Omelia nella S. Messa per le Esequie di don Luigi Giannotti

Sartiano (RN), 12 marzo 2022

Is 25, 6a.7-9
Sal 22
Gv 14, 1-6

Anzitutto desidero, a nome di tutti, fare le condoglianze ai famigliari di don Luigi e dire grazie a tutti voi qui presenti. Non è vero che il sacerdote è senza famiglia! Oltre a quella naturale, carissima, ci siete tutti voi, quanti sono nelle parrocchie dove don Luigi ha svolto il suo ministero e i tanti amici che l’hanno avuto come direttore spirituale e confessore.
Don Luigi è nato 90 anni fa a Soanne. Ancora piccolo si è trasferito qui a Sartiano al seguito dello zio che era qui sacerdote. Il piccolo Luigi entrò in Seminario a Pennabilli, ha fatto gli studi ginnasiali e poi è passato al Seminario di Fano per il liceo e la teologia. Venne ordinato sacerdote proprio a Sartiano dal vescovo Antonio Bergamaschi, il 14 luglio del 1957. Appena ordinato sacerdote esercitò il servizio di Cappellano a Novafeltria, Talamello, Antico e Maiolo e in seguito andò come parroco a Molino di Bascio, Miratoio, Ca’ Romano e quindi Talamello. Ha lavorato per un periodo nell’archivio della Diocesi, dimostrando la sua passione per la storia locale (come sa chi l’ha conosciuto, conservava con cura anche piccoli ritagli di giornale). Ha concluso il suo servizio come Amministratore parrocchiale a Sartiano, sua parrocchia di origine, con la quale ha sempre mantenuto un rapporto di predilezione. Qui ha curato i lavori di restauro della chiesa, i restauri dell’organo e delle tele, di notevole pregio, presenti in chiesa. Nel contempo ha svolto il servizio pastorale anche nella parrocchia di Soanne. I parrocchiani di Sartiano lo ricordano come sacerdote ricco di fede e di umanità, apprezzato per le sue doti di servizio. Proprio nel periodo in cui ha fatto servizio a Sartiano e a Soanne l’ho potuto conoscere da vicino. Insieme abbiamo organizzato serate indimenticabili di lettura del Vangelo. Non gli pareva vero di trovarsi in cerchio con 30/40 persone disposte ad imparare l’alfabeto del Vangelo, parola per parola: quell’incontro si chiamava “Parola di vita”. In seguito, siamo passati alla lettura degli Atti degli Apostoli. Vivace, ironico e poi improvvisamente serio: temeva che il carattere esperienziale di questi incontri “narrativi” (si raccontava la propria vita alla luce del Vangelo) ci facesse dimenticare la dimensione veritativa: da qui le sue improvvise impennate… Ma era veramente felice!
Ricordo i suoi viaggi da un pendio all’altro della Val Marecchia, da Sartiano a Soanne, andata e ritorno… con Gesù Eucaristia in automobile con lui. I parrocchiani ricorderanno la sua uscita di strada con l’auto capovolta, quella mattina alle prime luci dell’alba… Dopo qualche ora passò un samaritano che scendeva sulla stessa strada… «Stavo con Gesù – ripeteva – ma lo smarrimento era tanto!». Certamente migliore come guida spirituale che come automobilista! Era cercato da tante persone per le Confessioni, metteva a proprio agio: mai un giudizio, sempre un incoraggiamento, un’accoglienza sorridente. Per un periodo fu incaricato del delicato ministero di esorcista diocesano.
Riascoltiamo le parole forti di Gesù: «Nella casa del Padre mio vi sono molti posti… vado a prepararvi un posto». C’è un posto che Gesù promette a ciascuno di noi: è per me. C’è un posto che Gesù assegna al suo sacerdote don Luigi. Il “posto” di cui Gesù parla non è un luogo in senso spaziale. Noi veniamo collocati – per così dire – nella “cubatura” dell’amore ricco di misericordia del Padre. Un luogo di cui Paolo scrive nella Lettera agli Efesini e di cui vorrebbe dire «la lunghezza, l’altezza e la profondità…» (cfr. Ef 3,18).
Cari amici, nel colloquio intimo della preghiera e nelle situazioni più svariate della vita, come di fronte a questa bara bianca, lasciamoci toccare dalle parole di Gesù, come se le sentissimo per la prima volta, perché riguardano noi che adesso siamo vivi: «Non sia turbato il vostro cuore. Abbiate fede in Dio e abbiate fede in me». Parole così opportune anche per quello che stiamo vivendo in questi giorni di ansia e di sofferenza.
Parole necessarie, per colmare le nostre solitudini… ma non è vero che siamo soli, perfino i capelli del nostro capo sono contati (cfr. Mt 10,30). «Io sono ancora con te» (cfr. Sal 138,18), dice il Signore, e come ci assicura nel Salmo: «Se dovessi camminare per una valle oscura, tu sei con me» (cfr. Sal 22).
Parole utili, per curare le nostre fragilità; ci distolgono dall’inconcludente ripiegamento su noi stessi, ci aiutano ad andare oltre le nostre fragilità.
Parole belle, per il tempo della nostra Pasqua, del nostro passaggio: il giorno sconosciuto, ma non lontano, della nostra morte.
Gesù ha indirizzato queste parole ai discepoli per prepararli al distacco da lui. Sono parole pronunciate per ciascuno di noi, lette chissà quante volte da don Luigi, come da noi sacerdoti per ogni commiato.
Permettete una sottolineatura, un dettaglio di straordinaria tenerezza e misericordia: Gesù sale al Padre, ma non prenota stanze all’inferno, perché non sa immaginarsi senza di noi, senza don Luigi.
Ognuno, riascoltando quelle parole, può dire: Gesù è andato a preparare un posto per me; mi aspetta nella sua casa; mi vuole con lui. Non gli basta l’esercito di angeli che sono nel cielo, l’assemblea candida dei martiri e delle vergini. Non gli bastano! Sentite le parole che il Signore pronuncia per ciascuna delle sue creature: «Se dovrai attraversare le acque, sarò con te… se dovrai passare in mezzo al fuoco, non ti scotterai […], perché tu sei prezioso ai miei occhi, perché sei degno di stima ed io ti amo» (cfr. Is 43,2.4). Ci incoraggia a guardare il Cielo come patria. La liturgia ci fa pregustare la compagnia degli angeli e dei santi in ogni Messa, al momento della conclusione del prefazio.
È una casa vera quella nella quale siamo attesi, luogo di intense relazioni, non un regno di ombre. Una casa bella, non meno di quella dove è tornato il figliuol prodigo, tra buona musica e danze (cfr. Lc 15,24-25). La casa nella quale il Signore stesso prepara «un banchetto di grasse vivande, un banchetto di vini eccellenti, di cibi succulenti, di vini raffinati, dove eliminerà la morte per sempre. Il Signore Dio asciugherà le lacrime su ogni volto» (cfr. Is 25, 6.8).
Permettete che legga una pagina di san Gregorio di Nazianzo, un grande maestro e padre della Chiesa. Mi sembrano molto opportune in questo momento: «Se non fossi tuo, o Cristo, sarei soltanto polvere. Mangio, dormo, cammino e sosto, mi assalgono senza numero brame e tormenti, cado e mi rialzo e torno a cadere, godo del sole e di quanto la terra fruttifica. Poi muoio e la mia carne diventa polvere, come quella degli animali, che non hanno peccati. Ma io che cosa ho più di loro? Nulla se non i peccati e Cristo. Se non fossi tuo, Cristo, sarei come loro, solo polvere» (San Gregorio di Nazianzo, 329-390).
Diciamo grazie al Signore, insieme, per averci dato don Luigi, per tutto il tempo che ce l’ha lasciato. Non è stato facile il distacco nell’ultimo periodo. Ricordo il giorno in cui sono andato in casa da suo nipote e da sua cognata per dire a don Luigi che sarebbe stato meglio si ritirasse.
Voglio dire grazie a chi lo ha assistito, in primis i famigliari, poi le persone della nostra Casa di Talamello. Voglio dire un grazie particolare a mons. Vicario, che gli ha fatto visita costantemente, a volte facendo il braccio di ferro con chi dirigeva la struttura (in questi anni non era consentito andare per le restrizioni anti-Covid).
Lo affidiamo alla misericordia del Signore che l’ha amato e l’ha fatto suo sacerdote.

Omelia nella I domenica di Quaresima

Novafeltria (RN), 6 marzo 2022

Incontro con gli Scout di Rimini

Dt 26,4-10
Sal 90
Rm 10,8-13
Lc 4,1-13

Delle tentazioni di Gesù scrivono gli evangelisti Marco, Matteo e Luca, ognuno di loro sottolineando aspetti diversi. Marco non dice esplicitamente l’oggetto della tentazione, non riporta il dialogo con il “tentatore”, perché preferisce indicare qual è in sostanza il tema della tentazione. Gesù è stato colmato dall’effusione dello Spirito durante il Battesimo ricevuto da Giovanni Battista. La sua umanità è piena della fragranza dello Spirito e si è udita la voce che ha accompagnato il gesto: «Questo è mio figlio, l’amato, nel quale ho posto la mia gioia» (cfr. Mc 1,11). Fatto questo, Gesù viene spinto dallo Spirito nel deserto per metterlo alla prova proprio su questo: «Sei figlio? Ti senti amato? Ti senti in compagnia? Allora puoi affrontare il deserto». Un po’ come era capitato al popolo di Israele: aveva oltrepassato le acque del mar Rosso, si può dire che era nato dalla rottura di queste acque, ha fatto l’esperienza di essere figlio, popolo generato da Dio, ma deve ancora passare attraverso molte prove: «Sei sicuro che Dio ti sta guidando? Sei proprio sicuro che lui è con te? Non senti tutto il pericolo di questo deserto? Cos’è tutta questa costruzione ideale?». Il popolo d’Israele è stato provato da queste tentazioni e il tempo del deserto, quarant’anni, è servito per interiorizzare, metabolizzare, la certezza che era un popolo generato dal Signore. Il deserto verrà poi considerato come il tempo del fidanzamento. Gesù fa lo stesso percorso.

L’evangelista Matteo colloca così le tentazioni: la prima nel deserto, la seconda sul pinnacolo del tempio di Gerusalemme, l’ultima su un monte altissimo. Matteo ha una particolare sottolineatura riguardo a Gesù come nuovo Mosè.

In Luca ci sono due particolari su cui mi soffermo: sono dettagli, ma dietro ci sta qualcosa che può aiutare la nostra vita in questo periodo. Primo dettaglio. Luca – come ho detto – ha un ordine diverso delle tentazioni: la prima è nel deserto, nella pianura, la seconda sul monte e l’ultima, la più grande, a Gerusalemme. Questo dettaglio è importante perché nel Vangelo di Luca Gerusalemme è il punto d’arrivo del cammino di Gesù ed è il punto di partenza dell’evangelizzazione. È proprio lì che avviene la prova decisiva; quella che è narrata nel Vangelo di oggi è l’anticipo, l’allusione a quella che verrà «nel momento stabilito».
Il secondo dettaglio riguarda l’ultimo versetto del Vangelo di Luca: «Il diavolo, dopo aver esaurito ogni tentazione…». Questa traduzione non rende bene, sarebbe piuttosto: «Il diavolo, dopo aver “arrotolato” la tentazione… per “srotolarla” al momento giusto». E qual è il momento giusto? Quando torna in scena il diavolo (se non personalmente, per interposta persona)? Quando Gesù è inchiodato sulla croce. Prima sono i capi del popolo, che incominciano a dire: «Se sei il Figlio di Dio, vieni giù dalla croce» (Mt 27,40). Poi, entrano i soldati che gli porgono una spugna imbevuta di aceto e anche loro ripetono: «Se sei il Figlio di Dio, facci vedere…» (cfr. Lc 23,37). Uno dei due ladroni inchiodati accanto a Gesù dice: «Se sei Figlio di Dio, salva te stesso e anche noi» (cfr. Lc 23,39). Immaginate se Gesù si fosse staccato dalla croce? Tutti avrebbero esultato, ma a noi un Gesù così non sarebbe stato d’aiuto. Come faremmo adesso a vivere le nostre prove? Gesù è rimasto fedele al disegno che il Padre aveva stabilito per lui. Il suo modo di essere Messia è “essere come noi”, per provare esattamente quello che proviamo noi, anche il dolore innocente. Questo fa grande impressione; viene da proclamare con convinzione le parole del Salmo responsoriale: «Resta con noi, Signore… nel momento della prova».
Siamo in un grande momento di prova. Anche nelle nostre famiglie si discute, si litiga, persino sul tema della pace. C’è chi pensa in un modo, chi in un altro. Come vivere questo momento?

  1. Guardiamo il crocifisso: Gesù, fedele fino in fondo, non estrae la bacchetta magica per staccarsi dalla croce: supera la tentazione.
  2. Preghiamo. A volte ci assale la tentazione: ne vale la pena? Ci ascolta il Signore? Durante la guerra nei Balcani lanciai l’iniziativa “time-out” per la pace, che prevedeva la preghiera per la pace ogni giorno alle ore 12. Come sapete, la guerra scoppiò e andò malissimo. Un giovane mi chiese perché il nostro “time-out” non era stato efficace. Ero andato in chiesa a pregare e mi aveva preso questo sentimento: «Figurati se il Signore ascolta proprio me!». Non aveva ascoltato Madre Teresa di Calcutta e Giovanni Paolo II… Questo pensiero, di per sé innocuo, mi creò un grande abbattimento. Mi aiutò un ricordo di famiglia. Mia mamma si preoccupava – sono il sestogenito – che tutti noi fratelli ci sentissimo amati allo stesso modo. Aveva molta cura per mio fratello paraplegico, che era missionario in Congo e veniva a casa ogni 3 o 4 anni; in quelle occasioni si faceva grande festa e le veniva il timore che noi ci sentissimo amati meno. Questo pensiero mi aiutò a risolvermi: «Signore, tu ascolti anche la mia voce, forse anche più di quella di Madre Teresa perché sono più piccolo». Invito a non demordere nella preghiera, a non stancarsi di pregare, anzi, a pregare fino a stancarsi. Tenere le mani alzate per la pace.
  3. Le guerre, le tensioni, sono frutto di un tessuto umano che porta alla sopraffazione, alla violenza. Creiamo un sociale diverso, cominciamo con l’essere artigiani della pace. L’artigiano ha cura dei particolari, è perseverante. Poi, fare la pace. Cominciamo col lanciare messaggi positivi, di riconciliazione, alle persone con le quali siamo in difficoltà. Un canto polifonico dice: «In tempore iracundiae factus est reconciliatio (nel tempo dell’ira è diventato riconciliazione)» (Sir 44,17). Così prepariamo un’umanità diversa.

Ognuno di voi ha un grappolo di persone che gli sono affidate: quanta responsabilità, quanto lavoro abbiamo davanti per creare un sociale di pace!
Infine, essere persone di pace: essere persone pacificate, che sanno vivere bene i conflitti; persone che comunicano speranza perché l’hanno dentro.
Auguro che lo siate tutti: è la mia preghiera per voi.

Omelia nella Solennità delle Ceneri

Pennabilli (RN), Cattedrale, 2 marzo 2022

Gl 2,12-18
Sal 50
2Cor 5,20-6,2
Mt 6,1-6.16-18

Due anni fa, Mercoledì delle Ceneri come questa sera, abbiamo dovuto rinunciare alla liturgia solenne qui in Cattedrale a causa del Covid. L’anno scorso si è potuta celebrare, ma con molte precauzioni. Quest’anno siamo immersi in un dramma che mai avremmo immaginato potesse capitare nel cuore del nostro continente, l’Europa. Di guerre ce ne sono tante nel mondo, ma le sentiamo “lontane”. Questa è quasi in casa nostra, una guerra a cui si assiste in poltrona, davanti ad una televisione. Ma non è un film… Un cristiano che cosa prova? Prova di-sperazione, cioè l’affievolirsi della speranza; sente vacillare la fede sotto la prova: «Signore, dove sei?»; poi, subisce un assalto clamoroso alla carità (non ditemi che non vi sono venuti pensieri aggressivi…).
Stasera quasi non sapevo cosa dire. Allora sono andato nella cappella e ho detto: «Signore, cosa vuoi che dica al mio popolo?». Mi sono venute queste ispirazioni.
Primo pensiero: guardiamo il crocifisso, ascoltiamo il suo grido: «Eloì, Eloì, lemà sabactàni? (Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?)» (Mc 15,34). Il Padre c’è, c’era, ma Gesù non lo sentiva. Il Padre ascolta.
Secondo pensiero: preghiamo, insistiamo. Ho raccontato ad un incontro di catechesi interparrocchiale un’esperienza personale accadutami durante la guerra nei Balcani. Quel fine settimana i seminaristi erano andati a casa – avevano finito la prima sessione di esami – ed ero rimasto in Seminario da solo. Andai in cappella e mi misi a pregare fervorosamente per la pace. Poi, un pensiero triste mi saliva dal profondo del cuore come un’ombra oscura: «Figurati se il Signore ascolta la tua preghiera! Non ascolta quella di Madre Teresa, non sente il grido di Giovanni Paolo II…». Mi sono accasciato al pensiero dell’inutilità della preghiera e dell’inefficacia della grazia: grande tentazione. Mi è venuta in mente la mia mamma che aveva un cruccio: dimostrare a tutti i suoi figli (sei!) di amarli allo stesso modo. Quel ricordo mi ha riportato all’atteggiamento di Dio che dice: «Voglio bene a te anche se sei il più piccolo, ascolto la tua voce come quella di Madre Teresa, come quella di papa Giovanni Paolo II, perché ti amo immensamente, nella tua piccolezza». Sta scritto: «Dio sente il grido di un bambino nel deserto» (cfr. Gn 21,17). Per Dio siamo tutti unici. Allora invito ad ascoltare e pregare, continuare a pregare.
Terzo pensiero: mettiamoci nei panni di chi combatte e di chi resiste, di chi è profugo e di chi è sotto i bombardamenti e nei rifugi. È terribile! Ma terribili sono anche le conseguenze. Il popolo russo è un popolo stupendo, ci ha dato Dostoevskij, Tolstoj, grandi musicisti, grandi santi e maestri spirituali… Non ci è “nemico”. Ma nei cuori può nascere l’odio, che non accada! Problema è la ri-costruzione. Penso alle vittime, ma anche alla fatica che si farà per ricostruire palazzi, stazioni, aeroporti, ma soprattutto il tessuto, l’amicizia sociale, gravemente compromessa. Questa guerra è un po’ frutto di tutta l’umanità che perde l’ideale della fratellanza, perché ne ha smarrito l’origine: Dio è padre di tutti.

Questo il nostro compito in questo momento.
Essere artigiani della pace. L’artigiano ha cura dei particolari, è perseverante. Artigiani della pace là dove viviamo. A volte è difficile: tu vuoi costruire la pace, ma l’altro? Come si fa a disarmare il nemico? Armandosi fino ai denti? Ma allora lui si armerà ancora di più… Si disarma con l’amore, moltiplicando atti d’amore semplici, quotidiani, che diventano cultura.
Fare la pace. Tutti abbiamo almeno una persona antipatica o con la quale siamo in difficoltà. Cosa possiamo fare per riagganciarla, per dare segnali di riconciliazione? Non lasciamo nulla di intentato.
Essere pace. Se l’abbiamo dentro, se siamo persone di pace, si vede, ad esempio, dal sorriso. È vero, può esserci anche il sorriso finto, ambiguo, ma intendo quello autentico. Così scrive il libro del Siracide a proposito di Noè: «Al tempo dell’ira fu riconciliazione» (Sir 44,17). Dimenticarsi di sé per restituire al fratello o alla sorella una piccola luce.

Entriamo nella liturgia di questa sera. Cosa significano le ceneri che riceveremo sul capo? Perché la Chiesa Cattolica ha pensato a questo segno? Un pizzico di polvere tra le dita del sacerdote o nel palmo della mano ci riporta alla nostra verità: la verità della nostra condizione umana. Siamo figli di Adamo: in ebraico Adamà vuol dire “terrestre” e, come lui, noi pure siamo presi dalla polvere del suolo (cfr. Gn 2,7.3,19). Qualcuno dice che siamo “polvere di stelle”; la materia di cui siamo fatti, alla fine, è la stessa con cui sono fatte le stelle, gli astri, i pianeti. Questo ci ricorda la nostra reale dimensione, il nostro posto nell’universo e nella nostra condizione mortale, nonostante le grandi imprese nella scienza e nella tecnica. Siamo come un formicaio e lassù, dalla cima della collina, a milioni ogni giorno cadiamo nell’abisso della morte.
Vediamo in questo pizzico di polvere anche il segno del nostro peccato, della nostra dignità di battezzati, andata in frantumi, della luce del nostro Battesimo, di cui a volte non resta che una flebile fiammella o soltanto delle braci. Così accade anche ai nostri propositi, al nostro proclamato impegno al seguito di Gesù. Se osserviamo attentamente, quella polvere grigia è immagine delle nostre false illusioni, dei nostri progetti andati in fumo. Quel pugno di cenere è come un lembo di deserto, una terra arida senza fiori e senza frutti. Ecco perché il sacerdote dice: «Ricordati che sei polvere e in polvere ritornerai» (Gn 3,19).
Ma la polvere è anche un segno di speranza. «Il mio Vendicatore si ergerà sulla polvere» (Gb 19,25). «Il Signore solleva dalla polvere» (Sal 113,7). Noi mettiamo la nostra polvere sul capo non come segno di condanna, ma come un appello a vivere pienamente. Il sacerdote può usare un’altra formula per l’imposizione delle ceneri (tutt’e due sono importanti, una è nell’altra): «Convertitevi e credete al Vangelo» (Mc 1,15). Quando Gesù si avvicinò al cieco nato – dice il Vangelo – prese polvere della terra e la impastò con la saliva (cfr. Gv 9,6); ha fatto il miracolo, ma quel gesto sta a dirci che è venuto per modellare “un uomo nuovo” come al mattino della creazione. Con la sua risurrezione Gesù ha vinto la morte e le nostre ceneri sono destinate a trasfigurarsi dietro a Gesù. Un segno carico di speranza, dunque! Poi, c’è il soffio dello Spirito Santo – quest’anno ne stiamo parlando molto – che può riattizzare le braci sotto la cenere. Basta il coraggio di una sosta nella preghiera, uno sguardo al crocifisso per dare un’impennata all’anima, una pausa davanti alla Parola di Dio, soprattutto a quella della domenica, e ricordarla, e trascriverla. Tutto questo riaccenderà la fiamma della fede e del dono di noi stessi. È il mio augurio: sia una Quaresima che porti tanti frutti spirituali. Così sia.

Omelia nell’VIII domenica del Tempo Ordinario

Faetano (RSM), 27 febbraio 2022

Sir 27,5-8
Sal 91
1Cor 15,54-58
Lc 6,39-45

Gesù racconta tre mini-parabole, una più bella dell’altra, una più suggestiva dell’altra, una più curiosa dell’altra: la parabola del cieco che guida un altro cieco, la parabola della pagliuzza e della trave, la parabola dell’albero buono e dell’albero cattivo.

Il cieco che guida un altro cieco: a chi si rivolgeva Gesù? Possiamo far nostre diverse interpretazioni. Secondo una prima interpretazione Gesù si rivolge ai discepoli: «Cercatevi dei buoni maestri!». Oggi, ahimè, è tempo di cattivi maestri. Ma anche nella comunità del tempo c’erano falsi maestri. Bisogna stare in guardia, perché i cattivi maestri possono condurre fuori dall’insegnamento autentico di Gesù.
Secondo un’altra interpretazione la parabola sarebbe un avvertimento ai responsabili della comunità: ad esempio, tu che sei vescovo, dove stai guidando la tua comunità? Esaminati. Sei lungimirante? Del resto poi, ognuno ha una qualche responsabilità e deve interrogarsi seriamente, stimolato da questa parabola di Gesù: come assolvi il tuo servizio? Probabilmente Gesù faceva un discorso ampio, generale, sull’abitudine a giudicare gli altri, ad ergersi a giudici, quando noi stessi siamo ciechi. In ogni caso la parabola pende verso un’interpretazione cristologica: Gesù è il vero maestro. Il discepolo deve guardare il Maestro Gesù e deve imitarlo. Gesù afferma che nessun discepolo diventa più grande del suo maestro. Il detto è più comprensibile facendo riferimento alla didattica dell’epoca che prevedeva si ascoltasse bene il maestro e si riportasse fedelmente quello che lui insegnava: si dava più importanza all’ascolto che ai libri e alla ricerca. Però Gesù, in un punto del Vangelo di Giovanni, dirà: «Voi farete cose più grandi di me» (cfr. Gv 14,12): l’orizzonte che lui offre è immenso, perché l’orizzonte è lui, il modello è lui, anzi è Lui in noi! In conclusione, l’invito è di aderire pienamente all’insegnamento del vero Maestro e il suo insegnamento è amore e misericordia.

Nella seconda mini-parabola Gesù invita a stare attenti alla trave che hai nel tuo occhio prima di pretendere di togliere la pagliuzza dall’occhio del tuo prossimo. Leggo questa mini-parabola in collegamento con quella celebre del servo spietato, a cui era stato perdonato un debito enorme, paragonabile al bilancio di uno stato e diventa senza pietà con il collega che gli doveva qualcosa di poco conto (cfr. Mt 18,23-35). L’insegnamento della parabola della trave e della pagliuzza, in concreto, è: converti te stesso. La trave che c’è nel mio occhio è il mio debito che il Signore è disposto a perdonare; come potrò non avere, a mia volta, un atteggiamento di benevolenza e di misericordia verso il fratello? Converti te stesso, cioè renditi conto che il tuo sguardo è confuso; interrogati sul tuo modo di vedere il prossimo. È necessario intraprendere un cammino di verità su se stessi. Chi ci può aiutare? Penso alle persone che ci vivono accanto (essere maestro l’uno per l’altro) e che sono quasi uno specchio di noi stessi, alla guida spirituale o al confessore, che ci aiuta a metterci nella verità, alla pratica quotidiana dell’esame di coscienza.

Abbiamo una conoscenza molto parziale degli altri; ci succede di vedere l’altro attraverso la lente delle nostre precomprensioni, del nostro punto di vista, della nostra storia, della nostra cultura, delle nostre esperienze, mentre l’altro è singolare, originale, unico. Soltanto Dio conosce pienamente l’altro. Dobbiamo chiedere al Signore la conversione del cuore e dell’intelligenza: «Non si vede bene che col cuore» (Antoine de Saint Exupéry). «Signore, dammi un cuore che sa capire, che sa vedere, dammi un’intelligenza aperta». Ci sono due disturbi della vista: la miopia e la presbiopia. Il miope vede benissimo da vicino, ma non vede bene da lontano. Fuori di metafora, la miopia spirituale è l’atteggiamento che rimpicciolisce; accade anche nella preghiera, quando è ripiegamento su se stessi, con un orizzonte limitato. Quest’anno, nel Programma pastorale, ci siamo riproposti di “abbracciare il mondo”! La presbiopia, al contrario, è il disturbo secondo il quale si vede benissimo da lontano, ma non si vede bene da vicino. A volte succede di avere grandi slanci, di aprirsi a chissà quali progetti e non ci si accorge delle problematiche delle persone che vivono accanto.

La terza mini-parabola riguarda l’albero buono che fa frutti buoni e l’albero cattivo che fa frutti cattivi. Non può che essere così. Interessante che Gesù prima parla della raccolta e poi della produzione: c’è un’apparente incongruenza, ma il succo è che l’agire segue l’essere, o meglio – detto in modo evangelico – che le nostre parole, i nostri pensieri, le nostre azioni vengono dal cuore. Di per sé il cuore è predisposto per il bene, quando fa il male tradisce le sue radici (cfr. Gn 1,31). Attenzione al cuore, allora! Coltivare un cuore buono… Come si fa ad avere un cuore buono? Bisogna metterci dentro le parole, i pensieri e l’esempio di Gesù. Possiamo paragonare la coscienza ad uno scrigno destinato a contenere le parole, i detti e i fatti della vita di Gesù. Ma dobbiamo avere l’umiltà di riconoscere che quello scrigno è fragile: abbiamo “tesori in un vaso di creta” (cfr. 2Cor 4,7). Ancora un appello alla conversione: essere sempre più simili a Gesù, ad avere i pensieri, le parole e le azioni di Gesù. Ci aiuterà la Quaresima che sta per iniziare!

Omelia nella S. Messa nel Centenario della nascita del Servo di Dio don Luigi Giussani

Serravalle (RSM), 22 febbraio 2022

40° anniversario del riconoscimento pontificio della Fraternità di Comunione e Liberazione e 50° della presenza del Movimento a San Marino e in Diocesi

1Pt 5,1-4
Sal 22
Mt 16,13-19

Saluto e ringrazio le Loro Eccellenze, i Capitani Reggenti, per la presenza; un caro saluto a tutti i partecipanti a questa liturgia.
Il Vangelo che abbiamo sentito proclamare ci dice che le risposte “per sentito dire” non valgono, quelle frutto di una sommaria istruzione dottrinale sono insufficienti e non fanno molta differenza, a questo proposito, le risposte accademiche. Gesù vuole la risposta del cuore: «Chi sono io per te?». Pietro aveva già dato la sua risposta gridando sotto la spinta della paura, ma anche della fiducia: «Signore, salvami!» (Mt 14,30). Era tra le onde del lago in tempesta. Un giorno dirà a nome di tutti: «Signore, da chi andremo? Tu solo hai parole di vita eterna» (Gv 6,68). A Cesarea di Filippo, tappa centrale del Vangelo di Matteo (siamo al capitolo 16), Simone risponde: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente» (Mt 16,16). E Gesù di rincalzo: «Non la carne né il sangue te lo hanno rivelato, ma il Padre mio» (Mt 16,17). Come dire, non ci sei arrivato da solo… Al confessore del Messia viene conferita la dignità di suo rappresentante: «Tu sei Pietro, su questa pietra edificherò la mia Chiesa» (Mt 16,18). Gesù cambia nome a Simone, lo chiama Pietro. Quante volte nel Vangelo Pietro combina guai! Eppure, proprio a lui Gesù conferisce la dignità di essere suo rappresentante. Sappiamo dalla tradizione biblica che il cambio del nome sta sempre ad indicare l’assegnazione di una missione speciale, così Abram viene chiamato Abramo, Giacobbe è chiamato Israele, ecc. Il nome Pietro significa “roccia”. La stabilità e la compattezza della futura comunità messianica poggeranno su Cristo, ma attraverso la mediazione di Pietro. La Chiesa, sia ben chiaro, è di Cristo, Pietro non l’ha fondata, non è a disposizione del suo arbitrio e non ne è il capo per doti particolari, tuttavia, dopo la risurrezione, Gesù l’associa a sè come garante dell’unità e della stabilità della Chiesa.
Insieme alla metafora della roccia Gesù adopera anche quella delle chiavi, del legare e dello sciogliere, allusione al ministero petrino di governo e di magistero. Questa investitura vale anche per chi succede a Pietro. Come può la comunità messianica godere di un servizio di unità se la roccia non sarà tale per tutto il tempo? La dimensione petrina è esercitata in modo proprio dal vescovo di Roma, il vescovo della Chiesa che presiede alla carità, secondo l’espressione di sant’Ignazio di Antiochia.
Molto importante per noi oggi richiamare la rilevanza del primato di Pietro. Lo facciamo nel giorno della festa della Cattedra di san Pietro: evidentemente non si festeggia un mobile, ma l’incarico, l’impegno, il servizio che ha il vescovo di Roma. Il papa, per volontà di Cristo, deve confermare i fratelli ed essere roccia di sostegno per la Chiesa, perciò è infallibile: un dono grandissimo che il Signore ha fatto alla sua Chiesa. Sarebbe da approfondire e precisare tutta la profondità di questa verità della nostra fede. Voi direte: l’infallibilità è assicurata nei pronunciamenti sulla fede e la morale ex cathedra. Tuttavia, anche l’insegnamento ordinario, non definitivo, gode comunque di una particolare assistenza divina. Esige un assenso interiore. Ricordo una frase che papa Giovanni Paolo II pronunciò durante il suo primo viaggio in Polonia; era il 1979 e c’era difficoltà, in quei primi anni, a capire il Papa, perché portava nell’esercizio del suo ministero tutto un mondo, tutta un’esperienza, una testimonianza di fede e di combattimento che erano quelli della Polonia. «Se Dio mi ha chiamato con queste idee – disse –, ciò è avvenuto affinché abbiano risonanza nel mio ministero». Non si può accogliere il papato, distanziandosi da questo o quel papa. Allo stesso modo, oggi papa Francesco porta la vita, la storia, le fatiche, le singolarità della Chiesa latino-americana. E se il Signore lo ha chiamato con queste idee vuol dire che se ne deve tenere conto: è Pietro oggi.

Mi collego all’esperienza di Pietro nel riconoscimento del Signore come Messia per rimarcare il dono che è stato ed è don Giussani, non solo per il movimento di Comunione e Liberazione, ma per tutta la Chiesa. Anzitutto la sottolineatura forte del mistero dell’incarnazione, avvenimento che l’uomo, con tutti i suoi sforzi, non avrebbe potuto neppure immaginare. Penso all’immaginazione straordinaria dei miti antichi da Gilgameš alla tradizione egizia e alla nostra greco-latina (Ovidio, Esiodo, ecc.); nonostante la fervida fantasia non erano mai arrivati ad immaginare l’incarnazione di un Dio. Ovviamente l’incarnazione non è un mito, ma una realtà per la quale si dà la vita. Al mistero dell’incarnazione tende ogni espressione autentica dello spirito umano. È un tema ricorrente in don Giussani: «Per farsi riconoscere Dio è entrato nella vita dell’uomo come uomo, secondo una forma umana che penetra i nostri occhi, che tocca il nostro cuore, che si può afferrare con le nostre braccia». È Gesù, con la sua divina umanità, che l’uomo cerca quando è acceso da un desiderio di bellezza, di verità, di giustizia, di bene, di libertà. C’è una corrispondenza fra il cuore dell’uomo e la verità del Signore. E’ la novità portata da Gesù, il quale, come dice sant’Ireneo, «omnem novitatem attulit, semetipsum afferens», ossia «nella sua venuta, ha portato con sé tutta la novità» (Adversus Haereses, IV, c.34, n.1, cit. in EG 11). Vedete allora la freschezza, il fascino, della vita cristiana. Come mi insegnate è tutt’altro che una dottrina astratta, un insieme di leggi e di etica… Anche i precetti difficili del Vangelo di domenica scorsa – amare il nemico, dire bene di chi ci sminuisce – non vanno collocati nell’etica: dietro c’è una rivelazione. Dio è Padre, che fa piovere sui buoni e sui cattivi, fa venire il sole sui giusti e sugli ingiusti (cfr. Mt 5,45).
Partecipando a qualche incontro con gli amici di Comunione e Liberazione spesso ho sentito tornare queste parole, quasi una dizione formulare: “avvenimento”, “accadimento”, “incontro”. Sono parole dietro le quali sta un’esperienza. Mi piace soprattutto la parola “incontro”. Tale è, infatti, il cristianesimo: un incontro con una persona presente, carica di un’attrattiva misteriosa, capace di cambiare completamente l’orientamento della vita. Infatti, tante volte in questi incontri viene riferito un cambiamento, perché c’era stato un momento in cui era accaduto qualcosa di straordinario: l’incontro. Cito anche un altro testo tratto dal libro di Alberto Savorana su don Giussani: «Ciò di cui tutto è fatto è diventato uno di noi (il Verbo per mezzo del quale tutto è stato fatto e niente di ciò che esiste può prescindere da lui, perché tutto è stato fatto in Lui, cfr. Gv 1,3). Allora uno che lo incontra dovrebbe girare il mondo, gridandolo a tutti». Sentite la conclusione: «Ma uno può girare il mondo, gridarlo a tutti, stando nel luogo in cui Cristo lo ha provocato». Quindi, se dovessimo individuare un’espressione sintetica di tutta l’esperienza umana, cristiana ed ecclesiale di don Giussani, una parola attorno a cui tutto il suo insegnamento si può riassumere, dovremmo scegliere certamente la parola “vocazione”: vita come vocazione.
Concludo con un’altra citazione. È una lettera che, giovanissimo, Luigi Giussani scrive ad un amico: «Io non voglio vivere inutilmente: è la mia ossessione e poi, tra due amici profondi, cosa si desidera? L’aspirazione dell’amicizia è l’unione, è il dono di immedesimarsi, impastarsi, diventare la stessa persona, la stessa fisionomia della vita». «Ma Gesù è in croce – scrive il giovane don Luigi –; la gioia più grande della nostra vita è quella che, ad ogni piccola o grande sofferenza, ci fa scoprire “ecco, ora sei più simile, più impastato con lui”». Questo testo mi piace; questo linguaggio “spirituale” in un cristiano concreto smentisce il pregiudizio secondo cui spiritualità e contemplazione sono in contraddizione.
«Tu es Petrus», Gesù l’ha detto a Simone, ma ognuno di noi che riconosce il Signore come “il suo Signore” diventa Pietro, viene invitato e costituito per la missione.

Omelia nella VII domenica del Tempo Ordinario

Pieve di Carpegna (PU), 20 febbraio 2022

1Sam 26,2.7-9.12-13.22-23
Sal 102
1Cor 15,45-49
Lc 6,27-38

Di solito, quando celebra il Vescovo, imparte la benedizione all’assemblea con il libro dei Vangeli. C’è un legame speciale fra il Vescovo, in quanto successore degli apostoli, e il testo del Santo Vangelo. Tant’è vero che – come avrete notato – il cerimoniere porge al Vescovo anche il pastorale. Che bisogno c’è? Non è Gesù il Pastore? Sì, è Gesù, ma Gesù ha scelto i Dodici apostoli perché fossero una sua presenza.
Oggi ci troviamo di fronte ad un Vangelo impegnativo. Sono aiutato dalle prime righe, in cui Gesù dice: «A voi che ascoltate, io dico…». È come se Gesù dicesse: «Datemi la mano, vi introduco in un orizzonte straordinario, vi faccio entrare con me». Rispondo: «Signore, se non ti guardassi negli occhi e non stringessi la tua mano, penserei che le parole che stai per dire siano umanamente impossibili da realizzare».

Ma qui non siamo di fronte ad un’etica o ad una precettistica. Se prendessimo queste parole come una pagina di etica, nella tradizione umana, nelle filosofie antiche e moderne, troveremmo qualcuno che si è lanciato in queste prospettive di amore senza confini. Nel tempo moderno basti pensare al Mahatma Gandhi, profeta della non violenza, oppure al pastore evangelico americano, Martin Luther King. Nella filosofia antica, Pericle diceva più o meno così: «Qual è la più grande vittoria? Quando sei riuscito a trasformare il nemico in un amico, allora hai vinto». Durante la guerra del 1915-18, un generale mandò un avamposto a neutralizzare il nemico che era dall’altra parte della trincea con questa ingiunzione: «Vi affido il compito di eliminare il nemico». Parecchio tempo dopo, i militari non tornavano. Il generale andò a vedere di persona. Trovò che i suoi soldati fraternizzavano con gli avversari. Andò su tutte le furie, minacciando di destituire il capitano… Ma egli si difese assicurando di aver fatto come gli era stato chiesto: aveva eliminato il nemico, erano diventati amici! Il racconto fa riferimento ad un avvenimento dimenticato dalla storia, realmente accaduto nelle trincee dell’Artois durante la Prima Guerra Mondiale. L’episodio è stato rilanciato da un celebre film di Christian Carion, Joyeux Noël (2005).
Dunque, amare il nemico? Impossibile! Effettivamente Gesù ci fa vedere un altro orizzonte; ci prende per mano e ci porta dentro al suo rapporto con il Padre. Per questo la raccomandazione: «A voi che ascoltate, io dico…». «Se voi mi seguite – dice Gesù – vivrete qualcosa del mio mistero. Io sono il Verbo fatto carne, Colui che è il “tu” eterno del Padre, sono in totale ascolto: Dio è Padre e ogni creatura è mio fratello, mia sorella». Gesù ci invita ad entrare con lui nel seno del Padre e a superare quell’istinto di autodifesa che c’è in noi: l’altro ci fa paura a livello inconscio, temiamo ci tolga spazio, sia una minaccia. Scriveva il filosofo inglese Thomas Hobbes: «Homo homini lupus (l’uomo è lupo per l’altro uomo)».  E Jean Paul Sartre, filosofo vissuto a cavallo della Seconda Guerra Mondiale, diceva «l’enfer, c’est les autres (l’inferno sono gli altri)». Chi si lascia andare a questa logica, ha paura nella relazione con l’altro; invece Gesù ci chiede di vivere le relazioni come lui è in relazione con il Padre e con noi. Le frasi che Gesù dice, talvolta sono paradossali. Quella volta, nella pianura, sulle rive del lago, partì il primo dei verbi “amate”: «Amate il vostro nemico». Siamo capaci di farlo in concreto? Per i nostri fratelli protestanti la persona umana non è in grado di farlo. Pensano che Gesù ce l’abbia comandato per farci capire che da soli non ci arriviamo. Allora bisogna che umilmente accogliamo la grazia come dono. Per noi cattolici la cosa è diversa. Fare del bene è sicuramente un dono di Dio, ma l’uomo con la grazia ne è capace, perché è stato creato così da Dio. Proviamoci! Così sant’Agostino: «Dio non comanda l’impossibile, ma comandando ti ammonisce di fare ciò che puoi e di chiedere ciò che non puoi (De natura et gratia, 43,50).
Nella pagina evangelica ci sono 8 verbi, i primi 4 coniugati con il “voi”: amate i vostri nemici, fate del bene a quelli che vi odiano, benedite coloro che vi maledicono, pregate per coloro che vi trattano male; poi, Gesù parla come se guardasse negli occhi me, perché usa il “tu” e dice: «A chi ti percuote sulla guancia offri anche l’altra, a chi ti strappa il mantello non rifiutare la tunica (cioè dai tutto), dà a chiunque ti chiede e a chi prende le cose tue non chiederle indietro.
Ogni giorno scriverò uno di questi verbi per averli davanti agli occhi. Non ho nemici, ma mi sono nemici l’orgoglio, la pigrizia…
Vi auguro di meditare questa pagina come “pagina di rivelazione”. Ci colloca nella logica di Gesù. Dio è papà, gli altri sono fratelli. Devo amare questo fratello come lo amano sua mamma, suo papà.
Una volta, io e il Rettore del Seminario siamo andati a visitare una comunità di monache carmelitane di cui avevamo tanta stima. Il Rettore disse alla Madre Abbadessa che aveva un ragazzo assai disobbediente e che pensava di dargli, al rientro, due ceffoni. La Madre rimase sorpresa e diede questa risposta: «Se è sicuro di volergli bene come gli vuol bene sua mamma, gli dia pure due ceffoni…».
Buona settimana a tutti! Impegniamoci con gioia a famigliarizzare con quello che Gesù ci dice: essere nel Padre. Allora il Vangelo diventa comprensibile!

Omelia nelle Esequie di don Orazio Paolucci

Pennabilli (RN), Cattedrale, 7 febbraio 2022

Fil 3,20-21
Sal 62
Gv 11,17-27

Sì, Signore Gesù, crediamo che tu sei la risurrezione e la vita. Hai chiamato a te don Orazio. La vita del sacerdote, e don Orazio è stato prete fino in fondo, è tutta una chiamata, una vocazione. Dalla prima, con la quale Orazio, appena fanciullo, è invitato a stare vicino a Gesù, all’altra, quando il Signore gli offre la sua missione e i suoi poteri, alle successive chiamate, varie e in vari ruoli, sino all’ultima chiamata, la vocazione eterna. «Ne costituì Dodici perché stessero con lui» (Mc 3,14), perché don Orazio stesse sempre con lui. La nostra cittadinanza – è stato letto poco fa – è nei cieli. Il Signore Gesù Cristo trasforma il nostro corpo per conformarlo al suo corpo glorioso.
Don Orazio ha corrisposto alle chiamate del Signore servendo tra noi con gioia. Quando l’ha chiamato per l’ultimo tratto si raccolse e fu pronto. Ha pregato, ha ricevuto i sacramenti della Riconciliazione, dell’Eucaristia e della Santa Unzione, carezza di Gesù per chi è malato. Gli avevo scritto qualche settimana prima: «Il Signore ci vuole bene e non ci chiede altro che ricominciare sempre a fare la sua volontà. Ci proviamo, ci proviamo insieme». Mi rispose: «Grazie, Eccellenza. Da ammalato ci proviamo a fare la sua…». La sua volontà.
La morte, come la vita, di un sacerdote offre a tutti motivi di riflessione, di confronto e di verifica vocazionale. Insieme all’amore a Gesù Cristo tre amori hanno caratterizzato la vita di don Orazio.

Ha amato le relazioni. Discreto, non appariscente, ma tessitore di rapporti, senza preclusioni; legami tenui per la riservatezza del suo stile, ma cari perché non invadenti. A lui si applicherebbe bene il detto di san Francesco di Sales: «Si attira di più con una goccia di miele che con una botte di aceto».
Penso al suo servizio in Curia: accoglienza delle persone, garbo nella gestione delle telefonate… Fili soltanto, si dirà, ma preziosi, gradevoli perché gratuiti. Grande considerazione e grande amore aveva per le monache della Rupe: me lo ha ripetuto anche durante il ricovero in ospedale, dispiaciuto di non poter salire al monastero.

Ha amato le lettere: saggi, articoli, letteratura classica (l’anno scorso aveva terminato “I miserabili” di Victor Hugo), la scuola. «La cura per l’istruzione è amore» (Sap 6,17), dice il libro della Sapienza.
Ha amato quanto ingentilisce lo spirito, quanto apre spazi di contemplazione sulla bellezza, sugli ideali, su Dio, quanto favorisce contatti, conversazioni e tutto ciò che introduce a rapporti di conoscenza, di amicizia, di collaborazione. Ricordava senza ombra di invidia il condiscepolo mons. Sambi, entrato da Pennabilli in servizio alla Santa Sede, divenuto poi Nunzio apostolico (ultima nunziatura a Washington). Agli studi del percorso seminaristico ha aggiunto gli studi universitari ad Urbino con laurea in Filosofia. Ha fatto scuola ad un gran numero di alunni di cui diceva: «M’han fatto tribolare, ma gli ho voluto tanto bene!» e dai quali è stato riamato, anche e soprattutto ben oltre la scuola.
La sera si ritirava nel suo studiolo (scherzosamente lo pensavo “lo studiolo del duca di Urbino”) e componeva messaggi da inviare ai parrocchiani e agli amici: un servizio soprattutto per chi non veniva in chiesa, diceva, e che comunque lui desiderava raggiungere per nutrire di Vangelo: «Non di solo pane vive l’uomo» (Mt 4,4). La bellezza con la quale va presentata la Parola di Dio è più che un dovere, soprattutto per noi sacerdoti, perché questa parola divina risplenda maggiormente, consegnata da una adeguata parola umana, e corra fra la gente e più facilmente, se così si può dire, la conquisti con la forza intrinseca della sua verità.

Ha amato la vita nascosta. Passando di frequente accanto alla sua casetta, timidamente affacciata sulla strada, il mio pensiero andava immancabilmente alla casa di Betania, la casa degli amici di Gesù: Marta, Maria e Lazzaro. Un saluto commosso rivolgo alle sorelle di don Orazio con l’assicurazione della nostra vicinanza e della nostra preghiera. Il primo pensiero, dopo aver appreso la notizia della morte di don Orazio, è stato proprio per loro.
Fu mandato in piccoli paesi, ma col cuore aperto su tutta la Chiesa e sul mondo. Fu mandato a Macerata Feltria, Rocca Pratiffi, Gattara, Maiolo e poi Miratoio e Ca’ Romano, ma non ha amato di meno la sua Pennabilli, apprezzando iniziative e dialogando con tutti. Nel Vangelo si dice di Gesù che la sua missione era di andare di villaggio in villaggio ad annunziare il Regno e a fare del bene (cfr. Mc 6,6; Mt 13,58; Lc 9,6). Un sacerdote, come Gesù, è inviato a passare da un luogo all’altro, da una comunità all’altra, per permettere così a Gesù di continuare nel tempo il suo ministero, umilmente.
Don Orazio se n’è andato in punta di piedi. Tutti noi, spiazzati dal rapido assalto della malattia, quasi non ce ne siamo accorti e adesso siamo impegnati a rovistare nella memoria l’ultima chiacchierata con lui, l’ultimo saluto, l’ultimo sorriso, eredità preziosa. Ha accettato solo per compiacenza al vescovo la nomina di canonico della Cattedrale. Voi tutti sapete quanto ha dato, sapete anche che non si è mai sopravvalutato, al contrario. Pregando per lui, con lui e ora insieme a tutti voi, sento la bellezza e la validità di queste parole del Messale Romano: «Di tutti noi abbi misericordia, donaci di avere parte alla vita eterna insieme alla beata Maria, Vergine e Madre di Dio; con gli apostoli, i santi, che in ogni tempo ti furono graditi, e in Gesù Cristo, tuo Figlio, canteremo la tua lode e la tua gloria».
Saluto don Orazio con le parole che il Siracide rivolge a Mosè: «Fu amato da Dio, fu amato dagli uomini, il suo ricordo è benedizione» (Sir 45,1).

Omelia nella V domenica del Tempo Ordinario

Pennabilli (RN), Cappella del Vescovado, 6 febbraio 2022

Giornata Nazionale per la Vita

Is 6,1-2.3-8
Sal 137
1Cor 15,1-11
Lc 5,1-11

Il lago, la folla, Gesù.
Il lago. Lo chiamano anche “mare di Genesaret” (cfr. Mc 1,16; 2,13; 4,1 e paralleli di Mt e di Gv), ma l’evangelista Luca, conoscendo la vastità del Mediterraneo preferisce chiamarlo “lago”; comunque, faceva impressione ai pescatori tanto era grande; aveva una forma che richiamava una chitarra, da cui il nome di Genesaret. Quante storie, quante meraviglie riguardo al lago, e quanta fatica pescare, ripulire le barche e le reti e poi le rotte, le burrasche, il vento…

La folla. La folla è fatta di persone stupefatte dall’insegnamento di quel Maestro. Sono affascinati dal suo parlare semplice e nello stesso tempo profondo. Racconta parabole, insegna con autorevolezza.

Gesù. Gesù questa volta, mentre ha la folla attorno che quasi lo comprime, vede in lontananza alcuni amici pescatori che sembrano non essere affatto coinvolti. Hanno pescato tutta la notte senza prendere nulla e sono aggrovigliati nelle loro reti vuote, nel loro fallimento, chiusi in se stessi. Gesù li chiama, li interpella e chiede loro una barca. Interessante che una barca diventi pulpito, luogo di insegnamento sul quale Gesù siede per ammaestrare. Interessante anche che Gesù domandi. Più volte nel Vangelo Gesù interpella persone che apparentemente hanno poco da spartire con lui. Basti pensare alla donna samaritana a cui rivolge la domanda: «Dammi da bere» (Gv 4,7), oppure a Zaccheo, peccatore pubblico, al quale Gesù dice: «Invitami a casa tua» (cfr. Lc 19,5). E se Gesù chiede è sicuramente per dare. Lo vediamo con Simon Pietro e con i suoi compagni pescatori.

In questa giornata di prodigi il primo miracolo è il fatto che Pietro e gli amici accettano di dare la loro barca vuota a Gesù. Faccio una lettura simbolica: mettono a disposizione quella barca vuota, i cuori avviliti, il fallimento della pesca, e Gesù sul loro “nulla” farà grandi cose.
Gesù è sulla barca che, ondulando, galleggia sulle onde, mentre la gente sta sulla terra ferma: lo ascolta, ma sembra non arrischiarsi più di tanto. L’insegnamento di Gesù effettivamente è “nuovo” e autorevole (cfr. Lc 4,36).
C’è un secondo miracolo: questi pescatori non solo cedono la loro barca, ma cedono – per così dire – la loro disponibilità. Superano il senso di fallimento per la pesca della notte precedente, andata male, accettano il rischio di mettersi a pescare in pieno giorno, quando si sa che il tempo favorevole è la notte, e avviene la sorpresa – il terzo miracolo di quel giorno –: si ritrovano le reti che quasi si rompono e una barca piena di pesci; chiamano gli amici per raccogliere questa pesca straordinaria. Pietro si getta ai piedi di Gesù dicendo: «Allontanati, Maestro, sono un peccatore». E Gesù invece lo invita a «non temere». Però, bisogna che la barca di Pietro – prendiamola come metafora – non sia come quelle barche lungo il fiume che sono ben piantate alle sponde e sono state trasformate in ristoranti galleggianti, romantici, con una cucina squisita… La barca di Pietro è una barca che deve lanciarsi, osare, affrontare il largo. Questo vale per tutti noi! Come vorremmo che la scialuppa della nostra comunità, la barca della nostra parrocchia, il transatlantico della Chiesa fossero pieni di audacia. Pietro, e noi con lui, non dobbiamo temere. Anche il racconto della vocazione di Isaia contempla un primo momento di smarrimento: l’impresa è grande. Notare la diversità dei luoghi della chiamata, ma la somiglianza nella risposta. Isaia sente la chiamata nel tempio, in una visione straordinaria. Pietro viene chiamato nella sua quotidiana e faticosa attività di pescatore. Ambedue i chiamati protestano la loro inadeguatezza, la loro condizione di peccatori e il loro timore. Poi rispondono: «Eccomi!». In questo anno pastorale, tutto incentrato sulla missione, rinnoviamo il nostro «sì!».
Faccio un altro collegamento: il lago, la navigazione e la nostra esistenza. Oggi è la Giornata Nazionale per la Vita, che ha come tema custodire ogni vita. Il vangelo di oggi è un grande invito alla fiducia, ad intraprendere questo cammino prendendoci cura gli uni degli altri, soprattutto di chi è più fragile: i bimbi che stanno per nascere, le persone anziane in difficoltà, gli ammalati, tutti coloro che ci fanno capire, con la loro fragilità, la preziosità della vita.
Auguri, buona navigazione!

Giornata per la Vita: Messaggio del Vescovo Andrea

Messaggio del Vescovo Andrea Turazzi per la 44a Giornata Nazionale per la Vita
“CUSTODIRE OGNI VITA”

Sarà percepita? Sarà ascoltata? Saprà intercettare intelligenza e cuore dei miei concittadini e fratelli? La parola è: custodire ogni vita. In Italia si celebra una Giornata dedicata a questo tema. Nella Repubblica di San Marino è la prima volta dopo il Referendum che ha proposto l’introduzione dell’aborto. Il vero diritto da rivendicare – lo ripeto – è quello che ogni vita nascente o terminale sia adeguatamente custodita. Prima di ogni altra considerazione questo mi sembra il momento favorevole per una pacata riflessione e per l’avvio di una legislazione che tenga conto del valore, della sacralità e della bellezza della vita.
Lo sguardo si allarga ad abbracciare ogni situazione di vita che – talvolta silenziosamente – chiede attenzione e cura, situazioni aggravate dall’epidemia Covid.
Tutti facciamo l’esperienza che quando una persona è accolta, accompagnata e incoraggiata ogni difficoltà può essere superata o comunque fronteggiata con audacia e speranza. Scommetto che tutti insieme sapremo superare tentazioni di indifferenza, egoismo e irresponsabilità. Del resto, «ciascuno ha bisogno che qualcun altro si prenda cura di lui». La vocazione del custodire riguarda tutti!

+ Andrea Turazzi
Vescovo di San Marino-Montefeltro

Omelia nella Festa della Presentazione di Gesù al Tempio

Valdragone (RSM), Casa San Giuseppe, 2 febbraio 2022

XXVI Giornata mondiale della Vita consacrata

Ml 3,1-4
Sal 23
Lc 2,22-40

A quaranta giorni dal Santo Natale ecco la Festa della Presentazione del Signore al Tempio. «Alzate, o porte, la vostre fronte, alzatevi soglie antiche ed entri il Re della Gloria» (cfr. Sal 24,7). Se fossimo stati presenti in quel momento chi avremmo visto entrare attraverso il grande portale del Tempio di Gerusalemme? Avremmo visto una mamma, Maria di Nazaret, e il suo sposo, Giuseppe; avremmo visto un bimbo, neonato; avremmo visto un giusto, Simeone, e una donna anziana, Anna. Persone semplici. Ma, con gli occhi della fede, attraverso di loro, accade qualcosa di straordinario. Siamo nel cuore del Vangelo. Lo si dice di tante pagine, ma qui c’è l’attesa e c’è l’incontro; c’è lo splendore e la forma che quello splendore ha preso; c’è il desiderio e c’è il compimento. Il Figlio del Dio vivente entra nel suo Tempio. Nessuno se n’è accorto. Eppure, è accaduto qualcosa di straordinario, unico: Lui, la “pietra angolare” (cfr. 1Pt2,6-7), viene accolto nel Tempio fatto di pietre.
Mi vengono in mente – sono passati poco più di ventiquattro mesi dal pellegrinaggio diocesano in Terra Santa – le pietre del Muro Occidentale, là dove oggi si ritrovano gli ebrei per celebrare e implorare il “Santo, Benedetto Egli sia”, come dicono. Guardando quelle pietre, la mente attraversa il tempo e la storia. E noi, che siamo qui oggi, siamo invitati ad essere pietre vive di una Chiesa aperta al mondo, alla gente del nostro tempo. È stato bello stamattina, quando proprio uno degli eremiti ci ha fatto capire che la fraternità è la dimensione fondamentale della vita religiosa e, prima ancora, di ogni vita cristiana. “Pietre vive” della Chiesa (cfr. 1Pt 2,5), pietre sconosciute e spesso invisibili al mondo, pietre senza apparenza né splendore, direbbe il profeta Isaia (cfr. Is 53,2), ma poco importa. Dobbiamo essere e stare al nostro posto. Se manca una sola pietra, tutto può crollare.

Vi invito a volgere il vostro sguardo a Simeone e ad Anna. Ciò non ci allontanerà dal Signore, presentato al Tempio da Maria e Giuseppe. Simeone ed Anna sono degli anziani che l’attesa non ha invecchiato nel cuore. Le prove della vita (di Anna si dice che è stata sposata sette anni, quindi è vedova e una volta la condizione di vita di una vedova non era facile, perché non c’erano forme di assistenza), lungi dall’abbatterli, non hanno fatto che accrescere il desiderio di incontrare il loro Signore. L’augurio che faccio a tutti è di non calare di tensione verso il Signore. Come accade agli sposi nel matrimonio, c’è un grande amore all’inizio, un amore che li rende forti, capaci di affrontare le difficoltà e il cammino dei figli, ecc. Può avvenire che l’amore sia sopraffatto dall’abitudine e possa diventare mediocre. La grazia del sacramento è sempre presente.
Le esistenze di Simeone e Anna, rimaste giovani, non si spiegano altrimenti se non per l’intima presenza dello Spirito Santo che è in loro. Il Vangelo di Luca è il Vangelo dello Spirito Santo: Luca è l’evangelista della Pentecoste ed è colui che ci racconta come lo Spirito ha plasmato la prima comunità cristiana. La vita di Simeone ed Anna è animata dallo Spirito. Simeone è anziano, Anna ha 84 anni, eppure lo Spirito Santo li rende attenti a percepire il nuovo, a cogliere la presenza del Signore che viene. Simeone ed Anna hanno scritto ante litteram la Sequenza di Pentecoste: «Veni, Sancte Spiritus, et emítte caelitus lucis tuae rádium», perché ci sono quasi tutti gli appellativi con i quali noi identifichiamo lo Spirito Santo, la Terza Divina Persona. Hanno proclamato con tutto il loro slancio colui che è detto Consolatore perfetto: “consolazione d’Israele”, riposo: «ora lascia, o Signore, che il tuo servo vada in pace secondo la tua parola», sorgente e luce delle genti, colui che purifica, riscalda, guarisce, raddrizza… Chissà quante volte Simeone ed Anna, frequentatori affezionati e devoti del Tempio, hanno meditato il testo del profeta Malachia riguardante il Signore terribile e potente che entra nel suo Tempio. «E subito entrerà nel suo Tempio il Signore che voi cercate; l’angelo dell’alleanza che voi sospirate, ecco, dice il Signore degli eserciti». Chi sopporterà il giorno della sua venuta? Chi resisterà al suo apparire?». Senza l’aiuto dello Spirito Simeone ed Anna non avrebbero potuto riconoscere in quel cucciolo d’uomo il Signore che prende possesso del suo Tempio. Simeone ed Anna oggi ci fanno da maestri, ci insegnano a vivere permanentemente in compagnia dello Spirito Santo. Cosa dobbiamo fare per convivere con lo Spirito Santo? Simeone ed Anna ci insegnano innanzitutto ad ascoltare la sua voce dentro di noi. Prima delle preghiere, chiediamo che lui ci introduca, ci faccia varcare quella soglia. Quando intingiamo la mano nell’acquasantiera, pensiamo all’acqua del Battesimo; ricordiamo quando Gesù ha gridato: «Dal seno di chi crede sgorgherà l’acqua che zampilla» (Gv 7,38). Invochiamolo di frequente durante la nostra giornata: «Vieni Santo Spirito!», durante una riunione in cui si fatica a trovare un accordo, «Santo Spirito fa’ che io dica una parola buona»… Manteniamo dentro di noi una conversazione con lui. Facciamo l’esercizio di imparare i sette doni dello Spirito Santo e, a seconda dell’opportunità, invochiamoli. Lo Spirito diventi il «dolce ospite dell’anima», come dice la Sequenza di Pentecoste. Dello Spirito si va dicendo che è il grande sconosciuto, per la nostra ignoranza, però non si dica che è estraneo. Lo Spirito non ci lascia nell’oscurità, ma ci guida verso la luce interiore dove si può incontrare Gesù.
Gesù entra nel Tempio di Gerusalemme, è accaduto. Adesso il Tempio dove entra è la mia persona e la persona di mio fratello e di mia sorella. Con la presenza coltivata dello Spirito Santo la nostra attesa non sarà delusa.