Omelia nella XXII domenica del Tempo Ordinario

Pennabilli (RN), Santuario B.V. Grazie, 29 agosto 2021

Gemellaggio dei Giovani con i Giovani della Diocesi di Imola

Dt 4,1-2.6-8
Sal 14
Giac 1,17-18.21-22.27
Mc 7,1-8.14-15.21-23

Questa pagina del Vangelo è di grande attualità. Anche noi abbiamo norme, come quelle anti-Covid, che osserviamo e con cui giudichiamo gli altri. Al tempo di Gesù c’era una infinità di norme che riguardava l’igiene. Erano norme giuste, assolutamente prudenti, ma presentavano due problemi: diventavano ossessive, esagerate, e venivano legate alla religione, per cui l’osservanza o meno delle norme igieniche aveva una ricaduta nel campo morale, per cui si veniva giudicati puri o impuri. Altro motivo di attualità di questa problematica è la paura generalizzata su ciò che mangiamo e su come mangiamo. Consapevolmente o inconsapevolmente siamo tutti preoccupati di ciò che entra nel nostro corpo. In parte è giusto. Ma Gesù propone un capovolgimento radicale. Gesù dice: «Forse sei troppo preoccupato di te, sei ripiegato su te stesso, ti preme molto come ti senti». E invita ciascuno a pensarsi destinato all’avventura della relazione. Che cos’è, secondo Gesù, ciò che rende puri o impuri? È il modo in cui si vive la relazione. Se la relazione è la cosa più importante allora si è sicuramente in un’ottica di giustizia, di verità, di purezza. In sostanza è come se Gesù dicesse: «Non preoccuparti di quello che mangi, perché devi farti, metaforicamente, cibo per gli altri».
Secondo gli esegeti questa pagina sulla questione del puro e dell’impuro viene ad introdurre una svolta nella vita pubblica di Gesù. Fino ad ora Gesù ha evangelizzato gli ebrei nelle città e nei borghi attorno al lago, ora si appresta ad un’azione evangelizzatrice ad extra, fuori. Tant’è vero che subito dopo, al capitolo 7 del Vangelo di Marco, ci sarà l’incontro con la donna siro-fenicia che chiede la salute per la sua bambina. Fare memoria dell’incontro di Gesù con i non ebrei risultava opportuno per i primi cristiani che leggevano il Vangelo di Marco, perché cominciavano ad accostare quei pagani, che sentivano una grande attrattiva verso Gesù e avevano cominciato a frequentare il Vangelo ed a far parte della comunità. A quel punto non si potevano più osservare tutti quei precetti alimentari che dividevano. «Adesso – potevano dire i primi cristiani – il nostro modo di mangiare è diverso: il Vangelo ci permette di mangiare con tutti, cioè di fare comunione; il pasto che condividiamo non segna più una separazione, ma deve esprimere la relazione con gli altri: non è più escludente, ma inclusivo».
Che cos’è che rende impuro, cattivo, il nostro cuore? Gesù fa un lunghissimo elenco di cose che escono dal cuore dell’uomo: l’impurità, cioè l’uso sbagliato della propria fisicità e della fisicità degli altri; il furto: rubare è togliere all’altro qualcosa che gli è dovuto; l’omicidio: Gesù insegna che omicidio che non è soltanto l’uccisione fisica, si uccide anche con la lingua; l’adulterio, cioè l’ingannare, il violare il patto, il mentire sull’amore; l’avidità, il tenere tutto per sé, anzi il fare degli altri “una cosa” per sé; la malvagità, cioè la strategia per ottenere potere, per essere “di più”; l’inganno, cioè l’incapacità di avere buone relazioni, ecc.
Tutta questa pagina, al fondo, ha per argomento la nostra libertà. La radice delle nostre azioni, buone o cattive, sta nel nostro cuore. Nessuno può costringere. Ma se nessun cibo penetra nel cuore, numerosi condizionamenti esterni vi entrano. Allora si può giungere ad una prima conclusione: dobbiamo custodire con cura il nostro giardino interiore. Far crescere bene i fiori è un’arte: occorre dedicare tempo, dare attenzione, riparare, difendere…
Poi, Gesù si esprime in un modo che ci rende pensosi: «Invano mi rendono culto». Le liturgie dell’Antico Israele erano meravigliose con i sacerdoti, i leviti, i suonatori del corno, delle trombe… Gesù non rivolge tanto un rimprovero al tempio, quanto un grido d’amore, perché vede che il suo popolo sta sovraccaricando la Legge di tanti precetti che lo liberano dalla fatica del discernimento. Durante la “tre giorni” di studio dei presbiteri era stato messo all’ordine del giorno il tema dei padrini e delle madrine dei sacramenti dell’iniziazione cristiana. Qualcuno ha pensato: «Com’era bello quando c’erano le leggi e bastava osservarle! Non c’erano problemi e non c’erano discussioni, bastava fare quello che era scritto». Un altro tema che ci ha coinvolto è l’accompagnamento, il discernimento e l’integrazione delle famiglie ferite. Che fare? Il Signore ci chiede di fare la fatica del discernimento. Ciò non vuol dire buttare all’aria le regole, la Legge di Dio, ma mettere in evidenza il comandamento grande, il comandamento nuovo, il comandamento suo (cfr. Gv 13,34): «Amare Dio con tutto il cuore e amare i nostri fratelli come noi stessi» (cfr. Mc 12,29-31).
Un’altra conclusione: Dio non lo si inganna. Non si può andare davanti a lui esibendo i meriti e le leggi accuratamente osservate. Il Signore chiederà: «Dov’è il tuo cuore?». Non vuole atti obbedienti, vuole un cuore obbediente! Un cuore obbediente è certamente docile, pratica la giustizia e la verità.
La trasgressione si colloca a livello del cuore. Riconosciamo le nostre trasgressioni e diamo a Dio la gioia di purificarci, di lavarci nell’acqua della sua misericordia infinita. È come ricevere il dono di un cuore nuovo: «Togliere un cuore di pietra, mettere un cuore di carne» (cfr. Ez 36,26).
È molto opportuno leggere questa pagina di Vangelo nella settimana nella quale ci prepariamo a celebrare la Giornata per la Custodia del Creato. A Pennabilli ci sarà una Summer School organizzata dalle Monache Agostiniane, dalla Diocesi di San Marino-Montefeltro e dalle realtà culturali del territorio.  L’argomento centrale sarà l’ecologia. Entreremo nella Summer School con il messaggio di Gesù: l’ecologia del cuore.

Omelia nella XXI domenica del Tempo Ordinario

Eremo di Carpegna (PU), Santuario Madonna del Faggio, 22 agosto 2021

Gs 24,1-2.15-17.18
Sal 33
Ef 5,21-32
Gv 6,60-69

Importanti non siamo noi. L’importante è con Maria essere portati a Gesù. Noi siamo in seconda linea. Questo distingue un pellegrinaggio da un vagabondaggio. Un vagabondo gira senza meta, torna sui suoi passi, va avanti, sale, scende, non si sa dove arriva. Noi, invece, abbiamo fatto un pellegrinaggio sapendo che camminavamo verso Gesù, il Signore, e siamo arrivati. Qui un’altra sorpresa gioiosa: c’è un popolo, ci sono suore, religiosi, sacerdoti, bambini, famiglie, il vescovo. Nel cammino eravamo accompagnati dai grilli, una metafora dei nostri bambini, della loro gioia e della promessa che vediamo in loro.
Anche il cammino è una metafora, non letteraria, ma reale: c’è la fatica, c’è chi corre e chi resta indietro, chi fa da cane pastore e chi segue. Ho chiesto ad un gruppetto: come si fa a sapere il momento esatto in cui si passa dalla notte al giorno? Qual è il confine esatto tra la notte e il giorno? Qualcuno ha risposto: quando si può distinguere una lepre da una volpe; un altro: quando si può distinguere un melo da un pero. Poi abbiamo capito che è giorno quando si riesce a vedere in una persona un fratello. Adesso siamo a mezzogiorno!
Permettete una parola sul Vangelo di questa domenica. Da oltre un mese stiamo leggendo il capitolo 6 del Vangelo di Giovanni: un discorso fra i più lunghi che Gesù ha pronunciato. Era necessario che Giovanni, riferendo le parole di Gesù, imbastisse questa bellissima meditazione sul Pane di vita, perché nel suo Vangelo è narrato l’inizio dell’Ultima Cena, “i grandi discorsi” e la promessa dello Spirito Santo, ma non l’istituzione dell’Eucaristia. Per questo Giovanni, nel disegno del suo Vangelo, si premura di spiegarci questo dono straordinario che il Signore Gesù fa di se stesso. Qualcuno ritiene che il discorso sul Pane di vita sia ripetitivo. È vero: Giovanni usa un andamento letterario tipico del suo tempo, circolare: dice un concetto, poi ci ritorna e, stimolato dagli ascoltatori, fa un passo ulteriore. Quando Gesù parla è attento alle persone, si mette davvero in relazione con loro e prende sul serio le difficoltà. I “giudei” mormorano perché non comprendono. Non si fidano. Gli apostoli, invece, pur non capendo neanche loro il discorso di Gesù – come vedremo – hanno fiducia in lui. Questa mormorazione ha molto a che fare con i racconti dell’esodo. Gesù sa estrarre parole chiave, concetti che danno un colpo d’ala al discorso e lo rendono ogni volta nuovo.
Ad esempio: «Io sono il pane vivo». Gesù pare dire: «Avete non solo fame di pane (per la fame di pane Gesù è molto scandalizzato e attiva i discepoli affinché provvedano: Gesù non è spiritualista), ma anche fame del cuore, cioè il bisogno di amare e di essere amati, e la fame, che è dentro al vostro spirito, fame di infinito, di assoluto». Gesù dice: «Io sono pane: sono in grado di sfamare la tua fame e le tue fami». Poi, andando avanti nel discorso, c’è ancora la mormorazione e Gesù aggiunge: «… sono “il disceso” dal cielo». È un concetto completamente nuovo. Gli ascoltatori pensano alla manna. Quella mattina, sulla via dell’esodo, dopo aver protestato, gli ebrei si ritrovarono il dono della “manna”. Gesù dichiara la sua identità: è il Verbo di Dio, che scende sulla terra e si incarna. Qui gli ascoltatori sono ancora più smarriti. Ma il discorso avrà un’altra impennata, una sorta di avvitamento. Gesù aggiunge: «Io sono il pane, il disceso dal cielo, chi mangia me (letteralmente chi mastica me) ha la vita eterna». A questo punto gli ascoltatori sono molto in imbarazzo, ma Gesù non si ferma e dice: «E se vi dicessi che questo pane di vita, disceso dal cielo, pane da mangiare per avere la vita, deve tornare al cielo?». Questa parola sconvolge gli ascoltatori. Gesù parla del suo innalzamento sulla croce: l’Innalzato diventerà punto di gravitazione universale: «Innalzato attirerò tutti a me», come un magnete attira la limatura di ferro. Gesù, l’Innalzato, ci unisce a lui, ci fa una cosa sola con lui e ci introduce nella Trinità. Molti sono in difficoltà e non riescono a capire questo discorso. Effettivamente la fede all’inizio può essere imbarazzo, protesta, dubbio. Molti stanno per allontanarsi da Gesù e lui non fa nulla per rendere la pillola più digeribile, più dolce. Ci sono stati altri momenti nei quali i discepoli, davanti a Gesù e alle sue pretese, hanno fatto un passo indietro; erano spaventati dalla proposta esigente del Maestro. Un esempio. Gesù risponde al giovane ricco: «Da’ quello che hai ai poveri, poi vieni e seguimi». «Quel giovane se ne andò triste». C’è chi si è allontanato per la consapevolezza della propria indegnità. Basti pensare a Pietro che dice a Gesù: «Allontanati da me, sono un peccatore». Dunque, una presa di distanza di tipo morale. Ma qui l’abbandonare Gesù riguarda il contenuto della fede.
Gesù si rivolge ai Dodici – ma si rivolge anche a ciascuno di noi – e dice: «Volete andarvene anche voi?». C’è un velo di tristezza nella domanda di Gesù, ma non c’è risentimento, non c’è ricatto. Gesù vuole solo persone libere dietro di lui, persone che lo scelgono.
A questo punto dovrei dare la parola a voi… Sarebbe bello sentire le vostre risposte; le potrete dire al Signore durante la Comunione: «Signore, da chi andremo? Tu solo hai parole di vita eterna». «Tu solo». Sbaglieremo infinite volte, verremo meno tante volte a questa consapevolezza, però «tu solo», Gesù, è il centro della nostra vita. Siamo qui da Maria perché lei ci porta Gesù. Non siamo di quelli che cercano solo prodigi (i miracoli li chiediamo per i nostri fratelli). Maria ci dice che lei è al centro del Mistero, non è il centro. «Tu solo» hai parole di vita per la mia intelligenza che ha bisogno di verità, per il mio cuore che ha bisogno di coraggio e per la mia persona nel suo insieme, che ha bisogno di trovare ritmo, regola e ritualità, cioè sacralità per ogni azione.
In fondo, che cosa ci manca? Forse solo la fiducia nelle parole di Gesù, il dialogo interiore con lo Spirito che abita in noi!

Omelia nella Solennità dell’Assunzione della Beata Vergine Maria

Perticara (RN), 15 agosto 2021

Ap 11,19; 12,1-6.10
Sal 44
1Cor 15,20-26
Lc 1,39-56

La festa dell’Assunta è la festa del compimento, cioè di ciò che raggiunge la sua pienezza, la perfezione, di ciò che arriva al suo traguardo. È festa del compimento di Maria: con Gesù, nella Pasqua, il suo corpo, la sua fisicità, è entrata definitivamente nello splendore della vita eterna. È così annunciato anche il nostro compimento, il nostro destino, la nostra vocazione. Faccio notare che la nostra lingua – siamo discepoli di Dante Alighieri – ha tante espressioni per dire un concetto, per precisarlo sempre di più.
Ribadiamo la nostra fede nella resurrezione della carne. Molti di noi tentennano. Oggi possiamo dare un guizzo alla nostra fede, perché il destino di Maria è il nostro. Maria, in corpo e anima, è stata presa dal Signore: così sarà anche di noi.
Vi chiederete perché i nostri pastori hanno scelto nel giorno dell’Assunta la lettura evangelica della Visitazione di Maria ad Elisabetta, con il bellissimo canto del Magnificat. Perchè è un brano che parla di compimento e lo dice in vari modi. Anzitutto il nome di “Elisabetta” è parola ebraica composta da due elementi: Eli-sheba, da cui la parola “sabato”, il compimento della settimana, mentre Eli è Dio. Dio è compimento, Dio porta a compimento, cioè ci realizza pienamente. Dunque, Elisabetta porta nel suo nome una professione di fede. Non sempre crediamo che Dio realizza compiutamente la nostra vita; a volte pensiamo che sia nostro “rivale”… Come si fa a superare questo errore? Con la confidenza, avendo fiducia: Dio vuole il mio bene. Non pensate la religione come una contrattazione tra noi e Dio: dobbiamo affidarci.
L’idea del compimento c’è pure nel fatto che Elisabetta – di lei il Vangelo dice che è sterile – ha ricevuto un figlio, Giovanni Battista. Il Vangelo di Luca, nel suo inizio, ha l’idea che Dio porta la fecondità. Nella casa di Zaccaria non solo vi sarà il compimento della maternità di Elisabetta, ma si ospiterà una fecondità ancora più straordinaria: quella di Maria. Il Vangelo della Visitazione è il Vangelo dell’incontro fra due fecondità, fra due compimenti.
Dice il Vangelo che Maria, dopo aver ascoltato l’angelo, andò nella casa di Zaccaria. La parola ebraica “Zaccaria” è composta da due elementi, Zeka-ryàh, e significa: Dio è memoria, Dio si è ricordato, non dimentica: un messaggio fortissimo che Zaccaria porta attaccato al suo nome. Quante volte anche noi, quando siamo in difficoltà, preghiamo così: «Signore, ricordati di me». Fu anche la parola del ladrone in croce: «Signore, ricordati di me…» (Lc 23,42). Il nome “Zaccaria” può anche essere tradotta in italiano come “la tua vita è memoria di Dio”. Qui la sottolineatura è nella testimonianza. Elisabetta e Zaccaria avevano il sogno di formare una famiglia, avere tanti bambini, e si ritrovano soli; quando finalmente arriva il bambino, la fecondità di Dio, anche i vicini si ricordano di Dio. Dio ricorda, ma anche ognuno di noi è chiamato ad essere colui che fa ricordare Dio.
«Appena Elisabetta ebbe udito il saluto di Maria, il bambino le sussultò nel grembo»: è una delle più importanti catechesi su cosa significa incontrare l’altro. L’incontro fra due esseri umani è sempre un incontro anche con Dio. Elisabetta, che ha in grembo il regalo di Dio, la fecondità di Dio, il compimento di Dio, sa riconoscere che in Maria c’è addirittura Dio stesso, il Bambino Gesù. Questo testo, allora, diventa una preghiera per tutti noi: «Signore, ti chiedo di riuscire a vedere in ogni persona la tua presenza». Ogni persona ha qualcosa di Dio dentro di lei, anche se non lo conosce. In ogni persona c’è una scintilla divina, perché diversamente non sarebbe viva. Nei Miserabili di Victor Hugo c’è un galeotto, prigioniero insieme al protagonista Jean Valjean, che chiamavano Jenedieu (Negodio), senza Dio… Ma non c’è nessuno senza Dio! Ecco perché abbiamo tanta fiducia pur nella difficoltà della situazione attuale.
Nella cultura antica era molto importante andare a far visita a qualcuno, l’incontro: è un’esperienza spirituale. E, nel far visita, riconoscere la presenza del Signore nell’altro. Sarebbe bello che stasera a cena diceste una parola su quello che avete vissuto ora in chiesa per condividere, per far sì che ci sia comunione d’anima. Lo chiedo spesso anche ai miei sacerdoti. È importante dirsi reciprocamente quello che Dio fa in noi. La Visitazione non è altro che due donne che vanno a gara a raccontare quello che il Signore ha fatto in loro. È un quadro bellissimo, pieno di gioia. La Madonna ha aggiunto poesia, ma è anche pittrice, perché descrive, come in un dipinto, come lei vede Dio. Lo descrive come colui che fa grandi cose, l’Onnipotente, l’Eterno, colui che disperde i superbi nella loro vanità e nella loro presunzione, colui che rovescia i potenti dai troni e innalza gli umili, colui che ricolma di beni gli affamati e rimanda i ricchi a mani vuote, colui che soccorre Israele e si ricorda – il compimento – della sua misericordia, come aveva detto ai padri. La Madonna ci accompagna con un quadro ritratto di Dio, un Dio che ci è amico, che ci usa misericordia, che sta dalla parte di coloro che sono piccoli e li ama immensamente.

Omelia nella Festa di San Lorenzo

Belforte all’Isauro (PU), 10 agosto 2021

At 6,1-7
2Cor 9,6-10
Sal 111
Gv 12,24-26

Abbiamo sentito leggere la pagina degli Atti degli Apostoli che narra l’istituzione dei diaconi. La Seconda Lettura, invece, è ambientata al tempo della raccolta che i cristiani di Corinto organizzano per i cristiani di Gerusalemme che stanno subendo la carestia.  Poi, il Vangelo ci ha riportato un tratto dell’ultimo discorso di Gesù prima della Passione.
L’espressione del Vangelo scelto per la festa di san Lorenzo è a prima vista scioccante. Va capita bene. Potrebbe essere letta così: «Chi ama male la sua vita, la perde». Tradurrei in italiano il verbo “odiare” con “amare male”. E prosegue: «…Chi la dona in questo mondo, la conserva per la vita eterna». Se questo testo è utilizzato per la festa del diacono e martire, Lorenzo, è evidente che la sua vita esplicita questo insegnamento di Gesù. «Amare male la propria vita» è trattenerla egoisticamente. “Amarla bene” è donarla a Cristo, che la utilizzerà per il bene dei fratelli. Penso a Maria di Betania che offre tutto il suo profumo prezioso, che simboleggia la sua vita, e lo sparge su Gesù durante la cena nella sua casa. Così fa Lorenzo: la sua storia, riassunta da queste letture, ci ricorda che il dono di sè non si programma, non lo si può calendarizzare (oggi sì, domani no, oppure solo a ore o a cottimo). Siamo invitati a vivere anche noi questo paradosso cristiano: chi perde, guadagna. Bisogna farsi attenti alle circostanze, alle occasioni: non perderle, perché poi non tornano più. I cristiani di Corinto non avevano pensato alla carestia che metteva i loro fratelli di Gerusalemme alle strette, però, richiamati da Paolo hanno colto l’occasione per la colletta.
Lorenzo, probabilmente, ancora giovane, avrà immaginato di fare del bene ai poveri sino alla fine della sua vita. No, il dono di sé lo si fa nel presente, non è rinviabile, non è segnato sul lunario. Se il dono di sé è generoso, il suo frutto rimane: la generosità di Lorenzo ha lasciato un segno! Nel testo paolino che è stato letto il verbo donare ricorre cinque volte, allude – per così dire – ad una cultura del dare.
Dice Gesù: «Là dove sono io, sarà anche il mio servo». È una delle ultime parole di Gesù prima della Passione. Essere là dove il Signore dona la sua vita come servo, unire la propria vita alla sua, il proprio sangue al suo: questo non si compie solo nel martirio cruento. Se il diacono Lorenzo è arrivato a questo punto, è perché aveva già fatto della sua vita un dono. Come? Vivendo da diacono, cioè da servo, animato dalla carità verso i poveri.
Vorrei dirvi una frase di Christian de Chergè, uno dei martiri di Thibirine, in Algeria: «Prendere il grembiule come Gesù può essere un’azione grave e solenne, come il dono della vita. Viceversa, donare la propria vita può essere semplice come mettersi il grembiule». A volte la preghiera della Colletta nella Messa può sfuggirci, perché è molto articolata e densa. La preghiera di oggi dice di chiedere tre cose: l’ardore della carità: l’amore è come un fuoco da alimentare con il carburante della preghiera; la fedeltà nel ministero: ognuno di noi ha compiti e responsabilità, una diaconia da esercitare; la gloria del martirio: non ci è chiesto il martirio cruento, ma il martirio nella vita quotidiana. Raccogliamo con gioia e gratitudine le parole di Gesù: «Là dove sono io, sarà anche il mio servo». Così sia

Discorso nel conferimento della cura pastorale delle parrocchie di Maiolo e Santa Maria d’Antico a don Luca Bernardi

Maiolo (RN), 8 agosto 2021

1.

Il cambio di un parroco suscita nei cuori delle persone che formano la comunità i più svariati sentimenti: dispiacere per un legame che si interrompe, sorpresa per la novità. Nel contempo c’è la curiosità circa i motivi dell’avvicendamento, curiosità di conoscere il nuovo parroco. E poi la lieta sorpresa di constatare che non si è abbandonati.

2.

Ai sentimenti comprensibili e più che legittimi, si impone l’opportunità per una riflessione su chi è il sacerdote, sul nostro rapporto con lui, sulle attese nei suoi confronti.
A volte guardiamo al prete come ad un animatore sociale. Si dice del prete che è l’uomo che dà consigli, che sa essere vicino, ed è vero. Ma è quel suo salire i gradini dell’altare che costituisce l’essenziale. Il prete è la persona più povera di questo mondo, è del legno di cui tutti siamo fatti, è della stoffa di tutti noi. Quando parla autorevolmente dice parole non sue, parole di un Altro; compie azioni sublimi, ma non sono azioni sue, sono azioni di un Altro. E anche lui, come l’apostolo Pietro, deve pregare: «Signore, allontanati da me, sono un peccatore»; e gridare: «Signore, salvami!». È la persona più povera di questo mondo, ma nel contempo è la persona più straordinariamente ricca, perché pronuncia parole sovrumane: «Questo è il mio corpo, questo è il mio sangue…», «Io ti assolvo…».

3.

Chi è don Luca?
È il sacerdote più giovane nella nostra Diocesi: crescerà con voi (il Seminario non fa dei “prodotti finiti”) e voi crescerete con lui.
La comunità sappia trarre profitto dal suo entusiasmo, dalla sua preparazione, dal suo desiderio di dedicarsi a voi.
Da parte sua don Luca è qui a rappresentare il Vescovo, agirà in comunione con lui e col presbiterio, in modo particolare in unità pastorale con i sacerdoti di Novafeltria, insieme ai quali studierà le scelte pastorali. Sarà tra voi come amministratore parrocchiale e dovrà riservare il tempo che gli è necessario per perfezionare gli studi universitari.
Questa decisione, presa insieme con lui, sarà a beneficio del nostro presbiterio diocesano. Il tempo che dovrà dedicare alla frequenza dei corsi e allo studio non consideratelo una sottrazione di attenzione a voi e alla comunità, al contrario, consideratelo un tempo ed una ricchezza per tutti. Occorre saper guardare avanti e progettare il futuro. Occorre essere lungimiranti.

4.

Ad aiutare don Luca – soprattutto nei momenti nei quali dovrà assentarsi – ci sarà il diacono Gilberto Fanfani. La figura del diacono è da riscoprire nel suo vero significato, e lo faremo. Non è semplice supplente, ma lo dobbiamo pensare come una presenza organica, un dono prezioso, sacramento del servizio di Cristo alla sua Chiesa.

5.

Chiedo a don Luca – come farebbe un papà – di impegnarsi nel percorso universitario, parte integrante del suo ministero. Chiedo di agganciare i giovani, di essere a Maiolo “col cuore” e facendolo capire – se necessario – praticando il distacco dalle tante e belle realtà che ha servito e amato.
Auguri a don Luca: possa dedicarsi ai parrocchiani con tanta generosità e trovi tanta gioia nel mettersi al loro servizio.

Omelia nella XIX domenica del Tempo Ordinario

Schigno (RN), 8 agosto 2021

S.Messa con un Reparto Scout di Bologna

1Re 19,4-8
Sal 33
Ef 4,30-5,2
Gv 6,41-51

Ci sono varie esperienze di fame. Mi limito a nominarne tre. La fame di pane. Gesù è scandalizzato che ci sia gente che non può sopperire a questa necessità di base. Tant’è vero che, prima di fare il discorso che la liturgia ci presenta oggi, Gesù ha operato la moltiplicazione dei pani e dei pesci. E non solo: ha attivato i discepoli, incoraggiandoli a darsi da fare per soddisfare la fame della gente. Loro, come facciamo noi tante volte, hanno risposto: «Cosa c’entriamo noi? Avrebbero dovuto pensarci prima di mettersi in cammino…». Poi, uno di loro, Andrea, ha detto: «Qui c’è un ragazzo che ha cinque pani e due pesci; ma che cos’è questo per tanta gente?» (Gv 6,9). Eppure, con quei cinque pani e due pesci Gesù ha compiuto la moltiplicazione. Ritorna l’appello di Gesù, preoccupato della fame della gente.
Nella rivista diocesana “Montefeltro” abbiamo deciso di dedicare un inserto mensile ai nuovi stili di vita. Il problema è mondiale, universale. C’è stato recentemente un Congresso della FAO (Food and Agriculture Organization of the United Nations), l’organismo internazionale che si occupa del problema della fame nel mondo. È importante valutare se il nostro stile di vita potrebbe essere più sobrio (e voi siete specialisti in queste cose).
Quando si dice fame si pensa subito al cibo da mangiare, ma non c’è solo la fame di pane. C’è un’altra fame importante: è la fame del cuore, la fame di amare e di essere amati. Si sta molto male quando non si è voluti bene, quando si ha una delusione nel campo affettivo…  C’è chi si toglie la vita. Sono un appassionato lettore dei Miserabili di Victor Hugo. Il protagonista, Jean Valjean, muore per ingratitudine. Anche Gesù ha avuto questa fame. Ad esempio nel Getsemani, quando era alle prese con lo spavento per quello che lo stava per assalire, la Passione, e ha chiesto agli apostoli di fargli compagnia «almeno per un’ora». E invece dormirono. Non sono riusciti a fargli compagnia (cfr. Mt 26,40). Gesù aveva bisogno di cuori accanto al suo. Gesù ha avuto fame anche quando ha guarito dieci lebbrosi e solo uno è tornato indietro per dire grazie con riconoscenza. Gesù ci ha fatto caso: «Non sono stati guariti tutti e dieci? E gli altri nove dove sono?» (cfr. Lc 17,17). Ci teneva.
C’è un’altra fame nell’uomo. Mi è venuta in mente la settimana scorsa, quando ho accompagnato i nostri ammalati in pellegrinaggio a Loreto. Sono andato anche a Recanati, sul colle dell’Infinito, e ho riletto la poesia bellissima, struggente, di Giacomo Leopardi: «Sempre caro mi fu quest’ermo colle…». Leopardi conclude esprimendo la fame profonda che ha il cuore umano, la fame di infinito, di assoluto: fame di Dio. Una fame che è implicita. Dieci anni fa è venuto il Papa nel Montefeltro, a Pennabilli. Era papa Benedetto XVI. Parlando con i giovani ha usato una metafora meravigliosa: ha detto che il cuore è come una finestra spalancata sull’infinito.
Per la fame di pane vi propongo uno stile di vita più essenziale, più responsabile, più fraterno. Per la fame del cuore vi dico di prepararvi ad amare, e ad amare si impara amando. Molti di voi sono chiamati a formare una famiglia, il presidio più formidabile che c’è per la fame di amore. Ci si prepara da adesso, cominciando a fare atti di amore concreti, ad essere aperti, a rifuggire dall’egoismo.
Per la fame di infinito vi propongo di sognare come spendere la vostra vita per gli altri. In questi giorni, al termine di un Convegno delle Superiore di tutte le Congregazioni religiose femminili, è stato detto con forza: «Non vogliamo più che sulla faccia della terra ci sia un bambino che non abbia una mamma». Quando sono andato a trovare mio fratello missionario nel Congo, a Goma, ho incontrato molti bambini “di strada” (ne ho visti anche di lebbrosi). Mi è capitato di pensare alla mia vita di sacerdote; da studente avevo meditato tante volte la figura di Abramo nella Bibbia e la Parola di Dio che diceva: «Offri tuo figlio Isacco, ti farò padre di una moltitudine» (Gn 22,17). Per me è stato proprio così! Ho fatto il responsabile della pastorale dei ragazzi nella mia Diocesi per tanti anni, poi il parroco e ho detto alla Madonna (c’erano solo 17 bambini in parrocchia): «Ti chiedo una grazia: voglio un cortile pieno di bambini, di ragazzi, di giovani». Sono andato a cercarli insieme ad alcuni ragazzi del quartiere. Adesso faccio il vescovo: incontro tanti giovani, tanti ragazzi, come voi questa mattina!
Fame di pane: vi ho suggerito una risposta. Fame di amore: vi ho fatto una proposta: voler bene, a cominciare da adesso, al vostro vicino e alla vostra vicina. Fame di infinito: vi ho invitato a sognare la vostra vita futura aperta ad un amore più grande.

Omelia nelle Esequie del Sindaco di Sant’Agata Feltria, Guglielmino Cerbara

Sant’Agata Feltria (RN), 4 agosto 2021

Gb 19,1.23-27
Sal 26
Gv 6,41-51

Giobbe è un uomo sottoposto alla sofferenza, un uomo che riceve la solidarietà dei tanti che lo vanno a trovare, che si pongono come difensori di Dio, ma lasciano anche intendere che la sofferenza può essere un castigo per i peccati. Abbiamo letto un tratto bellissimo del libro biblico a lui dedicato. Permettetemi di dire alcune parole di commento. Dice Giobbe: «Io so che il mio Redentore è vivo… Dopo che questa mia pelle sarà distrutta, senza la mia carne vedrò Dio. Io lo vedrò, io stesso, e i miei occhi lo contempleranno non da straniero» (Gb 19,25-27). Sono tra le più significative parole pronunciate da Giobbe. Giobbe ha perso ogni sostegno umano nella sua vicenda. Questa solitudine sembra quasi un segno dell’abbandono di Dio. In questa totale solitudine risuona la professione di fede di Giobbe che abbiamo letto adesso. Al di là delle vicende, al di là degli uomini, al di là della morte, questo atto di fede raggiunge il Redentore, che proclamerà poi l’innocenza di Giobbe e lo riscatterà. Il Redentore non è altro che il Dio vivente. In lui, Giobbe vede se stesso vivo, dimentico del suo dolore e persino della morte fisica. Giobbe intravvede una vita in Dio, al di là della vita fisica e del dominio della morte. Con la stessa speranza anche noi abbiamo pregato: «Sono certo di contemplare la bontà del Signore nella terra dei viventi» (Sal 26,13).
Il brano evangelico ci ha riferito un breve tratto del Vangelo di Giovanni, detto “discorso del pane di vita”, che fa immediatamente seguito alla narrazione della moltiplicazione dei pani. I pani della moltiplicazione sono un segno posto da Gesù come risposta alla nostra fame: fame di pane (Gesù si scandalizza che ci sia chi non ha il necessario, attiva i discepoli per la condivisione e poi interviene); fame di cura e di amore (Gesù conosce bene questa esigenza del cuore; lui stesso ha chiesto gratitudine e compagnia: quando accoglie il ringraziamento del lebbroso sanato e domanda dove sono gli altri nove, rivendicando riconoscenza; oppure quando nel Getsemani si aspetterebbe almeno un’ora di solidale compagnia…); fame di infinito (Gesù sa che il nostro cuore è inquieto e – in fondo – nessuna cosa può colmare del tutto il suo desiderio; solo qualcosa o qualcuno di infinito lo potrebbe).
Ecco, davanti a Gesù Cristo, le nostre ceste vuote, le nostre fami!
Persino i nostri vuoti di Dio (dubbi, fragilità, peccati, inconsistenze), se offerti come ceste di fame, diventano vuoti per Dio, che Gesù colma e sazia con sovrabbondanza.
Nella tessitura del discorso si intrecciano due temi: la mormorazione degli ascoltatori e la rivincita di Gesù. La mormorazione è quella dei giudei presenti all’avvenimento, ma siamo “giudei” tutti noi alle prese con la nostra poca fede in lui, con le nostre perplessità; che altro è la mormorazione di cui parla l’evangelista, se non la riserva mentale, il sussurro alle spalle di Gesù, al quale tante volte crediamo di credere. La mormorazione è lo stesso atteggiamento degli Ebrei durante l’esodo, ciechi e sordi davanti al Dio che guida il loro cammino verso la terra promessa.
La rivincita è la risposta di Gesù, una risposta d’amore, che si propone come “pane di vita”: «Questo è il pane che discende dal cielo, perché chi ne mangia non muoia… Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo». Sazia di pane, sazia di amicizia, sazia di infinito “per sempre”.
Qui Gesù sta per introdurre un discorso eucaristico, ma prima ancora è la proposta di alleanza, di accoglienza della sua persona, di fede. È una rivincita per la nostra scarsa fiducia che Lui, il Signore, veda davvero, che venga, che possa cambiare le cose. Gesù replica: «Credete in Dio e credete anche in me». Ecco la rivincita. Ci colloca nell’ambito della relazione e dell’amicizia con lui. Del resto, è quello che facciamo anche noi quando, volendo bene ad una persona, le diciamo: io ti voglio bene e so di volerti bene. Non ci sono prove scientifiche all’amore. Tutto si gioca sulla fiducia. Ecco quello che ci sta dicendo la Parola di Dio qui, in questo momento, davanti a questa bara. È una parola di speranza. È una parola di vita. Una parola certa, pronunciata dal Signore Gesù: «Io lo risusciterò nell’ultimo giorno».
Mino, il sindaco di Sant’Agata Feltria, ci testimonia un messaggio che tutti dobbiamo accogliere. Ci richiama la necessità, per la vita della comunità, della buona politica, non di quella asservita alle ambizioni individuali o alla prepotenza di fazioni o centri di interesse. Una politica che non sia né serva né padrona, ma amica e collaboratrice; non paurosa o avventata, ma responsabile e quindi coraggiosa e prudente nello stesso tempo; che faccia crescere il coinvolgimento delle persone, la loro progressiva inclusione e partecipazione. Una politica che sappia armonizzare le legittime aspirazioni dei singoli e dei gruppi, tenendo il timone ben saldo sull’interesse dell’intera cittadinanza. Questo è il volto autentico della politica e la sua ragion d’essere: un servizio inestimabile al bene dell’intera comunità. Questo è il motivo per cui la Dottrina Sociale della Chiesa la considera una nobile forma di carità, forse la più alta forma della carità. Un secondo messaggio è l’invito, soprattutto ai giovani, a prepararsi adeguatamente e ad impegnarsi personalmente per il bene comune, respingendo ogni, anche minima, forma di disinteresse. Un’ultima parola: il buon politico ha anche la propria croce da portare, se vuole essere un buon amministratore, perché deve lasciare tante volte le sue idee personali per assumere le iniziative degli altri e armonizzarle, accomunarle, perché sia proprio il bene comune ad essere portato avanti.
Grazie signor Sindaco. Preghiamo il Signore perché susciti buoni politici, che abbiano davvero a cuore la comunità, il popolo e l’ascolto di quanti sono più in difficoltà. Così sia.

Omelia nella Festa di San Leone

San Leo (RN), Cattedrale, 1° agosto 2021

Gn 12,1-4
Sal 15
Fil 4,4-9
Mt 7,21-27

«Il Signore disse ad Abrám: “Esci dal tuo paese, dalla tua patria e dalla casa di tuo padre, verso il paese che io ti indicherò…”».
Il testo biblico prosegue con una raffica di verbi al futuro, cosa molto significativa… E conclude con un’obbedienza: «Allora Abramo partì, come gli aveva ordinato il Signore». Chi è Abramo? Le scoperte archeologiche mettono in luce sempre più chiaramente che il genere di vita di Abramo e del suo ambiente sociale coincide con quello dei pastori nomadi dell’inizio del 2° Millennio prima di Cristo. Questi pastori si muovono nei territori della cosiddetta “Mezzaluna fertile” in cerca di pascoli per il loro bestiame.
Ma per la Bibbia la storia di Abramo è una storia religiosa. In essa Abrám non figura come un nomade in cerca di pascoli, ma come un pellegrino che cammina verso la “terra promessa”. Dio lo chiama. Abrám risponde. La sua fede inaugura un modo nuovo di interpretare la vita dell’uomo e la storia. Questo è il grande contributo di Abramo al cammino dell’umanità. Milioni di uomini, appartenenti alle tre principali religioni dell’Occidente (Ebraismo, Cristianesimo, Islamismo), lo invocano come “padre dei credenti”: Abraham, il nome che gli viene dato da Dio in luogo del suo nome Abrám, significa precisamente “padre di una moltitudine”.
Abramo è uomo di fede coraggiosa: si ritrova a tu per tu con Dio. Questa è la chiave della sua profonda personalità religiosa: la sua obbedienza sincera. Dio sta al di sopra, davanti e prima di tutto. Dio solo basta. «Sperando contro ogni speranza» (Rm 4,18), Abramo lascia tutto per il Tutto! (cfr. Eb 11,8-10). Scopre che Dio non viene mai meno e che trovare Dio significa anche trovare la parte migliore dell’uomo.
Nell’oggi della liturgia questa pagina della Scrittura interpreta la vicenda umana e spirituale di san Leone, primo e più grande evangelizzatore del Montefeltro, che ha dato origine alla nostra Chiesa locale. Ma questa pagina svela anche le nostre personali storie di vocazione, da rinnovare ogni giorno, nella fede, con coraggio, da pellegrini.
Saluto don Carlo Giuseppe Adesso che intraprenderà, fra qualche settimana, un nuovo itinerario spirituale e di servizio in Terra Santa. Benedico e saluto don Giuliano Boschetti come nuovo parroco di San Leo.
In un giorno come questo, nel quale il vescovo incontra la città in festa per il Patrono, è attesa anche una meditazione attualizzante la Parola di Dio sulle vicende del presente. Farò quattro sottolineature.

1.

Prima di tutto dico una parola di speranza, perché tempo di crisi per noi cristiani significa tempo di speranza. Viviamo un’epoca di smarrimento sul piano etico e, prima ancora, sul piano del pensiero. Cito Thomas Harvey, un romanziere americano del ‘900, che conclude così un suo scritto: «Ahimè, mi manca il coraggio e il cuore mi si spezza! Signore, abbiate pietà del cristiano che dubita, dell’incredulo che vorrebbe credere, del forzato della vita che si imbarca solo nella notte sotto un firmamento che non è più rischiarato dai consolanti fari dell’antica speranza».
È un’epoca che siamo comunque chiamati ad abitare. Possiamo e dobbiamo affrontarla con la risolutezza di Abramo, con la sua fede, col suo coraggio. Abbiamo un orizzonte, abbiamo un firmamento altro, abbiamo risorse spirituali. Lo ribadisco con umiltà, ma anche con fierezza. Però c’è chi, spaventato, si àncora alle consuetudini e non arrischia nuovi cammini. C’è chi vorrebbe affrettare la nascita del “nuovo”, forzando tempi e modi. C’è chi, non volendo scomodarsi, preferisce lasciare ad altri la fatica del cambiamento.
L’uomo di fede vede in ogni trasformazione e in ogni cambiamento a cui va incontro un’occasione per avvicinarsi a Dio, per incontrarlo più da vicino, per dare alla sua vita il respiro rinnovante del futuro.
Dobbiamo porci davanti all’inquieta ricerca con forti risoluzioni spirituali; oltre le mode, oltre i paradigmi culturali, che sono mutevoli, abbiamo valori perenni, da non confondere con i nostri schemi e le rassicuranti consuetudini: sono valori basati sulla Parola di Dio e che hanno un nome preciso: Gesù e il suo Vangelo. Occorre tenere ben fermo il timone nella traversata. Voglio dire: con lo sguardo fisso su Gesù morto e risorto non ci perdiamo d’animo. Gesù sulla croce ha perso tutto: il posto in sinagoga, gli amici, persino la percezione della prossimità del Padre e ha gridato il suo abbandono: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?». Nella sua esperienza possiamo vedere e vivere i nostri smarrimenti. Nella sua esperienza di oscurità possiamo vedere e superare la nostra. Nel suo abbandono possiamo affrontare le delusioni e le amarezze. La nostra piccolezza, la nostra pochezza, la nostra povertà nel mistero pasquale sono redente: seme caduto per terra che porta il suo frutto, perché sa stare nella zolla. Questa è la speranza virtù teologale.

2.

Affido a San Leone un desiderio. Dobbiamo riprendere con rinnovato entusiasmo le attività pastorali dopo le chiusure e le restrizioni. Le nostre chiese, pur con le necessarie precauzioni, ora sono spalancate. Altrettanto le sale di comunità per gli incontri e la catechesi. Invito tutti, ragazzi, giovani e adulti, a riaccostarsi alla vita pastorale ordinaria. Ora è il tempo di riprendere la vita consueta. Senza buttare via quello che c’è stato di bello, nonostante tutto, come i collegamenti online, le liturgie domestiche in famiglia e tra famiglie… L’incontro e la relazione sono sostanza dell’esperienza cristiana. Vedo l’esitazione di alcuni e la dispersione di tanti. Metto in conto anche la pigrizia e il disamore. Qualcuno si aspettava uno slancio di fede e un accrescimento di fervore in tempo di pandemia. Ingenuità? La pandemia, invece, ha evidenziato i segni profondi della secolarizzazione, ha smascherato l’abitudine e l’andazzo. Ebbene, ritorniamo. Dalla dispersione all’unità. Chi ha la fede più solida aiuti i più deboli, i genitori accompagnino i figli al rientro, le associazioni mostrino la vitalità e l’audacia del loro carisma. Questo momento storico assomiglia al ritorno del popolo di Israele dall’esilio. L’invito al ritorno fu descritto con accenti lirici dal secondo Isaia (cfr. Is 40). Ma i profeti post-esilici, molto realisticamente, non hanno risparmiato parole severe a chi si è attardato, o peggio, situato nel contesto dell’esilio. Il profeta Aggeo se la prende per quanti, pur rientrati, pensano ai loro affari o trascurano la casa di Dio (cf. Ag 1,2-7). Ripartiamo. Riprendiamo. Ricominciamo. Non è questione di numeri, ma di qualità, di fervore!
Esprimo la mia gratitudine all’UNITALSI-USTAL che ha avuto il coraggio di riattivare il pellegrinaggio con i malati a Loreto. Ringrazio l’Azione Cattolica per la ripresa dei campi scuola (settore adulti e settore giovani). Vi sono tante altre esperienze, ad esempio il soggiorno delle famiglie di Comunione e Liberazione e le attività nelle comunità parrocchiali.
Ci attendono, poi, eventi ecclesiali importanti: la festa di San Marino, la Veglia diocesana dei giovani, la chiusura dell’Anno giubilare a Monte Cerignone per il centenario del nostro beato Domenico Spadafora, il conferimento del ministero dell’Accolitato ad uno dei nostri seminaristi, Larry, il Convegno diocesano delle famiglie, la Giornata del Mandato col lancio del Programma pastorale diocesano e l’avvio del cammino sinodale voluto dal Santo Padre.

3.

Non sottovaluto i pericoli. Non siamo usciti completamente dal dramma della pandemia, col suo carico di paure, incertezze e sofferenze. Come ci dicono gli esperti, la vaccinazione della popolazione è l’unica efficace misura contro il diffondersi del virus. Rilancio quanto per bocca del Santo Padre la Chiesa ha affermato: «Tutti, soprattutto le persone più fragili, hanno bisogno di assistenza e hanno diritto di avere accesso alle cure necessarie… e i vaccini costituiscono uno strumento essenziale per questa lotta» (Tweet di Papa Francesco, 7 aprile 2021). La campagna vaccinale non deve trovare ostacoli; dopo essere stata affrontata seriamente, risolta la questione della moralità con il chiaro e autorevole pronunciamento della Congregazione per la Dottrina della Fede e con l’approvazione del Santo Padre possiamo ribadire che è per amore dei nostri fratelli e per il bene della comunità tutta che affrontiamo questa campagna vaccinale!

4.

Un’ultima parola è sulla dignità della persona, della famiglia e la libertà di parola e di educazione. Mi riferisco al disegno di legge sulla omotransfobia in materia di violenza e discriminazione per motivi di orientamento sessuale o identità di genere, in discussione in questi mesi al Senato della Repubblica italiana e nel Paese. Un giornalista cattolico autorevole si pronuncia così: «Qui, ogni parola che dici, sbagli».
Il decreto non tratta solo dell’opporsi alla violenza nei confronti delle persone in ragione del loro orientamento sessuale: questo è già previsto dalla Costituzione Italiana. Il testo va oltre e induce a ritenere che il solo pensare ed esprimersi diversamente rispetto alle definizioni contenute nel disegno di legge, potrebbe apparire come istigazione e discriminazione, pertanto penalmente perseguibile. Non è la sede per approfondire, ma a parere di tanti – non solo dei cattolici – c’è il fondato timore che si crei un disorientamento antropologico che confonde il principio di reciprocità uomo-donna, su cui si fondano la famiglia e l’educazione. Noi ci richiamiamo all’insegnamento della Chiesa. Sento sempre più la necessità di rituffarmi nei documenti conciliari. Il Papa all’Ufficio Catechistico Nazionale nell’incontro del 25 gennaio scorso ha detto parole importanti sulla fedeltà al Concilio Vaticano II. Ricorderete papa Benedetto XVI che, nel suo ultimo incontro col Clero romano, raccontò il Concilio partecipato dall’interno. Il Concilio afferma: «Ogni genere di discriminazione circa i diritti fondamentali della persona, sia in campo sociale che culturale, in ragione del sesso, della razza, del colore, della condizione sociale, della lingua o della religione, deve essere superato ed eliminato come contrario al disegno di Dio» (GS 29). La persona è superiore ad ogni altra considerazione.
«Spetta a ciascuno, uomo o donna, riconoscere e accettare la propria identità sessuale. La differenza e la complementarità fisiche, morali e spirituali sono orientate ai beni del matrimonio e allo sviluppo della vita famigliare. L’armonia della coppia e della società dipendono in parte dal modo in cui si vivono tra i sessi la complementarità, il bisogno vicendevole e il reciproco aiuto» (CCC 2333). L’identità sessuale maschile/femminile è vissuta in pienezza anche da coloro che per il Regno dei cieli consacrano, con cuore indiviso, la loro vita alla lode di Dio, al servizio dei fratelli e alla testimonianza del mondo futuro nel quale «non c’è né giudeo né greco, né maschio né femmina, perché voi tutti siete uno in Cristo Gesù» (Gal 3,28).
Il Vangelo ci ha proposto l’immagine della casa costruita sulla roccia. Soffiano i venti, ma la casa non crolla. Che questa immagine ci accompagni nel nostro pensare, nel nostro pregare e nel nostro testimoniare. Così sia.

Omelia nella Veglia di preghiera “I venerdì in Santa Casa”

Loreto (AN), Santuario della Santa Casa, 30 luglio 2021

Pellegrinaggio diocesano USTAL-UNITALSI

Mc 16,1-20

Perché questa pagina di Vangelo oggi che non è il giorno di Pasqua nè dell’Ascensione?
Questo Vangelo è di grande aiuto per il cristiano evangelizzatore, il cristiano missionario. Di per sé il Vangelo di Marco termina in modo piuttosto brusco al versetto 8: «Le donne, dopo aver visto il sepolcro vuoto, uscite fuggirono via dal sepolcro, perché erano piene di timore e di spavento e non dissero niente a nessuno perché avevano paura». Un finale sorprendente. In realtà, chi legge questo Vangelo conferma che poi le donne hanno parlato e la storia è andata avanti. Questa finale, però, crea un effetto sconcertante. Non ci aspetteremmo che il Vangelo finisse così. Obbliga il lettore a ricominciare a leggere il Vangelo secondo l’invito dell’angelo che esorta a tornare in Galilea, come a dire: «Ricominciate il cammino: incontrerete Gesù e – scoprirete – che tutti gli incontri hanno le stesse caratteristiche degli incontri con il Risorto».
Tuttavia, probabilmente agli inizi del II secolo, si è sentito il bisogno di aggiungere un’altra conclusione al Vangelo di Marco, una conclusione che mette un po’ meno in crisi. Infatti, il testo riassume, per così dire, gli episodi pasquali: l’apparizione a Maria di Magdala, ai due di Emmaus, agli Undici… Però il riferimento si conclude sempre con una parola piuttosto dura: «Non credettero». Anche in quest’ultima apparizione, quella in mezzo ai discepoli mentre stavano a mensa, Gesù li deve rimproverare per la loro incredulità e durezza di cuore. Poi, insieme al rimprovero, Gesù dice letteralmente: «Andando in tutto il mondo predicate il Vangelo ad ogni creatura». Come è possibile se non credono? Noi avremmo detto: «Se sei in difficoltà, fermati, rifletti, prega, fai un ritiro, confrontati col tuo padre spirituale…». Invece, Gesù sta dicendo che persino il dubbio può essere motore per il tuo annuncio missionario. Se una parte di te è in difficoltà con la fede e stai lottando, può essere che il tuo annuncio sia più vero. Se tu fossi già a posto e non avessi alcun combattimento dentro di te probabilmente faresti più fatica a metterti nei panni di chi ti ascolta. Non riusciresti ad essere vicino a chi cerca il senso della vita. Dubiti? Allora vai ad annunciare, perché annunciando incontrerai il Signore, che si farà presente nel tuo annuncio. Gli studiosi di Marco dicono che questa ultima parte del suo Vangelo è, per così dire, una sorta di piccolo manuale per il missionario, perché è una sintesi con alcune apparizioni, con la registrazione dei dubbi con relativa risposta, ecc. È bello conoscere la storia di questi versetti, che probabilmente i primi cristiani portavano con sé per essere incoraggiati ad annunciare il Vangelo, quando dovevano riferire quanto era successo a Pietro, agli apostoli, alle donne.
Permettete un’ultima brevissima considerazione. Ho sottolineato che, alla lettera, Gesù dice: «Andando in tutto il mondo annunciate tutte queste cose…». Gesù non dice soltanto di raggiungere tutti, di andare in tutti gli angoli della terra. La prima parola è un verbo nella forma di gerundio: «Andando», cioè «mentre andate», ad indicare movimento, partecipazione, relazione. Andando, cioè vivendo, dite il Vangelo con la vostra vita. Anzi, che la vostra vita sia un annuncio. Evangelo è parola che significa “buona notizia”, “gioia”, come ci ricorda papa Francesco (Evangelii gaudium).
La pagina di Marco si conclude con la proclamazione di una svolta, di un cambiamento, di una novità, che riguarda persino le relazioni con il creato e con gli altri: scacciare i demoni, parlare lingue nuove, prendere in mano serpenti… Nessuna magia, si tratta semplicemente di scacciare il pensiero che non sei amato: questo è il dubbio che il diavolo può insinuare. Azzeccherai le parole giuste. Inoltre, sarai creativo, non avrai paura di nulla, persuaso che il Signore opera con te. Il Vangelo si chiude proprio così: «Allora essi partirono…». Quando parliamo di missione ci si riferisce non tanto all’attività della Chiesa nei paesi lontani, ma a quel compito di annuncio e di testimonianza che Gesù consegna ad ogni cristiano nel giorno del Battesimo e che affida alle nostre comunità.  Ogni cristiano, ogni battezzato, parte ogni giorno, incaricato della missione di far conoscere Gesù. Ripeto: prima con la vita, soltanto dopo con le parole; con la vita «predicarono dappertutto, mentre il Signore agiva insieme con loro». L’evangelizzatore sa che accanto a lui ha il Signore, anzi sa che il Signore lo precede. In questi giorni abbiamo constatato le meraviglie che il Signore fa in mezzo a noi.

Omelia alla Giornata sacerdotale durante il pellegrinaggio USTAL a Loreto

Loreto (AN), Basilica della Santa Casa, 30 luglio 2021

Gal 4,4-5
Magnificat Lc 1,46-55
Lc 1,26-38

All’epoca ero troppo giovane per capire la portata del dibattito che, dentro e fuori il Concilio Vaticano II, andava infiammando i teologi. Era l’inizio degli anni ‘60. Qualcosa era arrivato anche a noi studenti del Seminario.
Questo il dibattito: scrivere un documento intero del Concilio sulla Madonna oppure dedicarle un capitolo alla fine del documento fondamentale, la costituzione dogmatica sulla Chiesa? Parrà una questione solo tecnica e secondaria. In realtà, la decisione avrebbe orientato la fede della Chiesa circa il “posto” di Maria nella vita, nel culto e nella teologia della Chiesa stessa. A partire dal XVII secolo ci fu tutto un movimento mariano che ha fatto devotamente a gara a chi inventava un titolo inedito in onore della Madonna, o lanciava una nuova festa, o ne affermava un privilegio in più. Lo sforzo del Concilio, invece, si rivolse a ridimensionare gli aspetti devozionali per ricollocare la Madre del Signore all’interno della storia della salvezza, accanto al Cristo, e quindi all’interno della Chiesa: la Madonna è il membro più eccelso, il modello più perfetto, ma non al di fuori, né al di sopra della Chiesa. Maria brilla dello splendore del Verbo incarnato. Ciò che il Concilio insegna di Maria, Vergine, Madre di Dio, non è stato per nulla sminuito, ma semplicemente inserito in una prospettiva che sottolinea, senza equivoci, la sua condizione di creatura, di redenta, di membro del Corpo Mistico.
Riguardo alla Madonna, il Concilio ha tenuto in gran conto l’esigenza di un ritorno alla sobrietà delle Scritture. Così facendo, ha reso la figura della Madonna più grande e più vicina allo stesso tempo. È avvenuto come quando si restaura un quadro togliendo gli strati di tempera più recenti che formano quasi una crosta: l’immagine riappare nello splendore dei suoi colori originali, voluti dall’artista. Penso al restauro della Madonna di Montegiardino (RSM), uno dei quadri più belli che abbiamo sul nostro territorio.
«È la prima volta – disse Paolo VI alla fine dell’ultima Sessione del Vaticano II – che un Concilio ecumenico presenta una sintesi così vasta della dottrina cattolica circa il posto che Maria Santissima occupa nel mistero di Cristo e della Chiesa». È questo il motivo per cui sacerdoti, catechisti, educatori, quando parlano di Maria, partono sempre da quanto di lei si dice nel Nuovo Testamento. È un nuovo modo di parlare di Maria, più essenziale, meno indulgente al sentimentalismo (non che non ci voglia il sentimento…). Si potrebbe dire che il Nuovo Testamento abbia percorso tre tappe successive.

Nel primo momento – in un primo strato del Nuovo Testamento – tutta l’attenzione è concentrata su Gesù, il Cristo. La Madonna è annunciata come colei che genera: «Quando venne la pienezza del tempo Dio mandò suo Figlio, nato da una donna» (Gal 4,4). Appena un accenno, neppure il nome, ma un accenno preziosissimo: la grandezza di Maria sta nell’essere la Madre del Signore.

Nello strato successivo della formazione del Nuovo Testamento si mette in luce Gesù nel suo ambiente; la sua prima predicazione registra una crisi: una parte degli ascoltatori non crede a Gesù, fra questi anche un gruppo di suoi parenti. Gli autori dei Vangeli sono preoccupati di illustrare quali siano i veri legami con Gesù: non quelli della carne e del sangue, ma quelli della fede, di chi ascolta la sua parola e fa la volontà del Padre. In questo contesto Maria viene indicata come la Madre di Gesù, prima discepola. Apparentemente ci sono dei testi sulla Madonna che sembrano riduttivi. «Gesù, qui fuori ci sono tua madre e i tuoi fratelli», dicono i discepoli a Gesù. E lui, volgendo lo sguardo a loro, dice: «Chi è mia madre e chi sono i miei fratelli? Chi fa la volontà del Padre mio è per me madre, fratello, sorella…». Non è un ridimensionamento di Maria, ma è dire la sua grandezza di discepola. Maria ha concepito il Signore, prima che fisicamente nel suo grembo, nel suo cuore con il suo “sì” alla chiamata del Signore.

Nel terzo strato, a partire dalla comunità di Gerusalemme, si è sentita l’esigenza di incorporare all’annuncio di Gesù anche il racconto delle sue origini umane. Sono i cosiddetti Vangeli dell’infanzia. Nel Vangelo di Luca la Madre di Gesù ha un’enorme importanza: brilla il suo “sì”, risplende l’adombramento dello Spirito Santo su di lei, come un tempo sull’arca durante l’esodo. Luca poi, aprendo il racconto degli Atti degli Apostoli, pone la presenza orante di Maria nel Cenacolo, partecipe alle vicende della Chiesa nascente, madre dei discepoli del Signore (Gv 19,25-27).
Gli scritti giovannei – Vangelo ed Apocalisse – collocano la Madre di Gesù nel mistero della “sua ora”, quella della morte e risurrezione. In questo mistero, con un procedimento di inclusione, Maria è posta all’inizio e alla fine della vita pubblica di Gesù, a Cana quando anticipa “l’ora” di Gesù e sul Calvario. Nell’Apocalisse Maria è la donna vestita di sole. Oso chiamarla Cielo di Dio.
A volte tra i cristiani serpeggia l’obiezione che la Bibbia dica troppo poco di Maria e che sarebbe stata la pietà popolare a sviluppare e imporre dogmi e determinate forme di devozione, sancite poi dall’autorità della Chiesa. Occorrono alcune precisazioni. Non c’è una verità mariana a sé stante, si tratta sempre di verità relative a Cristo o alla Chiesa. Il dogma della incarnazione, ad esempio, include Maria Madre di Dio, quello dell’Immacolata Concezione è dentro al grande dogma della redenzione, quello dell’Assunzione di Maria al Cielo dentro alla grande verità della risurrezione della carne. Non tutto quello che la fede dice di Maria è formulato esplicitamente nelle Scritture, ma ad esse fa riferimento, appoggiandosi alla lettura che ne hanno fatto la Tradizione, i Padri e la Liturgia. La Scrittura, ad esempio, non afferma espressamente l’Assunzione, tuttavia, insieme alla Tradizione, mostra Maria unita alla persona e all’opera del Salvatore; da questa sua unione deriva la sua partecipazione al trionfo glorioso di Cristo. Altrettanto dobbiamo dire dell’Immacolata Concezione di Maria, una qualità implicitamente affermata nel Vangelo, quando riferisce le parole dell’angelo: «Ti saluto (rallegrati), o piena di grazia, il Signore è con te… Hai trovato grazia presso Dio» (Lc 1,28.30). Nella Tradizione della Chiesa il comune senso della fede ha riconosciuto in Maria una incomparabile innocenza e santità, arrivando ad acquisire anche la certezza della sua esenzione dal peccato originale. Maria è figlia di Adamo e nostra sorella, congiunta con tutti gli uomini, bisognosi di essere salvati. Anche lei è stata redenta da Cristo, ma redenta in modo ancor più sublime: «Non viene tirata fuori dal fango come noi; è preservata dal cadervi» (CEI, La verità vi farà liberi, Catechismo degli adulti, n.764).
Siamo qui questa mattina nella casa di Maria, qui dove il Verbo si è fatto carne, dove il Cielo si è unito alla terra. Maria è il punto di tangenza fra il Cielo e la terra, quasi sacramento dell’incontro con Dio e inizio della Chiesa sacramento. Mentre accarezziamo le pietre della Santa Casa, annerite dal tempo, così eloquenti nella loro povertà, così avvolte dal silenzio, rinnoviamo il nostro “sì” (ognuno sa a che cosa riferirsi). Affidiamo alla carità della Madre del Signore ogni nostra preoccupazione, le sofferenze di questi giorni difficili, il desiderio di una ripresa, anzi di una rinascita. La vogliamo pregare con qualcuna delle parole di Dante Alighieri: «Vergine Madre, figlia del tuo figlio, umile e alta più che creatura, termine fisso d’etterno consiglio, tu se’ colei che l’umana natura nobilitasti sì, che ‘l suo fattore non disdegnò di farsi sua fattura. Nel ventre tuo si raccese l’amore, per lo cui caldo ne l’etterna pace così è germinato questo fiore. Qui se’ a noi meridïana face di caritate, e giuso, intra ‘ mortali, se’ di speranza fontana vivace. Donna, se’ tanto grande e tanto vali, che qual vuol grazia e a te non ricorre, sua disïanza vuol volar sanz’ali» (Dante Alighieri, Divina Commedia, Canto XXXIII del Paradiso). Così sia.