di piramide cultuale che saliva verso l’alto? Quasi nulla. Il culto proclamava che Dio è inaccessibile, trascendente. Pertanto, il culto rimaneva qualcosa di esterno, convenzionale.
Il sacerdozio secondo l’ordine di Melchisedech è figura del sacerdozio di Gesù. Il sacerdozio di Gesù non è soltanto nuovo, è capovolto, perché l’Altissimo, il Signore, nella pienezza del tempo, scende. Il Verbo di Dio assume l’umanità. Nell’unica persona di Gesù di Nazareth il divino e l’umano, la natura divina e umana si congiungono senza confusione, senza mutazione, senza divisione e inseparabilmente. Non c’è separazione, ma abbraccio. Non solo: Gesù vive le nostre giornate, attraversa senza esenzione il dolore innocente. Non c’è creatura sulla terra che possa dire: Gesù mi è estraneo. Ha assunto tutto. È sceso negli inferi, ha attraversato la morte: questo mistero davanti al quale anche lui, come uomo, ha tremato. Vediamo celebrato il sacerdozio da Gesù non nello sfarzo del tempio di Gerusalemme, ma sul Golgota, con le braccia spalancate sulla croce. Il sacerdozio di Gesù è personale, esistenziale, dice il suo “sì”, per la redenzione del mondo, al Padre, alla sua volontà. Ecco la prima Messa, l’unica Messa. Le nostre non sono altro che una rinnovazione di quella di Gesù. Voi direte: l’abbraccio dell’incarnazione, fenomenale; l’abbraccio della nostra vita, straordinario; l’abbraccio fino alla morte, incredibile… Viene da dire: non si può andare oltre! Gesù, per la forza della risurrezione che è in lui (e che, attraverso lui, ci avvolge tutti), prende un grumo di materia, lo trasforma con le sue parole: «Questo è il mio corpo», e l’abbraccio si fa ancora più serrato e intimo. Si è fatto uomo, ha vissuto le nostre giornate, ha attraversato il dolore, è morto sulla croce, ha conosciuto gli inferi, la tomba e dopo la sua risurrezione si dona in un pezzo di pane. Nel pane consacrato c’è il Signore! Ma il sacerdozio di Gesù si spinge oltre, fino al punto di perdere il suo perdersi per noi, dona il suo donarsi e lo fa nel sacerdote. Ad un certo punto Gesù cede se stesso al prete! San Francesco d’Assisi diceva ai suoi frati: «Se vedete per strada un arcangelo e un umile sacerdote, chi dovete salutare per primo?». «Il sacerdote!».
Gesù ha ceduto a don Franco la sua capacità di cedersi. Don Franco tra poco celebrerà l’Eucaristia e dirà le parole di Gesù: questa è la vita di un prete. Dopo viene tutto il resto, perché l’Eucaristia ha le sue conseguenze: seguire i ragazzi, accompagnare gli ammalati, spendere la propria vita, ma la radice e l’energia vengono dall’altare. Se vuoi capire un prete, guardalo mentre sale i gradini dell’altare. Così sia.

Omelia nella XIII domenica del Tempo Ordinario

Sant’Agata Feltria (RN), 27 giugno 2021

Sap 1,13-15; 2,23-24
Sal 29
2Cor 8,7.9.13-15
Mc 5,21-43

1.

L’evangelista Marco ama riempire di azioni gli spostamenti di Gesù Maestro: è una sua peculiarità. Al capitolo 5 abbiamo due racconti di guarigione uno nell’altro. Gesù viene chiamato da Giairo, presidente del Servizio liturgico sinagogale, in soccorso alla sua figlioletta dodicenne gravemente malata. Mentre va a casa di Giairo Gesù incontra una donna affetta da emorragie.

2.

Gesù va nella casa dove si piange. Seguiamolo, meditando il racconto.
Giairo non ha ancora la fede in Gesù; la sua è, più che altro, una incondizionata fiducia: ne ha sentito parlare come di un taumaturgo benefico. Le ha provate tutte per la sua bambina «che è agli estremi». Nessun rimedio ha dato risultati. Perché non tentarle tutte? Ben venga il soccorso di questo maestro e guaritore. Giairo ripone tutta la sua fiducia in Gesù. Gesù non gli chiede altro che di continuare a fidarsi. Solo questo! Avere fiducia.
Arriva la triste e crudele notizia. Giairo deve perseverare, senza temere di apparire sciocco agli occhi della gente e neppure di far perdere tempo al Maestro, come lasciano intendere alcuni discepoli.

3.

Qui una prima e importante riflessione: la fede non si esaurisce nella fiducia di una grazia materiale, tuttavia può partire da questa fiducia per arrivare a capire più in profondità che la vera fede è credere a Gesù come Salvatore e la vera grazia è l’incontro con Gesù che dona la salvezza pasquale.
La fede si innesta nel vivo delle speranze umane e la grazia divina erompe dall’umano. Gesù, come si evince dal racconto, accoglie il grido di aiuto di Giairo. Non disprezza il suo barlume di speranza, ma poi lo condurrà alla fede vera, alla fede più grande, quella che non si ferma al dono ma si getta tra le braccia del Donatore.
Gesù può concedere la grazia materiale, ma ben altro è il dono, il dono totale che il Signore vuole dare!
Un conto è la guarigione, un conto la salvezza.

4.

In filigrana sono presenti in questo racconto tanti elementi tipici della vicenda e della spiritualità pasquale: il pianto, la tristezza e poi la gioia; la tragedia della morte e la prospettiva della risurrezione; dal “dormire”, così Gesù chiama la morte, alla speranza di una vita imperitura. «La fanciulla dorme…», i cristiani cambieranno il nome di “necropoli” (città dei morti), in “cimitero”, (dormitorio).
Gesù dice alla ragazzina: «Fanciulla, in piedi (talità kum)!», evocando i verbi tipici della risurrezione: “alzarsi” (kum) e “risvegliarsi”.
Di per sé il miracolo – pur straordinario – non è da intendersi come la “risurrezione” vera e propria, semmai è la rianimazione di un cadavere, destinato di nuovo alla morte (altra cosa è la risurrezione). Tuttavia ne è il segno. Dice il potere che Gesù ha sulla morte e come la salvezza da lui portata avvolga tutta la nostra realtà. La sua parola è creatrice: con la sua venuta inizia l’alba di un mondo nuovo. Infatti, come nella creazione, Gesù «dice» e tutto accade… La sua è una parola dinamica, efficace, trasformante. La Parola di Gesù fa dello sconsolato Giairo un credente e della fanciulla una vivente.

5.

L’inserto della guarigione dell’emorroissa ha una struttura parallela al racconto di guarigione della figlia di Giairo. Riprende e ribadisce gli insegnamenti, ma con forte sottolineatura della categoria dell’incontro.
La donna viveva una situazione di morte, si lasciava lentamente morire dopo il fallimento dei rimedi sperimentati. Ormai ai bordi delle tenebre, la donna, in un impeto di fiducia in Gesù guaritore, tocca la frangia del suo mantello ed è immediatamente guarita dal suo male. Gesù, nella sua misteriosa sensibilità spirituale, avverte che il suo potere salvifico è entrato in opera. Non è irritato, ma vuole insegnare che il semplice contatto fisico non basta! Per questo Gesù guarda attorno (atteggiamento di Gesù che nel Vangelo di Marco torna spesso) e cerca chi lo ha toccato. Cerca un incontro personale che superi la superstizione e il gesto magico e consenta così l’irruzione della fede e della grazia. Ed è quello che accade. La donna non può resistere allo sguardo di Gesù che penetra le fibre più nascoste dell’anima. Ma proprio dalla speranza e dal gesto – un po’ superstizioso – della donna, nella nudità davanti a Gesù e alla gente, germoglia la fede, irrompe la grazia: «La tua fede ti ha salvata, va’ in pace e sii guarita». Non il tocco del mantello, ma l’incontro personale con Gesù ha fatto pregustare la vera comunione con Dio: la salvezza, dono più grande della guarigione.

Omelia nella Solennità del Corpus Domini

San Marino Città (RSM), 3 giugno 2021

Es 24,3-8
Sal 115
Eb 9,11-15
Mc 14,12-16.22-26

Carissimi tutti, Eccellenze,
il fondatore della nostra Repubblica – il santo Marino – ci invita oggi a mettere al centro della città, delle relazioni, delle famiglie, della comunità, delle istituzioni il Pane e il Vino, sacramento della presenza del Signore Gesù Cristo. Lui ha detto: «Questo è il mio corpo». Se potessi, vorrei tradurre: «Questo sono io»!
In nessun altro pasto pasquale, né da alcuna persona, né da alcun profeta è stata detta una cosa simile. Le parole di Gesù sul Pane e sul Vino sono inaudite. Il Pane che viene offerto è un pane spezzato: la condivisione non è un semplice gesto pratico per dividerlo per tutti, è un gesto profetico. Attraverso questo simbolo Gesù vuole significare la morte imminente e violenta di cui sarà vittima, come dicesse: «Questa è la mia vita che viene spezzata e che io vi dono. Questa è l’alleanza che io concludo con il mio sangue».
Anche chi è poco avvezzo alla liturgia della Chiesa, o poco esperto di teologia, intuisce che questo Pane e questo Calice non sono soltanto un tesoro, sia pure il più grande per la comunità cristiana, ma è il suo stesso programma di vita, dal quale non può prescindere: ciò che fa bella la vita è il donarla!
«Nessuno può togliermi la vita – aveva detto – io la dono da me stesso» (cfr. Gv 10,18).
Nel racconto evangelico secondo Marco, Gesù manda due discepoli ad inseguire un uomo che porta una brocca d’acqua; seguendolo troveranno una stanza in cui preparare la Pasqua. Torna spesso il verbo “preparare”. Non è difficile riconoscere quell’uomo, visto e considerato che, in genere, sono le donne che portano l’acqua e i pesi. In lui il lettore può riconoscere il ministero di chi dà il Battesimo e abilita ad entrare nella “stanza superiore”. C’è tutto l’itinerario del nostro Programma pastorale: dal Battesimo al Cenacolo, dove non solo verrà spezzato il Pane, ma sarà effuso lo Spirito Santo. E la stanza è subito pronta. Ma, più che la stanza, Gesù vuole preparare i discepoli.
I discepoli di Gesù, mangiando il suo Corpo e bevendo il suo Sangue, ricevono la forza, a loro volta, di donare la vita, come fa Lui, e possono continuare a spendersi e a donarsi senza riserve.

Ci sono momenti nei quali la nostra Repubblica (e più in generale la società) è, per così dire, messa con le spalle al muro e deve rispondere a domande incalzanti: «Che cosa dici di te stessa? Quali sono i tuoi valori fondanti? Come ti prendi cura della vita nascente, il tuo tesoro? Qual è il tuo progetto di futuro?».
Talvolta, l’urgenza dei problemi e l’incalzare delle scadenze ci rendono affannati, pragmatici, efficientisti. Il filosofo Platone sognava una repubblica governata dai filosofi, cioè da coloro che amano la sapienza, i contemplativi della sophia.
Si sta avvicinando un’opportunità grande per un sussulto di consapevolezza, di pensiero e di formazione delle coscienze. Ci sarà dibattito. Nel dibattito pubblico, nella società secolare, si confrontano ragioni di antropologia, di etica, di scienza, di per sé non di religione.
Tuttavia, ci sono valori che il cristianesimo porta in sé e che deve sempre più mettere in campo a servizio del bene comune. Con la mentalità del dono. In dialogo. Il dialogo è l’ossigeno per una società democratica. Si tratta di valori che in questa sede è mio dovere proclamare. Tra questi il primo è la vita, la creatura che nel grembo della mamma ha cominciato ad essere persona. È un valore che presuppongo in tutti e per il quale tutti dobbiamo impegnarci: è in gioco la bellezza e il valore della vita stessa.
Capisco quanto sia importante il punto di vista di una mamma: quella raggiante per l’arrivo di un bambino e quella preoccupata a causa delle difficoltà… specialmente a questa dobbiamo assicurare l’accompagnamento, la tutela e la cura necessarie. La donna porta il peso e la fatica della maternità. Ma il papà non è da dimenticare per le sue responsabilità e consapevolezza. Mai più una donna lasciata sola, non considerata, non difesa, non onorata. Abbiamo testimonianze belle di accoglienza della vita e contiamo in risoluzioni sempre più adeguate di servizio alla vita, alla donna, alle famiglie.

Torno al Vangelo, ma, in verità, non me ne sono affatto allontanato. Gesù ha simboli e parole che indicano la sua passione per la vita, quella che inizia nel grembo, che scorre nel tempo e che si distende nell’eternità. «Questo è il mio corpo», dice Gesù, e intende dire: «Vivetene!». Con il suo Corpo Gesù ci consegna la sua storia: il grembo caldo di Maria, la mangiatoia, le strade polverose della Palestina, il lago, i volti, il duro della croce, il sepolcro vuoto e la vita che fiorisce al suo passaggio…
Gesù vuole che in noi fluisca la sua vita; Gesù non è venuto soltanto per insegnare, anche se lui stesso si dice «il Maestro…». Gesù non è venuto soltanto per rimettere i peccati. È venuto per darci la vita, vuole che il suo coraggio scorra nelle nostre vene, perché viviamo l’esistenza umana come l’ha vissuta lui.
Oggi è festa della Comunione, la comunione con Lui che si estende ed abbraccia tutto ciò che si vive quaggiù sotto il sole: i nostri fratelli, le nostre sorelle, i piccoli, i grandi, le persone umili e quelle che portano il peso delle responsabilità. Che sia un rapporto non più alterato dal verbo “prendere” o “possedere”, ma sia illuminato dal più generoso e generativo dei verbi: donare.
I sacerdoti – non si può non dedicare un ricordo speciale a loro, ministri dell’Eucaristia – si stanno preparando a vivere insieme tre giorni di studio e di fraternità. Pensieri, parole, propositi sono raccolti sotto un titolo significativo: «Il coraggio di abbracciare il mondo con la forza dello Spirito». Abbracciare il mondo significa abbracciare le solitudini, le famiglie, le mancanze di lavoro, l’educazione dei giovani e – perché no? – anche tante macerie umane e spirituali. Per avere tutti questo coraggio, preghiamo.

Omelia nella Solennità dell’Ascensione

#FlashdiVangelo, 16 maggio 2021

At 1,1-11
Sal 46
Ef 4,1-13
Mc 16,15-20

In ogni pagina di Vangelo il protagonista è indiscutibilmente Gesù. Tuttavia, a volte si direbbe che ci sia un altro protagonista, un co-protagonista: nella pagina odierna è il Cielo. Siamo subito avvertiti da due messaggeri, gli angeli, che compaiono sulla scena della Ascensione di Gesù, di non equivocare: quando si parla di Cielo non si intende tanto la dimensione cosmica, spaziale, ma la realtà divina. «In principio era il Verbo, il Verbo era presso Dio, il Verbo era Dio… E il Verbo si è fatto carne ed è venuto ad abitare in mezzo a noi» (Gv 1,1.14). Oppure come canta l’antico inno incastonato nella Lettera ai Filippesi: «Lui, che era di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio, ma spogliò se stesso e divenendo simile agli uomini è apparso in forma umana… » (cfr. Fil 2,6-7). Il Cielo è sceso sulla terra. C’è del Cielo sulla terra, a partire dalla bellezza che ci avvolge. Ora Gesù ritorna al Cielo; dopo aver parlato con i discepoli per l’ultima volta, «sedette alla destra del Padre» (Mc 16,19): espressione di una forte caratura teologica. C’è terra nel Cielo!
C’è un bellissimo midrash, un commento al Salmo 8, dove l’orante, Davide, canta la bellezza del cielo e della natura; descrive le stelle, lo splendore della luna nella notte, gli animali che, nella notte, cercano un riparo e, soprattutto, l’uomo, «fatto poco meno degli angeli» (Sal 8,6). Il commentatore si fa una domanda: «Perché Davide parla di tutte le creature e non nomina la realtà più splendida che c’è, il sole?». Dà questa spiegazione: Davide è stato svegliato nel cuore della notte dalla brezza che accarezza le corde della sua arpa e non ce la fa a resistere, va davanti alla grande finestra del suo palazzo e, accompagnato dal suono dell’arpa, intona questo bellissimo Salmo. Poi, il commentatore conclude in una maniera sorprendente, quasi impertinente: «Se comprate una casa, prendetela con finestre grandi!». È evidente la proposta simbolica: dobbiamo coltivare lo sguardo verso il Cielo, perché siamo fatti per il Cielo; anzi, per il dono del Battesimo e per l’effusione dello Spirito, è certificato che siamo fatti di Cielo. L’etimologia della parola “desiderio” è suggestiva: de-sidera, dove “de” indica la separazione, la distanza, la tensione verso le stelle, “sidera”, come un elastico lanciato verso quella che è la sua origine. Noi veniamo dalle stelle, dal Cielo: «Come in cielo, così in terra». Ecco perché Gesù, oltre che insegnarci questa preghiera perché ci sia Cielo sulla terra come c’è terra nel Cielo in Lui, vuole che evangelizziamo, che facciamo questo racconto del Cielo a tutti, non solo a quelli che vengono in chiesa, o a quelli che sono ben disposti o che sono della nostra opinione… Dobbiamo annunciarlo soprattutto a chi è povero di cuore, a chi è in difficoltà, a chi è ammalato. Poi, guardando noi stessi, possiamo dire: «C’è anche una parte di me che non mi piace, nella quale nascondo quello che mi opprime, quello che tendo ad emarginare, la parte per la quale provo imbarazzo o vergogna». Paradossalmente è proprio lì che si è più ricettivi, più disposti ad accogliere la Parola di vita del Signore. Se facciamo questa operazione, a nostra volta diventiamo capaci di parlare «le lingue nuove» a cui allude Gesù, cioè di incontrare la persona là dov’è, non dove vorremmo che fosse. Annunciate il Vangelo! Ecco dove possiamo incontrare Gesù che ha detto: «Avevo fame, mi avete dato da mangiare; grazie per il bicchiere di acqua fresca che mi hai dato: l’hai dato ad un fratello, è come l’avessi dato a me; che bello che sei qui e mi riconosci nel dono di questo pane spezzato…».
C’è chi ha tentato di trattenere Gesù; penso all’amore prepotente di Maria di Magdala che, riconoscendolo, fa per abbracciarlo e lui si sottrae dicendo: «Non continuare a tenermi stretto così!». Anche gli apostoli sul monte dell’Ascensione volevano quasi fermare Gesù… Gesù adesso è presente in un’altra dimensione. Che bello poterlo riconoscere! «Tutto ciò che fu visibile del Nostro Redentore è passato nei segni sacramentali» (Leone Magno). E il primo segno sacramentale è il fratello che vive accanto a noi: c’è del Cielo sulla terra!

Omelia nella VI domenica di Pasqua

#FlashdiVangelo, 9 maggio 2021

At 10,25-27.34-35.44-48
Sal 97
1Gv 4,7-10
Gv 15,9-17

Una pagina di Vangelo sconvolgente… Come si può commentare? Basterebbe leggerla, accoglierla nel cuore e viverla. Tuttavia, proviamo a dire qualcosa.
Questo brano procede con un andamento tipicamente orientale: i periodi si avvitano uno dopo l’altro per temi ricorrenti, ma con un centro, un focus, che è il v. 11, laddove Gesù dice: «Vi do la mia gioia; voglio che la mia gioia in voi sia piena». Non si tratta di euforia psicologica o di chissà quale emozione; non è altro che il riverbero in noi della grazia, del rapporto che Gesù va stabilendo con ciascuno. Mi dispiace quando il cristianesimo viene presentato come qualcosa di triste, mortificante, negativo. Sono necessari anche i predicatori che a volte ci richiamano, ma l’annuncio è sempre un annuncio pasquale, di gioia, come dice papa Francesco: «Gesù è vivo, è vicino e ti salva».
Questi temi Gesù li aveva già anticipati nei versetti precedenti, adoperando la metafora dell’agricoltore, della vite, dei tralci, della potatura… Questa volta l’allegoria prende la forma dei rapporti interpersonali: l’amore, l’amicizia. È molto bello che, per parlare del mistero di Dio Trinità d’amore, il Signore adoperi questo linguaggio umanissimo. Gesù ci presenta l’esemplarità del suo rapporto con il Padre. Il Verbo è totalmente ascolto, in relazione col Padre, si fa “vuoto” perché il Padre possa autocomunicarsi a lui. Il comandamento a cui allude Gesù non è altro che questo, cioè l’essere per, un’apertura infinita, smisurata, divina appunto. Ebbene, Gesù dice che siamo stati pensati, voluti, creati, perché a nostra volta possiamo vivere questa relazione con lui. Poi aggiunge: «Amatevi gli uni gli altri, come io ho amato voi». Ci si aspetterebbe che Gesù dicesse: «Come io ho amato voi, voi amate me». Invece è: «Amatevi tra voi…».
Gesù pronunciò il discorso che stiamo leggendo la serata dell’Ultima Cena: parole importantissime, come un testamento, come le ultime parole che si pronunciano quando si sta per partire e si danno le ultime raccomandazioni. Pensate, ad esempio, a quando si parte per un viaggio internazionale e si entra all’aeroporto; dopo aver fatto il check-in si è dall’altra parte della frontiera e si rivolge l’ultimo saluto. Così queste parole di Gesù sono preziosissime. Dovremmo ascoltarle come le ha ascoltate l’evangelista che ce le ha riferite: Giovanni appoggiava il suo volto sul petto di Gesù. È da quella postazione che vogliamo gustare quelle parole.
Un’altra sottolineatura. Gesù adopera più volte in questo brano la parola “come”: «Come il Padre ama me, così voi…; come io amo voi, così…». Quel “come” non indica una quantità – noi non possiamo amare come ama Gesù, non abbiamo le sue viscere di amore – ma la qualità del nostro amore. Dimorare in Lui significa fare nostro questo stile.
Riferisco un passaggio di una lettera che mi ha scritto una ragazza che ha avuto molti sbandamenti e travagli nella sua vita, una ragazza in cerca di senso. Ad un certo punto mi dice: «Dove lo trovo Dio? Non riesco a vederlo nella persona che parla con me, non lo vedo in una chiesa vuota… E parlo con Lui, urlo verso di Lui e gli dico: “Sono qui, guardami, ci sono anch’io… Tu dove sei?’”». Parole che fanno riflettere. Ci sarebbe da augurarsi che quella ragazza possa incontrare una persona che sappia amarla senza pretese, in modo disinteressato, senza giudicarla… Questo non sempre può accadere. Tuttavia, ci sono nelle nostre giornate dei gesti, dei segni, delle suggestioni, ad esempio alla lettura di un libro o persino quando si guarda un film, che fanno percepire che tu ci sei in quell’amore di Dio; allora capisci che non è qualcosa che si merita, che si conquista, che si guadagna, ma qualcosa nel quale ti ci trovi: rimanere in questo amore.
Ho saputo di un collega che ha iniziato un’omelia nelle carceri, rivolgendosi alle detenute presenti con queste parole: «Voi siete qui perché Dio vi ama». Una frase che sorprende… Lui intendeva dire: «Siete qui perché vi ha punito la giustizia umana, ma, nella vostra condizione di sofferenza, di disperazione, il Signore vi incontra». Anche noi dobbiamo avere questa capacità di essere accanto all’altro nel momento della sua difficoltà. Chi può dire di amare così? Il Vangelo si conclude con questo invito: «Se rimanete in me, potete chiedere tutto quello che volete e il Padre ve lo concederà». Chiediamogli allora di saper amare così. È la preghiera che faremo questa settimana: «Signore, fa’ che sappiamo amare con lo stile, con la qualità del tuo amore».


Dogana (RSM), 9 maggio 2021

At 10,25-27.34-35.44-48
Sal 97
1Gv 4,7-10
Gv 15,9-17

Sapete qual è uno dei punti critici della Chiesa di oggi?
Ci troviamo ad essere cristiani senza mai aver deciso di esserlo. Non sempre la consapevolezza di essere cristiani è chiara dentro di noi ed è frutto di una scelta personale.
Il sacramento della Confermazione è l’occasione per dire con forza: «Voglio essere cristiano».
Inizierò il rito della Santa Cresima con domande a cui ognuno, personalmente, deve rispondere. Chiederò di rinunciare a Satana e alle sue opere e poi chiederò se credete nel Padre, nel Figlio e nello Spirito Santo.
A volte qualche genitore o qualche collega sacerdote pensa che pochi capiscano veramente cosa stanno facendo, cosa significhi, in realtà, la Cresima. Gesù, durante l’Ultima cena, ha iniziato a lavare i piedi agli apostoli. Pietro si è sottratto dicendo: «Signore, non sono degno che tu lavi i piedi a me, non lo voglio». Gesù ha risposto: «Pietro, tu adesso non sai quello che sto facendo, lo capirai…». Come un rotolo che viene disteso, adesso ci viene fatto un dono straordinario: lo capiremo vivendo. Stendo le mani su questi ragazzi, insieme a don Raymond, un gesto antico, che erano soliti compiere i primi cristiani. È un gesto simbolico con cui si chiede allo Spirito di Gesù di scendere su loro. Poi, cari ragazzi, compio su voi un gesto che considero come un bacio: il Signore Gesù, baciandovi sulla fronte, vi comunica il suo Spirito d’amore. Ungerò la vostra fronte con un olio profumato e parlerò di un sigillo. Se parlassi con un linguaggio moderno potrei quasi dire che è un segno che si imprime in voi come un tatuaggio, che non si può più rimuovere: anche se il sigillo della Santa Cresima è invisibile rimane per sempre. Si può contare sempre sulla presenza dello Spirito di Gesù. Lo Spirito, invisibile ma presente, dà la forza di Gesù, l’amore di Gesù. Domani mattina, quando vi sveglierete, pensate a questo bacio che Gesù ha impresso sulla vostra fronte. Il bacio è la cosa più muta che ci sia, come lo Spirito Santo che non si vede, non si tocca, non si abbraccia, ma nello stesso tempo è anche la cosa più eloquente. Quando dai un bacio autentico ad una persona, gli stai dicendo che gli dai la tua anima, che lei è vita della tua vita.
Infine, il Vescovo dovrebbe dare un piccolo schiaffo – in realtà è una carezza – che sta a significare: «Caro ragazzo/a, adesso tocca a te! Devi esprimere con la tua vita quello che hai dichiarato di voler essere».
Sansone è un personaggio della Bibbia, un uomo forte e gigantesco che, volendo dare il colpo definitivo ai Filistei, i nemici che avevano sempre tormentato gli Ebrei, catturò delle lepri e le mise in un serraglio. Alla coda di ogni lepre legò una torcia a cui diede fuoco. Le lepri, spalancato il serraglio, corsero nei campi di grano e di orzo dei Filistei, incendiandoli. Così i Filistei furono sconfitti da Sansone. In un certo senso, oggi Dogana ha delle lepri che porteranno un incendio compiendo atti concreti di amore (non si vuole bene con il pensiero, ma con delle decisioni). Dico a voi, ragazzi: potete cominciare già da adesso. Mi state ascoltando: è già un atto di amore. Dopo andrete a casa e sarete festeggiati: lasciatevi amare, parlate con i nonni e gli zii, anziché mettervi subito a giocare con il cellulare. Anche questo è amore. Ed è quello che propone Gesù: Dio è amore, non è uno spirito solitario che vive in una noia eterna. Dio è la danza di tre Persone che nominiamo nel Segno della croce: il Padre, quando sfioriamo la fronte, il Figlio quando ci fermiamo con la mano sul cuore, lo Spirito Santo quando tocchiamo le spalle. Un unico Dio in tre Persone. Abbiamo dovuto smentire il politeismo di altre religioni, ma, insistendo molto sul monoteismo, abbiamo dimenticato che Dio è Trinità di Persone, di amore. Ad un certo punto, questo circuito d’amore si apre e veniamo chiamati a far parte di questa Trinità d’amore.
Gesù ci dà il suo “comandamento”. A volte facciamo molta confusione tra comandamenti, precetti… Anche gli Ebrei avevano ricevuto i comandamenti (mitzvot) e li avevano specificati così minuziosamente che erano diventati 613. Tutta la giornata era sotto la legge. I precetti erano come un campanello che ricordava che tutto quello che facevano era sotto il segno di quell’amore. Il primo comandamento (tutti gli altri non erano altro che conseguenze) è: «Ricordati che ti ho voluto bene, che ti ho liberato dalla schiavitù dell’Egitto, che ho fatto alleanza con te, che ti amo immensamente». Gli Ebrei ebbero questa grande intuizione: mettere sotto il segno dell’amore tutta la giornata, ogni azione: prima di alzarsi, prima di mangiare, prima di lavorare…
Gesù, per rispondere all’equivoco che fa diventare farisei, ipocriti, ci ha detto che non vi sono 613 precetti, ve n’è uno solo. Sant’Agostino diceva: «Ama e fa’ ciò che vuoi». È il comandamento dell’amore. «Chiedete nel mio nome quello che desiderate di più»: il nostro cuore non desidera altro che amare, perché siamo stati pensati e costruiti così. Ecco perché viene la gioia.
Ho avuto la fortuna di fare il postulatore della causa per un sacerdote santo, don Dario Porta. Ora la causa è arrivata a Roma. Avrei tanti episodi da raccontare. La sua vita è stata scoppiettante di gioia. I santi sono le persone più felici di questo mondo. Ho avuto la fortuna di incontrare di persona madre Teresa. Era l’ultimo anno della sua vita; camminava curva e il suo volto era solcato di rughe, ma aveva uno sguardo che nessun influencer di oggi saprebbe battere. Era diventata amore.
Sia lodato Gesù Cristo.

Omelia nella V domenica di Pasqua

#FlashdiVangelo, 2 maggio 2021

At 9,26-31
Sal 21
1Gv 3,18-24
Gv 15,1-8

«Rimanete in me e io in voi». Tempo fa ho saputo di un ragazzo di buona famiglia che ha combinato dei guai e si è trovato in carcere. Oltre al dispiacere per sé, soffriva molto per aver disonorato la sua famiglia. Ha pianto, ha chiesto perdono e di tanto in tanto scriveva ai famigliari chiedendo: «Mandatemi un segno che mi avete perdonato». Una volta arrivò una lettera. La aprì. Era molto emozionato. Vide che dentro c’era una fotografia di famiglia e si accorse che da essa era stata ritagliata la sua immagine… Quel ragazzo, in seguito, ha avuto molti problemi per il senso di abbandono che provava. Dio non elimina nessuno dal suo cuore. Siamo scritti sul palmo della sua mano, come dice il profeta Isaia (cfr. Is 49,16). Siamo parte di lui e tutto quello che siamo viene da lui, da quella linfa vitale che da lui fluisce dentro di noi, come tralci di una vite.
Mi indispettisco, talvolta, perché mi sembra di non farmi capire quando parlo della bellezza di essere tralci uniti alla vite che è il Signore Gesù. Ad esempio, parlo di vita di fede e si capisce “pratica religiosa”, oppure insisto nel dire “dimensione spirituale” e si capisce qualcosa che cava fuori dal tempo, dallo spazio, dalla vita normale di tutti i giorni; oppure parlo di portare frutti buoni e subito si pensa alla morale. Invece, vorrei far capire di più questo dono che chiamiamo grazia, grazia perché non è merito nostro. Gesù sottolinea: «Senza di me non potete far nulla». È lui che ci porta. In un’altra parabola il Signore dirà: «Che dorma o che vegli il seme cresce da sé, per la forza che ha dentro» (cfr. Mc 4,27): stando all’allegoria della vite, per la linfa che scorre nelle radici e nel tronco. La grazia è un dono straordinario che ci fa persuasi che siamo davvero figli, ma non per modo di dire, perché siamo creature: abbiamo veramente contratto una figliolanza. Gesù è fratello. Lo Spirito vive in noi. Tutto quello che facciamo, in qualche modo, è come se fosse fatto dal Signore. Solo una cosa può toglierci da questa dinamica di vita: il peccato. Ma, proprio perché il Signore non cancella il nostro volto, abbiamo sempre la possibilità di ricominciare. Mi piace molto, in questa allegoria, l’immagine di un Dio contadino che lascia da parte il suo scettro e prende in mano la zappa per farmi crescere. Non sta sul trono, ma si siede sul prato e guarda la sua vite, i suoi tralci, con fierezza. Mi piace pensare che in Gesù quel vignaiolo si è fatto vite, è una cosa sola con me. Allora penso che non devo aver paura di lui, anzi devo essere fiero: lui crede in me.
La potatura non è amputazione. Si pota per purificare, si pota per rafforzare. Il Risorto sogna che la sua vite si espanda sul mondo intero, lo abbracci intero e vuole che ogni tralcio porti dei segni di amicizia, di condivisione, di giustizia.
Racconto un episodio semplice, come è gran parte delle nostre giornate, ma vale soprattutto per le decisioni più importanti. Ieri una persona mi ha accompagnato in auto a Novafeltria. Arrivati ad un semaforo, ho visto che quella persona ha frenato ed è andata un po’ in dietro. Mi sono lamentato perché avevo molta fretta. Aveva visto un’auto che stava per immettersi sulla via principale e ha pensato di fargli posto, visto che c’era una lunga fila al semaforo. Il guidatore, quando ha capito che gli era stato ceduto il posto, si è illuminato. Avrà pensato che la sua giornata era cominciata bene… Tanto buonumore è stato liberato da un semplice atto di amore. Se restiamo in Gesù, se restiamo innestati come tralci nella vite, faremo tantissime esperienze di questo tipo. «Rimanete in me»: dobbiamo proporci di rimanere nella sua Parola, ascoltarla, maturarla dentro. «Io in te, Gesù, tu in me»: una cosa sola.


Perticara (RN), 2 maggio 2021

At 9,26-31
Sal 21
1Gv 3,18-24
Gv 15,1-8

S. Cresime

Una di voi, Martina, ha letto una pagina molto appropriata sulla Cresima: c’è la storia del vostro cammino fino a questo giorno, grazie al vostro parroco e grazie alle vostre catechiste; poi c’è il vostro presente, con quello che accadrà fra poco: lo Spirito Santo scenderà su di voi e imprimerà il suo sigillo (oggi si direbbe il suo tatuaggio!), un segno indelebile e invisibile, ma che tocca e rimane nella struttura profonda della vostra persona.
Ammaestrato dagli antichi Padri della Chiesa preferisco parlare di un “bacio”, perché un bacio dice tutto, più di una enciclopedia: dice l’amore di Dio per ciascuno di noi. Del resto, lo Spirito non è raffigurabile se non attraverso delle metafore o delle allegorie. Un bacio è muto: quando baci non puoi parlare; nello stesso tempo il bacio è eloquentissimo, perché con esso dici: «Tu sei vita della mia vita, respiro del mio respiro».
Oggi il Signore Gesù, presente risorto in mezzo a noi, vi dona il suo Spirito. E lo Spirito effonde su di voi i suoi sette doni, ma, in realtà, si tratta di un unico dono con sette diverse sfumature. Come avete giustamente raffigurato voi, l’unica fiamma, l’unico amore, ha sette riverberi diversi. L’amore è sapienza in senso etimologico, cioè è ciò che dà sapore, gusto al nostro vivere. Quando facciamo le cose per amore, anche le più ardue, oppure quelle noiose e ripetitive, sono riscattate. L’amore riscatta fatica, noia, stanchezza, frustrazione, dà sapore. Il dono dell’intelletto è l’amore che va in profondità, che non si ferma a quello che appare esternamente. Il dono del consiglio è l’amore che sa scegliere quello che è più giusto, più utile, più necessario. Il dono della scienza è l’amore che sorregge nella fatica di imparare, che rende curiosi di sapere. Il dono della fortezza è l’amore che sa resistere, che va all’attacco con una sana e giusta aggressività, intraprendenza, coraggio davanti alle difficoltà, e che è anche pazienza. Il dono della pietà è l’amore che sa manifestarsi. L’evangelista Giovanni, nella Seconda Lettura invita ad amare non «a parole, ma con i fatti», potremmo dire “con i muscoli”, compiendo cose concrete. Un esempio. Ieri una persona mi ha accompagnato in auto a Novafeltria. Avevo molta fretta e c’era una fila infinita ad un semaforo. Questa persona, dopo avere frenato dietro le altre auto, ha inserito la retromarcia ed è andata indietro… Lì per lì mi sono lamentato perché temevo di perdere tempo. Non mi ero accorto che aveva visto un’auto che stava salendo da una strada laterale e si è preoccupata che, a causa della lunga coda di automobili, non riuscisse ad immettersi nella strada principale. L’autista dell’auto che saliva dalla strada laterale, quando ha capito che gli era stato ceduto il posto, si è illuminato. Avrà pensato che la sua giornata era cominciata bene… È stato un atto d’amore. Dunque, la pietà è l’amore che si manifesta concretamente. Infine, c’è il dono del timor di Dio, che non è la paura di Dio, ma l’amore che non vuole perdere l’Amato.
A proposito di amore e di Amato, riprendo il brano di Vangelo proclamato poco fa. Si tratta di un’altra allegoria che Gesù adopera per dire chi è Lui. Domenica scorsa ci aveva detto che è il Pastore vero, ora dice: «Io sono la vite, voi i tralci». Gesù dice questa allegoria durante l’Ultima Cena, quando sta per congedarsi dai suoi discepoli. Dunque, sono parole da ascoltare profondamente, come le ha ascoltate colui che ha reclinato la sua guancia sul cuore di Gesù, l’evangelista Giovanni, il più giovane del gruppo. Da quella postazione speciale ha sentito queste parole: «Rimanete in me». Nella pericope evangelica, appena otto righe, per sette volte incontriamo il verbo rimanere. Di lì a poco Gesù sarà abbandonato da tutti, persino da Pietro che gli aveva detto: «Ti seguirò dovunque tu vada…» (Lc 9,57). E Gesù: «Quando il gallo avrà cantato due volte, mi avrai già rinnegato tre volte». È stato così.
«Rimanete in me». Rimanere, dimorare, indica dove si può restare e “fare casa” con una persona. Già all’inizio del Vangelo due dei discepoli avevano chiesto: «Dove abiti? Dove dimori?» (cfr. Gv 1,38). Come dire: «Dove vai a dormire?». «Rimanete in me, come tralci uniti alla vite». È la linfa che unisce il tralcio alla vite. La linfa, che non è frutto del tralcio, è puro dono: è la grazia. Essere nella grazia significa essere nell’amore, nella linfa; essere una cosa sola con il Signore. Da notare: il tralcio da solo non può far frutti, ma neppure la vite. La vite ha bisogno dei tralci! Sembra che il Signore dica che ha bisogno di ognuno di noi, vuole che siamo tutt’uno con lui, che dentro di noi accada l’alchimia che trasforma la linfa in frutti. Il Signore vuol dirci: «Ho creato un mondo e vorrei che fosse nell’armonia e nello splendore». Si completerà nel cielo, ma fin da adesso deve essere «in terra come in cielo». Il Signore dice a ciascuno: «Tralcio, porta frutti! Ho bisogno di te. Trasforma il dono che ho messo nel tuo cuore in possibilità di altra vite». Il Signore vorrebbe che la sua vigna abbracciasse il mondo intero.
Cari ragazzi, quand’ero bambino volevo fare il missionario perché ero cresciuto con questa idea: Gesù doveva essere conosciuto da tutti. A quel tempo si parlava molto della Cina come continente promettente di una nuova fioritura di cristiani. Facevo per loro tanti piccoli sacrifici. Ero felice quando ero in grazia di Dio. Qualche volta venivo sorpreso dal pensiero: «Sono un tralcio di Gesù!». Ricordo che di tanto in tanto ero sorpreso da questo pensiero: quello che sto facendo è come se lo facesse Gesù. E se qualche volta accadeva di fare un peccato, ero triste. Allora andavo da Gesù e tornava la gioia.
Vi auguro di essere sempre luminosi come oggi, pieni della linfa del Signore, perché portiate frutto. Anche un bicchier d’acqua offerto per amore davanti a Dio diventa una cosa grande. «Voglio rimanere in te, Gesù. Tu in me e io in te». Così sia.

Omelia nella Festa patronale di San Giuseppe Lavoratore

Gualdicciolo (RSM), 1° maggio 2021

At 9,26-31
Sal 21
1Gv 3,18-24
Gv 15,1-8

Oggi in Cattedrale a Pennabilli è stato aperto l’Anno giubilare di San Giuseppe, sposo di Maria, padre legale (putativo) di Gesù e si è dato inizio al “mese di maggio” dedicato alla Madonna con una grande supplica per la fine della pandemia, secondo l’indicazione di papa Francesco: trenta Santuari sono coinvolti nella staffetta di preghiera che si concluderà il 31 maggio nei giardini vaticani. Oggi si apre a Roma, in San Pietro, con sessanta giovani (uno di loro è di San Marino!).
Nel 1955 papa Pio XII istituiva la memoria liturgica di San Giuseppe Lavoratore per testimoniare l’importanza del lavoro nella visione cristiana.
Oggi non si può celebrare la memoria di san Giuseppe Lavoratore senza tornare alle parole di papa Francesco nella Lettera Apostolica Patris Corde, a lui dedicata. Il lavoro di san Giuseppe «ci ricorda che Dio stesso, fatto uomo, non ha disdegnato di lavorare. La perdita del lavoro, che colpisce tanti fratelli e sorelle e che aumenta negli ultimi tempi a causa della pandemia dev’essere un richiamo a rivedere le nostre priorità» (PC 6).
Un carisma, quello di san Giuseppe, che si riassume nella capacità di essere “custode” di un tesoro prezioso, perché – spiega ancora il Papa – egli ci insegna che il lavoro è «partecipazione all’opera stessa della salvezza, occasione per affrettare l’avvento del Regno, sviluppare le proprie potenzialità e qualità, mettendole al servizio della società e della comunione».
È la seconda volta che celebriamo la festa di san Giuseppe Lavoratore in pandemia. La sofferenza si è fatta più forte; dall’inizio dell’emergenza, in Italia ci sono 900mila occupati in meno. E, se anche ci dicono vi siano timidi segnali di ripresa (a marzo), la disoccupazione giovanile tocca il 33%. Anche i Vescovi – nel loro Messaggio – denunciano la preoccupazione per le disuguaglianze e chiedono di abitare una nuova stagione economico-sociale. «Nel mondo del lavoro si sono aggravate le disuguaglianze esistenti e create nuove povertà».
Perché lavoriamo? Molti possono rispondere dicendo che si lavora per portare il pane a casa. Verissimo. Ma forse lo scopo più vero e più profondo del lavoro dovrebbe essere quello di trovare il modo di esprimere noi stessi. Nel lavoro ci si percepisce utili e significativi. La mancanza di lavoro, invece, è come un’amputazione alla dignità della persona. Molte volte la mancanza di lavoro getta nella più profonda depressione.
San Giuseppe è conosciuto come un lavoratore, un artigiano. Gesù sarà chiamato «il figlio del falegname» (Mt 13,55). È certo che san Giuseppe avrà insegnato il suo mestiere anche a Gesù. Il Figlio di Dio ha lavorato come ogni uomo al mondo. Ma anche chi ha un lavoro non è detto che lo viva come qualcosa che lo renda felice e lo gratifichi. Infatti, a volte si fanno lavori che non vorremmo fare e li facciamo solo per necessità. Così il lavoro non è più il luogo dove io esprimo me stesso, ma è il luogo dove accumulo frustrazioni. Tutto questo, però, può essere capovolto attraverso una conversione dello sguardo: il lavoro ci gratifica e ci santifica non solo quando ci aiuta ad esprimerci, ma quando lo facciamo “per amore”! Allora anche la cosa più noiosa o stancante diventa bella, quando sai che la stai facendo “per amore” di chi ami. San Giuseppe è illuminante per questa logica del “fare per amore”.

Quanta luce, quanta ispirazione ci viene dalla meditazione sul Vangelo che abbiamo appena ascoltato. Gesù ci propone una nuova allegoria. Viene presa dal mondo del lavoro agricolo: la vite, i tralci, la potatura, il contadino… Gesù segnala la necessità di «portare frutto». Voi direte “frutti spirituali”… E non sono frutti spirituali il bene che si fa per la propria famiglia e il proprio Paese? E praticare un lavoro ed una professione in modo onesto non è testimonianza? Ed essere in grazia di Dio non è – per il lavoro che svolgiamo un produrre come se Gesù operasse per mezzo nostro? Noi in lui e lui in noi, uniti insieme, portiamo frutti di santità. Tutto quello che un discepolo fa unito a Gesù acquista un valore aggiunto. Si tratta di un valore di santificazione, di redenzione, di costruzione del Regno di Dio.
Conseguenza: anche il lavoro più semplice e più nascosto non perde in preziosità; anche la sofferenza per il non-lavoro (malattia o condizione di anzianità) è, in qualche modo, “lavoro”: inazione, ma lavoro interiore di santificazione. E c’è il lavoro verso la nostra crescita umano-cristiana, il lavoro-preghiera e la preghiera-lavoro.
Solo il peccato ci stacca dalla vite: allora la linfa non arriva a noi, allora il tralcio – che siamo noi – non produce frutti soprannaturali di grazia.
«Senza di me non potete far nulla!». E quello che facciamo senza di lui (il nostro attivismo) è soltanto paglia!
In questo è glorificato il Padre: che siamo discepoli di Gesù e che portiamo frutto.

Omelia nella celebrazione del 1° Maggio

Pennabilli (RN), Cattedrale, 1° maggio 2021

Gen 1,26-2,3
Sal 89
Mt 13,54-58

1.

Motivi di preghiera in questo 1 maggio: apertura solenne diocesana dell’Anno giubilare dedicato a san Giuseppe, sposo di Maria, padre legale (putativo) di Gesù; ricordo grato, e per altri versi preoccupato, del mondo del Lavoro, con la presenza di una rappresentanza di lavoratori della Val Marecchia; inizio del “mese di maggio” dedicato alla Madonna con una grande supplica per la fine della pandemia, secondo l’indicazione di papa Francesco: una staffetta di preghiera per ogni giorno di maggio, da un capo all’altro del mondo, da un Santuario mariano all’altro. A questi motivi di preghiera ognuno aggiunge i suoi personali, con la certezza che il Signore ci ascolta e ci esaudisce come ritiene sia meglio, certezza accompagnata dal desiderio di una vita più santa, a partire da oggi (“fare bene il mese di maggio”). Facciamo tesoro della grazia che ci è data e delle ispirazioni al bene che sorgono in noi.

2.

Nella odierna liturgia ci è dato di rileggere alcune battute della grande sinfonia della creazione. La Parola potente di Dio «chiama all’esistenza le cose che ancora non esistono», mette ordine nella creazione e introduce in essa pace e armonia, luce e bontà. Fa sorgere gli esseri. Fa vivere. Questa è la sua vittoria! Dio è il creatore del mondo e il Signore della storia. Così ce lo presenta la fede cristiana. Allora tutta la creazione è buona, perché è fatta da Dio. Ed è buona perché Dio ama le sue creature, vuole la vita e non la distruzione. Tutti siamo partecipi della sua bontà.

3.

Il Signore affida all’uomo la creazione, lasciandogli il compito di portarla a compimento. L’uomo è il re del creato. Ma l’uomo deve fare il re nel modo di Dio, non secondo il suo capriccio.
Il passo che narra la creazione dell’uomo ha un carattere di profondo ottimismo. L’uomo è immagine di Dio: c’è un abisso tra l’uomo e il resto del creato. L’uomo è capace di conoscere e di amare; sa che Dio gli parla ed è in grado di rispondere. Questa è la sua dignità. Questa è la sua responsabilità.
L’uomo domina la creazione: ciò dimostra la sua superiorità. «Credenti e non credenti – afferma il Concilio Vaticano II nella Costituzione Pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo (GS 12) – sono concordi nel ritenere che tutto quanto esiste sulla terra deve essere riferito all’uomo come a suo centro e a suo vertice».
Lo sviluppo della scienza, la conquista dello spazio, i progressi della tecnica possono e debbono essere una risposta all’invito del Creatore.

4.

Notate: ad un certo punto Dio sembra sospendere il ritmo vertiginoso della creazione. L’autore della Genesi introduce un misterioso dialogo, facendoci assistere ad una deliberazione e ad una solenne decisione di Dio: «Facciamo l’uomo a nostra immagine e somiglianza» (Gen 1,26). Questo plurale, interpretato in vari modi, sembra alludere ad un misterioso dialogo. La dignità dell’uomo è grande e grande la sua responsabilità: come Dio, l’uomo ama, conosce, domina. Ma di fronte a Dio dovrà rispondere di queste sue facoltà.

5.

Caliamo questi pensieri nell’attualità. Oggi assistiamo a modelli socio-economici che contrappongono sviluppo da una parte e sostenibilità dall’altra; si vuole lo sviluppo a tutti i costi, passando sopra al rispetto dovuto all’ambiente, alla salute, ecc. Così pure la dimensione globale, governata da grandi poteri, va contro l’autonomia locale delle persone che responsabilizza. È nostro compito riaffermare la dignità dell’uomo nella sua interezza, con il suo diritto alla salute, al lavoro e alla tutela del creato.
Si terrà nell’ottobre prossimo, a Taranto, la 49a Settimana Sociale dei Cattolici Italiani. In questo grande convegno – a cui parteciperà anche una delegazione della nostra Diocesi – si intende dare un contributo concreto per sostenere ed orientare un nuovo modello di sviluppo capace di ridefinire il rapporto fra economia ed ecosistema, ambiente e lavoro, vita personale ed organizzazione sociale.
Come dicevo, l’uomo è re del creato, ma non alla maniera del despota: usa della natura e dell’ambiente, ma non ne abusa. Tutto orienta al bene comune. Dopo questi mesi di pandemia ci siamo persuasi ulteriormente di come tutto sia connesso. Ora dobbiamo prenderci cura di un grande ammalato: il nostro pianeta.

6.

Il Vangelo riporta questo interrogativo dei nazaretani. «Non è costui il figlio del falegname?» (Mt 13,55). È certo che Giuseppe avrà insegnato il mestiere di falegname anche a Gesù. Il Figlio di Dio ha lavorato come ogni uomo al mondo.
Perché lavoriamo? Molti possono rispondere dicendo che si lavora per portare il pane a casa. Verissimo. Ma forse lo scopo più vero e più profondo del lavoro dovrebbe essere quello di darci l’occasione di esprimere noi stessi. L’uomo è un “piccolo creatore”. La mancanza del lavoro è come un’amputazione alla dignità della persona. Nel lavoro ci si percepisce utili e significativi. Si porta un piccolo contributo, ma importante. La mancanza di lavoro getta nella più profonda depressione. In questo senso, il tema del lavoro ha a che fare con la fede e con la santità.

7.

Ma anche chi un lavoro ce l’ha non è detto che lo viva sempre come qualcosa che lo renda felice, che lo realizzi. A volte facciamo lavori che non vorremmo fare, non ci piacciono del tutto e li facciamo solo per necessità. Così il lavoro non è più il luogo dove io esprimo me stesso, ma dove accumulo anche frustrazioni, fatiche, malumori. Tutto questo può essere capovolto attraverso una conversione dello sguardo: fare per amore! Per il pane, per la mia autorealizzazione, per il mio posto nella società, ma alla fine si lavora per amore, per amore di qualcuno. La vera domanda è se abbiamo capito che dovremmo trovare un motivo “per cui” lavorare, per cui fare le cose.
San Giuseppe è illuminante per questa logica del “per amore”!