Meditazione teologica all’Istituto Superiore di Scienze Religiose “A. Marvelli”

Rimini (RN), Sala Manzoni, 16 dicembre 2021

Provo molta gioia nel trovarmi insieme a voi. Sono qui soprattutto per esprimere la mia gratitudine al professor Natalino Valentini. Colgo l’occasione per esprimere la considerazione e la stima che ho per l’Istituto Superiore di Scienze Religiose “A. Marvelli”. Porto questa gratitudine e questa considerazione a nome della Diocesi di San Marino-Montefeltro che è parte integrante dell’Istituto stesso.
Vorrei esservi di aiuto per vivere questo momento di raccoglimento in preparazione al Natale, in atteggiamento sinodale.
Sento il desiderio di camminare con i poveri; penso alle persone in difficoltà economica, ma anche alle povertà delle persone che soffrono, che sono alla ricerca di Dio e della verità: mi sento uno di loro. Mi piace pensare che Gesù, ad un certo punto, avrebbe potuto andare verso il deserto di Qumran, dove c’erano i puri e i duri che aspettavano la venuta del Messia, gli Esseni, e invece è sceso al fiume Giordano facendo la fila con peccatori, piccoli, cercatori di Dio: c’erano pubblicani, esattori delle imposte, gente comune, soldati…

La meditazione di questa sera è sulla Parola di Dio. Partirò dal racconto della Natività secondo Luca (cfr. Lc 2,1-14), poi farò una breve incursione nel Prologo di Giovanni (cfr. Gv 1,1-18), infine citerò un breve testo dal Libro delle Consolazioni di Isaia (cfr. Is 40-55).

1.

Attorno all’albero di Natale – consentitemi la metafora – sono spuntati tanti altri cespugli. Succede come di fronte ad una pianta del giardino: ci si ferma a gustare il profumo di un fiore, o a stupirsi dei colori del foliage (in autunno), o a raccogliere un frutto… Dettagli. E si ignora completamente la profondità delle radici, la robustezza del tronco, l’abbraccio della chioma.
A Natale succede ogni anno qualcosa del genere, ma si deve pur dire la verità sul Natale, tutta la verità; e dirla con schiettezza. Allora siamo dolcemente invitati a riaprire i conti col mistero di Dio e col mistero dell’uomo: Dio e uomo sono profondamente in sintonia. “Dolcemente” – dico – perché tutto è accaduto e accade con lo stile del Dio della Bibbia: «Il suo accadere non ha apparenza né bellezza da attirare sguardi» (cfr. Is 53,2); «mentre un profondo silenzio avvolge ogni cosa» (cfr. Sap 18,14); con «l’umiltà della sua ancella» (cfr. Lc 1,48).
Di solito – giustamente – si dà molto spazio alle scienze dell’uomo, all’economia, ai destini del pianeta… Ci sta. Tuttavia, abbiamo vissuto momenti, soprattutto nel corso di questa pandemia, nei quali siamo stati messi con le spalle al muro, costretti nuovamente ad una riflessione sulla dimensione più profonda di noi stessi, il nostro mistero, su Dio, sull’anima. Filosofi, monaci e poeti non hanno mai smesso di scrutare queste profondità. Ma l’uomo pragmatico spesso se ne disinteressa, preso com’è dall’organizzazione sociale, dalle dinamiche della finanza, dalle scadenze della sua agenda, ecc. Anche il Natale dei buoni sentimenti, delle tradizioni popolari, delle riunioni familiari, delle dispute su come salvarlo non deve farci perdere la sua dimensione di mistero.

2.

Siamo di fronte al mistero di Dio e ci rendiamo conto che è un mistero mai pienamente posseduto. Mi chiedo: «Dio che non si rivela pienamente ci toglie forse qualcosa con questo suo silenzio?». Direi di no. Anche il senso del mistero è una forma di conoscenza, comunque apre un vasto campo di ricerca. Blaise Pascal ci ha lasciato pagine struggenti sull’argomento: «Quando considero la breve durata della mia vita, sommersa nell’eternità che la precede e la segue, il piccolo spazio che occupo e financo che vedo, inabissato nell’infinita immensità degli spazi che ignoro e che m’ignorano, io mi spavento e stupisco di trovarmi qui piuttosto che là, non essendoci nessuna ragione perché sia qui piuttosto che là, oggi piuttosto che domani. Chi mi ci ha messo? Per ordine e per opera di chi questo luogo e questo tempo furon destinati a me?» (Pensieri, 220).
Siamo immersi in un mistero e il mistero è essenziale per la dignità umana. Dire che siamo avvolti in un mistero non è affermare un handicap, ma è riconoscere che siamo aperti sull’infinito. Quando ci meravigliamo ancora, quando siamo capaci di stupirci, allora siamo veramente uomini.
Ma il fatto più eclatante è che questo mistero si rivolge a noi. Il mistero parla. Il mistero ci interpella. Il mistero ha un “io”. «E quando si scruta l’abisso – scriveva Nietzsche – anche l’abisso ci scruta» (questa frase è contenuta in Al di là del bene e del male, un saggio filosofico in cui Nietzsche anticipa i temi del suo pensiero, IV parte, 1886).

3.

Il mistero si è rivelato nel modo più inatteso e coerente con se stesso: «“Vi annuncio una grande gioia, che sarà di tutto il popolo…”. I pastori dicevano l’un l’altro: “Andiamo dunque fino a Betlemme, vediamo questo avvenimento”. Andarono senza indugio, e trovarono Maria, Giuseppe e il bambino adagiato nella mangiatoia»: questo il segno! Il Natale è il mistero che prende un volto, è Dio che si fa cucciolo di uomo.
Il Natale è l’invadenza del Cielo. Impossibile sottrarsi! Bisogna, in qualche modo, misurarsi con questo mistero.

4.

Continuo la riflessione sul Vangelo di Luca. C’è un racconto che sottostà a tutti i racconti della nostra vita e che tutte le vicende presuppone: è il racconto della nostra nascita, un racconto che ci viene dato da coloro che ci hanno accolti, chiamati per nome e coperti di baci. Di tale racconto abbiamo bisogno per conoscere la nostra identità, tant’è vero che, chi non l’ha avuto, ne soffre; chi non sa nulla dei propri genitori li cerca instancabilmente, avvertendo la necessità di sentirsi persona, fin dall’inizio, chiamata per nome.
Questo racconto fondante, su cui si costruiranno gli altri eventi dell’esistenza, ci è trasmesso implicitamente perlopiù nella festa di compleanno: festa che ci richiama, appunto, all’origine, a chi ci ha generato fisicamente, riconoscendoci come persone, e accogliendoci con affetto.
Anche di Gesù abbiamo il racconto della nascita in un giorno preciso della storia. Pur non potendo determinarlo con esattezza cronologica, sappiamo che duemila anni fa è stato generato, accolto, amato, ha ricevuto il nome da Maria e da Giuseppe.
Nel Natale noi celebriamo, anzitutto, l’origine storica della vicenda di Gesù Cristo: tutto ciò che sarebbe avvenuto di Gesù negli anni successivi ha avuto inizio a Betlemme nella cornice insolita del presepio, cioè di una mangiatoia per gli animali. Ha avuto inizio in un modo sostanzialmente uguale a quello con cui comincia, o dovrebbe cominciare, ogni esistenza umana: una piccola e fragile creatura, accolta con gioia e chiamata con amore per nome.

5.

Tuttavia, il brano evangelico di Giovanni – il Prologo – parla di un’altra origine che si riferisce allo stesso Bambino («E il Verbo si è fatto carne»), che riporta assolutamente “al principio”. “Al principio” colui che prenderà carne e sarà Gesù, già era da sempre presso Dio ed era Dio. Giovanni offre il racconto delle origini che spiega ogni cosa e dà “la ragione” ultima di tutto ciò che esiste: «In principio era il Verbo, il Verbo era presso Dio, il Verbo era Dio. […] Tutto è stato fatto per mezzo di lui e senza di lui niente è stato fatto di tutto ciò che esiste». La gioia per un bimbo che nasce a Betlemme richiama in Giovanni la gioia e lo stupore per ciò che nasce e che è nato all’origine del mondo, per tutto quanto è sulla terra e nei cieli.
Questa pagina suscita gratitudine perché ogni essere, ciascuno di noi, è dono, trae vita dall’Eterno. «In lui era la vita e la vita era la luce degli uomini. […] E la luce splende nelle tenebre».
Potremmo dire che, se il Natale di Betlemme fa vivere il compleanno di Gesù, il Prologo di Giovanni presenta il compleanno del mondo, la sua natura di mondo “sensato”, perché quello di cui stiamo parlando, il Bambino di Betlemme, è il Logos, il Verbo di Dio (Logos significa “senso”).
Dunque, il Prologo di Giovanni pone in relazione l’origine di tutte le cose con la venuta di Gesù nel mondo, così da permetterci di intuire come il nostro povero tempo caduco sia salvato mediante la nascita del Figlio di Dio. Il nostro tempo può essere salvato partendo da lui. Un testo di sant’Ireneo dice più o meno così: «Cosa fa il Verbo? Viene nel mondo per prendere ciò che è suo (tutto è stato fatto per mezzo di lui!)» (cfr. Sant’Ireneo, Lettera da Cochabamba, prefazione al libro V). Il Verbo, Gesù Cristo, si riappropria di ciò che gli appartiene e lo redime.

6.

Il messaggio del Natale è pieno di speranza per il nostro piccolo cuore di persone provate, stanche, impaurite e talvolta deluse dalla vita. Il messaggio del Natale dice che, se partiamo da lui, dal Verbo incarnato, Gesù Figlio di Dio, le vicende umane non sono più né piccole né inutili, i nostri affanni non sono un sospiro vano, dal momento che Gesù se ne è fatto carico nascendo a Betlemme. Colui che è da sempre e nelle cui mani è stato posto il nostro destino, colui che per bocca dei nostri genitori ci ha chiamato con amore per nome, fin da quando siamo nati, ha voluto legarci alla sua storia, perché non ci sentissimo più soli a lottare in questa oscurità, ma avessimo la certezza che la luce vince le tenebre e che sempre da lui possiamo ripartire.

Non possiamo accontentarci delle luci che illuminano le strade… In ciascuno di noi vi è una nostalgia inappagata che ci sospinge verso una luce più splendente, l’unica in grado di squarciare il buio che c’è in noi. Ogni domenica, nel Credo, preghiamo così: «Per noi uomini e per la nostra salvezza discese dal cielo».

7.

L’ultimo testo che propongo è tratto dal Libro delle Consolazioni del profeta Isaia. C’è qualcosa che aumenta la gioia del Natale: il continuare a venire di Dio nel mondo. Dio non è reso attuale solo nella celebrazione del Natale, Gesù si fa presente ad ogni istante della nostra concreta realtà quotidiana, con lo stile di cui dicevo all’inizio, quello del Dio della Bibbia. La sua venuta nella storia si verifica ancora adesso: il Signore viene e sta sempre di nuovo per venire in chi lo attende e lo accoglie. Perciò il Natale, oltre ad essere un compleanno storico, oltre a richiamare un evento cosmico, è insieme incomparabilmente intimo e personale.
Mentre leggevo questo testo di Isaia era appena capitata la sciagura di Ravanusa, in Sicilia e avevo davanti agli occhi quella montagna di macerie.
Alla luce del Vangelo di Giovanni ricomprendiamo meglio l’invito alla gioia: «Prorompete insieme in canti di gioia, rovine di Gerusalemme, perché il Signore ha consolato il suo popolo, ha riscattato Gerusalemme» (Is 52,9). Come mai il profeta pensa che le rovine possano prorompere di gioia, quelle rovine che vediamo in noi e attorno a noi, le rovine che umiliano, le rovine del senso della vita che molte persone hanno perduto e non ritrovano, le rovine interiori dell’angoscia, della paura, della diffidenza, della tristezza, di questa pandemia che non finisce mai? Il profeta sa con certezza che il Signore viene, viene a prendere ciò che è suo per farlo nuovo! La luce del Natale ricostruisce le nostre rovine! Gloria al Padre, al Figlio, allo Spirito Santo.

Omelia nella III domenica di Avvento

Pennabilli (RN), Cappella del Vescovado, 12 dicembre 2021

Sof 3,14-18
Is 12
Fil 4,4-7
Lc 3,10-18

«Attingerete acqua con gioia alle sorgenti della salvezza». Mettiamoci anche noi in coda con le persone che vanno al fiume Giordano dal Battista. Siamo, talvolta, molto presi dalle molte cose da fare, dai tanti impegni. Il fiume Giordano non ha finito di lambire, da allora ad oggi, le nostre grettezze, le nostre mediocrità, la nostra indifferenza. E Giovanni scuote. Giovanni, il profeta rude che prepara la via al Signore, annuncia: «Ecco, il Messia è alle porte!». Allora bisogna destarsi, lasciarsi coinvolgere. Gesù un giorno rimprovererà Marta, tutta presa dal suo daffare, dalle sue occupazioni e preoccupazioni. Gesù le dirà: «Marta, Marta, tu ti preoccupi di troppe cose. Fa’ come tua sorella Maria che ha saputo stare seduta ai miei piedi per ascoltare la Parola» (cfr. Lc 10,41). Gesù, ad un certo punto della sua predicazione, dirà: «A chi paragonerò mai questa generazione?». La paragona a quei ragazzi che suonano il flauto sulla piazza e i loro amici non danzano, intonano un lamento e nessuno reagisce… (cfr. Mt 11,16-17). Noi invece vogliamo lasciarci coinvolgere. Interessante vedere come l’evangelista Luca presenti le categorie di persone che vanno da Giovanni. C’è la folla, la gente comune, ci sono i doganieri – quelli che il Vangelo chiama i pubblicani – e ci sono anche i soldati. Tutte persone alle quali Gesù un giorno darà molto ascolto, molta attenzione. La folla veniva criticata perché volubile e ignorante; i doganieri, perché collaborazionisti dei Romani, riscuotevano le tasse e vi facevano anche la cresta: avevano una pessima fama; i soldati, perché a disposizione, come i mercenari, dei signori della guerra. E Giovanni Battista cosa chiede a quelli che vanno al fiume Giordano? Alla gente chiede di essere generosa, di condividere quello che ha, soprattutto con i più poveri. Ai doganieri chiede di essere onesti e rigorosi nella loro professione. Ai soldati domanda di non estorcere nulla a nessuno. In pratica, la conversione che Giovanni Battista propone non è quella di fare chissà quali stravaganze, di elaborare chissà quali propositi inattuabili. Non propone di salvarsi dalla storia, ma di salvarsi nella storia. Così sono valorizzati il nostro quotidiano, la nostra professionalità e il nostro impegno responsabile. I bambini, quando giocano, amano imitare i mestieri dei grandi e lo fanno con gioia. Noi adulti potremmo imitare evangelicamente i bambini facendo dei nostri lavori un gioco, ovvero un gioco d’amore e dedizione.
Con questi pensieri cominciamo a costruire il presepio – i personaggi che vanno alla capanna ci rappresentano – o l’albero di Natale – albero della luce – segni che portano nelle famiglie la presenza di Gesù: Gesù è venuto, verrà e viene nel momento presente della nostra vita.

Omelia nella Solennità dell’Immacolata Concezione

Pennabilli (RN), 8 dicembre 2021

Gen 3,9-15.20
Sal 97
Ef 1,3-6.11-12
Lc 1,26-38

Si dice: «De Maria nunquam satis (di Maria non si dice mai abbastanza)». È una frase di san Bernardo. Eppure, candidamente confesso che, nell’accingermi a preparare la meditazione di questo giorno dell’Immacolata, mi è venuto il timore della ripetizione. Poi, mi sono posto attentamente in ascolto della Parola di Dio, come si deve fare nei casi in cui l’anima è opaca e tiepida. Meditando la Parola di Dio ecco una sorpresa: la Parola di Dio oggi mette a confronto due donne, Eva e Maria; di Eva si parla nella Prima Lettura, di Maria nel Vangelo. Propongo anche a voi una lettura sinottica dei due testi. Una lettura rimanda all’altra e il cuore non resta estraneo a questo confronto. Eva dice di sé: «Il serpente mi ha ingannata e io ho mangiato». Adamo dirà: «La donna che tu mi hai posto accanto mi ha dato dell’albero e io ne ho mangiato». Eva ha ascoltato chi metteva nel suo cuore il sospetto terribile che Dio fosse nemico, rivale dell’uomo. Ha ascoltato e obbedito alla parola del serpente traditore. La sua disobbedienza al Signore ha trascinato nella maledizione divina non solo se stessa, ma anche l’uomo al quale era stata data come aiuto simile a lui e in lui ha trascinato tutta la discendenza umana. La sua scelta – perché di scelta si trattò – ha distrutto l’interiore bellezza e bontà di tutta la creazione. È opportuno questo sguardo allargato su tutta la creazione, sottoposta alla corruzione del peccato. San Paolo dirà che la creazione grida perché sottoposta a questa caducità (cfr. Rom 8, 19). Ce ne ha parlato anche papa Francesco nell’enciclica Laudato si’.
La ricostruzione di tutta la creazione riparte ancora da una donna, dalla scelta e decisione di una donna, Maria di Nazaret. In senso uguale e contrario Maria, nuova Eva, ascoltando la parola dell’Angelo che le parla, obbedendo a quella parola, credendo pienamente al Signore, procura una benedizione per se stessa: «Benedetta tu fra le donne», le dirà Elisabetta; per il nuovo e vero Adamo, Gesù, di cui è madre si dirà: «Benedetto il frutto del tuo grembo»; e poi per tutta la discendenza dei figli che nasceranno a Dio ed anche per il mondo stesso che verrà redento. La sua scelta di fede: «Avvenga in me secondo la tua parola» ricostruisce l’interiore bellezza e bontà di tutta la creazione. In lei la grazia, la benedizione, vengono di nuovo ad abitare fra noi. Nella sua fede la caduta in cui il mondo era precipitato a causa di Eva è superata, è vinta dalla redenzione resa possibile dal suo “sì”.
La pagina del Vangelo di Luca ci suggerisce che questa obbedienza di Maria è di una straordinaria profondità. Nel dialogo con l’Angelo Maria ha avvertito la presenza e la potenza dello Spirito Santo; forse non sapeva nulla di lui, non era ancora stato liberato pienamente e già sentiva questa presenza e il mistero di Dio che chiedeva di entrare nella sua vita, di prendere possesso della sua persona, interamente. «Lo Spirito scenderà su di te, su di te stenderà la sua ombra la potenza dell’Altissimo».
Anche Eva, per tornare al parallelo, ha sentito la presenza di Dio e la potenza del mistero di Dio vicino a sé, venuto per dialogare nell’anima e nell’amore con lei. Dirà Adamo, parlando anche a nome di Eva: «Ho udito il tuo passo nel giardino». Maria però non si è ritirata, non si è nascosta, non ha avuto paura. Ha risposto dicendo: «Sono l’ancella del Signore», regalando a lui tutta la sua persona, santificata fin dal suo concepimento. Eva, invece, si è nascosta dalla presenza di Dio. Ha avuto paura e ha rifiutato il suo “sì” al Signore. In Maria, mediante l’eccomi, il progetto di Dio di cui parla san Paolo nella Seconda Lettura diventa possibile, può realizzarsi. Comincia la storia della salvezza. Poiché Maria ha accolto la Parola e ha detto il suo “sì”, diviene in senso vero e proprio la madre dei viventi in Cristo.
Consideriamo nel “sì” di Maria anche il nostro “sì” che rinnoviamo adesso insieme, anche a nome di tanti famigliari e amici che non sono qui presenti. Ridiciamo il “sì” di Maria che permette a Dio di farsi presente e fa di noi strumenti della sua grazia, missionari. È il tema della Diocesi per questo biennio. Essere missionari non è tanto fare attività missionarie, ma è una modalità del nostro essere che, per la forza della grazia, produce frutti e frutti. Un “sì”, quello di Maria, che la porta a lodare con sorpresa quanto Dio ha fatto di grande in lei: «L’anima mia magnifica il Signore». Fatte le debite proporzioni tutto questo è vero anche per noi. Ogni “sì” a Dio, alla sua Parola, ogni “sì” che pronunciamo per amore del fratello porta Dio e porta la sua gioia in noi e negli altri. Anche noi oggi ripetiamo – e dobbiamo farlo sempre – il Magnificat di Maria: «L’anima mia magnifica il Signore, ha fatto in me cose grandi, lui che è potente».

Omelia nella II domenica di Avvento

#FlashdiVangelo, 5 dicembre 2021

Bar 5,1-9
Sal 125
Fil 1,4-6.8-11
Lc 3,1-6

Il Vangelo di questa domenica inizia in modo particolarmente solenne: «Nell’anno quindicesimo dell’impero di Tiberio Cesare, mentre Ponzio Pilato era governatore…». Dopo l’elenco di tutti i protettorati (erano quattro) sotto la dominazione dei Romani, l’evangelista Luca continua con l’elenco delle autorità religiose, Anna e Caifa… È come se Luca ponesse quello che sta raccontando su un foglio quadrettato, con precisione e con una certa solennità. E che cosa accade?
Da ragazzo, quando leggevo questa pagina, provavo un po’ di delusione, perché mi aspettavo l’annuncio della nascita di Gesù. Invece accade un’altra cosa: «La Parola di Dio venne su Giovanni nel deserto». L’accadere della Parola di Dio su Giovanni è come l’accadere della Parola di Dio su ciascuno di noi e sulle nostre comunità. Come la Parola di Gesù: «Prendete e mangiate, questo è il mio corpo» trasforma il pane nella sostanza del corpo, sangue, anima e divinità del Signore, così la Parola che viene sulle nostre comunità le trasforma nel Corpo Mistico del Signore. Dunque, il Natale del Signore accade continuamente. Il sacerdote, alla celebrazione di ogni Messa – consentitemi l’analogia – fa nascere Gesù, come Maria, e lo depone nella bianca tovaglia dell’altare: grandezza del ministero sacerdotale! Allo stesso modo la comunità cristiana adagia Gesù nelle situazioni di vita.
La Parola di Dio venne su Giovanni Battista mentre era nel deserto: là viveva la sua vocazione. Così accade a noi: la Parola di Dio ci raggiunge là dove noi viviamo. Non dobbiamo idealizzare chissà quali scenari, immaginare chissà quali situazioni: in ogni momento la Parola di Dio accade su di noi. Dobbiamo averne l’intima certezza. Questo ci dà forza, ci induce a far credito a quella Parola, ad accettarne la sfida e a viverla. A volte ci propone il perdono «fino a settanta volte sette» (Mt 18,22), altre volte ci ricorda che dobbiamo essere lievito (cfr. Mt 13,33) e sale della terra (cfr. Mt 5,13), altre ci ricorda che c’è più gioia a dare che a ricevere (cfr. At 20,35). Proponiamoci allora di vivere la Parola e la Parola, poco a poco, ci fa altri Gesù.
Mi piace molto considerare l’esperienza di san Francesco d’Assisi il quale, nel XIII secolo, inventò il presepio. L’ha collocato in mezzo alle stradine di Greccio, nel piccolo villaggio dove c’erano il ciabattino e il muratore che lavoravano, la fontanella che forniva l’acqua a tutti… Il presepio sta a dirci questo.
Torna varie volte nel brano evangelico di questa seconda domenica di Avvento la parola “deserto”. È il luogo dove Giovanni Battista svolge la missione di precursore del Signore. Vedremo la prossima domenica il tono e il contenuto della sua predicazione. Adesso ci basti sottolineare come Giovanni si collochi “nel deserto”, il luogo più distante e più periferico; ma per Giovanni il deserto è memoria dell’esodo: il popolo d’Israele si lascia alle spalle l’Egitto e si incammina verso la terra promessa, verso la libertà. È anche il luogo dove si fa esperienza delle difficoltà: il calore del sole, il vento che sibila e sferza con la sabbia il volto, il pericolo degli scorpioni e dei serpenti. Ma il deserto è anche il luogo in cui il Signore si fa vicino: ecco l’acqua che scaturisce dalla roccia, la manna che piove dal cielo, la nube che protegge il popolo che cammina… C’è tutta una tradizione biblica che ha nostalgia del deserto, perché rappresenta il luogo del primo amore. Il profeta dirà, riferendo le parole del Signore: «La condurrò nel deserto e là parlerò al suo cuore» (Os 2,16).

L’evangelista ci riferisce le parole di Isaia per inquadrare la figura del Battista, il precursore; lui non è la Parola, è la voce che prepara ad accogliere la Parola: «Preparate la via del Signore…». In realtà, non siamo anzitutto noi che andiamo al Signore: è lui che viene a noi; compito nostro è spianare la strada. Questo è il cammino dell’Avvento. Nelle nostre case abbiamo preparato la Corona dell’Avvento: le quattro candele che scandiscono le settimane, che danno l’idea del tempo che stringe, che passa inesorabile. Si avvicina il Natale. Che non accada, come ogni anno, che siamo impreparati, presi da tante cose che non sono essenziali. Prepariamo il Natale anche con il sacramento della Riconciliazione, non andiamo all’ultimo minuto, cominciamo fin da oggi a prepararlo e viviamolo con questa gioia: «Preparo la via del Signore».

Omelia nella I domenica di Avvento

Secchiano (RN), 27 novembre 2021

Ger 33,14-16
Sal 24
1Ts 3,12-4,2
Lc 21,25-28.34-36

Buon anno! Oggi inizia un nuovo anno liturgico. L’anno liturgico è come un sentiero che sale e si avvita. Questo anno liturgico si concluderà alla festa di Cristo Re del 2022. L’anno liturgico è una vera e propria scuola. Innanzitutto è una scuola di evangelizzazione, perché, se abbiamo la perseveranza di partecipare alla santa liturgia della Chiesa, ogni anno veniamo rimessi a contatto con i fatti e i detti del Signore Gesù, con il racconto della sua vita: in Avvento l’attesa del Signore; a Natale la sua nascita, l’incarnazione; poi viene il tempo della Quaresima, tempo di penitenza e di disponibilità a vivere il mistero pasquale, che celebriamo solennemente nel Triduo pasquale; poi vengono la Pentecoste e le domeniche “ordinarie”; il tempo dell’anno ci fa rivivere la vita di Gesù, quindi ci evangelizza. L’anno liturgico è il Vangelo ripresentato in forma interattiva: vi siamo coinvolti non da spettatori, ma da compartecipi. L’anno liturgico è anche scuola di spiritualità, perché vengono suggeriti via via gli atteggiamenti del cuore e dell’anima da nutrire dentro di noi. Per esempio, il tempo di Avvento è il tempo dell’attesa: «Dimmi che cosa attendi e ti dirò chi sei!». L’anno liturgico è, poi, una scuola di pastorale. A volte ci chiediamo che cosa dobbiamo fare, cosa dobbiamo organizzare. L’anno liturgico è il più bel programma pastorale che ci sia. Nell’Avvento, l’attesa invita alla vigilanza e alla preghiera: si attende così il Signore. Nella Quaresima si vive la pratica delle virtù, dell’ascesi, ecc. L’anno liturgico dà suggerimenti anche ai nostri sacerdoti: su come organizzare la catechesi e la vita della parrocchia.

All’inizio della celebrazione ho acceso la prima luce dell’Avvento (sono quattro: ognuna rappresenta una settimana del cammino verso il Natale). Domenica prossima accenderemo la seconda, e così via fino a Natale. Questo gesto dà l’idea del tempo che non va sprecato, ma vissuto bene. Tante persone, quando si arriva al Natale, dicono: «Ahimè, anche quest’anno il Natale è arrivato così in fretta che non me ne sono accorto…». Negli ultimi giorni, poi, si viene presi dalle compere, dall’organizzazione del pranzo di Natale… Cerchiamo, allora, di vivere bene questo tempo (quasi un mese) facendo tesoro, ogni settimana, dei suggerimenti e dei propositi che ci vengono dati e soprattutto della pagina di Vangelo domenicale.
Avete visto il diacono che, con una certa solennità, è venuto davanti alla “biblioteca liturgica” e ha estratto il volume dell’anno “C”. L’anno “A” è caratterizzato dalla lettura dell’evangelista Matteo, l’anno “B” dall’evangelista Marco, mentre l’anno “C” è guidato dall’evangelista Luca. Ogni Vangelo presenta sottolineature proprie. Li chiamiamo “Vangeli sinottici”, perché se li si guarda con un unico colpo d’occhio si può notare che il materiale che hanno a disposizione viene organizzato redazionalmente in modo simile.

Luca è l’evangelista che Dante Alighieri chiamava scriba mansuetudinis Christi (lo scrittore della misericordia e della bontà di Cristo); infatti, l’evangelista Luca, più degli altri, si compiace di farci vedere di Gesù l’aspetto misericordioso; è il Vangelo che narra la parabola del figliuol prodigo, che ci racconta la gioia di Zaccheo quando viene perdonato da Gesù. Nel Vangelo di Luca Gesù in croce mentre soffre terribilmente e prega continua ad amare, poi, volgendosi al ladrone, dice: «Oggi sarai con me in paradiso» (Lc 23,43). Si può dire che questo è il centro del Vangelo di Luca. Tutti i 23 capitoli precedenti, infatti, non sono altro che preparazione perché un povero ladrone si senta dire: «Oggi sarai con me in paradiso». Luca è l’evangelista dei poveri che si affollano dietro a Gesù e chiedono aiuto. Gesù non si tira indietro. È anche l’evangelista che presenta i «poveri in spirito», cioè la categoria di credenti che confida unicamente nel Signore; la prima povera accanto a Gesù è la Madonna, che dice di sé: «Sono l’ancella del Signore» (Lc 1,38) e nel Magnificat canta il Signore che guarda «alla piccolezza della sua serva» (Lc 1,48). Nei Vangeli dell’infanzia Luca presenta tutti questi personaggi, i “poveri di Jahvè” (così vengono chiamati nell’esegesi): Zaccaria, Elisabetta, Anna, Simeone, i pastori, ecc.
C’è un punto nell’opera dell’evangelista Luca che mi preme sottolineare perché, come Diocesi, lo stiamo vivendo in modo speciale nel programma di quest’anno, ed è la connessione fra preghiera, effusione dello Spirito e missione.
Luca ci fa vedere Gesù in preghiera; pregano i Dodici e la comunità cristiana nel libro degli Atti degli Apostoli. Quando si entra in preghiera e si è davanti all’Altissimo, Lui effonde il suo Spirito, certifica che sei ammesso alla comunione con il Padre e con il Figlio suo. In preghiera ci viene dato lo Spirito e lo Spirito ci spinge ad essere missionari e testimoni; non possiamo tacere – dicevano gli apostoli – l’esperienza che abbiamo fatto.
Davanti alla Cappella del Vescovado, sull’architrave della porta di ingresso, è presente una raffigurazione dello Spirito Santo in forma di colomba. Ultimamente, prima di entrare in chiesa, guardo la colomba e penso alla Terza Divina Persona, lo Spirito Santo, che è stato effuso su di me e su ciascuno nel Battesimo e dico: «Vieni Spirito Santo». Quando partecipo ad una riunione, specialmente durante le più difficili, mi capita spesso di invocare lo Spirito Santo su chi deve parlare. Altre volte, mentre ascolto una confessione, dico: «Vieni Spirito Santo, suggeriscimi che cosa dire a questa persona… sono vuoto, non saprei cosa dire».
A volte dico: «Vieni Spirito Santo!». E lui mi pare che risponda: «Vai! Sei missionario, non avere paura, non tacere».

Facciamo ora una breve sottolineatura sul tempo dell’attesa, l’Avvento. Tempo dell’attesa. Cosa aspettiamo? Riviviamo un po’ quello che hanno vissuto gli ebrei: aspettavano il Messia. Nella Bibbia ci sono preghiere stupende: «Scendi, Signore, come rugiada sull’erba…» (cfr. Sal 72,6); «O se tu squarciassi i cieli e scendessi…» (cfr. Is 63,19). Dunque, l’invocazione: «Vieni!». Viviamo in modo forte l’attesa del popolo ebraico, ma anche tutta l’umanità è sempre stata in attesa della manifestazione di Dio. Da quando Gesù è venuto, i cristiani sanno che il Natale non è tanto la festa del “compleanno” di Gesù, anche se è doveroso ricordarlo. I cristiani aspettano il suo ritorno, perché lui ha detto che ritornerà. I primi cristiani avevano più di noi questo senso del ritorno di Cristo, a volte commettendo due esagerazioni: quella di scivolare nel millenarismo (il calcolo della fine del mondo), oppure di lasciarsi andare a causa del suo ritardo. La liturgia aiuta ad essere equilibrati. Ci ricorda la nascita di Gesù e insegna ad accoglierlo: è venuto, verrà e viene nel presente, nel nostro vissuto di ogni giorno. Allora niente catastrofismi e neppure abbandoni alla mediocrità. «Vieni Signore Gesù, voglio accoglierti».

Omelia nella XXXII domenica del Tempo Ordinario

#FlashdiVangelo, 7 novembre 2021

1Re 17,10-16
Sal 145
Eb 9,24-28
Mc 12,38-44

Siamo al capitolo 12 del Vangelo di Marco, ormai Gesù è entrato a Gerusalemme, frequenta il tempio, ha avuto le dispute – almeno cinque – con farisei, scribi, sadducei. Ora con i discepoli si è messo in un angolo e guarda la gente che sale al tempio. Ad un certo punto Gesù richiama l’attenzione dei suoi apostoli, che probabilmente stavano chiacchierando tra loro non si sa di che cosa. Gli apostoli si voltano e vedono le persone che si dirigono al tesoro del tempio (era una sorta di grande imbuto dove le persone gettavano le offerte). Sale una vedova. È povera: forse Gesù l’ha intuito dal suo vestito. La vedova mette nel tesoro del tempio appena «due monetine che fanno un soldo». In quel momento è come se Gesù mettesse “in cattedra” quella povera vedova: col suo atteggiamento ha qualcosa da mostrare agli apostoli e a noi. Che cosa insegna? Insegna la fiducia nel Padre. Getta nel tesoro due monetine; avrebbe potuto tenerne una per sé, invece, dà tutto quello che ha per vivere (san Martino di Tours ha dato metà del suo mantello!). Gesù fa capire che quella vedova non è solo il prototipo del vero discepolo, ma preannuncia chi è veramente lui. Lo si evince da quel verbo ripetuto sette volte: gettare. Non un gettare per disprezzo, un buttar via, ma per offrire decisamente e interamente. È quello che Gesù fa. Getta la sua vita per noi. Dunque, Gesù si vede nella vedova povera.
C’è anche un altro insegnamento. Gesù sottolinea come non valga tanto la quantità delle cose buone che si fanno, ma la necessità di essere buoni. A volte si dice «dai cento, vali cento», «dai cinque, vali cinque». Ma non è così, perché la bilancia che Dio guarda è nel cuore. Invito a pensare a come viviamo l’offertorio durante la Santa Messa. Domenica scorsa ero in una parrocchia; nel primo banco c’era il gruppo dei bambini del catechismo. Al momento della raccolta hanno aperto il borsellino e hanno messo nel cesto la loro monetina. Altre volte avevo assistito al gesto dei bambini che correvano dalla mamma per farsi dare il soldino da mettere loro stessi, da protagonisti, nel cesto della raccolta. Ma in quella parrocchia sono stati proprio loro ad aprire il borsellino. In quel momento ho capito che il gesto vale se capito all’interno della liturgia. Nel momento dell’offertorio non dai qualcosa, ma dai te stesso. Vorrei vivessimo il momento dell’offertorio con solennità, caricandolo di tutto il nostro desiderio di fiducia nel Signore, di essergli discepoli. Così sia.

Saluto al parroco don Marco Scandelli e al collaboratore don Stefano Mirt nella XXXII domenica del Tempo Ordinario

Borgo Maggiore (RSM), Santuario Madonna della Consolazione, 7 novembre 2021

Mc 12,38-44

Carissimi tutti,
vi saluto mentre vi preparate a vivere un’esperienza particolare: il trasferimento dei vostri sacerdoti.
Rivolgo un saluto colmo di gratitudine a don Marco e a don Stefano.
Il cambio del pastore – il sacerdote – fa pensare a colui che è il Buon Pastore, il Signore Gesù. Noi passiamo, lui resta.
Tuttavia, la vostra partecipazione dimostra quanto sia importante la figura del prete. Una consapevolezza condivisa anche da chi non è praticante o è di altra convinzione. Per i credenti il sacerdote è soprattutto colui che presiede la Divina Eucaristia. A lui il Cielo obbedisce, il Signore Gesù nelle sue mani si dona, getta la sua vita, si fa presenza con la sostanza del suo corpo, sangue, anima e divinità. Attraverso l’assoluzione sacramentale il sacerdote dà il perdono di Dio. Da questo punto di vista il prete è la persona più ricca che ci sia: per l’imposizione delle mani (cioè per il sacramento dell’Ordine), per la grazia sacramentale, ha il potere stesso di Gesù. Capisco quanto diceva Francesco d’Assisi ai suoi frati: «Se incontrate per strada un arcangelo e un prete poverello, salutate prima il prete poverello» (cfr. FF 176; 790). Nel contempo il sacerdote è la persona più povera che ci sia, perché non dice parole sue, non ha poteri suoi, ma semplicemente mette a disposizione del Signore le sue mani, i suoi piedi, il suo cuore, la sua intelligenza per essere una sua presenza. Rimane intatta la sua umanità, con le sue caratteristiche, i suoi pregi e i suoi difetti. «Preso fra gli uomini (della loro stessa natura), è costituito a favore degli uomini per le cose che riguardano Dio» (cfr. Eb 5,1). Da un buon gregge vengono buoni pastori! (cfr. Sant’Agostino D 46,29). Questo ci responsabilizza.
Ogni cambiamento segna sempre un punto critico, di sofferenza e di distacco, ma può diventare motivo di crescita per tutti.
Nella mia vita ho cambiato otto volte il servizio pastorale; non dico che il sacerdote soffre più degli altri, se faccio il paragone con i miei fratelli (nella mia famiglia) devo riconoscere che hanno sofferto e soffrono molto più loro di me. In otto cambiamenti ho trovato ogni volta una casa migliore dell’altra… Il Signore mi ha chiamato al sacro celibato, ho rinunciato ad avere una famiglia mia; ma quanti affetti, quante amicizie… Lo dico per incoraggiare chi eventualmente è chiamato. Davvero il Signore dà il centuplo, insieme a qualche persecuzione e a qualche distacco (cfr. Mt 19,29).
Quest’anno siamo stati accompagnati nella liturgia domenicale dall’evangelista Marco. Questa è la domenica in cui Marco chiude la sezione narrativa del suo Vangelo. Poi, domenica prossima, ci riferirà il discorso di Gesù sulla fine. Chissà quanti altri episodi, quante altre parabole e parole di Gesù l’evangelista Marco avrebbe avuto a disposizione. Ma, per congedarsi da noi, suoi lettori, sceglie tra i ricordi l’invito commosso di Gesù a guardare la vedova povera (cfr. Mc 12,38-48). Gesù invita i discepoli, e Marco invita noi, a fare come la vedova povera, che dà tutto, tutto quello che ha per vivere. Ci raccomanda questa anonima del Vangelo come modello del vero discepolo, pieno di fiducia nel Padre, al quale dà tutto senza riserve (è poco quello che dà, ma è tutto per lui!): «due spiccioli che fanno un soldo», che sono l’amore a Dio e l’amore al prossimo, un unico amore.
Gesù è davvero commosso, perché vede nella vedova povera quello che sta per vivere nella Passione. Ben sette volte, in una pericope così breve, adopera il verbo gettare (il verbo greco è molto più ricco di quello italiano): gettare è un’allusione molto chiara alla scelta di Gesù di offrire la sua vita. Il verbo “gettare” non è disprezzo della vita, ma decisione risoluta di dare tutto senza nulla trattenere per sé.
Diciamo grazie all’evangelista Marco che ci ha accompagnato lungo questo anno. Marco è l’evangelista del catecumeno, che prende per mano e al quale fa vedere l’umanità di Gesù con molti particolari per farlo riconoscere come Figlio di Dio. Nell’iconografia Marco viene raffigurato con un leone. Nel prossimo anno liturgico – ormai imminente – saremo accompagnati da un altro evangelista, Luca, raffigurato dall’iconografia come un bue. Se il Vangelo di Marco è il Vangelo del catecumeno, con l’insegnamento e l’accompagnamento, l’evangelista Luca – come scriveva Dante Alighieri – è lo scriba mansuetudinis Christi, cioè colui che ci rivela e ci manifesta la tenerezza e la misericordia di Gesù. Vi auguro un buon anno liturgico. Sia lodato Gesù Cristo.

Omelia nella S.Messa in suffragio dei Vescovi e dei Sacerdoti defunti

Pennabilli (RN), Cattedrale, 5 novembre 2021

2Tm 2,8-13 p. 855
Sal 24 p. 856
Gv 17,24-26 p. 892

Anzitutto grazie perché avete voluto dedicare quest’ora alla preghiera per i vescovi e i sacerdoti defunti, che hanno servito la nostra Chiesa e ci hanno assicurato la trasmissione della fede. Noi sacerdoti contiamo molto sulla solidarietà dei figli spirituali.
Nel raccoglierci questa sera a pregare per i vescovi, i canonici e i sacerdoti defunti della nostra Chiesa di San Marino-Montefeltro sono impressionato dalle parole che san Paolo scrive a Timoteo. Anzitutto belle le parole del saluto iniziale che abbiamo omesso e sono presupposte. Un saluto che torna in tantissime lettere di Paolo e gira attorno a tre parole: grazia, pace, misericordia (cfr. 2Tm 1,2). Si direbbe che l’Apostolo pensi quanto un sacerdote abbia più bisogno di altri dell’indulgenza, della misericordia e del perdono di Dio. Noi sacerdoti, noi vescovi, abbiamo ancora più bisogno di altri dell’indulgenza, della misericordia e del perdono di Dio. Penso che i miei sacerdoti siano persuasi, come me, della pertinenza della mia affermazione. Siamo uomini che possono sbagliare e peccare; siamo uomini circondati di infermità, come scrive l’autore della Lettera agli Ebrei (cfr. Eb 5,2), dell’infermità degli altri e la nostra, che ci viene da dentro; siamo uomini che devono offrire sacrifici per sé e per le proprie colpe (cfr. Eb 7,27). Siamo, però, uomini scelti da Dio e rivestiti del Sacro Ministero col Sacramento dell’Ordine, favoriti di particolari grazie e straordinari poteri; uomini in obbligo di cantare sempre, aiutati dalla fede, la gratitudine a Dio per i suoi doni; ma proprio per tutto questo siamo più responsabili di errori, mancanze, debolezze e possiamo incorrere in più severi giudizi del Signore (cfr. Sap 6,7). A chi è stato dato molto – diceva Gesù – verrà chiesto molto (cfr. Lc 12,48). Vescovi e sacerdoti defunti hanno, pertanto, necessità di ampi suffragi e preghiere (se non li ricordiamo in questa circostanza, chi si ricorderebbe di loro?). Possono essere stati sviati, nella vita presente, e abbagliati dal loro ruolo; possono aver concepito il loro ufficio non come un servizio, ma come un’occasione di potere (cfr. Mc 10,42-45); possono essere stati tentati e illusi dalla coreografia della loro autorità, dei loro titoli, dal desiderio e dal compiacimento di una effimera e vana gloria; possono essersi lasciati ingannare come mercenari (cfr. Gv 10,9ss) dall’attrattiva dell’interesse, dal guadagno del denaro (cfr. 1Pt 5,2-3); possono non avere imitato, fortiter et suaviter (cfr. Sap 8,1), come sarebbe stato doveroso, il modello del Buon Pastore (cfr. Gv 10); possono non aver saputo leggere i segni dei tempi, non adeguando la pastorale alle loro comunità; possono aver trascurato lo slancio missionario, accontentandosi dell’abitudinario e della routine pastorale; possono aver commesso omissioni che hanno scandalizzato i fedeli; possono aver ceduto umanamente, per debolezza, alle lusinghe del male; possono non aver atteso, da subito, alla correzione e alla modifica del loro temperamento, trascurando via via la loro formazione fino a non saper mostrare un’umanità vera, invitante, attraente, bella. Era bella l’umanità di Gesù! Quante incongruenze. Quante mancanze. Quante fragilità. Signore, abbi pietà!
Tuttavia, mi piace applicare ad ogni vescovo e ad ogni sacerdote le parole che san Paolo rivolge a Timoteo. Lo chiama: «figlio mio». Timoteo era, per così dire, l’Ausiliare di Paolo. L’ha fortemente voluto accanto a sé. Paolo conosceva di Timoteo molti particolari, sapeva il nome della nonna, il nome della mamma e tante altre notizie…
Paolo, in questa sua Lettera, gli dedica qualche frammento di un inno battesimale sul Cristo Risorto in cui viene ricordata l’origine davidica di Gesù. Al di là dei limiti, delle catene della mediocrità e del peccato – anche un vescovo e un sacerdote possono sentirne il peso – la Parola di Dio che vescovi e sacerdoti proclamano non è incatenata. Noi siamo incatenati, ma la Parola no! A Timoteo, Paolo scrive: «Se moriamo con lui (con Gesù Figlio di Davide), con lui anche vivremo; se perseveriamo, con lui anche regneremo; se lo rinneghiamo, lui pure ci rinnegherà; se siamo infedeli, lui rimane fedele, perché non può rinnegare se stesso». Gesù e il suo Vangelo sono più grandi delle nostre incongruenze.
C’è nella Lettera anche un messaggio per noi che ora lavoriamo nella vigna del Signore. Chi vive ciò che medita e medita sul mistero di Cristo Gesù, rispecchia poco a poco nella sua vita Gesù: «Se leggi il Vangelo e lo vivi ti trasforma in un altro Gesù». Timoteo – e ognuno di noi può vedersi in lui – dovrà essere un “memoriale vivo”, cioè un ricordo vivente della Risurrezione del Signore. Quanti lo vedranno vivere e agire capiranno che Gesù Risorto trasforma l’esistenza del cristiano, del vescovo, del sacerdote e la colma di luce, di pace e di gioia. Così tutti possiamo raggiungere la salvezza che il Signore ci offre. L’esortazione di Paolo non potrebbe proporre a noi – vescovo, presbiteri, diaconi e fedeli – un programma più affascinante.
Concludo con la preghiera audace di Gesù al termine dell’Ultima Cena: «Alzati gli occhi al cielo, Gesù pregò dicendo: “Padre, voglio che quelli che mi hai dato siano anch’essi con me dove sono io”» (Gv 17,24). Sono rincuorato da questo imperativo. Ci insegna ad essere, a nostra volta, audaci nella preghiera. Pieni di fede e di speranza. Così sia.

Omelia nella Festa di Tutti i Santi

Pennabilli (RN), Cattedrale, 1° novembre 2021

Ap 7,2-4.9-14
Sal 23
1Gv 3,1-3
Mt 5,1-12

  1. Tutti chiamati alla santità

Domenica 26 ottobre si è celebrata la beatificazione di una giovane ragazza di Rimini: Sandra Sabattini. Qualcuno di voi probabilmente l’ha conosciuta e incontrata.
Vorrei darvi testimonianza di quello che ho vissuto partecipando alla celebrazione. Siamo in sagrestia e cominciano ad arrivare le autorità a fare omaggio al cardinale Marcello Semeraro, delegato del Papa: il prefetto, il sindaco, il questore e tanti miei confratelli: l’arcivescovo di Pesaro, il vescovo di Urbino, il vescovo di Forlì, ecc. Appena usciti dalla sagrestia ci rendiamo conto che c’è una folla immensa. Si passa nel cortile di fianco alla Cattedrale, si arriva nella piazza piena di gente e mi viene spontaneo dire al vescovo di Rimini, mons. Francesco Lambiasi (siamo molto amici): «Guarda, qui c’è una ragazzina che ci sta mettendo tutti in fila!». Così siamo entrati in Cattedrale. Ho pensato: «Questa è la rivincita dei giovani!». Rimini ha tanti santi e beati giovani del nostro tempo, oltre a Sandra: Alberto Marvelli, Carla Ronci… Siamo tutti chiamati alla santità. La santità è una necessità per il cristiano.

  1. Santità: opera della grazia

Il Vescovo di Rimini legge la richiesta formale a papa Francesco perché «Sandra sia scritta nel numero dei beati». Ad accogliere la richiesta è il cardinale Marcello Semeraro, rappresentante del Papa come prefetto della Congregazione per la Cause dei Santi. Intanto che il cardinale pronuncia in latino la formula di beatificazione, allargo lo sguardo sulla folla presente in Cattedrale e mi commuovo: «Chissà quante Sandre sono qui tra noi». L’eroismo nel quotidiano. Ma è meglio non chiamare la santità eroismo, perché potrebbe mettere soggezione a tanti di noi: è un frutto della grazia!

In questi giorni sono molto preso dal Programma pastorale: voglio viverlo io per primo, non si tratta di un’organizzazione. Penso alla relazione tra il Padre e il Figlio. L’amore del Padre è infinito, eterno dono, che addirittura “non è”, perché tutto fuori di sé. Il Figlio è suprema accoglienza dall’eternità, da sempre. È grande amare, ma è altrettanto grande lasciarsi amare. In questa relazione d’amore c’è l’effusione dello Spirito, la terza Divina Persona. È emozionante pensare che ci è stato dato lo Spirito Santo, che cioè siamo collocati dentro a questo circuito di luce, di vita, di amore. Dunque, la santità è opera della grazia.

Mi piace sfogliare il diario di Sandra. La prima battuta è: «Sono piena di niente». Ed è per essere piena di Tutto.

  1. Ritmo, regola, rito

Intanto il postulatore legge una sintesi della biografia di Sandra; è breve, perché la vita di Sandra è stata breve – Sandra è morta in un incidente stradale all’età di 22 anni –, ma si capisce che è stata intensissima e normale: studio, sport, canto, amicizie, Associazione Papa Giovanni XXIII, preghiera e silenzio davanti all’Eucaristia, fidanzato, università, servizio… La volontà di Dio sempre, subito, con gioia. Le tre erre: ritmo, regola, rito! Il programma che possiamo fare nostro.

  1. Vita piena e possibile

Ci viene regalata una biografia di Sandra. Guardo le foto. La più bella in assoluto è quella scattatagli dal fidanzato in un momento di gioia: è la foto scelta per lo stendardo (il manifesto ufficiale) e per la stola data a noi sacerdoti. Vi si coglie bellezza, sorriso, luce negli occhi, persino movimento. C’è anche la foto di Sandra al mare in costume. Ci sono le foto da bambina che gioca con un Pinocchio di legno; da ragazzina sul podio dopo una gara sportiva (corsa di velocità); da universitaria, quando trova il tempo di aiutare un’amica disabile, e tante altre… Testimonianze di una vita intensa, animata da grandi e sostenibili, perchè possibili, ideali.

  1. Un unico amore

Un’altra foto mi colpisce in modo particolare: Sandra col suo kway in piazza con un pacco di giornali sul braccio da distribuire. Si intravvede il titolo di prima pagina: “Handicappati e lavoro” (si diceva così negli anni ‘70), segno della sua dedizione agli altri, ai meno fortunati, testimonianza dell’unico precetto che racchiude insieme amore a Dio e amore al prossimo. Alla scuola di don Oreste Benzi: carità che non si ferma all’elemosina, ma che diventa ascolto, apertura al sociale, impegno. A dieci anni aveva chiesto al Signore: «Ti prego, fa’ che io possa aiutare persone più bisognose di me» (Diario 15.1.1975).

  1. Il segreto

Anche di altri santi “moderni” esistono raccolte di fotografie (celebre la raccolta di santa Teresa di Lisieux, la prima ad avere un servizio fotografico suo, anche lei disinvolta, c’è persino una foto in cui partecipa ad una recita vestita da santa Giovanna d’Arco…). Le foto di Sandra descrivono una santità possibile, attraente, espressione del nostro tempo, bella! La santità è qualcosa di desiderabile: bellezza, gioia, pienezza di vita.
Sono tornato da Rimini commosso e pieno di desideri di santità. Forse solo suggestione? Detto così sembra facile, ma bisogna andare oltre alle fotografie, oltre alle cerimonie per vedere il segreto della santità. Qual è il segreto della santità di Sandra? Le foto colgono un attimo (un fotogramma), ma che cosa c’è sotto?
Consiglio di leggere il diario di Sandra per coglierne il segreto. Ecco qualche riga.
«Potremmo dire – scrive il 20 febbraio 1983 – che siamo ciò che preghiamo (per dire che la preghiera non è essere fuori dalla realtà). Mi sento come colui al quale, stolto, vengono date delle perle. La vita è un continuo morire giorno dopo giorno, ma è anche un continuo rinascere alla vita vera. Siamo intransigenti sul dovere di amare, non cediamo, non veniamo a compromessi, ridiamo di coloro che ci parleranno di prudenza, di convenienza, di giusto equilibrio e soprattutto crediamo nella bontà dell’uomo, perché nel cuore di ciascuno ci sono tesori d’amore. La più grande disgrazia che ci possa capitare è di non essere utili a nessuno e che la nostra vita non serva a niente. Vivere è saper amare».
Queste le ultime righe del diario, scritte due giorni prima di morire: «Non è mia questa vita che sta evolvendosi ritmata da un regolare respiro che non è mio, allietata da una serena giornata che non è mia; non c’è nulla a questo mondo che sia tuo. Sandra, renditene conto. È tutto un dono su cui il donatore può intervenire quando e come vuole. Abbi cura del regalo fattoti, rendilo più bello e pieno per quando sarà ora».
Sia lodato Gesù Cristo.

Omelia nella XXXI domenica del Tempo Ordinario

Maiolo (RN), 31 ottobre 2021

Dt 6,2-6
Sal 17
Eb 7,23-28
Mc 12,28-34

Ancora una volta un trabocchetto a Gesù: «Maestro, qual è il comandamento più grande?». Sembrerebbe una domanda innocua… Ma il trabocchetto è questo. All’epoca c’erano due scuole rabbiniche con posizioni diverse tra loro. I precetti sono 613. Una scuola dice: «Il precetto più leggero ti sia caro come il precetto più pesante», come dire: «Vivili tutti», non si dà parvità di materia. Un’altra scuola, invece, si arrovella per stabilire una sorta di hit-parade su quale sia il comandamento più grande, glissando sui comandamenti più leggeri. Il rabbi che fa la domanda vuole che Gesù si schieri, dichiari da che parte sta. Ma Gesù sorprende perché va ben oltre, va in profondità. Se vuoi capire i comandamenti non cavarli fuori dal contesto nel quale il Signore li ha consegnati. Come abbiamo ascoltato nella Prima Lettura, furono consegnati a Mosè dopo la grande esperienza dell’esodo: la liberazione dalla schiavitù. Un popolo intero prende la via del deserto e, giunto al monte Sinai, riceve da Dio stesso le “dieci parole”, quelle che noi chiamiamo “i dieci comandamenti”. Con le “dieci parole” il Signore fa alleanza, stringe un patto di amicizia col suo popolo e con noi. Dando le “dieci parole” Dio ha detto: «Adesso siete un popolo libero. Vi do la legge, ma non come un giogo che si mette sulla schiena agli animali. Vi do “dieci parole” con le quali potete rispondermi. Io vi ho fatto un atto di amicizia, di liberazione; adesso voi potete confermare che anche voi mi siete amici». Il contesto ci porta a collocare le “dieci parole” nella interpersonalità, cioè nel rapporto. Da qui il significato dei due verbi che seguono: “Ascolta” e “ama”, cioè entra dentro a questa relazione. Basta amare! Ma è difficile, è una parola che è andata un po’ sbiadendo nel tempo. Gesù dice che ami veramente se ami con tutto te stesso, cioè nella totalità. Gesù parla di cuore, mente, anima e forza. Sottolineo l’aggettivo dimostrativo: tutto il cuore, tutta la mente, tutta l’anima, tutta la forza. Gesù non fa calare la tensione morale semplificando, tutt’altro! Radicalizza. L’originalità sta nel fatto che il Signore congiunge i due comandamenti: amare Dio e amare il prossimo. I due amori non sono in antitesi: sono un unico amore. Ascolto mio marito che torna dal lavoro o dico il Rosario? Se dai ascolto a tuo marito e gli prepari una buona cena, hai sicuramente osservato il comandamento dell’amore. Mi dedico al lavoro che non posso rimandare oppure vado in chiesa? La domanda che ci rivolge Gesù è: «Stai amando?». Se dici il Rosario senza amore, oppure se fai quel lavoro senza amore, non serve a niente. Sant’Agostino ha una frase lapidaria: «Ama e fa’ ciò che vuoi». Questa frase va letta nel contesto. Scriveva infatti: «Devo prendere la parola o devo tacere? Devo alzarmi o devo star seduto? Ama e fa’ ciò che vuoi: a guidarti nella scelta sia l’amore».
Mi ha colpito la catechesi di papa Francesco di mercoledì scorso (27 ottobre 2021, ndr). Sta commentando la Lettera ai Galati. «A volte chi si accosta alla Chiesa ha come l’impressione di trovarsi davanti ad una fitta mole di comandi e di precetti». «Ma questa non è Chiesa – continua – non si gode la bellezza della fede in Gesù Cristo partendo da troppi precetti, troppi comandamenti. È una visione morale che, sviluppandosi in molti rivoli, può far dimenticare l’originaria fecondità dell’amore, nutrito di preghiera che dona pace e gioia». Ami veramente? Fai quella cosa per amore? Fai tutto per amore.
Ora permettetemi di dire qualche parola su san Pio V, la cui reliquia abbiamo deposto nell’altare. Pio V è un piemontese, nato nel 1504 (erano trascorsi appena dodici anni dalla scoperta dell’America). In famiglia non si erano accorti che quel ragazzo che andava a lavorare in campagna aveva grandi talenti. Ma c’è chi se n’è accorto. A quattordici anni Michele Ghislieri – questo il suo nome prima di essere papa – comincia le scuole e in dieci anni completa tutti gli studi, compresa l’università. L’hanno mandato a scuola dai domenicani, che nella Chiesa, all’epoca, sono la famiglia religiosa più impegnata nella cultura. Il nostro beato Domenico Spadafora era un domenicano ed era contemporaneo di Michele. Domenico Spadafora viene a fare il missionario nei territori della Val Foglia e della Val Conca, a Monte Cerignone, Michele diventa insegnante di teologia, gode la fama di grande teologo e di austerità. Viene chiamato a Roma per lavorare a quello che allora si chiamava il Sant’Uffizio (la Congregazione per la Dottrina della Fede). Era un periodo difficile per due motivi: nella Chiesa serpeggiava l’eresia; la prima preoccupazione, pertanto, era l’integrità della fede. Il secondo problema era l’ignoranza religiosa. Ho letto il resoconto delle visite pastorali del vescovo di Ferrara all’epoca (beato Giovanni Tavelli da Tossignano): c’erano preti che non sapevano neppure le formule dei sacramenti. Nel frattempo, Michele diventa vescovo e poi cardinale. Quando gli mandano dei soggetti pericolosi, come prima cosa cerca di chiarire se sono stati mandati a processo per vendetta o per invidia. È un inquisitore giusto e buono, al punto che il papa lo manda a fare il vescovo in provincia, a Mondovì (Piemonte). San Carlo Borromeo, arcivescovo di Milano, alla morte del Papa fa sì che Michele venga eletto papa. Prende il nome del predecessore, quello che l’aveva mandato via da Roma: Pio IV. Sant’Ignazio di Loyola e altri santi di Roma sono entusiasti del nuovo papa Pio V, che non vive come un principe e ha mantenuto il suo vestito da domenicano, l’abito bianco (da allora i papi hanno sempre adoperato il vestito bianco, ndr). Pio V è stato papa per sei anni, ma ha dato alla Chiesa una forte sterzata. Ha fatto scrivere il Catechismo e l’ha indirizzato ai parroci: Catechismus ad parrocos, che fino a cinquant’anni fa è stato in uso nella Chiesa. Ha riorganizzato la santa liturgia e iniziato a fare le visite pastorali nelle parrocchie. I quadri lo rappresentano con un volto severo e austero, con la testa calva, il naso ricurvo e una barba candida. Di lui si diceva che era “pelle e ossa”.
Che cosa chiediamo nella preghiera a san Pio V? Chiediamo di essere saldi nel Vangelo e nella fede, di crescere nel fervore e nella devozione. E lui cosa dice a noi? Ci rivolge le parole di san Paolo ai Tessalonicesi: «Siamo stati amorevoli in mezzo a voi, come una madre che nutre e cura le proprie creature. Così affezionati a voi, avremmo desiderato darvi non solo il Vangelo, ma la nostra stessa vita, perché ci siete diventati cari» (1Ts 2,7-8). «Io sono in mezzo a voi – ci dice Pio V – con questa paternità-maternità».
Il vostro patrono è san Biagio, santo del IV secolo, ma adesso avete anche san Pio V che vi accompagna e vi protegge dal Cielo. Così sia.