Omelia nella XXX domenica del Tempo Ordinario

Fratte (PU), 24 ottobre 2021

S. Cresime

Ger 31,7-9
Sal 125
Eb 5,1-6
Mc 10,46-52

Cari ragazzi,
è un giorno molto importante per voi. Suppongo lo ricorderete per molto tempo. Spero ricordiate anche me, il Vescovo Andrea, che vi ha dato la Cresima.
Tutti ascolteremo da voi le risposte, forti e chiare, alle domande che vi rivolgerò: «Credete nel Padre, nel Figlio, nello Spirito Santo?». Dovrete rispondere solo voi; l’assemblea dirà l’Amen finale.
Tante volte ci troviamo ad essere cristiani senza mai aver deciso di esserlo. Ecco perché la nostra fede va “a scarto ridotto”, con poco entusiasmo, come una candela con uno stoppino che a volte arde e a volte è spento. Oggi, voi ragazzi, decidete di essere cristiani. Siete giovani: tante volte nella vita dovrete ripetere il vostro “sì” a Gesù, se volete essere suoi discepoli.
Tra poco, insieme al vostro parroco don Giorgio, farò un segno che compivano gli apostoli: stenderò le mani su di voi invocando lo Spirito Santo. Lo Spirito Santo non è visibile e nemmeno raffigurabile; abbiamo alcune metafore per spiegarlo: è come un vento che soffia, come un respiro che dà vita, come lingua di fuoco che illumina. Lo Spirito scenderà anche su tutti noi, già cresimati, per farci rivivere il sacramento ricevuto. Poi traccerò sulla vostra fronte un Segno di Croce con un olio profumato, il Crisma (da cui la parola Cresima e la parola Cristo, l’unto e il profumato per eccellenza). Da qui deriva la metafora più bella per parlare della terza Divina Persona, lo Spirito Santo: il bacio. Il Padre è la prima Persona che nominiamo tracciando il Segno della croce ed è l’Amante, colui che ama, che parte per primo, che è all’origine; poi, mettendo la mano sul cuore, nominiamo il Figlio; anche lui è da sempre, è amore che sa accogliere: è importante prendere l’iniziativa di amare, ma altrettanto importante è lasciarsi amare. Il Figlio è il “tu” che sta di fronte al Padre ed è, per definizione, l’eternamente Amato. La terza Divina Persona, quella che chiamiamo Spirito Santo, che nominiamo sfiorando le spalle prima di congiungere le mani, è il Bacio. Questa è la metafora che a me piace di più.
Dopo avervi profumato la fronte concluderò con un piccolo schiaffo per dire: «Da adesso tocca a te testimoniare Gesù e il suo Vangelo». Le proposte di Gesù sono “in salita”. Ad esempio, Gesù dice: «Perdonare settanta volte sette». Con le nostre sole forze non è possibile. Oppure dice di «superare le tentazioni» e di “tagliare” per far crescere. La strada di Gesù è una strada in salita, com’era la strada che partiva da Gerico e saliva a Gerusalemme, una strada con più di mille metri di dislivello. Gerico è 400 metri sotto il livello del mare, Gerusalemme a 700 metri sopra. Gesù, insieme alla folla, sale verso Gerusalemme. Una strada molto in salita perché sapeva cosa lo attendeva. Gerico ci fa pensare anche alla città che un tempo Giosuè conquistò facendo suonare le trombe, lanciando il grido di battaglia. A Gerico, sulla porta della città, seduto fra gli altri questuanti, c’è il cieco Bartimeo. Ha sentito parlare del giovane profeta Gesù, perciò vuole incontrarlo: considera quella la sua ultima chance per essere guarito. Ma a Gerico c’è sempre un “muro”: in questo caso il muro della folla che circonda Gesù e quello dei discepoli che, come guardie del corpo, lo accompagnano; poi c’è la folla dei pellegrini che salgono a Gerusalemme. C’è, soprattutto, il muro della sua personale condizione: è un barbone ed è murato dentro al suo buio perché è cieco. Non possiede altro che un logoro mantello, che però è la sua casa, gli serve per coprirsi la notte e come attrezzo per raccogliere le monetine che i passanti gli gettano. Bartimeo non ha che un’arma: alzare la voce. Allora, come Giosuè, dà fiato alle trombe e lancia il suo grido: «Gesù, Figlio di Davide, abbi pietà di me». La folla lo ignora. Passa. Quelle persone stanno seguendo Gesù, ma non si accorgono di quel cieco che grida. Alcuni lo sgridano perché lo trovano impertinente: «Perché disturbi il Maestro?». Ma lui insiste e il suo grido raggiunge il cuore di Gesù. Ecco la vera preghiera. È un grido: «Signore, salvami! Guariscimi dalla cecità che mi impedisce di incontrare, di ritrovare la strada della vita». Gesù che fa? Si ferma. Lo fa chiamare. Bartimeo, stupito e confuso, esita tanto che devono spingerlo: «Coraggio, alzati, chiama te!». Esita perché Gesù gli sta chiedendo di abbandonare la sua “postazione strategica”. Poi Bartimeo si decide, getta via il mantello, balza in piedi e si presenta a Gesù. Solo allora sarà guarito. Anzi, non avendo più nulla – dice il Vangelo – «prese a seguire Gesù», diventa un suo discepolo. Notate: si mette a seguire Gesù ancor prima di vederci, sulla fiducia, sulla parola del Maestro, tant’è vero che Gesù riconoscerà che non è lui a fare il miracolo: «La tua fede ti ha salvato». Sia così anche per noi.
Non lasceremo questa nostra chiesa senza aver detto al Signore Gesù il nostro proposito di seguirlo!

Omelia nella XXIX domenica del Tempo Ordinario

Fiorentino (RSM), 17 ottobre 2021

Is 53,10-11
Sal 32
Eb 4,14-16
Mc 10,35-45

Talvolta qualche confratello vescovo mi confida la sua preoccupazione quando celebra il sacramento della Cresima, perché ha l’impressione che, non solo i ragazzi, ma anche gli adulti, non sappiano chi è lo Spirito Santo. Qualcuno pensa ad una vaga entità, ad una nube misteriosa ed evanescente. Lo Spirito Santo è la terza Divina Persona della Trinità. Crediamo in un solo Dio, ma quando noi cristiani lo nominiamo diciamo che è “Padre, Figlio e Spirito Santo”. Con il Segno di Croce indichiamo un abbraccio: è Dio Trinità d’amore che vuole coinvolgerci nella danza fra le tre Divine Persone.
In questi giorni, celebrando le Sante Cresime in altre comunità, parlando ai ragazzi, ho immaginato una sorta di intervista (può considerarsi anche una forma di preghiera) in cui mi rivolgevo a ciascuna delle Divine Persone. Ho iniziato dalla prima Divina Persona, quella che noi, con parola umana, chiamiamo Padre (non perché ci sia una classifica, ma perchè è il primo da cui cominciamo). Il Padre è eterno amore, dono di sé, totale svuotamento di sé per essere tutto “fuori di sé”, perché ama immensamente. Quando mi rivolgo al Padre e chiedo: «Tu chi sei?», lui risponde: «Io non sono. Non cercare in me un’essenza perché sono completamente rovesciato “fuori di me” per amare. Mi trovo nel “tu” che mi sta di fronte”. Vado dal “tu” che gli sta di fronte, che è il Figlio, e ripeto la domanda: «Tu chi sei?». Lui mi risponde: «Sono totale vuoto, perché sono totale accoglienza, assoluta concavità. Non esisto per me. La forma del mio amore è quella di lasciarmi amare». Resto un po’ perplesso… È grande amare, prendere l’iniziativa, donarsi, spendersi, ma è altrettanto grande lasciarsi amare: è necessario un vuoto infinito per accogliere un amore infinito. Per questo diciamo che il Figlio è Dio come il Padre, infinito, eterno e onnipotente come il Padre. Mi avvicino alla terza Divina Persona, lo Spirito Santo, e gli chiedo: “Tu chi sei?”. Lo Spirito Santo mi risponde che è l’amore col quale il Padre ama e l’accoglienza del Figlio fatti Persona. Che io conosca o non conosca, che io creda o non creda, è vero lo stesso. Il Padre ci fa capire lo Spirito Santo attraverso Gesù che è venuto in mezzo a noi, si è fatto uomo: Gesù di Nazaret. Gesù è vissuto concretamente a Nazaret con la sua mamma Maria e con il suo padre legale Giuseppe: nel concreto della sua vicenda umana ha vissuto quella relazione che dall’eternità vive con il Padre e con lo Spirito Santo. Vale anche per noi – chiamati a vivere con lo stile di Dio Trinità d’Amore – dedicare tutta la nostra vita alla relazione; è il lavoro più importante, più prezioso, più utile, più necessario, più bello. Ecco perché dovremmo essere attenti, vigilanti, riposati, belli, in forma, perché l’obiettivo della vita, come è stato per Gesù, è amare: lì c’è la pienezza della realizzazione.
Gesù ha amato fino in fondo, fino a dare la vita completamente, senza risparmiarsi. Nella Prima Lettura viene profetizzato lo stile di Gesù, lo stile del Servo sofferente. In ebraico si usa la stessa parola per dire “servo” e per dire “figlio”.
Il Vangelo ci parla di due giovani, Giacomo e Giovanni. Erano figli di Zebedeo, che aveva un’azienda ittica. Avevano incontrato Gesù – anzi è stato lui ad incontrare loro – e avevano preso a seguirlo. I due fratelli fanno a Gesù una domanda: «Maestro, vogliamo che tu faccia quello che ti chiederemo». Saranno sembrati impertinenti, ma l’evangelista Marco ha voluto riportare la loro richiesta, anche se sarebbero diventati colonne della Chiesa (sono apostoli), molto importanti nella comunità dei primi cristiani (Matteo, che scrive dopo Marco, risparmia la brutta figura a Giacomo e Giovanni, mettendo la stessa domanda sulle labbra della mamma dei due apostoli). Gesù accetta la domanda, ma aggiunge: «Avete idea di quello che state chiedendo?». «Vogliamo entrare nella tua gloria e stare uno a destra e uno alla sinistra del tuo trono», rispondono Giacomo e Giovanni.
La gloria di Gesù è la crocifissione: «Quando sarò innalzato da terra attirerò tutti a me» (Gv 12,32). Il suo trono sarà la croce, punto di gravitazione universale. A destra e a sinistra vi saranno due ladroni!  La gloria di Gesù non è la celebrità, non è la fama: la gloria che il Padre gli dà è amare fino in fondo. Quando Gesù è nel Getsemani, sapendo cosa stava per succedere prega: «Padre, allontana da me questo calice; però si compia non come voglio io, ma come vuoi tu: devo amare fino in fondo (cfr. Mc 14,36)». Gesù allude ad un Battesimo, che altro non è che l’immersione in questa dinamica.
Gesù effonde sui discepoli – siamo tutti noi – il suo Spirito, mette in loro la capacità di amare fino in fondo.
Cari ragazzi, la Cresima è questo. Tra poco verrete davanti e vi chiederò se volete essere cristiani. C’è tanta gente che si trova ad essere cristiana senza mai aver deciso di esserlo. Oggi tocca a voi decidere se volete esserlo (ma tante volte dovrete dire di nuovo il vostro “sì”). Insieme a don Achille stenderò le mani per invocare su di voi lo Spirito del Signore e vi ungerò la fronte con un olio profumato che si chiama crisma. Prendetelo come un bacio che Gesù vi imprime. Poi vi darò un piccolo schiaffo (è una carezza!) per dire che adesso siete grandi, adesso tocca a voi!

Omelia nella XXVIII domenica del Tempo Ordinario

Novafeltria (RN), 10 ottobre 2021

Giornata Unitaria dell’Azione Cattolica

Sap 7,7-11
Sal 89
Eb 4,12-13
Mc 10,17-30

Gli occhi di Gesù brillano di commozione. C’è “un tale” che vuole fare strada con lui. Nel Vangelo di Marco i verbi di moto hanno un significato particolarissimo. Da una parte denotano il farsi vicino di Dio attraverso Gesù, dall’altra i passi di Gesù testimoniano la sua decisione di salire a Gerusalemme, ben sapendo cosa significhi, cosa accadrà. Dunque, c’è “un tale” che vuole andare con lui. Gesù lo guarda con infinito amore: «Gesù, fissatolo, lo amò». Ma c’è un problema di comunicazione, un fraintendimento. Gesù parla di un vuoto, di una mancanza che può essere radicalmente colmata. Quel giovane crede di colmare il vuoto con le cose di cui dispone e persino con le sue virtù. Gesù sta sviluppando con lui un bellissimo rapporto, al punto tale che il giovane può aprirsi, può raccontare qualcosa della sua infanzia nella quale ha osservato tutti i comandamenti. Gesù continua: «C’è una cosa che ti manca. Il fatto che tu abbia un vuoto dentro di te è provvidenziale: Dio ti ha creato con questo vuoto perché diventi occasione per cercare la vera pienezza». Il giovane aveva a cuore l’osservanza scrupolosa dei comandamenti: era il suo vanto! E tuttavia confessa che è in ricerca. Per un vero israelita osservare i comandamenti non significava di per sé andare davanti a Dio con la collezione delle proprie medaglie al valore, dei meriti, per aver diritto al Regno di Dio. I comandamenti sono stati dati nel contesto dell’Alleanza: ogni comandamento proclama che Dio si è fatto tuo alleato, che ti ama immensamente. Ogni comandamento osservato non è altro che la celebrazione dell’Alleanza. Ma quel giovane ha fatto dei comandamenti il suo trofeo. È talmente bravo che fa persino soggezione; è posseduto da quello che possiede! Allora Gesù gli chiede una cosa molto semplice: «Seguimi. Colma quel vuoto con la mia presenza, con il mio amore». Il problema, di per sé, non è la ricchezza, se usata bene. Ricordo un Natale di alcuni anni fa, in cui mio fratello missionario venne in vacanza in Italia; abbiamo attraversato la città piena di luminarie, bancarelle, persone che compravano regali e gli dissi: «Silvio, ti dà fastidio questo sfarzo?». Rispose: «No, è bello, magari ci fosse anche in Africa!». Dunque, il problema non è la ricchezza. Anche la mancanza di ricchezza può renderci ansiosi, invidiosi, iperattivi, nel tentativo di avere di più. Il problema è la mancanza di libertà. Solo quando il nostro cuore è finalmente sgombro possiamo metterci davanti a Gesù e dirgli: «Ti accolgo, ti voglio bene, ti seguo».
Che cosa mi manca? Quel giovane avrebbe dovuto dire: «Mi manchi solo tu». Invece, «se ne andò via triste. Aveva molti beni».
Vi invito, questa settimana, a farvi tornare alla mente e al cuore la domanda: «Che cosa mi manca?». «Se ci sei tu, Signore, tutto il resto diventa assolutamente relativo. Non mi cruccia più non avere questo o quello, trovarmi scarso su un punto e difettoso in un altro: “Se ci tu, Gesù, c’è la pienezza: c’è tutto”».
Vi faccio notare i tre verbi con i quali si è espresso il giovane ricco: «Che cosa devo fare per avere il Regno di Dio». «Che cosa devo»: il volontarismo, l’atteggiamento di chi presume di avere risorse, forza (tanto da presumere di poter fare da sé). «…fare…»: il pragmatismo, il moltiplicare le opere, le preghiere, le penitenze. «… per avere»: non si merita, ma si riceve in dono il Regno di Dio. Seguendo Gesù, diventiamo liberi e lo si diventa anche davanti alle ricchezze, col disappunto a causa delle insufficienze, del “guardarsi” che a volte paralizza (vedendo i propri limiti si smette di impegnarsi, ci si sottrae).
Quando ci fu il terremoto a Ferrara, la mia città di origine, dopo il sopralluogo un ingegnere mi chiese di lasciare immediatamente la casa canonica perché non era strutturalmente sicura; avrei dovuto prendere ciò che mi serviva e andare via subito… Pretendeva che “facessi fagotto” velocemente con le cose essenziali. Fu un momento molto imbarazzante perché credevo di essere libero da tante cose, invece volevo i miei libri, le fotografie, i vestiti… Propongo, questa settimana, di provare a privarci di qualcosa e farne dono a qualcuno, per dire a Gesù: «Solo tu puoi colmare il vuoto che c’è nel mio cuore».

Omelia nella Messa di Investitura dei Capitani Reggenti

San Marino Città (RSM), 1° ottobre 2021

Is 43,1-5°; Sal 139; Mt 7,24-29

Eccellenze,
Signore e Signori,
abbiamo ascoltato le parole di Dio dal Libro del profeta Isaia: «Non temere, perché io ti ho riscattato, ti ho chiamato per nome: tu mi appartieni… Tu sei prezioso ai miei occhi, perché sei degno di stima e io ti amo… Non temere perché io sono con te».
Parola dettate ad Israele, l’antico popolo dell’Alleanza.
Parole proclamate a noi in questo tempo difficile e complicato.
Parole sussurrate al cuore inquieto di chi cerca senso e verità.
Parole di un Dio che non è stanco della sua creatura. Al contrario. Ogni uomo è prezioso, unico, speciale. Dio dice di più: «Sei degno di stima»; e più ancora: «Sei amabile e amato»!
C’è in questo oracolo del profeta Isaia un crescendo: gran cosa esser prezioso, più ancora esser degno di stima, infinitamente di più essere amabile, amato, riconosciuto capace di amare. Questo annuncio fa uscire dalla tristezza, infonde speranza, sospinge a ricominciare nuovamente a costruire e ad amare. È una sfida: vorrei proporla ad ogni mio fratello in modo che creda ascoltando, speri credendo e ami sperando (cfr. Agostino, Ep. 120,8).
Nel brano evangelico il Signore Gesù invita a costruire l’edificio solido della nostra convivenza umana su rapporti autentici. Non bastano le dichiarazioni di intenti, occorrono convinzioni profonde e scelte coraggiose e pratiche. Il buon architetto – ed ognuno di noi lo è – costruisce sulla salda roccia della coscienza.
La coscienza morale è una facoltà conoscitiva che dice al cuore, senza errore, se il pensare, il parlare e l’agire sono concordi ai valori assunti come anima della propria esistenza e della propria missione.
La coscienza allora – come la bussola che segna infallibilmente il Nord – denuncia se le scelte sono conformi o non conformi ai valori che portiamo dentro. Fortunato chi si mette in ascolto della coscienza, guai a chi non l’ascolta. Ne verrà gratificazione o rimorso.
La coscienza – come uno scrigno che custodisce gelosamente gioielli preziosi – racchiude verità fondamentali sul bene e sul male, gli insegnamenti dei sapienti e l’etica universale: «Non fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te», o come suggerisce il Vangelo in forma positiva: «Fare agli altri quello che vorresti fosse fatto a te» (cfr. Mt 7,12). Guai ai cuori e alle intelligenze distratte, superficiali e senza contemplazione. Decisiva l’educazione della coscienza. Una coscienza ben formata non offre mai alibi all’individualismo, al disimpegno e al relativismo. La coscienza fa sentire la sua voce sul bene di tutti e di ciascuno.
La coscienza – come una molla sempre in tensione – non si ferma all’esigenza minima del precetto, ma spinge al meglio, al di più, a compiti intraprendenti di bene per sé e per gli altri.
Il brano evangelico conclude: «Quando Gesù ebbe terminato questi discorsi, le folle erano stupite del suo insegnamento: egli, infatti, insegnava loro come uno che ha autorità». Così è per noi.

Comunicato dopo l’esito del Referendum sulla depenalizzazione dell’interruzione volontaria della gravidanza

Pennabilli, 27 settembre 2021

Avevo concluso così il mio ultimo messaggio prima del Referendum (23 settembre ndr): «Cerco amici per riorganizzare la speranza. Tutti sono invitati». Confermo l’invito per un rinnovato impegno verso la vita: subito, sempre, con gioia.
Adesso viene il momento della coerenza: non con dichiarazioni o proclami, ma con un fattivo impegno.
Accolgo e invito a far circolare le testimonianze di aiuto alle donne e alle famiglie e ad esprimere vicinanza a chi ha vissuto il dramma dell’interruzione volontaria della gravidanza: è uno spazio di sofferenza che ci unisce e ci provoca.
Ringrazio chi si è impegnato in questa campagna ed ha speso tempo, intelligenza, cuore; sia chi l’ha fatto per un profondo senso religioso della vita, sia chi l’ha fatto alla luce della ragione. Per gli uni e per gli altri resta inaccettabile che vi siano mani che sopprimono un germoglio già pieno di vita nel grembo.
Quanto accaduto ci coinvolge in campo educativo per un’etica della responsabilità, che non prevede scorciatoie né facili pendii, per orientare al meglio le giovani generazioni.
Rimane una domanda aperta: a quanto saranno serviti dibattiti, confronti, riflessioni se solo una percentuale minima di Sammarinesi si è espressa col voto?
Ora la parola passa al Legislatore. Auspico l’offerta di un quadro legislativo di vero aiuto alla donna, di tutela della vita e di accoglienza dell’obiezione di coscienza.
Ci sarà una legislazione diversa dall’attuale; si dà una libertà che prima non era prevista. Spero non sia un incentivo ad una prassi abortiva, ad una leggerezza nelle decisioni e, come ha detto papa Francesco questa mattina alla Pontificia Accademia per la Vita, «ad una bruttissima abitudine ad uccidere».
Rilancio, appoggio, esorto tutti alla collaborazione con l’Associazione sammarinese Accoglienza della Vita e con l’Associazione Papa Giovanni XXIII. Do appuntamento fin d’ora alla “Veglia per la Vita nascente” lunedì 29 novembre: quest’anno avrà un coinvolgimento particolare e verrà celebrata a San Marino. Nei prossimi giorni si valuteranno altre proposte di impegno per la vita.
Auguro che ognuno sappia cogliere l’occasione per un’ulteriore riflessione sul valore della vita.

Comunicato stampa – Il Vangelo della vita

Messaggio del Vescovo Andrea in vista del Referendum sulla depenalizzazione dell’interruzione volontaria di gravidanza nella Repubblica di San Marino (26 settembre 2021)

Il Vangelo della vita

Senza se, senza ma, senza forse, siamo per l’accoglienza della vita. E non è per difendere un principio astratto, ma per accogliere una persona: tale è il concepito, benché fragile e indifeso.
Siamo dalla parte della mamma e del futuro papà; in particolare non vogliamo che la donna sia lasciata sola né prima, né dopo la nascita del suo bimbo. Nella maternità risplende in modo mirabile la sua bellezza. L’interruzione volontaria della gravidanza non è mai senza conseguenze per la donna, a motivo del legame unico e sublime con la creatura che porta in grembo. Crediamo che nessuna donna affronti l’aborto a cuor leggero; è sempre un dramma: non vogliamo lasciare nulla di intentato per trovare alternative. Dobbiamo far sì che mai più una vita non sbocci per insicurezza, sfiducia, solitudine, mancanza di custodia e di tutele o per motivi economici.

Tante cose sono state dette in queste settimane, talvolta con toni accesi. Ci siamo ascoltati profondamente? La posta in gioco è davvero alta, ma questo non giustifica la rissa. Ed ora come vivere questi ultimi giorni di riflessione e di raccoglimento? Come vivere l’occasione del voto?
Mettere la propria scheda nell’urna è un diritto-dovere, partecipazione al cammino della comunità, nel segreto della coscienza, in totale libertà. È un gesto importante, un atto d’amore, un’opportunità per ripensare il valore della vita, dell’esserci e del non esserci, per renderci conto dello spessore di questo dono. Per sé e per gli altri.

Oggi, col progresso delle scienze, con i mezzi a disposizione, con la crescita del senso sociale, si può fare davvero tanto per accogliere la vita nascente. L’indice di sviluppo di una società, crediamo, non si valuti tanto con l’economia, ma con il rispetto dei diritti di tutti, a partire da chi è fragile, indifeso, nascituro.

E verranno i giorni del dopo-referendum. Qualunque sia l’esito, ci impegneremo con coerenza per testimoniare il Vangelo della vita, per una cultura ed una politica favorevoli alla famiglia, per un sussulto di consapevolezza e di responsabilità. Cercheremo amici per riorganizzare la speranza. Tutti sono invitati.

+ Andrea Turazzi
Vescovo di San Marino-Montefeltro

Omelia nella XXIII domenica del Tempo Ordinario

Pennabilli (RN), Monastero Agostiniane, 5 settembre 2021

Celebrazione conclusiva della Summer School
“Il giardino. I giovani, il pianeta, il futuro”

Is 35,4-7
Sal 145
Gc 2,1-5
Mc 7,31-37

Una sorpresa: la pagina evangelica di oggi dà un colpo d’ala al nostro lavoro di questi giorni. È tornata di frequente la consapevolezza che tutto è connesso e che l’uomo è sempre più cosciente di questo. Anche le scienze umane confermano questa radicale vocazione dell’essere.

L’evangelista Marco ci riferisce la guarigione che Gesù opera ad un sordomuto. L’anonimo personaggio evangelico è muto perché non sente. Questo è significativo di come noi umani funzioniamo: elaboriamo tutto ciò che sentiamo, tutto ciò di cui siamo nutriti e tutto ciò che ci accade. Parliamo perché ascoltiamo. Viviamo perché siamo in relazione. Se non siamo capaci di ascoltare come il sordomuto, non riusciamo a “dire bene” o a “dire cose belle” (come lascia intendere l’aggettivo greco). La nostra stessa vita è parola. Ma non è mai perfetta. Il nostro modo di essere, il nostro stile, il nostro stare con gli altri, parla. Siamo su questa terra per parlare (comunicare). Le prime grida di un bambino dicono la sua voglia di esprimersi, una voglia che continua tutta la vita. Noi tutti vorremmo esprimerci al meglio, ma spesso non vi riusciamo. A volte le frustrazioni più grandi derivano dal non essere stati capaci di dire il nostro desiderio più profondo e più vero.
Il sordomuto è metafora dell’uomo “incompleto”, una creatura di Dio che porta una ferita: non riesce ad ascoltare e a parlare, condizione che non lo fa essere in relazione. Di fronte a quest’uomo “incompleto” Gesù si presenta come colui che porta a compimento la creazione.
Non è un caso se il Vangelo di oggi inizia con l’indicazione di un territorio pagano. Marco vuol farci capire che Gesù non è solo il Messia di Israele, ma è Messia per tutta l’umanità: il suo messaggio è per tutti. È appunto in questo territorio che gli conducono il sordomuto. Quel sordomuto è emblema di tutti noi. Anche a noi accade di non riuscire ad ascoltare profondamente. Così viene presentata a Gesù la nostra condizione. Che cosa viene chiesto a Gesù? Di imporre le mani al sordomuto: chiedono un gesto che esprima contatto, contatto fisico. Dopo anni di Covid abbiamo imparato quanto questo sia decisivo e rischioso. Capiamo meglio le usanze in Israele: il contatto fisico diventa contagio; chi tocca un essere impuro, malato, disabile, contrae, in qualche modo, la sua impurità. Gesù, allora, diventa “contagiato”, coinvolto, “sordomuto”. Gesù diventa la malattia di coloro che guarisce, fino a questo punto si spinge la sua empatia. Tra le righe Marco allude al sordomuto per eccellenza: il Crocifisso. La croce è il silenzio di colui che non riesce più a parlare, il silenzio di un Dio, il silenzio di colui che attraversa fino in fondo l’incomunicabilità umana. Gesù muore per rendere di nuovo al sordomuto la capacità di relazione.

Chiedono a Gesù di imporre le mani al sordomuto. Gesù fa molto di più: «Accogliendolo in disparte», lontano dalla folla, gli «caccia le dita negli orecchi». Quell’uomo non parla perché non è stato mai accolto. Il verbo “accogliere” è molto importante: esprime ciò di cui quell’uomo aveva più bisogno. È una necessità che abbiamo tutti…
L’accoglie in disparte: lo toglie dalla folla e dalla rete paralizzante e assordante delle false relazioni. Sono le relazioni sbagliate che ci rendono sordi e poi incapaci di dire, di essere noi stessi; tante volte viviamo relazioni che ci imprigionano.
Tutti abbiamo bisogno di essere presi da parte da Gesù, tolti dal nostro tessuto paralizzante. Questo è la preghiera! Tutti i giorni abbiamo bisogno della preghiera e di questa esperienza: essere accolti nell’intimità da Gesù. «Tu – dice Gesù – sei solo mio; non devi rendere conto agli altri; non devi dimostrare niente a nessuno. Tu sei solo mio e sei prezioso per me, talmente importante che io darò la vita per te, pur di restituirti alla pienezza delle tue relazioni».
Gesù gli cacciò le dita negli orecchi (gesto imbarazzante!). Veramente qualcosa di molto intimo. Ed è questa esperienza di intimità con il Signore che apre la possibilità di ascoltare. La fede non è una teoria, non è una dimostrazione dell’esistenza di Dio, non un elenco di divieti… La fede è questo incontro intimo che guarisce nel profondo.
Con la saliva gli toccò la lingua (così il testo greco: «sputò toccandogli la lingua»). La saliva che cos’è? La saliva è la secrezione dell’intimità ed è ciò che cambia di valore a seconda della relazione che si ha con una persona. Il bacio che cos’è se non uno scambiarsi la saliva? Gli innamorati amano quello scambio di liquido intimo che è il bacio. Ma se invece la saliva è di un estraneo dà fastidio. Fra Gesù e il sordomuto c’è qualcosa come un bacio. Non ha nessuna valenza erotica, ma ha tutto il significato dell’intimità che guarisce. Allora si scioglie la lingua e il sordomuto, col cuore guarito, può parlare.
Effatà è parola in aramaico (la citazione dall’aramaico rende l’evento più vicino, come per dire al lettore: «Sta succedendo adesso a te») che significa «apriti». Prendiamo questo imperativo di Gesù come programma di vita: essere attivi nel costruire relazioni autentiche, dare importanza ad ogni persona, mettersi in ascolto profondo fino a sentirsi coinvolti. I rapporti veri sono il dono più bello che possiamo fare e ricevere.

Omelia nella Festa di San Marino

San Marino Città (RSM), Basilica del Santo Marino, 3 settembre 2021

Sir 14,20-15.4
Sal 47
At 2,42-48
Mt 5,13-16

Eccellenze, Autorità civili e militari,
carissimi tutti,
ogni anno ci viene riproposta una pagina stupenda del libro del Siracide. Protagonista è l’uomo che cerca la sapienza. Si potrebbe dire che parla del santo Marino e di ciascuno di noi: chi non cerca la sapienza? Questo cercatore viene descritto nell’atto di inseguirla in tutti i modi: come un segugio che si apposta sui sentieri, spia, sta ad ascoltare, tende l’orecchio… Sorpresa! Ad un certo punto, è la sapienza che gli va incontro. La sapienza viene descritta con i tratti di una madre, perché è premurosa, ha la dedizione di una vergine sposa. La cerchiamo davvero ogni giorno come la cerca il protagonista di questa pagina, come l’ha cercata san Marino? Nella preghiera iniziale abbiamo chiesto di crescere nella consapevolezza di essere continuatori della sua opera.

Abbiamo bisogno di sapienza. Le vie che dobbiamo percorrere sono tutte in salita e piuttosto ardue. Emergono fatti che non sono che la punta di un iceberg. Metto davanti al nostro santo Marino e, attraverso lui, al Signore qualcuna delle problematiche che oggi ci mettono alla prova.

Le migrazioni: non sono un fatto emergenziale, ma un fenomeno di strutturale mobilità umana legata a vari fattori che ostacolano il diritto di vivere nella propria terra; un fenomeno destinato a ridefinire l’aspetto politico, identitario, culturale. Quale soluzione? La si può trovare solamente insieme, facendo appello alla coscienza internazionale. L’interdipendenza – ci ricorda papa Francesco – ci obbliga a vedere il pianeta come patria e casa comune e l’umanità come un popolo. Ce lo ricorda il Vangelo appena proclamato: siamo chiamati ad essere luce per sconfiggere le ombre di un mondo che tende a chiudersi. Preghiamo per le sofferenze e il dolore del popolo afghano; siamo col fiato sospeso in attesa dei prossimi sviluppi: situazione complessa per l’intreccio di tribù ed etnie diverse, condizionata dalla nuova ricchezza delle terre rare e dalla coltivazione e i traffici di droga.

Un’altra emergenza: siamo ancora coinvolti nella pandemia da Covid-19. 4 milioni di decessi, 200 milioni di contagi. I numeri sono approssimativi… se pensiamo a tanti paesi dove i calcoli sono impossibili. In Africa solo l’1% della popolazione è vaccinato. Non è che un esempio. Siamo sulla stessa barca. C’è una cultura da conquistare giorno per giorno per arrivare al “noi”.

Ci sono, poi, problematiche che affiorano nella società – a San Marino, in Italia e nel mondo – gravi interrogativi di carattere etico-antropologico, quali aborto, eutanasia e nuove frontiere sperimentali sull’uomo. È l’essere umano che è in gioco e il rapporto-alleanza che Dio ha stabilito con lui.
Ci sono cattolici impegnati sul fronte sociale, sui diritti umani e sui grandi temi dell’ecologia. Alcuni cattolici accentuano l’attenzione alla salvaguardia dei valori etici non negoziabili; talvolta sembra che tra le due prospettive affiori un solco. Agli uni e agli altri sento il dovere di ribadire come il Vangelo dell’amore di Dio per l’uomo, il Vangelo della dignità della persona e il Vangelo della vita sono un unico e indivisibile Vangelo. Non ci si può considerare cattolici e non riconoscere che la vita umana è sacra perché, fin dal suo inizio, comporta l’azione creatrice di Dio e rimane per sempre in una relazione speciale con il Creatore, suo unico fine. Solo Dio è il Signore della vita, dal suo inizio alla sua fine naturale. «Prima di formarti – dice la Sacra Scrittura – nel grembo materno ti conoscevo, prima che tu uscissi alla luce ti avevo consacrato» (Ger 1,5): l’esistenza di ogni individuo, fin dalle sue origini, è nel disegno di Dio e non ne uscirà mai, perché la vita va oltre, è per sempre.
Sono davanti ad un’assemblea del santo popolo di Dio che deve essere rassicurato su questi temi alla luce della Parola del Signore. Per il credente, come per il non credente, ci sono altrettanti argomenti di ragione che portano a non ammettere che anche un solo momento del meraviglioso processo della vita possa essere lasciato in balia dell’arbitrio dell’uomo.

Considerare, discernere e agire su questi temi di società è parte essenziale della fede cristiana e nostra “identità umana”. Si tratta di dare un’anima al sociale. Il nostro impegno non può essere ridotto a pratiche formalmente funzionali. L’indice di sviluppo oggi non si valuta solo dall’economia, ma soprattutto dal rispetto dei diritti umani, dal rispetto dell’altro: il diverso, il fragile, il nascituro…
Permettetemi di riprendere l’appello che ho pronunciato alla città di San Leo nella festa del Patrono. Mi riferisco all’attuale situazione pastorale delle nostre comunità: «Dobbiamo riprendere con rinnovato entusiasmo le attività pastorali dopo le chiusure e le restrizioni. Le nostre chiese, pur con le necessarie precauzioni, ora sono spalancate. Altrettanto le sale di comunità per gli incontri e la catechesi. Invito tutti, ragazzi, giovani e adulti, a riaccostarsi alla vita pastorale ordinaria. Ora è il tempo di riprendere la vita consueta, senza buttare via quello che c’è stato di bello, nonostante tutto, come i collegamenti online, le liturgie domestiche in famiglia e tra famiglie… L’incontro e la relazione sono sostanza dell’esperienza cristiana, non sono un dettaglio. Vedo l’esitazione di alcuni e la dispersione di tanti. Metto in conto anche la pigrizia e il disamore. Qualcuno si aspettava uno slancio di fede e un accrescimento di fervore in tempo di pandemia. Un’ingenuità? La pandemia, invece, ha evidenziato i segni profondi della secolarizzazione, ha smascherato l’abitudine e l’andazzo. Ebbene, ritorniamo. Dalla dispersione all’unità: essere popolo di Dio. Chi ha fede più solida aiuti i più deboli, i genitori accompagnino i figli al rientro, le associazioni mostrino la vitalità e l’audacia del loro carisma. Questo momento storico assomiglia al ritorno del popolo di Israele dopo l’esilio. L’invito al ritorno fu descritto con accenti lirici dal secondo Isaia (cfr. Is 40). Ma i profeti post-esilici, molto realisticamente, non hanno risparmiato parole severe a chi si è attardato, o peggio, adattato nel contesto dell’esilio. Il profeta Aggeo se la prende per quanti, pur rientrati nei confini, pensano ai loro affari o trascurano la casa di Dio (cfr. Ag 1,2-7). Ripartiamo. Riprendiamo. Ricominciamo. Non è questione di numeri, ma di qualità, di fervore!
A tutti rilancio le parole evangeliche: «Voi siete il sale della terra; ma se il sale perdesse il sapore, con che cosa lo si potrà rendere salato? […] Voi siete la luce del mondo; non può restare nascosta una città collocata sopra un monte».
La Repubblica di San Marino, che ha una tradizione millenaria, può essere «casa costruita sulla roccia», sui valori del Vangelo: cura dei più deboli, amore-amicizia nella reciprocità, visione dell’uomo come realtà capace di amare, di ricominciare, di perdonare, di accogliere i più deboli, con l’apertura ai valori dello Spirito: onestà, verità, fiducia…
Marino, uomo santo, che vuoi l’uguaglianza, la libertà, nello spirito della fraternità per tutti: prega per noi.

Omelia alla Veglia dei giovani per San Marino

San Marino Città (RSM), chiesa dei Santi Pietro, Marino e Leone, 2 settembre 2021

Sir 14,20-15.4
Sal 47
At 2,42-48
Mt 5,13-16

Se dico: “vocazione”, a voi che cosa viene in mente?
Molti penseranno subito alla vocazione religiosa: fare la suora o il sacerdote. Altri penseranno alla vocazione al matrimonio e alla famiglia. In certi casi è una vocazione anche essere single. Si dice vocazione anche quando una persona ha un talento artistico o musicale.
Stasera vorrei dirvi che c’è una vocazione, cioè una chiamata, che viene prima, prima di ogni altra, prima che sia riconosciuto il talento, prima che sia deciso lo stato di vita: una vocazione basilare, talmente importante che la si dà per scontata, quasi non ci si pensa, non se ne parla, eppure è la più bella delle vocazioni, la più imprevedibile delle chiamate e la più bella. Spesso comincia in un modo e poi va a finire in un altro, un po’ come le figure di un caleidoscopio; un movimento brusco distrugge il disegno che appariva prima, ma ne forma subito un altro, ancora più fantasioso. Se dovessi dirla in termini scolastici: non è una chiamata a fare il dettato, semmai a fare il tema.

Qual è allora questa chiamata così formidabile, bella, basilare? È la prima chiamata, la chiamata alla vita, ad essere vivi. Domattina provate: spalancate la finestra, guardate fuori, entrate in relazione con le persone che incontrate… È la vita. La vita è molteplicità di relazioni, di rapporti, di connessioni.
Chi ti ha rivolto questa chiamata?
Penserete subito, giustamente: il papà e la mamma. Nella stragrande maggioranza dei casi si nasce perché desiderati, attesi, invocati: si è stati chiamati da un atto d’amore, con tutto quello che ne segue. Ognuno ha tante relazioni, tanti contatti con gli altri, persino con una comunità. Il nostro nome è scritto all’anagrafe: non è ovvio; è bello sapere che facciamo parte di un popolo, di una comunità, che siamo registrati in essa come soggetti con diritti e doveri.
Se andiamo più in profondità possiamo dire: sono nato io, ma avrebbe potuto nascere mio fratello. Perché proprio quello spermatozoo, fra tanti che avrebbero potuto raggiungere il bersaglio, si è unito a quell’ovulo?
Qui emerge un’altra parola importante: la libertà. Ognuno di noi potrebbe pensare di essere vivo “per caso”, ma nella libertà possiamo riconoscere che c’è un progetto su ciascuno, che non può essere il caso a spiegare le vicende della vita.
In qualche viaggio tra le nostre montagne, tra un paese e l’altro, qualche volta mi è capitato di provare un po’ di scoraggiamento: perché ho accettato di fare il vescovo? In qualche momento di turbamento mi ha aiutato pensare a voi, a dei “voi” molto concreti, a persone che non avrei mai incontrato e invece sono diventate “mie”, persone care, uniche per me. Dare una risposta positiva, dire “sì”, è sempre creativo! Ognuno può risolversi e dire: è tutto un caso, oppure affidare la propria vita ad un “tu”. Quando penso ai giovani, a voi in particolare, vedo in voi una manifestazione della bellezza della vita. I giovani hanno il senso dell’avventura (cioè del futuro) fino ad essere spericolati, perché desiderano assaporare ogni cosa della vita; così nell’amore agli sport estremi, alla velocità, alla musica a tutto volume; anche nelle esperienze di droga e alcol, certamente sbagliatissime, vedo il desiderio di andare negli abissi della vita, sperimentando tutto fino in fondo. Come dice un cantante, Irama, nella canzone “Giovani”: «I giovani sono ladri di pelle d’oca». Queste emozioni fortissime, da un certo punto di vista, smascherano un innato desiderio di vita.
Lasciatemi dire che non c’è niente di più “spericolato”, di più emozionante, di più originale che seguire Gesù, nella libertà. Lui che ti ha chiamato ti dice che la vita è ancora più bella se impari a decentrarti, se vivi “fuori” di te, cioè se apri la finestra, come dicevo all’inizio: una metafora per dire il desiderio di “spazi infiniti”. Ci aspettano tante sorprese. Pensate a san Marino, un dalmata che, secondo la tradizione, fugge dalle persecuzioni, sbarca a Rimini, lavora come scalpellino; conoscendo la sua personalità gli chiedono di salire sui monti, dove c’è tanta gente che non ha mai sentito parlare di Gesù e tutta la sua vita è come un caleidoscopio, ma non per caso: c’è un disegno. Oggi, dopo 1700 anni, siamo qui a parlare di lui, ad ispirarci al suo programma. Quando penso che non sono in balia del caso, ma che uno mi ha voluto e mi ha chiamato attraverso i miei genitori, ho la chiave per capire i giorni di nebbia, di buio: so che nulla è “a caso”.
Ho imparato molto da uno dei miei fratelli. Anni fa, il 15 maggio, avrebbe dovuto partire come missionario per il Giappone. Era destinato alla città di Osaka. Quindici giorni prima ha avuto un incidente stradale ed è rimasto paralizzato. Da allora vive su una carrozzella. Potremmo pensare che la sua vita sia un fallimento. No. Lui è convinto che la sua vita è una risposta ad una Persona, il Signore Gesù, e a tante persone che chiedono amicizia, compagnia e aiuto. Ha ripreso a fare il missionario, è andato in Congo con la sua carrozzina. Tantissime volte da solo, senza accompagnatori. Ha vissuto tante esperienze, tanta vita! Non ha mai pensato che la sua vita fosse in balia del caso.
Vivere è rispondere. Immagino la vita come un rotolo sigillato: non sai quello che è scritto dentro. Lo ricevi nelle tue mani con coraggio. Sai in chi poni la tua fiducia (cfr. 2Tm 1,12) e tutto si colora!
Come possiamo vivere bene la nostra vita?
Vi affido tre parole che cominciano per “R”. Prima parola: ritmo. Ci sono tanti passi diversi nella nostra vita, come in una danza. È importante vivere la pluralità, aprirsi a nuove esperienze, senza tirarsi mai indietro. Ritmo vuol dire anche che c’è un giusto tempo per ogni cosa e si può passare da un’azione all’altra con una certa disinvoltura, abbattendo la pigrizia. Papa Francesco invita i giovani a non “balconare”, cioè a non guardare la vita dal balcone, ma a buttarcisi dentro, facendosi coinvolgere. Seconda parola: regola. Per vivere bene occorre anche una misura, che esprime la nostra libertà. Ad esempio, invece di bere una bottiglia intera di birra, potrebbe essere più salutare berne metà, come esercizio di libertà; così come siamo liberi di decidere di conservare il nostro corpo e la nostra fantasia nella purezza: poter dominare le pulsioni, che sono anch’esse vita, ci fa essere veramente liberi. Se ad un ruscello metti argini diventa torrente e fiume. Terza parola: rito. Ogni cosa che facciamo ha una sua sacralità. Tutto è prezioso, perché tutto è vita: apparecchiare la tavola, scrivere un progetto, parlare con un amico, giocare una partita… Tutto è sacro. Tutto è da vivere con solennità. Ogni attimo è prezioso. Non si può vivere di ricordi del passato: il passato non è più. Del futuro non sappiamo niente. Il momento presente è come un’ostrica che contiene una perla.
Chiedo a san Marino, nostro patrono e fondatore della Repubblica che porta il suo nome, che ci aiuti a vivere queste tre “R”: ritmo, regola, rito.

Discorso nel conferimento della cura pastorale della Parrocchia di San Leo a don Giuliano Boschetti

San Leo (RN), Pieve, 29 agosto 2021

Carissimi Leontini,
«ogni buon regalo e ogni dono perfetto vengono dall’Alto e discendono dal Padre» (Gc 1,17). Ecco il dono che oggi vi fa il Signore dandovi un nuovo Parroco. Cosa che non era scontata.
Saluto il signor Sindaco, le Autorità che sono presenti e tutta la comunità.
Un saluto particolare, naturalmente, a don Giuliano.
Davanti alla comunità si compiono – hanno già cominciato a compiersi – gesti simbolici. Alcuni di questi richiamano quello che Gesù ha compiuto con l’apostolo Pietro, fatte salve le debite proporzioni, e precisamente la consegna delle chiavi.

1.
La prima chiave che il Vescovo consegna al Parroco è quella della chiesa (di per sé avremmo dovuto attendere fuori, ma il segno è comunque abbastanza eloquente).  La vostra chiesa parrocchiale, come la Cattedrale, è un gioiello, motivo più che legittimo della vostra fierezza, casa che accoglie nei giorni dell’iniziazione cristiana (chi riceve il Battesimo, la Cresima, l’Eucaristia), chiesa spalancata per la Messa, speriamo che dopo la fase acuta del Covid-19 diventi nuovamente ricca della presenza dei fedeli, chiesa accogliente per le feste della comunità, delle famiglie, per la celebrazione dei matrimoni. La chiesa tutti raduna per accompagnare i defunti al cospetto di Colui che accoglie misericordioso.
Siete custodi della Cattedrale, qui accanto, ricca non soltanto di storia e di arte, ma anche prima sede episcopale. Nella Cattedrale si celebrano riti importanti. La Cattedrale, la Pieve e tutta la città di San Leo accolgono pellegrini e turisti, un’accoglienza che deve sempre essere cordiale, schietta, bella.
Questa Pieve fatta di pietre, alla fine, è un simbolo, un segno, perché le pietre vive siete voi; con la Parola di Dio e i sacramenti siete edificati in Popolo Santo di Dio, Corpo di Cristo (Lui è il capo, voi le membra), Tempio vivo dello Spirito Santo.
È stato bello, entrando in chiesa, sentire l’invocazione allo Spirito Santo. Quest’anno che stiamo per incominciare sarà tutto dedicato alla consapevolezza del rapporto che la comunità, e ogni singolo, devono avere con la terza Divina Persona, lo Spirito Santo. È un rapporto da riscoprire, per qualcuno forse anche da scoprire per la prima volta.
Caro don Giuliano, abbi cura di questo popolo. Aiutalo e fatti aiutare, soprattutto dal Consiglio Pastorale per il discernimento comunitario ed amministrativo, nella trasparenza. Valorizza i ministeri istituiti; noi sacerdoti passiamo, la comunità rimane, arricchita via via dai carismi e dai doni spirituali e personali di ciascuno. Torno ad esprimere la gratitudine a don Carlo, che in questi anni ha svolto tra noi, con generosità, il ministero sacerdotale. Gratitudine e preghiera per tutti i sacerdoti che hanno guidato la comunità.
Ora, don Giuliano, trova nei tuoi parrocchiani corrispondenza e collaborazione, sì da essere tutti insieme un cuor solo e un’anima sola per vivere quella sfida che si chiama sinodalità e a cui ci invitano papa Francesco e i vescovi italiani.

2.
Consegnerò tra poco un’altra chiave a don Giuliano, quella del Tabernacolo. Il Parroco deve nutrire il suo popolo con la Parola di Dio, perché «non di solo pane vive l’uomo», ma necessariamente ed ugualmente col Pane di vita. Il Parroco custodisce il Tabernacolo come il cuore della chiesa, il cuore della comunità, tesoro di incommensurabile valore.
Con la Parola don Giuliano vi riunisce (spero si consolidi l’esperienza della formazione biblica e l’esercizio della Lectio divina) e con l’Eucaristia vi costruisce. L’Eucaristia è tutto per la Chiesa, tutto per il cristiano! È la presenza di Gesù vivo.
Cari Leontini, amate l’Eucaristia, chiedetela, nutritevene, adoratela. Attingerete così amore dall’Amore. Amore che rende preziosa ogni azione e ogni momento della vita. Amore da diffondere.

3.
Caro don Giuliano, c’è una terza chiave. Non te la posso consegnare io. Possono metterla nelle tue mani soltanto i parrocchiani: è la chiave dei loro cuori. Essi sono consapevoli dell’autorevolezza del sacerdote, ricco e povero ad un tempo; ricco per le parole che pronuncia: «Questo è il mio corpo, questo è il mio sangue…», «Io ti assolvo…», povero perché sono parole non sue ma di un Altro, al quale è dovere fare sempre più spazio.
I tuoi parrocchiani, caro don Giuliano, sanno della tua obbedienza alla decisione del Vescovo, sanno della tua preparazione ed esperienza e dei servizi che dovrai svolgere per la Diocesi. Dice la Lettera agli Ebrei che il sacerdote viene assunto «di tra gli uomini», quindi è del nostro stesso legno, ha la sua umanità, ma viene costituito per gli uomini, per voi, riguardo alle cose di Dio (cfr. Ebr 5,1). Per te, don Giuliano, la chiave dei loro cuori sarà la cosa più cara: ti viene data immediatamente, con fiducia, ma dovrai anche, per così dire, guadagnartela, perché dovrai entrare con discrezione nei loro cuori, sentire le loro confidenze, accogliere le loro domande.
Metterò sulle spalle di don Giuliano la sciarpa, cioè la stola, segno della sua potestà di rimettere i peccati, ma anche di consolare, di orientare rispettosamente le coscienze, di sostenere con la direzione spirituale e soprattutto di far incontrare la misericordia del Padre. I parrocchiani non dovranno temere nel confidarti fragilità e dubbi. Darai tanto a loro, ne sono certo. Altrettanto riceverai da loro. Del resto abbiamo tutti nel cuore, consacrati e laici, giovani e adulti, una domanda: «Signore, come posso servirti?». Servire il Signore. Gesù ha detto: «Non vi chiamo più servi, ma amici» (cfr. Gv 15,15). Qui servire significa dare lode, regnare, perché essere a disposizione del Signore è altissima dignità. La vita è vocazione, risposta ad una chiamata, nulla avviene per caso. Invito don Giuliano ad avere a cuore le vocazioni, a farle sbocciare, favorirle, accompagnarle: tutte! E a voi, cari Leontini, chiedo di aver cara la vocazione al sacerdozio. Per questo intensifichiamo la preghiera. State facendo esperienza, avete fatto esperienza anche oggi, di quanto è preziosa e desiderata la figura del prete. E quanta trepidazione è nel cuore del Vescovo a questo motivo. Il Signore non farà mancare ministri per la sua Chiesa e susciterà in ogni membro della comunità la disponibilità alla collaborazione, al servizio e il senso di responsabilità: «La Chiesa è mia, mi appartiene. Signore, in che modo posso servirti, in che modo posso essere sostegno in questa comunità? In che modo posso essere missionario e annunciatore del tuo Vangelo?». In sintesi, essere laici nella Chiesa, cristiani nella società!

4.
Tra poco chiederò a don Giuliano di rinnovare le promesse sacerdotali pronunciate la prima volta nel giorno dell’ordinazione. Seguiranno l’accompagnamento al fonte battesimale e al confessionale con l’invito a benedire ed aspergere tutti voi. Infine, cederò la sede e l’altare al nuovo parroco che presiede la comunità a nome del Vescovo e in comunione con tutti i presbiteri della Diocesi.
Le letture di oggi ci hanno invitato a cogliere l’essenziale e cioè non tanto a compiere atti obbedienti (che faremo comunque), ma ad avere un cuore obbediente: una scelta più radicale, più profonda. È quello che domandiamo per noi e per tutti. Così sia.