Omelia nella IV domenica del Tempo Ordinario

Maciano (RN), Convento Santa Maria dell’Oliva, 30 gennaio 2022

S.Messa in memoria della Beata Maria Bolognesi

Ger 1,4-5.17-19
Sal 70
1Cor 12,31-13,13
Lc 4,21-30

È l’evangelista Luca che quest’anno ci fa conoscere un altro profilo di Gesù. Durante il tempo natalizio ci ha informato sulla sua nascita: Luca racconta tutto con gli occhiali della risurrezione – è testimone di come Gesù è risorto, è vivo – e quindi racconta anche l’infanzia in questa ottica. Il Bambino adagiato nella mangiatoia è il Signore deposto nel sepolcro. Il Signore che viene accompagnato al Tempio è il Messia che prende il suo posto nella Casa del Padre. Poi, sembra esserci un grande silenzio, per trent’anni: la vita di Nazaret. Per la cronaca sono trent’anni di silenzio, ma in verità quei trent’anni anni sono un urlo, perché Gesù proclama con la sua vita il valore del quotidiano, della famiglia, del lavoro, con tutte le virtù che vediamo concentrate nella casa di Nazaret. Poi, Gesù scende al fiume Giordano e lo oltrepassa. Qui Giovanni Battista lo accompagna e c’è la grande rivelazione: quel Gesù, figlio del falegname che vive a Nazaret è il Messia, il Figlio di Dio su cui è scesa visibilmente la presenza dello Spirito. Però dovrà attraversare il deserto, proprio come il popolo d’Israele; dovrà essere provato per farci vedere come si vive da figli, cioè nell’abbandono fiducioso al Padre.

Da quel momento comincia la vita profetica di Gesù. Avete sentito il profeta Geremia nella Prima Lettura: «Prima di formarti nel grembo materno, ti ho conosciuto…». Questo è vero in modo eminente per Gesù. «Prima che tu uscissi alla luce, ti ho consacrato e ti ho stabilito profeta delle nazioni». Poi, il profeta Geremia continua con un invito al coraggio. L’evangelista Luca racconta come Gesù lascia il Giordano, il deserto e le rive del lago, dove ha già fatto dei miracoli e radunato un drappello di compagni di viaggio (gli apostoli) e va a Nazaret, torna al suo villaggio, preceduto da una certa fama. Lo invitano in sinagoga, a leggere le Sacre Scritture – forse l’aveva fatto anche altre volte – e a prendere la parola: «Lo Spirito del Signore è su di me, mi manda per annunciare ai poveri la tenerezza di Dio, la luce per chi è nel buio, la libertà per chi è oppresso, un anno di grazia per tutti». I presenti sono ammirati: Gesù ha fatto un discorso eccellente, ma dopo un po’ le cose cambiano. I suoi concittadini sono in difficoltà su due punti; è importante saperlo, non è un pettegolezzo del passato, forse sono gli “inciampi” che proviamo anche noi nell’accettare totalmente Gesù, senza riserve.

Primo “inciampo”: «Gesù, tu dici cose meravigliose, ma chi ti credi di essere? Stai usando un tono così definitivo che ci sembra pretenzioso. Dici che oggi si è adempiuta questa scrittura… Vola basso, sei il figlio di Giuseppe, il falegname!». Il primo “inciampo” è la difficoltà ad accettare che il profeta Gesù, che si rivelerà pienamente nella sua identità di Messia, è un uomo comune, è uno del posto, uno che vive accanto a tutti: cosa può avere di così speciale? Questo capita anche tra di noi… Terribile l’invidia: è un meccanismo che si subisce, ma di cui bisogna prendere coscienza, soprattutto quando si è alla pari in una famiglia, in una comunità, in una diocesi, tra colleghi e ci si confronta. Se non lo si rimuove, cresce e fa disastri. Di chi ci sorpassa si dice: «Quello è un arrivista! Chi si crede di essere!».

Ho fatto un’esperienza come postulatore per la beatificazione di un parroco che aveva dodici piccole parrocchie sull’appennino parmense. Ho ricevuto lettere di alcuni che pensavano che quel sacerdote non fosse poi così speciale. Era un sant’uomo, amava molto i poveri; raccontano che, quando scendeva in città a Parma dava via tutto quello che aveva e doveva chiedere in prestito i soldi per pagarsi il biglietto per poter tornare. Però era un sacerdote “normale”. La santità non consiste nel far cose mirabolanti. Padre Raffaele, parlandoci della beata Maria Bolognesi, ha riferito che neppure i suoi famigliari sapevano che aveva dei doni mistici. Io, ad esempio, rimasi molto sorpreso: sapevo che, in alcuni momenti, soprattutto in Quaresima, riviveva la coronazione di spine, ma, incontrandola, mi accorsi che aveva una fronte bellissima. Quando è stata beatificata – ero presente alla cerimonia a Rovigo il 7 settembre 2013 – ricordo che mi venne un gran desiderio di santità, di darmi a Dio per davvero. Fu una grazia attuale data attraverso di lei. Ho capito che la santità è per tutti, è praticabile.

Il secondo “inciampo” per i nazaretani fu questo (complice Gesù): per parlare della tenerezza di Dio Gesù è ricorso a due esempi che non sono piaciuti. Gli ascoltatori non si accorgono che Gesù parla proprio di loro. Sono loro i ciechi, i lebbrosi, i poveri che devono aspettarsi la tenerezza di Dio. Gesù parla per loro, per offrire loro l’amore di Dio. Gesù fa l’esempio del profeta Elia che va a Sidone, città della Fenicia, dove ci sono stranieri, pagani, lontani. I nazaretani non amano essere paragonati ai pagani. Gesù fa un altro esempio: Eliseo fa sentire la prossimità di Dio a Nàaman, un pagano, un nemico, un siro. I nazaretani non capiscono questa abbondanza di grazia fuori dal loro cerchio. Ma il Signore non conosce frontiere!

Vi invito a rileggere l’Inno alla carità (Prima Lettera di San Paolo ai Corinti). Comincia con l’ultimo versetto del capitolo 12: «Aspirate ai doni più grandi». Poi nel capitolo 13 Paolo fa l’elenco di tutti i doni straordinari, concludendo che quello che vale è l’amore. Tutti siamo capaci di amare, perché siamo stati fatti ad immagine di Dio, di Dio-Amore. Dio non ci chiede di essere artisti, cantanti, presidenti della Repubblica… ci chiede di amare. E questa è la santità!

Discorso in occasione della Preghiera ecumenica nella Domenica della Parola

«In Oriente abbiamo visto apparire la sua stella e siamo venuti qui per adorarlo» (Mt 2,2)

Incontro online

Mt 2,1-12

Ringrazio don Marco Scandelli e don Rousbell Parrado che hanno organizzato questo raduno, rivolgo un caro saluto a padre Gabriel Cerbu (Parrocchia Ortodossa Romena di San Marino), ad Alessandro Esposito (Chiesa Valdese di Rimini), al Prof. Natalino Valentini (Istituto Superiore di Scienze Religiose “A. Marvelli”) e abbraccio tutti voi, care sorelle e cari fratelli.
«Dio disse ad Abramo: “Guarda in cielo e conta le stelle, se riesci a contarle”» (Gn 15,5). Un amico astronomo mi ha detto che di stelle se ne contano approssimativamente 400 miliardi, solo per stare alla Via Lattea, e di galassie ce ne sono a non finire… Mi incanto davanti al cielo stellato in queste sere d’inverno e mi incanto davanti al Bambino su cui si è posata la stella di Betlemme, un’estasi vissuta dagli antichi astronomi, dai magi, dai poveri pastori e dai poeti dinanzi allo stesso cielo stellato.
Baruc, un profeta post esilico, vede le stelle danzare di gioia. «Le stelle – scrive – brillano dalle loro vedette e gioiscono; il Signore le chiama e rispondono “eccoci!” e brillano di gioia per colui che le ha create» (Bar 3, 34-35). Isaia precisa che il Signore le chiama tutte per nome e nessuna manca all’appello (Is 40,26, cfr. Sal 147,4). Chiedo: come si chiama la stella dei magi? Troviamole un nome. Io la chiamo stella dei cercatori. Possono vederla quelli che, senza restare impigliati troppo nel fare, sanno alzare gli occhi al cielo. Questa – la stella dei cercatori – è una stella fatale, che mette in cammino. Irresistibilmente. Assomiglia tanto al desiderio che ti lascia inquieto finché non trovi riposo.
Per i magi il cammino fu reale, non metaforico; hanno macinato molta strada; hanno, fotografati nella mente, tanti paesaggi, dall’Oriente fino a Betlemme. Andata e ritorno. Hanno messo in moto non soltanto i piedi e le gambe, ma anche la mente e il cuore. È probabile non sia mancato chi si è preso gioco di loro e della loro improbabile storia di stelle. Tanta strada per cosa poi? Non porteranno a casa né oro né avorio, né marmi preziosi… troveranno soltanto terra sabbiosa riarsa. E poi verrebbe da dire: «Non è l’Oriente la culla della luce? Perché cercare in Occidente?». Ma “chi cerca trova”, anche se gli può succedere di sbagliare. Ai magi è capitato di sbagliare. All’inizio hanno mancato il bersaglio. È nato il re dei Giudei, dove cercarlo se non nella grande città di Gerusalemme, la città santa, la città cosmopolita? Quel Bambino nasce a Betlemme, che era ben oltre la città di Gerusalemme: era un piccolo villaggio nella campagna. E a Gerusalemme che cosa fanno i magi? Vanno a palazzo. Dove cercare un re se non in una reggia? Come direbbe Giovanni Battista: «Là dove abitano quanti vestono in morbide vesti…» (cfr. Mt 11,8). Ma il Bambino che li attende è adagiato sulla paglia. Interpellano incautamente Erode, la corte, i sacerdoti del Tempio, anziché interrogare i pastori… Tutti errori: la grande città, il palazzo, i grandi sapienti, mentre invece quel Bambino non è nato a Gerusalemme, ma a Betlemme, non è in un palazzo ma in un presepio e di lui sanno di più i poveri pastori che i dotti. Errare humanum est, si dice, ma i magi hanno l’infinita pazienza di ricominciare: interrogano di nuovo le Scritture e la stella. Confermo, “chi cerca trova”, e chi trova non smette di cercare. Per chi trova, infatti, è molto importante anche il ritorno. È strada nuova, perché l’incontro li ha fatti nuovi. Dice il Vangelo: «Per un’altra strada fecero ritorno al loro paese».

Vorrei concludere con una preghiera: «La tua venuta, Signore, è stata annunciata dai profeti. Michea ha indicato il luogo della tua nascita, “da te Betlemme uscirà il capo del mio popolo Israele” (cfr. Mi 5,1); Isaia svela il mistero e grida: “Risplendi, Gerusalemme, è venuta la tua luce, la gloria del Signore si è alzata su di te” (Is 60,1). Con te, Signore, finisce la notte, arriva il giorno, la luce sorge e brilla, sei tu Gesù questa luce. Un giorno lo dirai tu stesso ai discepoli – questa sera lo dice a noi –: “Io sono la luce del mondo” (Gv 8,12). Tu sei la gloria del Padre che sprigiona su noi. Venendo in mezzo a noi, ci riveli il mistero del Dio che è amore e che vuole condividere con noi il suo amore. Gesù, questa è la tua missione sulla terra, missione che la tua Chiesa deve continuare. Inevitabile, Signore, che ci chiediamo: la nostra vita è luce e gloria del Signore? Alla tua nascita una luce ha brillato sul mondo. In Oriente i magi hanno saputo riconoscerla: “Abbiamo visto la sua stella e siamo venuti!” (Mt 2,2). Tu, Signore, continui a brillare sulla terra, vogliamo essere più attenti a scoprire la tua stella. Del resto, è la stella dei cercatori, ci tiene continuamente in cammino. Siamo così spesso ripiegati su noi stessi, sui nostri problemi, sui nostri interessi, proprio come Erode e gli scribi di Gerusalemme ai quali non importa di venire a te. I magi riconoscono nel Bambino che sta tra le braccia della fanciulla di Nazaret, Maria, il re dei Giudei. Il loro atteggiamento esprime bene la loro fede e il loro amore, cadono in ginocchio e ti offrono i loro doni. È quello che questa sera vogliamo fare anche noi, tutti insieme, in questo cammino verso l’unità. Nell’accoglienza di questo dono che tu, nella fede, già ci fai». Così sia.

Omelia nella III domenica del Tempo Ordinario

Murata (RSM), 23 gennaio 2022

Domenica della Parola

Ne 8,2-4.5-6.8-10
Sal 19
1Cor 12,12-30
Lc 1,1-4; 4,14-21

1.

In conformità con lo stile letterario del tempo l’evangelista Luca comincia il suo Vangelo con un Prologo, una dedica e una descrizione del metodo di lavoro che ha seguito. Siamo abbagliati dal Prologo di Giovanni, ma non dobbiamo sottovalutare quello di Luca. Luca vuol porre il suo scritto alla pari di altri lavori letterari della sua epoca e mostrare così che il contenuto del libro – il Vangelo – non è riservato alla cerchia ristretta di iniziati palestinesi, ma ha un valore universale. La storia di Gesù appartiene alla storia del mondo e quindi ha qualcosa da dire ad ogni persona del suo tempo, il mondo greco-romano, così come al mondo di tutti i luoghi e di tutti i tempi, compreso il nostro: siamo noi i lettori.

2.

Interessante notare come Luca taccia il suo nome. Non si è dimenticato! È come se Luca si mettesse da parte per far parlare la Tradizione apostolica, così egli stesso diventa un servitore della Parola. Ha consapevolezza di non appartenere più alla prima generazione, cioè quella di chi ha vissuto con Gesù. Luca viene dopo, però sente che è importante mettere insieme, con cura e con grande scrupolo, tutto quello che Gesù fece ed insegnò da principio. Da notare: i fatti riguardanti Gesù appartengono ad una realtà che ha raggiunto la sua pienezza (Luca adopera il verbo “portare a compimento”). La vita di Gesù, infatti, ha raggiunto il suo compimento con l’evento della morte e risurrezione, evento che getta la luce su tutti i fatti e su tutto il comportamento di Gesù terreno e, nello stesso tempo, apre tale esistenza alla storia successiva. Possiede attualità nell’oggi di ogni tempo. L’evangelista vuol scrivere una storia, ma lo fa con l’occhio del credente che vede la vicenda di Gesù alla luce della fede e la inserisce nel grande disegno di Dio. Il Vangelo, dunque, non è nato da un entusiasta nostalgico che, dopo tanti anni, s’è messo in testa di scrivere i suoi ricordi, ma tutto è scritto secondo la garanzia di testimoni oculari.

3.

Al tempo di Luca – quando scrive il Vangelo siamo nel 70-80 d.C. – nascono già gli errori, le deviazioni, che minacciano le comunità sia dall’esterno che dall’interno. Di conseguenza, Luca giudica necessario questo ritorno alle fonti, all’autentica Tradizione apostolica. Anche oggi abbiamo bisogno che la parola chiara del Vangelo dia solidità alla nostra fede nel Signore Gesù, al di sopra di tutte le incertezze, delle paure ad impegnarci sulla parola del Vangelo. Anche noi, in qualche modo, siamo quei “Teofilo”, parola che significa “amico di Dio”. Teofilo è un personaggio ben preciso della prima comunità cristiana, però ognuno di noi può dire di essere un “teofilo”, “un amico di Dio” (interessante:  anche Bach ha una sua composizione dedicata ad un certo Gottlieb Theophilus).

4.

Dopo il Prologo la pericope evangelica di oggi parte con l’attività pubblica di Gesù in Galilea. Gesù va in sinagoga, luogo della riunione e della preghiera per ogni pio israelita; partecipa con puntualità – il Vangelo dice che andava ogni sabato – alla preghiera comune; ascolta le parole che Dio ha rivolto al suo popolo, canta i Salmi. Avrete notato come la Prima Lettura, quella del libro di Esdra, e questa pagina di Vangelo si rimandino vicendevolmente. Qui Gesù proclama la Parola, al tempo di Esdra altrettanto. La gente era commossa, era piena di gioia, festante: Dio ci parla! Anche Gesù era contento e ha anche imparato una cosa (forse gliel’ha insegnata la mamma o san Giuseppe): nelle cose di Dio non vale il “fai da te”. Gesù è contento di appartenere al suo popolo, di partecipare ai suoi riti e alle sue tradizioni: Gesù è come un fiore che sboccia sul grande albero della storia di Israele.
Quel sabato, dopo la preghiera iniziale, Gesù viene invitato a prendere la parola: era un giovane conosciutissimo (Nazaret era un piccolo borgo), forse non era la prima volta, ma l’evangelista dà grande rilievo a questo momento e, con fine arte letteraria e sensibilità psicologica, evidenzia l’atmosfera di suspence dell’uditorio di fronte al nuovo maestro e, in tal modo, sottolinea il carattere programmatico del commento che Gesù farà a quella pagina della Scrittura. Quello che Gesù sta per dire è della massima importanza, è il suo manifesto. È sorprendente la solennità con cui si compie quel rito: viene consegnato il rotolo, Gesù lo apre, trova il passo, si alza, legge, chiude il volume, lo restituisce al cerimoniere, gli occhi di tutti sono puntati su di lui, si fa grande silenzio. I nazaretani cominciano a capire chi è Gesù. Anche noi! A differenza dei predicatori del suo tempo non si perde nei labirinti dell’esegesi o dell’ampollosità della retorica, ma va al sodo. È come se Gesù dicesse: «Cosa dovete portarvi a casa oggi? Quale idea dovete portare con voi per la vostra vita?». Gesù punta dritto su ciò per cui è stato scritto quel testo (Is 61). «Oggi si compie questa Scrittura che oggi avete udita con i vostri orecchi». Vale per noi: oggi si compie quello che la Parola dice. La parola “oggi” ha un peso specifico. Con quell’oggi Gesù lega la sua persona all’avvento del Regno di Dio, alla signoria di Dio, alla regalità di Dio. Il Regno sta per comparire tra gli uomini; l’umanità che sfila agli occhi di Isaia è povera, prigioniera, cieca, oppressa…

5.

Sottolineo un paio di particolari: Gesù non mette se stesso come scopo della storia, ma la persona umana. «Lo Spirito del Signore – sottolinea Gesù (immagino l’abbia detto con un trasporto particolare) – è su di me, per questo mi ha consacrato con l’unzione e mi ha mandato» proprio per questa umanità. La vocazione di Gesù – questo è un testo altamente vocazionale – è quella del prendersi cura con tenerezza di questa umanità. E l’esito della missione di Gesù è un’umanità finalmente liberata, gioiosa, senza paure, con occhi di luce. Permettete una metafora: come nello sviluppo delle fotografie su pellicola si passa dal negativo al positivo, così la vocazione di Gesù può essere raccontata come il giudizio sull’umanità ribelle, considerata nell’abisso del suo peccato, da ricondurre a sottomissione (ricorderete la predicazione di Giovanni Battista) oppure la predicazione di Gesù può essere vista come una buona notizia, come festa di poveri che possono cominciare a sperare, di uomini riconciliati, di oppressi che alzano il capo e danzano. Inizia così il cammino di Gesù tra noi. Sono i poveri il cuore del Vangelo.
Si può obiettare: la guerra divampa in molte regioni… Sì, però abbiamo scoperto la forza della nonviolenza. Si potrebbe dire che dopo duemila anni i poveri sono ancora tanti tra noi, ma la condivisione è venuta a sostituire l’umiliante carità fatta dall’alto. Qualcuno potrebbe dire che la dignità dell’uomo è calpestata dalla prepotenza delle finanze mondiali, ma ci sono uomini di buona volontà che si inventano forme di economia sociale e di economia di comunione per tradurre il bene nella storia.
Lo Spirito che era sopra Gesù riposa oggi su di noi, su chi avanza, pur con poveri mezzi, con un cuore aperto verso gli altri per il bene. Se tu leggi il Vangelo e lo vivi diventi un altro Gesù, oggi. Questa è la perenne novità del Vangelo.

Omelia nella II domenica del Tempo Ordinario

Sartiano (RN), 16 gennaio 2022

Is 62,1-5
Sal 95
1Cor 12,4-11
Gv 2,1-11

Cana è il primo dei segni, dei miracoli, compiuti da Gesù. Perché la liturgia ha scelto di raccontarci questo episodio? È il primo dei miracoli, ma non è il primo episodio del Vangelo. È stato scelto perché ci fa vedere che Gesù è un grande taumaturgo? Non è tanto questo. Per evidenziare la compassione per quei giovani sposi? Forse neppure per questo. Il vero motivo è che qui siamo in presenza di una “epifania”. Se ci fu quella ai magi, nella casa di Betlemme, poi quella sulle rive del fiume Giordano con la proclamazione di Gesù Figlio di Dio, il Servo sofferente, l’amato, adesso, a Cana di Galilea, c’è la manifestazione di Gesù Sposo. Il Vangelo ci invita subito alla fede. Non c’è una manifestazione lenta, progressiva, riguardo a chi è Gesù. Gesù, fin dalla prima pagina del Vangelo di Giovanni, è presentato come il Figlio di Dio, il Verbo fatto carne. Allora è inevitabile che, fin dall’inizio, davanti a lui si prenda una decisione: credere o non credere.
Meditando questo Vangelo si possono cogliere tantissimi temi: l’intercessione di Maria e il suo invito: «Fate tutto quello che lui vi dirà»; il significato di quelle anfore vuote, poi riempite d’acqua che viene trasformata in vino.
Offro quattro sottolineature riguardo al segno compiuto da Gesù a Cana di Galilea: segno di gioia, segno di amore, segno di Pasqua e segno per gli sposi.
Segno di gioia. In effetti il primo prodigio di Gesù – l’acqua trasformata in vino – non è altro che un messaggio di gioia: siamo ad un banchetto di nozze, c’è festa. È la gioia la caratteristica che Gesù annuncia subito. Nelle risposte che sono state date in alcuni Gruppi Sinodali è stato sottolineato: «Perché la Chiesa non sembra annunciare la gioia? O meglio, perché annuncia solo quella nella vita eterna, dopo questa valle di lacrime? Non c’è un messaggio di gioia anche nel presente? La Chiesa non dovrebbe, come ha fatto Gesù, annunciare il Regno come una festa di nozze?».
Il miracolo di Cana è anche un segno di amore. Ho letto il commento di un autore che chiosa: «Venite, venite! Dio si sposa!». In effetti Gesù dà alla sua predicazione una intonazione nuziale. Quando Dio vuol parlarci del suo amore sceglie il segno dell’amore fra lo sposo e la sposa. E noi, a nostra volta, quando vogliamo dire qualcosa di grande riguardante il matrimonio facciamo riferimento all’amore di Dio. Quel vino di nozze, che è il simbolo della gioia, non è da centellinare, come si fa con ciò che svapora in fretta, o da custodire gelosamente. Al contrario, è in abbondanza, è per sempre, è il vino dell’alleanza e della gioia; la Chiesa non deve tenerlo per sé, per farne uso esclusivo, ma lo fa tracimare per offrirlo a tutti.
Il miracolo di Cana è anche segno della Pasqua. L’evangelista Giovanni non ha il racconto dell’istituzione dell’Eucaristia, ma presenta tre avvenimenti che la preannunciano (prolessi): Cana (il brano che stiamo meditando), il discorso del Pane di vita nella sinagoga di Cafarnao (cfr. Gv 6) e la lavanda dei piedi (cfr. Gv 13). Cana, dunque, è l’annuncio profetico del Corpo di Cristo che viene dato e del suo sangue che viene versato ed è presente Maria: come a Cana, Maria è presente nel momento della croce, quando Gesù dà interamente se stesso. Là sarà giunta la sua ora qui anticipata. Anche a questo proposito ho raccolto qualche provocazione nei Gruppi Sinodali: «Le nostre Messe non dovrebbero essere sotto il segno della gioia? Non viene condiviso il sangue della nuova Alleanza che è il vino nuovo portato da Gesù? Perché, talvolta, appaiono tristi, dimesse, poco vissute?». Dipende da noi.
Il segno di Cana è un segno per gli sposi. Molti hanno scelto il racconto delle nozze di Cana per la celebrazione del loro matrimonio. Accade, anche fra gli sposi più innamorati, che venga meno la tenerezza, il perdono, l’amore con la sua intensità. Allora è bello rileggere questa pagina e vedere come Gesù, nell’oggi della sua presenza sacramentale, assicura tutto l’amore e la tenerezza necessari. Fare memoria del sacramento del Matrimonio è una grande risorsa, soprattutto nei momenti difficili. Auguri, «venite alle nozze! Dio si sposa», si sposa con noi.

Omelia nella S. Messa in suffragio di S.E. Mons. Luigi Negri

Pennabilli (RN), Cattedrale, 11 gennaio 2021

Ebr 13,7-9
Sal 22 (23)
Gv 17,24-26

Carissimi,
vogliamo anzitutto obbedire al Signore che si rivolge a noi con la Lettera agli Ebrei e ci invita a fare memoria di coloro che ci hanno annunciato la Parola di Dio; con questo spirito facciamo memoria dell’Arcivescovo Luigi. È un dovere che compiamo con gratitudine, anzi lo sentiamo come un bisogno, un bisogno del cuore. «Ricordatevi dei vostri capi»: lo ricordiamo per la generosità e la profondità con cui ci ha annunciato la Parola di Dio. Vogliamo imitarne la fede, sua grande lezione, e fare nostra anche la sua ricorrente raccomandazione a non lasciarci sviare da dottrine che ci allontanano da Cristo. Sono parole sue: «Cristo è con noi e, se Cristo è con noi, nessuno potrà mai mettere in dubbio questa sua presenza piena di forza e di affetto. Uniamo la nostra vita alla sua, riconosciamolo presente tutti i giorni della nostra esistenza, consegniamogli la nostra vita».
Un vescovo è legato alla sua Chiesa come uno sposo alla sposa. La regge in luogo di Dio; in lui, assistito dai suoi presbiteri, è presente il sommo sacerdote Gesù. Egli, il vescovo, «è il visibile principio e fondamento di unità della sua Chiesa particolare», così il Vaticano II; ma prima, tra i padri, mi piace citare san Cipriano: «La Chiesa è nel vescovo e il vescovo nella Chiesa» (Ep 66,8,3). E prima ancora, Gesù stesso: «Chi li ascolta [i Vescovi], ascolta Cristo, chi li disprezza, disprezza Cristo e colui che lo ha mandato» (cfr. Lc 10,16 in LG 20). Se il Vescovo è forma gregis (1Pt 5,3) non può non modellarla in qualche misura su tratti della sua persona, del suo Spirito. Ogni vescovo contrassegna la sua Chiesa e ogni Chiesa rimane contrassegnata dal suo vescovo.
Dico grazie, insieme con voi, al Signore per le tracce profonde lasciate da mons. Luigi in questa nostra Chiesa. Sarebbe bello ripercorrere la vicenda umana e spirituale di mons. Luigi e riprendere in mano i contenuti e le opere del suo ministero, partendo dalla formazione ricevuta, approfondita poi nella preparazione al sacerdozio, agli studi continuati dopo, all’incontro con il carisma di Comunione e Liberazione. Sarebbe necessario studiare il suo insegnamento, la sua attività, la sua presenza e testimonianza in questo momento così singolare della vita della Chiesa. Sarebbe interessante, necessario, tutto questo. Credo di interpretare il desiderio di ognuno nell’impegnarci tutti, con l’aiuto di persone competenti, ad organizzare una lettura approfondita del suo apporto alla nostra Diocesi e alla Chiesa italiana.
Dopo l’impressione forte alla notizia della sua morte – eravamo qui in Cattedrale (si celebrava il Te deum di fine anno) –, dopo la commozione ai funerali a cui tanti di noi hanno potuto partecipare a Ferrara o a Milano, dopo le tante considerazioni sui media sulla figura di questo vescovo intellettuale e umanissimo, schietto e appassionato, intrepido e fanciullo, bussa al cuore l’esigenza di una preghiera più intima ed una considerazione più spirituale che interpreti la sua vita, la sua missione e la sua partenza da noi.
Mi piace farlo inquadrando la persona e la vicenda dell’Arcivescovo dentro al brano evangelico che è stato appena proclamato. Si tratta di appena tre versetti nella grande preghiera sacerdotale di Gesù. Il contesto è quello dei “discorsi di addio”. Vi trapelano la commozione di Gesù, lo sbigottimento dei discepoli e l’intreccio di temi impegnativi. Siamo invitati ad entrare nell’intimità che Gesù ha con il Padre – è la sua preghiera – a comprendere in lui il nostro destino e a contemplare grandi orizzonti. Si tratta di tre versetti – ho detto – che hanno a che fare con il sacerdozio di Gesù, ma anche col sacerdozio partecipato dai discepoli. Gesù parla di sé, parla della missione di ogni discepolo e della missione propria del sacerdote. Tre versetti, tre le parole che si rincorrono, si intrecciano: gloria, conoscenza, amore. «Padre, voglio che quelli che mi hai dato siano anch’essi con me dove sono io, perché contemplino la mia gloria». A cosa aspira un cristiano, più o meno consapevolmente, se non alla contemplazione della gloria? Magari non lo dice con l’ardimento e le parole di Mosè: «Signore, mostrami la tua gloria» (cfr. Es 33,18), ma in verità questo è tutto il suo desiderio e la sua inquietudine.
L’Arcivescovo Luigi ha vissuto questa ricerca. Poi la scoperta, diventata certezza, roccia: «Tu fortitudo mea» (il motto del suo stemma episcopale). Ma ha sempre apprezzato e incoraggiato, soprattutto nei giovani, l’attitudine alla domanda, alla ricerca. E in questo è stato maestro. Conosceva le tappe dell’itinerario: la ricerca interiore, l’inquietudine, l’inseguimento della verità come bellezza, fino alla bellezza più bella: Gesù Cristo. «Quaesivi et inveni (ho trovato ciò che cercavo)». Nell’itinerario c’è da mettere in conto la caduta, il peccato. Due le risoluzioni dell’Arcivescovo Luigi. La prima: la carità pastorale che, opportunamente e inopportunamente, si fa avanti per smascherare l’inganno e contrastare il pericolo. La seconda, assolutamente non moralistica: la preghiera, quella che diciamo ad ogni Messa: «Signore, non guardare i nostri peccati, ma alla fede della tua Chiesa». «La nostra esistenza – sono ancora parole sue – consegnata al Signore non perde la sua consistenza umana, ma la ritrova ad una profondità più definitiva». «Signore, non guardare ai nostri peccati, ma alla fede della tua Chiesa». Chiesa, salda roccia, sicura imbarcazione: non uscire mai dalla barca di Pietro per avventurarsi in solitudine in un guscio di noce. Ci ha insegnato il valore profondo dell’appartenenza, anche quando può essere difficile.
«Padre giusto, il mondo non ti ha conosciuto, ma io ti ho conosciuto e questi hanno conosciuto che tu mi hai mandato». Conoscere e far conoscere il mistero di Cristo dall’incarnazione alla risurrezione. Questo chiede Gesù nella sua preghiera sacerdotale. In che cos’altro può riassumersi l’impegno di un sacerdote e di un vescovo? «Per conto mio – scriveva san Paolo – mi prodigherò volentieri, anzi consumerò me stesso per le vostre anime» (2Cor 12,15). E conclude chiedendo tenerezza: «Se io vi amo più intensamente dovrei essere riamato di meno?». “Affezione”: parola ricorrente nel parlare e nello scrivere dell’Arcivescovo Luigi; affezione attesa a dispetto della sua apparente austerità. Ecco la missione a cui chiama Gesù: donarsi, nella collaborazione con lo Spirito Santo, per aprire le menti all’intelligenza, alla contemplazione del mistero e all’accoglimento della carità di Dio Padre nel suo Verbo che si rivela elargendo la sua presenza. È l’obiettivo della missione, quello che in forme diverse ognuno vorrebbe operare nella laboriosità dell’azione, nella testimonianza, ma anche nel prezzo della quotidiana fedeltà. «Impeto missionario»!
Se le nostre considerazioni devono concludersi in una preghiera la formuliamo così per l’Arcivescovo Luigi: che possa godere definitivamente della contemplazione della gloria di Cristo che tanto ha amato, e cioè della visione del suo volto, dell’effusione del suo amore con quello del Padre e dello Spirito, per sempre. È possibile? Certo! La preghiera di Gesù è efficace. Gesù rivolgendosi al Padre si impone ed esige: «Voglio, Padre». Sappiamo che egli viene esaudito per la sua pietà (cfr. Ebr 5,7). Così sia.

Omelia nella Festa del Battesimo di Gesù

Maiolo (RN), 9 gennaio 2022

Is 40,1-5.9-11
Sal 103
Tt 2,11-14;3,4-7
Lc 3,15-16.21-22

La narrazione del Battesimo di Gesù è comune a tutti gli evangelisti, Giovanni compreso, che fa narrare l’accaduto al Battista.
Questi i fatti. Giovanni Battista è al fiume Giordano dove pratica questo segno di purificazione e di conversione. Accorre tanta gente. Giovanni non ha paura: ha uno stile di vita simile a quello degli antichi profeti. Invita alla conversione anche con parole forti e dure. Non teme Erode, a cui contesta le “scelleratezze” e la relazione incestuosa con Erodiade. Questa aperta contestazione al potere causerà guai al Battista. Al fiume Giordano scende anche Gesù, mescolato tra la folla. Gesù non è andato con gli Esseni, puri e duri, che hanno abbandonato la città per ritirarsi in luoghi deserti nella regione del Mar Morto (Qumran).
Perché è così importante il Battesimo di Gesù? Il motivo per cui questo episodio viene narrato è perché costituisce un punto fondamentale nella vita di Gesù: qui inizia la sua missione, viene presentato ufficialmente, accreditato davanti al popolo di Israele che si interrogava sull’arrivo del Messia (cfr. Lc 3,15) – per questo si celebra il Battesimo del Signore dopo l’Epifania – è come una manifestazione: quel bambino nato a Betlemme, cresciuto a Nazaret, che va sulle rive del fiume, è il Messia, è il Signore. Non possiamo che essere stupefatti davanti a lui, così umile, così semplice e così grande. Anche i Magi si erano sbagliati in un primo momento, perché cercavano il Messia nella grande città, Gerusalemme; lo cercavano a palazzo, avevano consultato i sapienti e i sommi sacerdoti, invece Gesù era in un borgo di campagna, a Betlemme, in un rifugio di fortuna, seduto sulle ginocchia di sua mamma, come tutti i bambini.
Mentre Gesù arriva sulle rive del fiume con tutti, viene presentato come il Messia.
Luca aggiunge alla cronaca questi dettagli. C’era tanta folla. Nella pagina precedente Luca ci informa che là erano andati perfino i soldati e i doganieri (i pubblicani), per chiedere come cambiare vita, come rinnovarsi. Gesù va in mezzo a loro, sa cogliere il positivo che c’è nel cuore di ogni persona. Anche nei peccatori c’è una scintilla divina, basta solo che si aprano. Andiamo volentieri al sacramento della Riconciliazione perché il Signore vuol dirci che ci ha creato come un prodigio (cfr. Sal 139,14), che abbiamo un potenziale enorme dentro di noi e che lui crede in noi. Luca è l’evangelista che ci racconterà del figliuol prodigo, della donna silenziosa che va ai piedi di Gesù per chiedere perdono e di Gesù in croce che dice al ladrone pentito: «Oggi sarai con me in paradiso».
Secondo dettaglio di Luca: Gesù pregava. Matteo, Marco e Giovanni non lo dicono. Perché era in preghiera? Voleva indicare a tutti il primo passo per la conversione: la preghiera. La preghiera intesa come rapporto col Padre. Niente di più semplice e di più decisivo. Quando un peccatore si mette in preghiera, si mette in relazione, non guarda più se stesso, alza lo sguardo, si sente amato, si sente stimato; allora darà il meglio di sé. La fiducia sblocca, fa sbocciare. Un’altra sottolineatura di Luca: al fiume Giordano, in mezzo alla folla, ai soldati e ai doganieri accade la prima Pentecoste. Negli Atti degli Apostoli ci verrà raccontata la mattina in cui nel Cenacolo ci fu l’effusione clamorosa dello Spirito Santo, il Big Bang che ha dato origine alla Chiesa. Con questa gioia nel cuore continuiamo la celebrazione eucaristica con la professione di fede nella forma battesimale per ricordare quando, nel nostro Battesimo, lo Spirito Santo è sceso su di noi.

Omelia nella Solennità di Maria Santissima Madre di Dio

San Marino Città (RN), Basilica del Santo, 1 gennaio 2022

55a Giornata Mondiale della Pace

Nm 6, 22-27
Sal 66
Gal 4,4-7
Lc 2,16-21

È bello aprire il nuovo anno lasciando scorrere su tutti noi come un fiume la benedizione che Dio ha affidato ad Aronne per Israele, una benedizione che è per tutti.
Accogliamola non come un semplice augurio, ma come benevolenza del Signore su di noi, sui nostri pensieri, sui nostri affetti, sui nostri propositi e sulle nostre responsabilità, proprio come rugiada sull’erba, come tenerezza nel volto del Signore, tanto desiderato. Abbiamo pregato: «Mostraci, Signore, il tuo volto» (Sal 79). Nella pienezza del tempo quel volto ha preso forma. È il volto umanissimo di Gesù di Nazaret. In apparenza «non ha splendore né bellezza da attirare gli sguardi» (cfr. Is 53,2) – è un bambino nella sua povertà – si fa vedere «mentre il silenzio avvolge tutte le cose e la notte è a metà del suo corso» (cfr. Sap 18,14), accolto da un’umile ancella, riconosciuto dai pastori che senza indugio sono accorsi a Betlemme (cfr. Lc 2,16). L’incarnazione è in linea con lo stile stesso di Dio che silenziosamente si cala, si dona, assume, trasfigura. La gloria di Dio prende forma e il Verbo si fa carne. Siamo nel cuore del mistero cristiano da contemplare, ma anche da accogliere e tradurre in stili di vita, almeno su due direzioni. La prima: Dio si fa uomo perché l’uomo diventi Dio, si divinizzi. Dunque, dopo il suo Natale il nostro Natale. Accogliamo il dono di essere «partecipi della natura divina» (2Pt 1,4), di essere “adottati” dal Signore, non come rinnegamento dell’umano, o come disimpegno o fuga dalla realtà. Tutt’altro! Il Signore non toglie nulla alla nostra umanità. Tutto dona. La seconda direzione è questa: ogni uomo che viene al mondo è fatto di Cielo, altissima è la sua dignità, per questo Gesù, nell’affidarci il suo “comandamento nuovo”, dirà: «Amatevi gli uni gli altri come io ho amato voi» (Gv 15,12). Ancora una volta ci sorprende: il comandamento, fino a lui, riguardava perlopiù la sfera del sacro, del culto, ora il dettato del comandamento nuovo riguarda l’amore per l’altro, l’altro fatto di carne come me, fratelli tutti. Da notare: Gesù non dice «amatemi, come io ho amato voi», come esigerebbe la grammatica, ma «amatevi». Amarlo non tanto nelle belle immagini; ma amarlo nella carne del fratello, non solo in quello giovane che risplende di bellezza, ma anche nel fratello debole, consumato, che è anziano, ammalato o coperto di piaghe. L’uomo è gloria di Dio.
È su questo sfondo di bellezza e di speranza che vogliamo vivere il primo giorno dell’anno, che dedichiamo alla pace.
Oggi ho il privilegio di consegnare a chi ci governa e a chi si prende cura dell’amministrazione pubblica il Messaggio di Papa Francesco per la 55° Giornata Mondiale della Pace. Il Messaggio ci ripropone la promozione della cultura dell’incontro e questo ci chiede di porre al centro di tutta l’attività educativa, la principale e fondante, e di tutta l’attività politica, sociale ed economica, la persona umana. Papa Francesco riconosce che «nonostante i molteplici sforzi si amplifica l’assordante rumore di guerre e conflitti, mentre avanzano malattie di proporzioni pandemiche, peggiorano gli effetti del cambiamento climatico e del degrado ambientale, si aggrava il dramma della fame e della sete e continua a dominare un modello economico basato sull’individualismo». Per superare questa situazione papa Francesco indica tre vie da percorrere «per una pace duratura».
La prima è il dialogo fra le generazioni. «La crisi globale che stiamo vivendo – scrive – ci indica nell’incontro e nel dialogo fra le generazioni la forza motrice di una politica sana». «In questa chiave – continua – vanno apprezzati e incoraggiati i tanti giovani che si stanno impegnando per un mondo più giusto e attento a salvaguardare il creato».
La seconda via riguarda l’istruzione e l’educazione. «Negli ultimi anni è sensibilmente diminuito, a livello mondiale, il bilancio per l’istruzione e l’educazione». Al contrario, le spese militari sembrano destinate a crescere in modo esorbitante. «È dunque opportuno e urgente – scrive papa Francesco – che quanti hanno responsabilità di governo elaborino politiche economiche che prevedano un’inversione del rapporto tra gli investimenti pubblici nell’educazione e i fondi destinati agli armamenti». Terza via è la promozione e la disponibilità del lavoro. Da questo punto di vista la pandemia da Covid-19 ha aggravato la situazione. In particolare, «l’impatto della crisi sull’economia informale, che spesso coinvolge i lavoratori migranti, è stato devastante». Continua Papa Francesco: «La risposta a questa situazione non può che passare attraverso un ampliamento delle opportunità di lavoro dignitoso. (…) La politica è chiamata a svolgere un ruolo attivo, promuovendo un giusto equilibrio tra libertà economica e giustizia sociale, trovando sicuri orientamenti nella dottrina sociale della Chiesa».
Affrontare la crisi vuol dire avere il coraggio di avviare una rivoluzione spirituale capace di calarsi nelle dinamiche della vita reale. Ognuno di noi, per la sua parte, ne è promotore: fare pace, cioè essere costruttori, operatori della pace, intraprendenti; essere in pace, cioè impegnati a bonificare i rapporti reciproci: non è facile, ma la pace nasce vicino a noi, attorno a noi; essere pace: questo è il mio augurio per tutti voi.

Natale 2021

Buon Natale! Con queste semplici parole evochiamo un avvenimento straordinario e tuttavia caro e familiare: la nascita di un Bambino, «grande gioia che è di tutto il popolo».
È così per la nascita di ogni bambino, ma di Gesù la fede insegna l’origine divina e la missione salvatrice. Gesù è di tutti, è per tutti, è con tutti.
Il vigore del suo messaggio di amore e di pace si rinnova ogni anno, ma non nega le fatiche che sembrano volerci togliere la speranza. Non siamo di quelli che celebrano il Natale per dimenticare o per evadere dalle preoccupazioni che segnano questi nostri giorni o per fingere che non ci siano problemi attorno a noi e dentro di noi.
Auguro a tutti di saper ascoltare, come fosse la prima volta, «il grido nella notte e vedere la luce apparsa nelle tenebre». Un grido che i padri e le sentinelle della storia hanno ascoltato e trasmesso prima di noi.
Al di là di una effimera emozione, al di là delle pur belle tradizioni esteriori, propongo di ascoltare l’incredibile messaggio del Natale, del Dio per noi, con noi e in noi.
Sorprende un passo del profeta Isaia che viene proclamato il giorno di Natale: è un invito al canto e alla lode: «Prorompete insieme in canti di gioia, rovine di Gerusalemme, perché il Signore ha consolato il suo popolo, ha riscattato Gerusalemme». Come possono le “rovine” trovare motivi di canto e di gioia? Siamo segnati da fallimenti, distacchi, dispiaceri, preoccupazioni…
Il fatto è che il Bambino di Betlemme – il Verbo fatto carne – è venuto a prendere per salvare e riscattare ciò che è suo, perché «tutto ciò che esiste è stato fatto per lui e in vista di lui»; si è coinvolto nella nostra fatica di esistere per ridonare a tutti la certezza che qualcosa può cambiare, anzi che tutto può cambiare, e per darci questa speranza come compagna di viaggio. Egli cammina davanti a noi e noi – dietro a Lui – siamo carovana di fratelli che si aiutano per le inquiete strade della terra. Abbiamo intelligenza, cuore e ginocchia. Intelligenza per cercare verità e vie sempre nuove, cuore per non lasciare indietro nessuno e comprenderci di più, ginocchia per pregare gli uni per gli altri, per chiedere aiuto a Colui che ci è vicino. Dipende da ciascuno di noi se oggi è Natale o non è Natale. Il Bambino Gesù si consegna a noi: lasciamolo entrare nella nostra casa, nella nostra vita, là dove realmente ci troviamo.
Auguri: è Natale!

+ Andrea Turazzi
Vescovo di San Marino-Montefeltro

In memoria di mons. Luigi Negri

Sapevo dell’aggravarsi dell’infermità di mons. Luigi Negri. Insieme fedeli, religiosi e sacerdoti della Diocesi di San Marino-Montefeltro abbiamo pregato per lui con affetto e gratitudine filiale. Non è stato consentito ad una nostra delegazione di fargli visita e portargli l’augurio di tutti. L’ultimo giorno dell’anno si è conclusa la sua esistenza terrena.
Nella memoria di mons. Luigi sono racchiusi un’infinità di volti, soprattutto quello dei giovani ai quali ha dedicato tutto se stesso nell’insegnamento, nell’amicizia e nell’accompagnamento educativo.
Nella sua preghiera è stata ed è presente la cara Arcidiocesi di Ferrara-Comacchio: le è stata affidata, subito dopo il terremoto del 2012, con le ferite del sisma e con quelle, non meno dolorose, di tante situazioni che ha affrontato con coraggio e dedizione. Ne sono stato testimone.
Ma un posto speciale nel suo cuore di pastore occupa la gente di San Marino e del Montefeltro. Ho ben presente con quale trasporto ne parlava, spesso commuovendosi: il territorio, le pievi, i borghi e soprattutto la gente di questo popolo che, con la sua fede, la ricchezza più vera – sono parole sue – ha vissuto in maniera seria e dignitosa anche le circostanze difficili della vita.
Qui la fede – ricordava tante volte – ha creato una cultura di popolo, ha custodito questa cultura e l’ha educata, contribuendo a realizzare «una civiltà realmente della verità e dell’amore». Accolgo e consegno queste parole come perla preziosa, come testamento spirituale, come progetto da realizzare.
La distanza non ha annullato i sentimenti, la partenza e il compimento definitivo del suo cammino lo rendono ancora più vicino.
Uno dei momenti più belli della sua missione pastorale tra noi è stato quel “giorno benedetto” della visita del Papa alla Diocesi. Fu un dono straordinario per tutti noi, ma anche una testimonianza di stima ed affetto di Benedetto XVI per la sua persona.
Chiedo nella preghiera: ci accompagni ancora, Eccellenza, con la sua preghiera di intercessione, perché sappiamo proseguire quel disegno per cui si è speso senza riserve: la ripresa forte della nostra fede, resa esperienza quotidiana e capace di un nuovo impeto missionario.

+ Andrea Turazzi
Vescovo di San Marino-Montefeltro

Omelia nella IV domenica di Avvento

Pennabilli (RN), Cappella del Vescovado, 19 dicembre 2021

Mi 5,1-4
Sal 79
Eb 10,5-10
Lc 1,39-45

Il racconto evangelico della Visitazione è brevissimo, ma denso di significati. Li suddivido in quattro “grappoli” di pensieri e osservazioni.
Il primo “grappolo” è dedicato alla struttura letteraria del brano e, più in generale, di tutto il Vangelo dell’infanzia secondo Luca. L’evangelista adopera il metodo del confronto, un metodo in voga al suo tempo (cfr. le opere classiche intitolate “Vite parallele”). Qui siamo davanti a “vite parallele”: anzitutto ci sono due vocazioni, la vocazione di Zaccaria, il cui racconto è precedente alla pericope odierna, e la vocazione di Maria. La prima, quella di Zaccaria, accade nel tempio. Zaccaria, da quell’esperienza esce muto, perché non crede alle parole dell’angelo. Maria, invece, riceve l’annunciazione in una casa, la casa di Nazaret, e ne esce proclamata «piena di grazia» (Lc 1,30). Elisabetta riconoscerà in lei la beatitudine di chi crede alla Parola del Signore (cfr. Lc 1,45). Poi incontriamo il confronto fra le due mamme, ambedue senza maternità: Elisabetta perché ormai avanzata in età e la fanciulla di Nazaret perché è vergine, giovanissima. Tutt’e due si trovano miracolosamente incinte mediante una gravidanza “impossibile”. Infine, c’è il parallelo tra i due nascituri, i due bimbi, nel grembo rispettivamente di Elisabetta e di Maria. Questi confronti, queste vite parallele, sono state pensate da Luca per evidenziare l’identità di Gesù. L’incontro delle due mamme assomiglia tanto all’incontro di due zolle di terra che, scontrandosi, si innalzano e accade uno scoppio di gioia, di luce, di benedizione. L’una canta davanti all’altra e insieme magnificano il Signore.

Il secondo “grappolo” consiste nelle considerazioni che solitamente vengono fatte dalla devozione, con la gioia nel vedere il clima spirituale che vi è nella casa dove le due mamme si incontrano. Lì c’è la premura di Maria, che fa un lungo viaggio in un terreno montuoso, e c’è l’accoglienza festosa di Elisabetta. C’è tanta cortesia, ma soprattutto si praticano le virtù. C’è la reciprocità, perché l’una e l’altra insieme condividono quello che Dio sta facendo in loro: davvero il Signore è all’opera! Poi, quella casa è inondata di Spirito Santo, quasi un anticipo della Pentecoste.

Dobbiamo leggere questo brano di Vangelo ad altre profondità, è il terzo “grappolo” di considerazioni. Siamo di fronte ad una rivelazione altissima, e cioè ad un evento che sconfina, che va oltre il tempo, oltre lo spazio, un evento cosmico; eppure, paradossalmente accade puntuale, in un preciso luogo, in una realtà minuscola della terra. Il “miliardario di stelle” tra due umili creature. È la visita di Dio al suo popolo: una visitazione non per interposta persona – direbbe l’autore della Lettera agli Ebrei – ma proprio nel suo Verbo che si fa cucciolo d’uomo (cfr. Ebr 1,2). Tutto questo in un clima di gioia, di esultanza. Luca adopera un linguaggio mutuato dall’Antico Testamento. Ad esempio, di Maria si dice «benedetta tu fra tutte le donne»: espressione usata nell’Antico Testamento per due eroine di Israele, precisamente per Giaele (cfr. Gdc 5,24), la guerriera, e per Giuditta (cfr. Gdt 13,10), colei che verrà chiamata la tota pulchra, appellativo che la liturgia applica a Maria. L’esultanza di Giovanni nel grembo, che viene paragonata ad una danza, è un rimando abbastanza esplicito alla danza del giovane Davide quando trasporta l’Arca dell’Alleanza a Gerusalemme. «Davanti a Jahvè io danzo», dirà Davide a sua moglie che lo vede così entusiasta, così fuori dal protocollo. Giovanni Battista danza perché sente arrivare l’Arca della nuova Alleanza, Maria, che custodisce nel suo grembo il Verbo incarnato.

Un quarto “grappolo” di pensieri sono perlopiù suggestioni che propongo per vivere meglio il Tempo di Natale. La prima suggestione: che sia un Natale spirituale, un Natale attento alla presenza dello Spirito Santo che, come fu nella casa di Ain Karim (la casa di Zaccaria ed Elisabetta), come fu nella casa di Nazaret, come fu fra i pastori invitati ad andare alla grotta, allo stesso modo aleggia su di noi. Se crediamo alla sua presenza su di noi, è perché il Cielo si è aperto su di noi. L’amore del Padre per il Figlio, del Verbo per il Padre, si è calato su di noi, siamo tuffati dentro e coinvolti nella vita trinitaria, benché non ne siamo sempre consapevoli: il Natale di Gesù è il Natale nostro, perché anche noi nasciamo a questa vita straordinaria.
Seconda suggestione: che sappiamo fare nostra la spiritualità della visitazione. Il tema della visitazione attraversa tutta la Sacra Scrittura, ma quello che forse interessa più a noi è che raggiunge la nostra vita: ci sentiamo visitati dal Signore. Quando non lo sentiamo presente, avvertiamo una profonda nostalgia di lui; lo percepiamo come un grande mistero che ci inquieta, ci turba, come è successo all’Innominato nei Promessi sposi, quando nel dialogo con il cardinale Federigo Borromeo, esclama: «O Dio, se lo vedessi, se lo sentissi». E il Cardinale risponde: «Ma chi più di te! Questa inquietudine, questo mistero è lui, ha un volto, questo mistero è un “io” che si comunica a te» (cfr. A. Manzoni, I promessi sposi, cap. XXIII).
Terza suggestione: che facciamo nostra la spiritualità del viaggio. Guardando Maria pellegrina ci mettiamo in cammino con i più poveri. Discorso impegnativo: accostarci al dolore altrui costa fatica. Abbiamo già tante fragilità, dolori, sofferenze personali… Il Natale ci fa compagni di viaggio in questa recrudescenza della pandemia: «tutti sulla stessa barca», disposti ad andare oltre le contrapposizioni di questi giorni. Formiamo tutti una carovana alla ricerca di Dio: c’è chi fa fatica a credere, chi crede di credere e chi tiene accesa una luce. Buon Natale!