Omelia nella XXVI domenica del Tempo Ordinario

Secchiano (RN), 24 settembre 2022

Festa degli anniversari di matrimonio

Am 6,1.4-7
Sal 145
1Tm 6,11-16
Lc 16,19-31

Due uomini guardati da Dio. Dio vede, eccome! Sono due uomini agli antipodi della scala sociale: un ricco e un poveraccio. Dio vede il ricco con abiti firmati, «di porpora e di bisso», che banchetta tutti i giorni, anche i giorni feriali; vede anche un uomo povero, ricoperto di piaghe. Appare subito una differenza: del povero viene detto il nome. Nelle parabole i personaggi non vengono mai chiamati con il nome proprio; questo povero, invece, ha un nome davanti a Dio, si chiama Lazzaro, che vuol dire “Dio aiuta”. Tutti noi che viviamo nelle povertà, economiche o psicologiche o di inadeguatezza, siamo dei “Lazzaro”, persone che Dio aiuta. Il ricco viene soprannominato (ma non è il suo nome!) “epulone”, cioè “mangione”. Dio vede l’uno e l’altro.
Di per sé Gesù non vuole parlare dell’aldilà, descrivere come sono l’inferno e il paradiso; non è questa la pagina su cui fondiamo le nostre conoscenze, seppur limitate. Gesù, infatti, non ha mai svelato com’è l’aldilà; parla solo di una gioia infinita presso di lui e di una lontananza da lui, quando quel cuore infiammato d’amore, che è il cuore di Dio, sta davanti a noi e noi, anziché bruciare d’amore per lui a nostra volta, siamo imbarazzati davanti al suo volto. L’inferno è essere dentro al cuore di Dio e non riuscire ad amarlo, non volerlo amare. Gesù non voleva neppure parlarci, con questa parabola, di un programma di lotta di classe o di giustizia sociale, anche se viene da pensare a noi popoli ricchi che diventiamo sempre più ricchi a scapito di popoli poveri che diventano sempre più poveri. Non vale dire che il mondo è fatto così. Dio non ha fatto il mondo così, ha fatto il mondo pensandolo come una casa in cui vivono fratelli e sorelle e ha reso ricco questo mondo di beni, di natura, di intelligenze e di libertà che si prendano a cuore la sorte del fratello. Le doti di ognuno sono state date per vivere la fraternità.
L’insegnamento della parabola si può esprimere attraverso tre immagini: l’immagine del muro, l’immagine del fossato o dell’abisso e l’immagine della solitudine. Il Vangelo ci lascia intendere che c’è come un muro che separa il ricco dal povero. Chi l’ha costruito? Viene da pensare che soltanto Dio possa fare un muro che parte dagli inferi e raggiunge il cielo. Non l’ha costruito Dio, ma il ricco epulone, giorno per giorno, con la sua insensibilità. Non si è accorto che davanti alla porta della sua casa c’era un povero. Se ne sono accorti i cani, che gli andavano a leccare le ferite, ma lui non se n’è mai accorto. Si direbbe quasi che il cuore, a causa dell’indifferenza, muoia a fuoco lento. Il muro invalicabile è la relazione mancata.
L’altra immagine è quella del fossato o dell’abisso. Il ricco dice: «Padre Abramo, chiedi a Lazzaro se può intingere anche soltanto un dito nell’acqua e lasci cadere qualche goccia sulla mia bocca arsa dal fuoco. Mi accontenterei…». Abramo risponde: «C’è un abisso fra te e lui; l’hai creato tu, giorno dopo giorno, senza accorgertene. Non dico che sei stato cattivo, che hai fatto del male a Lazzaro o l’hai scacciato, ma che, semplicemente, non ti sei accorto di lui».
La solitudine. È interessante vedere come questo personaggio, il ricco, non venga mai colto in compagnia di altri. Banchetta, ma si è creata attorno a lui una solitudine, la solitudine della non-relazione. Non si è curato nemmeno di mandare quello che rimaneva del suo pranzo a quel povero che era seduto alla porta della sua reggia. La solitudine: ecco l’inferno. Ribadisco: Gesù ci fa questo racconto non tanto per parlarci dell’aldilà, ma per svegliarci nell’aldiquà. Attenzione a non costruire muri, a non scavare fossati, a non chiuderci nel nostro io egoistico. Nella nostra povertà di meriti, di capacità, è rassicurante sapere che Dio ci aiuta perché ci vede. Stiamo sotto il suo sguardo, uno sguardo che non è inquietante, indagatorio, anzi uno sguardo che «fa crescere» (cfr. Sal 17,36). Un altro bellissimo Salmo inizia così: «Signore, tu mi scruti e mi conosci, tu sai quando mi alzo e quando mi siedo. Penetri da lontano i miei pensieri…» (Sal 138,1-2). Mettiamoci sotto quello sguardo.

Ordinazione presbiterale del seminarista Larry Jaramillo

La Diocesi di San Marino-Montefeltro è in festa. Domani 1° ottobre alle ore 16.30 presso la cattedrale di Pennabili, Sua Eccellenza Mons. Andrea Turazzi ordinerà sacerdote il diacono Larry Jaramillo. La cerimonia si svolgerà alla presenza dei suoi genitori e della comunità diocesana.

Don Larry, originario della Colombia, è in Italia da 15 anni. Il suo percorso vocazionale ha vissuto due momenti intercalati da un’esperienza di vita professionale. Infatti, dopo il corso propedeutico a Faenza, don Larry ha lavorato come operaio in un’azienda sammarinese, confrontandosi con il mondo del lavoro ed entrando in contatto con le realtà di vita del territorio.

Dopo queste esperienze, si è recato a Piacenza per completare il suo percorso presso il Collegio Alberoni, seminario internazionale. La sua formazione è stata segnata da numerose esperienze pastorali con i giovani in varie comunità parrocchiali.

Commentando l’evento, il vescovo Andrea ha espresso la sua «grande gioia», per averlo «accompagnato come un figlio».

Considerando l’ordinazione come «un grande dono di Dio alla nostra Chiesa», Larry rivolge un invito: «Pregate per me in questo momento così importante della mia vita. Che possa viverlo con serenità, desideroso di entrare nell’immensità del cuore di Dio, ed essere pastore secondo il suo cuore».

Dopo l’ordinazione sacerdotale, don Larry servirà la comunità cristiana di Macerata Feltria (PU).

Sarà possibile seguire in diretta la celebrazione anche in streaming sul Canale YouTube della Diocesi di San Marino-Montefeltro a questo link:

https://youtu.be/_gd8Iqd9yUE

Assemblea diocesana di inizio anno

Ai sacerdoti, ai diaconi,
ai religiosi e alle religiose,
ai referenti dei Gruppi Sinodali
agli operatori pastorali
a tutti i fedeli

Carissimi,
vi invito calorosamente alla Giornata del Mandato: domenica 25 settembre in centro Diocesi, nella Cattedrale di Pennabilli, dalle ore 16 alle ore 18. Alla presenza dei sacerdoti, dei diaconi, dei religiosi e delle religiose, conferirò il “Mandato” agli operatori pastorali impegnati nei diversi ambiti del servizio, inviati per la missione dell’evangelizzazione e l’animazione nelle comunità.
Una novità: l’invito è esteso ai referenti dei Gruppi Sinodali che hanno sostenuto la “prima fase” del Cammino Sinodale e si preparano ad avviare la “seconda fase”, che si armonizzerà col Programma Pastorale Diocesano incentrato sul tema della comunione: “Costruttori di comunità nei cantieri della vita”.
Sarà una santa assemblea per il “Mandato” e per la consegna del Programma Pastorale 2022/23, ma sarà soprattutto un’assemblea di preghiera: invocazione allo Spirito Santo, adorazione eucaristica in sintonia col Congresso Eucaristico Nazionale di Matera e canto del Vespro in unità con tutta la Chiesa.
Questo nuovo inizio sarà motivo di festa e di rinnovato entusiasmo.
Uniti nella vicendevole stima

+ Andrea Turazzi
Vescovo di San Marino-Montefeltro

Programma


Ore 15:45 – Accoglienza

Ore 16:00 – Invocazione allo Spirito Santo

Ore 16:15 – Presentazione del Programma Pastorale 2022/23
Costruttori di comunità nei cantieri della vita

Ore 17:00 – Adorazione Eucaristica in sintonia
con il Congresso Eucaristico Nazionale di Matera

Ore 17:30 – Canto del Vespro, conferimento del Mandato
e consegna del Programma Pastorale 2022/23

Ore 18:00 – Benedizione finale

Omelia nella XXIII domenica del Tempo Ordinario

Pennabilli (RN), Cattedrale, 4 settembre 2022

Sante Cresime

Sap 9,13-18
Sal 89
At 2,14a.36-41
Lc 14,25-33

Una catechista mi ha detto: «Lo sa, Eccellenza, che i nostri ragazzi sono diventati grandi? Allora ho spiegato loro che la Cresima è come una piccola Pentecoste!».
Ho risposto che la Pentecoste o è “grande” o Pentecoste non è! La Pentecoste è un avvenimento straordinario, irruente, luminosissimo. Quando si è manifestata per la prima volta, i discepoli che erano riuniti insieme nel Cenacolo hanno spalancato le porte e sono scesi in piazza. Loro che erano «plebei illetterati» sono diventati coraggiosi testimoni: non avevano più paura, hanno accettato persino di finire in carcere.
La Pentecoste sta accadendo adesso come è accaduta tanti anni fa, come abbiamo sentito proclamare negli Atti degli Apostoli.
Faccio un esempio per i ragazzi, sebbene, come tutti gli esempi, sia imperfetto. Quando lavorate al computer e volete richiamare un file, cliccate sull’icona che lo rappresenta e il file si apre davanti a voi. In un certo senso la Cresima fa quel “click”, in modo che viva la Pentecoste, la stessa che mobilitò gli apostoli e i discepoli e li fece diventare testimoni di Gesù. Fra qualche minuto accadrà qui quello che è accaduto a Gerusalemme. Non una piccola Pentecoste, una grandissima Pentecoste!

Prendiamo qualche spunto dal Vangelo di oggi. Dice: «Siccome una folla numerosa andava con lui, egli si voltò…» (Lc 14,25). Non è solo una frase redazionale. Quello che Gesù sta per dire è così importante che, mentre cammina, con «una folla numerosa» che lo segue, di botto si ferma e si volta. La gente dietro Gesù chiacchiera; c’è chi è curioso di conoscerlo, chi racconta i miracoli a cui ha assistito e le parole che ha ascoltato… Gesù si ferma, si gira e guarda: cerca i cuori, non gli importano le chiacchiere, gli applausi, neppure il successo. Cerca i cuori dei dodici apostoli, ma gli sarebbe bastato anche un cuore solo. Gesù adesso si volta e guarda ciascuno di noi. Gli basterebbe un cuore, il cuore di uno di noi che gli dica: «Ti voglio bene». Gesù aggiunge parole molto forti: «Se uno viene a me e non mi ama più di quanto ami suo padre, sua madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo» (Lc 14,26). Non intende ingaggiare una competizione per escludere qualcuno. Gesù non dice di amare meno gli altri, dice di amare di più lui. Se noi amiamo lui di più, perché lui è Dio, allora il suo amore scende e rende puro, bello, luminoso l’amore per i familiari, gli amici, i fratelli, tutte le persone. Gesù propone non una sottrazione di amore, ma un amore più grande.
Se chiediamo ad un bambino: «Quanto vuoi bene alla mamma?», sa che nel vocabolario non c’è una parola adatta per esprimere tutto l’amore che prova, allora stende le braccia per dire un bene immenso. Gesù dice: «Se quella è una misura immensa, ti chiedo di amare ancora di più».
Aggiunge poi un’altra frase: «Colui che non porta la propria croce e non viene dietro a me, non può essere mio discepolo» (Lc 14,27). Noi oggi portiamo la croce al collo, piantiamo la croce sulla vetta dei monti, è un simbolo nobile, ma al tempo di Gesù era terribile nominare la croce, era come parlare di ghigliottina, di sedia elettrica, ecc. Portare come lui la croce significa caricarci di quella porzione di dolore che ogni amore comporta. Quando si vuole bene fino in fondo ad una persona, per lei si è pronti a tutto: è una legge della vita. All’amico cui vuoi bene fai spazio nel tuo cuore, lo svuoti perché sia più accogliente.
Un esempio per i ragazzi. Ad un amico piaceva tanto fare zapping al televisore, lo faceva tutto il giorno, ma la sera, quando arrivava a casa il papà, rinunciava al telecomando per lasciargli guardare il programma che preferiva. Quel ragazzo voleva bene al papà coi fatti, non a parole; ad amare c’è sempre una piccola o grande porzione di dolore. Gesù ci chiede, anche per amare lui, una dimostrazione che può passare attraverso una fatica, una rinuncia, un dolore.
Qual è, in pratica, il centro di questa pagina di Vangelo?
Gesù dice che per vivere questi insegnamenti bisogna fare una cosa molto semplice: «Se vuoi vivere così, siediti e fai i tuoi calcoli» (cfr. Lc 14,28-33). Intende dirci che occorre fare una scelta che sia pensata. “Sedersi” vuol dire fare tesoro di quanto propone Gesù, ascoltare i maestri, pregare, prepararsi alle sfide che dobbiamo affrontare, fare calcolo e tesoro dello Spirito Santo che abbiamo ricevuto.

Omelia nella Festa di San Marino

San Marino Città (RSM), Basilica del Santo Marino, 3 settembre 2022

Sir 14,20-15.4
Sal 47
At 2,42-48
Mt 5,13-16

Eccellentissimi Capitani Reggenti,
Autorità civili e militari,
Carissimi sorelle e fratelli, presenti e collegati in diretta tv,
il mio più cordiale saluto.
Buona festa di San Marino.
È trascorso un altro anno. C’è stato l’impegno di tanti per migliorare sempre più la qualità di vita dei cittadini. Vita spirituale e vita civile. Ci siamo misurati con emergenze drammatiche e successive: il contenimento della pandemia, con risposte efficaci; la guerra e le sue conseguenze, con il giudizio, con gli aiuti e con l’accoglienza; ora ci interpella la crisi energetica che incombe su imprese e famiglie. Poi, la ripresa, dopo il Covid, di tante iniziative per la gioventù: nella scuola, nello sport, nell’università, mentre si affrontano la sofferenza e il disagio con la presenza delle istituzioni e del volontariato. Affidiamo all’intercessione di san Marino preoccupazioni, speranze e sfide.
Permettete un ricordo commosso per le famiglie che piangono, in questi giorni, per la perdita dei loro ragazzi: Simone e Giada. Ci stringiamo sinceramente a loro con l’affetto e con la preghiera.
In un’unica festa celebriamo la fondazione della nostra comunità civile e il santo Fondatore Marino. Nella stessa comunità la dimensione civile e la dimensione religiosa si intrecciano. Sono chiamate ad essere unite, ma non confuse, inseparabili ma senza prevaricazioni. San Marino – a quanto è dato ricostruire – non intese fondare una comunità religiosa, un monastero a cielo aperto, né un sistema integralistico, ma una società fraterna, dove si dà «a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio» (Mt 22,21). La liturgia ci suggerisce di interpretare questa forma di società sull’esempio della comunità cristiana degli inizi: «I cristiani erano assidui nell’ascoltare l’insegnamento degli apostoli e nella unione fraterna, nella frazione del pane e nelle preghiere… Tutti coloro che erano diventati credenti stavano insieme e tenevano ogni cosa in comune» (At 2,42.44).
Da sempre la nostra tradizione ha promosso, più o meno consapevolmente, più o meno felicemente, il valore e la pratica della laicità, facendo vivere insieme persone di diverse convinzioni e orientamenti.
Questa laicità trae uno dei suoi punti di forza dalla visione integrale della persona (propria dell’antropologia cristiana). Chi non è credente non tema le radici cristiane della nostra comunità, è proprio su queste radici che si fonda il rispetto e la libertà di ognuno. La nostra libertà è reale, non per concessione di qualcuno, ma perché fondata sulla dignità della persona.
D’altra parte, chi è credente può contare sul rispetto e la considerazione di chi, di altra convinzione, professa la laicità come valore.
Laicità è anzitutto accoglienza dell’altro, del suo patrimonio ideale, della sua storia, dei suoi diritti ad avere spazi e mezzi, insieme ai doveri, di manifestare pubblicamente il proprio pensiero e di intraprendere iniziative secondo il principio di sussidiarietà (riconosciuto universalmente). La vera laicità è molto più della tolleranza, è più della semplice cortesia, è simpatia verso il dono che ognuno può portare all’insieme.
Riflessioni troppo ideali? Sappiamo tutti che la convivenza comporta diversità, tensioni e persino conflitti. Realisticamente. È stato così in passato. Lo è nel presente. Per fortuna possiamo imparare a gestire i conflitti nella diversità delle ragioni.
Credenti e non credenti siamo consapevoli che le nostre origini vengono da un santo della Chiesa Cattolica. È per questo motivo che, insieme e gioiosamente, facciamo memoria del santo Fondatore con questa solenne celebrazione e con la processione per le vie della città. Anche questo dato storico fa parte della nostra peculiarità, ci costituisce – appunto – sammarinesi. Certo, siamo anche aperti al nuovo, alla modernità, alla inclusione, agli sviluppi della cultura: «Tutto quello che è vero, nobile, giusto, puro, amabile, onorato, quello che è virtù e merita lode, tutto questo sia oggetto dei vostri pensieri» (Fil 4,8).
Non posso non condividere con questa assemblea la lacerazione nel cuore che, come cattolici, abbiamo vissuto e stiamo vivendo in questo tempo, a proposito della legge che consente la pratica dell’aborto. Questione delicata che ha a che fare con la dimensione religiosa (principi di fede) e con la dimensione sociale (insieme principi di fede e principi di ragione). Nessuna legge che ammette la soppressione della vita nascente è buona: la vita è sacra e inviolabile. Sempre. Molto si è lavorato attorno a questa legge e si è fatto il possibile per recepire istanze morali. Rimane il principio secondo il quale ciò che è legale non sempre è morale. Un esempio: la schiavitù ai tempi di san Paolo era legalizzata, ma l’apostolo chiede a Filemone (un discepolo) di considerare Onesimo non uno schiavo, ma come un fratello in Cristo (cfr. Filemone).
Ci si è messi dalla parte delle donne. Consentitemi una domanda: «Davvero?». Davanti ad una gravidanza indesiderata, davvero l’opzione “interruzione” giova, in qualche modo soccorre la domanda, il grido di vita che è proprio della donna?
Ci si è messi dalla parte delle donne, e più che giustamente: portano la gioia ma anche la fatica del grembo, e soprattutto portano secoli di prepotenze e abusi. Ma non sono l’unico soggetto: che dire del nascituro? Che dire del padre? Che dire della società, famiglia umana?
Questo è il momento più adatto per rinnovare il nostro impegno a favore di una cultura della vita e della famiglia; tra l’altro non è secondaria la questione demografica e soprattutto quella educativa: accompagnare i giovani alla comprensione dell’affettività e della corporeità. Costruiamo ponti di collaborazione. Proprio in nome della dignità della persona quale “assoluto umano” (E. Mounier) esprimiamo, come cristiani, il massimo rispetto per gli eventi e le diversità che possono manifestarsi e segnare i nostri giorni. Guardiamo avanti. Facciamo di tutto per prevenire, per quanto possibile, l’interruzione volontaria della gravidanza. Tutti concordiamo, comunque, che è un dramma umano che tocca tutti.
Mi piace citare un celebre passaggio dalla Lettera a Diogneto, un documento antico, dei primissimi secoli cristiani, che già prefigura il rapporto cristiano-società: «I cristiani né per regione, né per voce, né per costumi sono da distinguere dagli altri uomini. Infatti, non abitano città proprie, né usano un gergo che si differenzia, né conducono un genere di vita speciale. Vivendo in città greche e barbare, come a ciascuno è capitato, e adeguandosi ai costumi del luogo nel vestito, nel cibo e nel resto, testimoniano un metodo di vita sociale mirabile e indubbiamente paradossale. […] Si sposano come tutti e generano figli, ma non gettano i neonati. Mettono in comune la mensa, ma non il letto. Sono nella carne, ma non vivono secondo la carne. Dimorano nella terra, ma hanno la loro cittadinanza nel cielo. Obbediscono alle leggi stabilite, e con la loro vita superano le leggi. […] A dirla in breve, come è l’anima nel corpo, così nel mondo sono i cristiani». Concludo con la preghiera: «Signore, che hai chiamato il santo diacono Marino a riunire una comunità di credenti conforme allo stile di vita della Chiesa dei primi tempi e l’hai posta sul monte perché fosse glorificato il tuo nome, concedi a noi di proseguire con fedeltà l’opera da lui iniziata». Così sia.

Omelia nella Giornata per la Cura del Creato

San Marino Città (RSM), Basilica del Santo, 31 agosto 2022

Da qualche anno, in tutta la Chiesa – o meglio in tutte le Chiese – si celebra la Giornata Mondiale di preghiera per la Cura del Creato. L’iniziativa è partita dal Patriarca di Costantinopoli. Il 1° settembre, infatti, è il giorno nel quale la liturgia orientale ortodossa celebra il “Giorno della Creazione”. Nella Chiesa Cattolica, effettivamente, festeggiamo il Natale, la Pasqua, l’Ascensione, la Pentecoste, i santi e la Madonna, ma non c’è un giorno in cui considerare il mistero straordinario della creazione. Prima papa Benedetto XVI e poi papa Francesco hanno indetto una Giornata, proprio il 1° settembre in unità con tutte le Chiese, per la preghiera e la cura del creato con tre scopi: fare festa al dono di Dio che è il creato; convertirci: spesso si spadroneggia sul creato; prendere insieme un impegno di cura.
In questo giorno e nelle settimane successive, fino alla festa di san Francesco d’Assisi, il 4 ottobre, si moltiplicano le iniziative, i convegni, gli incontri, le veglie di preghiera. Grande rilievo si dà, in questo periodo, al documento di papa Francesco che ha reso più pensosa l’umanità la Lettera Enciclica Laudato si’. In essa il Papa coraggiosamente denuncia il saccheggio che si opera contro la natura e contesta, critica, quello che è “a monte” di questo atteggiamento, cioè lo sfrenato desiderio della ricchezza e il volere a tutti i costi dominare il creato.
Anche la nostra Commissione diocesana per la pastorale sociale e del lavoro ha lanciato questa Giornata e questo Tempo per il creato. Siamo appena all’inizio. Dovremmo, anno per anno, coinvolgere sempre più fratelli e sorelle.
La Giornata del Creato ha sempre un tema specifico. Quest’anno è: «Ascolta la voce del creato». Se impariamo ad ascoltare la voce del creato notiamo in essa una sorta di dissonanza, così sottolinea papa Francesco nel Messaggio per questa Giornata. Da un lato è un dolce canto che loda il creatore: abbiamo cantato insieme un versetto del Salmo 18: «I cieli narrano la gloria di Dio, l’opera delle sue mani annuncia il firmamento», ma tutta la poesia biblica è un inno alla creazione e al creatore. Da un altro lato c’è un grido amaro che lamenta i nostri tradimenti. Significativo a questo proposito quanto abbiamo sentito nella Prima Lettura: il roveto che arde senza consumarsi e l’invito rivolto a Mosè, che si mette in profondo atteggiamento di ascolto e si toglie i sandali, perché quella terra è santa (cfr. Es 3).
Viene proposto il tema della meraviglia: Mosè, e noi con lui, vorremmo non perdere mai il senso della meraviglia. Quello che vediamo, il mondo in cui viviamo, sono un dono. C’è stato dato non per il saccheggio, ma per la custodia. Dovremmo fare per il creato quello che Dio fa, dunque, per il suo popolo. Avrete notato i verbi della premura di Dio: ho osservato la miseria del mio popolo, ho udito il suo grido, conosco la sua sofferenza, sono sceso per liberare (cfr. Es 3,7-8). Poi l’invito a Mosè: «Va’, io ti mando…» (Es 3,10). Il creato non smette mai di parlare: lo ascoltiamo?
La pagina del Vangelo che è stata proclamata invita alla fiducia e lo fa mettendoci in contemplazione: «Guardate». Guardare è un verbo che dice profondità: un conto è vedere – gli occhi vedono – un conto è guardare: nel guardare c’è una intenzionalità, un inizio di contemplazione: «Guardate gli uccelli nel cielo» (Lc 12,24). Poi Gesù dice: «Osservate»; un verbo ancora più intenso, più carico. «Osservate – ripete – i gigli del campo; neanche Salomone con tutta la sua gloria vestiva come uno di loro» (cfr. Lc 12,27). Gli uccelli del cielo, i gigli del campo sono il nostro libro di meditazione. «Il dolce canto del creato – dice papa Francesco nel suo Messaggio – ci invita a praticare la “spiritualità ecologica”, attenta alla presenza di Dio nel mondo naturale. È un invito a fondare la nostra spiritualità sull’amorevole consapevolezza di non essere separati dalle altre creature, ma di formare con gli altri esseri dell’universo una stupenda comunione universale». Per i discepoli di Cristo, in particolare, tale luminosa esperienza rafforza la consapevolezza di quello che dice Giovanni nel Prologo del suo Vangelo: «Tutto è stato fatto per mezzo di lui (del Verbo) e senza di lui nulla è stato fatto di ciò che esiste» (Gv 1,3). Allora in questo Tempo del Creato riprendiamo a pregare nella grande cattedrale del creato, godendo del “grandioso coro cosmico” di innumerevoli creature che cantano le lodi di Dio. «Purtroppo quella dolce canzone è accompagnata da un grido amaro – cito ancora papa Francesco – o meglio da un coro di grida amare» (Papa Francesco, Messaggio per la Giornata Mondiale di preghiera per la cura del creato, 2022).
Il Papa nomina cinque soggetti di questo coro: la madre terra, in balia dei nostri eccessi consumistici; le diverse creature, alla mercè di un “antropocentrismo dispotico”; i poveri che sono tra noi esposti alle crisi climatiche, al forte impatto della siccità, alle inondazioni e agli uragani; le sorelle e i fratelli dei popoli nativi, vittime di interessi economici predatori; infine, gridano i nostri figli, minacciati da un miope egoismo.
Concludo con una breve sottolineatura sulla pagina di San Paolo. Ci riferisce il grido drammatico della creazione sottoposta alla caducità, nella speranza che anche lei sarà liberata dalla schiavitù della corruzione per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio. «Sappiamo infatti che tutta la creazione geme e soffre per le doglie del parto» (Rm 8,22). Ma la sofferenza del creato e dell’umanità viene aperta alla speranza. Animati dalla speranza dobbiamo fare tutta la nostra parte.

Omelia nella S. Messa per le Esequie di Giada Penserini

Gualdicciolo (RSM), 31 agosto 2022

2Cor 4,14-5,1
Gv 12,23-28

Anzitutto un abbraccio.
Certamente il mio; ma soprattutto quello caldo dei giovani e degli amici di Giada, dei compagni di Liceo; l’abbraccio di questa chiesa che l’ha vista bambina: qui il suo primo incontro con Gesù nella Prima Comunione.
Un abbraccio grande da parte di tutta la comunità sammarinese e degli operatori della comunicazione che hanno seguito e seguono quanto accaduto.

Coraggio, in questo momento di buio.
Non una esortazione retorica, ma nella certezza che Giada è accanto, fiera della sua famiglia, da cui ha ricevuto tanto amore, sostanza della sua breve esistenza terrena. Giada vuole certamente che la vita della sua famiglia riprenda, ancora una volta nel segno del dono di sé. Lei – mi par di sentirla – dice: «Brava mamma. Bravo papà!».
Significativo il nome che avete scelto per lei, “Giada”, pietra preziosa e di particolare lucentezza, ricca di sfumature colorate.

Una lezione.
La sofferenza e il dolore, benché incomprensibili, fanno andare in profondità. E nel profondo si scopre quanta solidarietà, quanto amore, quanta empatia si sprigiona. Si cresce nell’amore reciproco. D’incanto si diventa più umili, più consapevoli della propria fragilità, senza amarezza, ma bisognosi gli uni degli altri, più coscienti di ciò che vale e resta. Riferisco la raccomandazione che proprio ieri mi hanno rivolto i nonni di Giada: «Dica ai ragazzi la nostra gratitudine per la vicinanza a Giada e alla famiglia».

La vita può ricominciare?
Negli anni di Liceo ho vissuto un’esperienza dolorosa come questa: la morte del mio compagno di banco…
Mi ritrovai in questa pagina delle Confessioni di Sant’Agostino, dettate dai ricordi, dall’amicizia e da una vita che ricomincia: «E poi c’erano altre cose che avvincevano il mio animo: le conversazioni e le risate insieme, lo scambio di affettuose gentilezze, la lettura in comune di libri piacevoli, fare insieme cose ora insignificanti ora importanti, contrasti passeggeri, senza rancore, come succede ad ogni uomo anche con se stesso, e con quei contrasti peraltro così rari, rendere più gustosa l’abituale concordanza di vedute; insegnarci cose nuove a vicenda, sentire acutamente la nostalgia per gli assenti e accoglierli con gioia al loro ritorno: questi e altri simili segni, sgorganti da cuori che amano e si sentono riamati, ed espressi col contegno, con le parole, con lo sguardo e con mille graditissimi gesti, fondono insieme come fiamma gli animi e di molti ne fanno uno solo». (Sant’Agostino, Confessioni, IV,8).

Parole di vita eterna.
Si dicono parole – mi rendo conto che sto pronunciando parole dinanzi a tutti – ma le parole non placano il dolore. Ci sono parole ben diverse dalle nostre per l’origine, lo spessore e la forza. Sono state proclamate poco fa. Vengono da Dio, affrontano la realtà senza circonlocuzioni, hanno la stessa forza della creazione: «Dio disse, e le cose furono fatte». Sono una sfida, sono paradossali: parlano di una vista, di uno sguardo che sa vedere e penetrare l’invisibile: «Noi non fissiamo lo sguardo sulle cose visibili, ma su quelle invisibili». È lo sguardo della fede. Parafrasando, un autore cristiano scrive: «Non si vede bene che con il cuore». Il cuore vede e sa quello che non si vede e non si capisce.
Sono parole che assicurano il destino di vita del chicco di grano caduto in terra che, misteriosamente, produce molto frutto. È la piccola parabola che Gesù racconta per noi, ma anche per lui, spaventato e schiacciato dall’ora della croce che sta per scoccare: «Ora l’anima mia è turbata; che cosa devo dire?». Gesù fa della sua vita un’offerta.
Esprimo ammirazione e dico grazie ai genitori che hanno messo a disposizione gli organi di Giada per salvare vite. Penso a Giada chicco di frumento divenuto moltiplicatore di vita.

Omelia nel 40° anniversario della visita di Papa Giovanni Paolo II alla Repubblica di San Marino e alla Diocesi (1982-2022)

Serravalle (RSM), 28 agosto 2022

1.

40 anni fa Giovanni Paolo II faceva visita alla Repubblica di San Marino e alla Diocesi di San Marino-Montefeltro: il primo papa a metter piede sul monte Titano!
Chi era presente può testimoniare la gioia e l’entusiasmo suscitati da quell’evento straordinario. Noi, che oggi ricordiamo con gratitudine, sentiamo tutta la responsabilità del messaggio che ci ha lasciato e rispondiamo “sì” ai suoi appelli: due discorsi importanti e ampi, uno più breve, ma molto affettuoso, al momento dell’Angelus. Si è soliti citare un passaggio della sua omelia, tenuta durante la Messa qui a Serravalle: «Cari Sammarinesi, la vostra Comunità deve rimanere fedele al patrimonio ideale costruito nei secoli sull’impulso del suo Fondatore».

2.

Consentitemi di riproporre alcune chiavi di lettura del magistero di questo straordinario pontefice, a noi divenuto ancora più caro col passare degli anni e ora santo.
Anzitutto considero le sue origini. A molti era sconosciuto; al momento della elezione, sul bancone di san Pietro, lui stesso si presenta come «un uomo venuto da lontano». È il primo papa non italiano. Interrompe una tradizione di cinquecento anni. È polacco, figlio di una nazione contesa, travagliata, ricca di storia e di cultura. Giovanni Paolo II avrà molto a cuore la storia e la cultura, non solo polacca, ma di ogni nazione del continente. Proporrà nella sua visita all’ONU la stesura di una “Carta dei diritti delle nazioni”; a Compostela, nel 1992, rivendicherà solennemente le radici cristiane dell’Europa. Ha conosciuto l’antisemitismo di stato, gli orrori della Seconda Guerra Mondiale, i crimini della Shoah e l’altro totalitarismo che ha segnato il secolo, il comunismo. Non c’è da stupirsi allora, se questo papa, forse più dei predecessori, ha cercato il rapporto con gli ebrei, si è speso con tutte le sue forze per superare i conflitti, è intervenuto con vigore sui fatti di società; per questo è stato definito «il papa dei diritti dell’uomo». Quale papa italiano, francese, tedesco o africano avrebbe potuto sostenere il sindacato Solidarnosc con la stessa convinzione e la stessa forza? A lui è toccato, perché polacco, il compito di superare lo status quo di una Europa divisa in due blocchi. A lui il merito di spiegarci che il comunismo è stato una parentesi della storia e la divisione dell’Europa un accidente. Solzenicyn, all’indomani del conclave del 1978 dichiarò: «Questo papa è un dono del cielo!».

3.

Quasi tutti i papi prima di lui sono entrati giovanissimi in Seminario (c’erano i Seminari minori, secondo la prassi di allora). Invece Giovanni Paolo si incammina verso il sacerdozio avendo compiuto ventun anni. Durante la guerra, appassionato di teatro, è attore. Una passione che l’ha accompagnato fin dall’adolescenza. Dedica tempo a leggere testi, a ripeterli e a recitarli, tutto questo con giovani e ragazze, amici e amiche, come lui appassionati di letteratura polacca e impegnati, sotto la dominazione nazista, a difendere il patrimonio della nazione. Queste frequentazioni, soprattutto la presenza femminile, segnano la sua maturazione. Ciò sarà determinante per la pastorale del futuro papa. All’amico giornalista André Frossard, Wojtyla confiderà di non aver mai considerato l’amore umano un problema. Si appassionerà a questo tema, l’amore umano, soprattutto nel periodo in cui è stato assistente degli universitari a Cracovia, avvicinando centinaia di adolescenti e di giovani. In piena occupazione comunista, pubblica, durante gli anni ‘50, il libro “Amore e responsabilità”. È il periodo in cui è professore di etica all’università di Lublino e a breve sarà vescovo, tra i più giovani al mondo, poi arcivescovo di Cracovia. Affronta con schiettezza temi che toccano da vicino i giovani. Ad esempio, l’egoismo maschile, un tabù che Karol contesta considerando la relazione sessuale un dono assoluto e reciproco fra uomo e donna, e non la strumentalizzazione dell’uno per la soddisfazione dell’altro. È perché crede che l’atto sessuale sia qualcosa di positivo che Wojtyla è diventato un avversario della contraccezione, tutto ciò che altera l’assoluto di questo magnifico dono è da condannare. Fino alla fine Giovanni Paolo II sarà coerente con questa posizione esigente, come ribadirà a Kampala in Uganda, nel cuore dell’Africa segnata dall’AIDS: un discorso che gli attirerà molte critiche.

4.

Da giovane sacerdote, da vescovo e poi da papa avrà un’assidua frequentazione della gioventù. Lo chiamavano “wojcik” (“zio”), un soprannome che ha facilitato rapporti, condivisioni e anche viaggi in libertà (in calzoncini) lungo i fiumi della Polonia praticando la canoa. Da papa non ha smesso di incontrare i giovani. A Castelgandolfo, d’estate, viveva momenti intensi di preghiera e di dialogo con loro, come nelle serate di Cracovia. Sono stati questi dialoghi ravvicinati a suggerirgli l’idea delle Giornate Mondiali della Gioventù. La prima volta fu per accogliere la proposta dell’ONU di dedicare l’anno 1985 alla gioventù, ma questo pretesto ha dato luogo ai grandi eventi della GMG, eventi memorabili, momenti di grazia, ma anche esperienze profonde di interiorità per i giovani protagonisti. Nei luoghi prescelti per la GMG Giovanni Paolo II affronta direttamente, di petto, i problemi di quella comunità. A Denver (1993), la prima GMG a cui ho partecipato come assistente, il tema era la vita. Qualche volta ha dovuto anche misurarsi con lo scetticismo dei vescovi. Chi avrebbe immaginato il raccogliersi di milioni di giovani attorno ad un anziano vestito di bianco che spiega, senza alcuna reticenza, ma con immenso amore, che non si devono confondere il bene e il male in momenti di poca chiarezza.

5.

Dunque, una personalità fuori dal comune, stratega politico, pastore eccezionale, globe trotter infaticabile. Ma Giovanni Paolo II è stato soprattutto un grande credente. La sua fede non è astratta, la sua religione è profondamente incarnata. Mette in ogni questione l’Uomo al centro di tutto. L’Uomo con la “U” maiuscola. Chi non ricorda quell’ «aprite le porte a Cristo, non abbiate paura». Non c’è dubbio: nella storia moderna verrà ricordato come il papa dei diritti dell’uomo, il cantore instancabile della responsabilità, della dignità e del primato dell’uomo; ma verrà ricordato soprattutto per la sua fede. Gli ultimi tempi della sua vita ne furono la rappresentazione, tanto chiara quanto commovente. Ricordiamo tutti questo anziano sofferente, affaticato, piegato in due, a cui era difficile camminare, parlare, persino benedire. Sussurri di dimissioni, smentite! Il papa comunicatore è perfettamente cosciente dell’immagine che, attraverso la tv, dà a tutto il mondo. Il mondo deve vedere che non è più il papa sportivo, che scia, va in canoa, si arrampica sui monti, che il cardinale Marty chiamava “l’atleta di Dio”. Il vecchio papa sofferente mostra e insegna che un uomo malato, disabile, allettato, è ancora un uomo. Ciò che lo rende ancora più bello e più nobile è la lezione di vita impartita fino all’ultimo respiro, al mondo intero. Un interrogativo: che risposte stiamo dando noi, la nostra Chiesa e la nostra Repubblica agli appelli di questa straordinaria guida dell’umanità, di questo santo così luminoso del nostro tempo? Conserviamo gelosamente la memoria della sua visita. Chiediamo la sua intercessione. Così sia.

Omelia nella XXII domenica del Tempo Ordinario

Pennabilli (RN), Cappella del Vescovado, 28 agosto 2022

Sir 3,17-20.28-29
Sal 67
Eb 12,18-19.22-24
Lc 14,1.7-14

Gesù ha un rapporto speciale con i banchetti: tante parabole hanno questa location! Molte volte fa del banchetto un segno del Regno di Dio, dell’amore fraterno, del perdono, della gioia, della festa… Gesù andava ai banchetti, partecipava, ne faceva addirittura il pulpito dell’annuncio del Regno di Dio. Talvolta, invitare Gesù al banchetto poteva essere compromettente o destabilizzante, come quella volta che Gesù era andato a casa del fariseo Simone ed era entrata la donna peccatrice; per noi è una scena bellissima di accoglienza, di riconciliazione e prospettiva di vita nuova, ma per il fariseo che aveva preparato il banchetto fu un momento veramente sconcertante. Così accade anche quando, nel Vangelo di Matteo, si racconta che Gesù va a casa di Levi, l’esattore delle imposte; fu un momento di gioia e di festa, ma suscitò infinite critiche: «Gesù va a mangiare con i peccatori… è un mangione e un beone!» (Mc 2,15; Mt 11,19). All’Ultima Cena Gesù interrompe il clima di festa pasquale e dice: «Prendete, mangiate questo è il mio corpo dato per voi… Prendete, bevete, questo vino è il calice del mio sangue» (cfr. Mt 26,26-28).
In uno di questi banchetti Gesù nota lo stile delle persone. C’è una strategia per cercare di andare nel posto più in vista: tutto questo non è altro che metafora della vita, dove si sgomita per avanzare di carriera, per avere i primi posti, per essere onorati. Addirittura, c’è chi arriva in ritardo, soprattutto le persone più importanti, per attraversare la sala, perché l’invitante faccia accomodare al primo posto. A Gesù certamente non interessa dare lezioni di galateo o norme per il buon vivere. Gesù parte dalla situazione reale che constata per fare un discorso più elevato: vuol dire qualcosa sul nostro modo di relazionarci con Dio. Gli invitati della parabola, infatti, rappresentano gli uomini nel loro rapporto con Dio. C’è chi esibisce il suo medagliere delle virtù: non ha bisogno di essere salvato, purificato e va orgoglioso davanti a Dio (cfr. Lc 18,9-14 la parabola del fariseo e del pubblicano). Invece dovrebbe ricordare le parole del Salmo di Davide, il Miserere: «Tu, o Dio, gradisci un cuore umile, che riconosce la propria povertà» (cfr. Sal 50). Ancor meglio, dovrebbe fare suo il Magnificat, dove la Vergine dice che Dio «abbassa i superbi, innalza gli umili» (Lc 1,52).
Consentitemi una digressione sulla virtù dell’umiltà. I maestri spirituali, pur precisando che si tratta di una virtù morale, quasi la annettono alle virtù teologali (fede, speranza, carità), perché è una virtù regolatrice del rapporto con Dio. L’umiltà ha tre caratteristiche.
L’umiltà è verità. Occorre prendere coscienza di quello che si è davanti agli altri e davanti a Dio: humus (terra) è la radice della parola “umile”. La condizione umana è di caducità e povertà con pregi e difetti: occorre sapersi accettare e accettare ogni fratello. Ci sono anche contraffazioni dell’umiltà, l’umiltà finta, che ci fa sminuire perché gli altri dicano che non è vero. C’è l’umiltà di chi non entra nel gioco, non accetta di rischiare per paura di perdere, perché inconsciamente vorrebbe vincere.
L’umiltà è dono, gratuità. Quando uno è umile è libero, non si ferma al parere degli altri su di lui e depone tutto quello che è zavorra: titoli, crediti, riconoscimenti. È semplicemente se stesso. In questa libertà gli è più facile essere dono, fare dono di sé.
L’umiltà è gratitudine. Quello che abbiamo l’abbiamo ricevuto. Il ringraziamento va alla nostra famiglia, alle persone che ci hanno plasmato. Hanno fatto quel che hanno potuto, con i loro difetti, ma ci hanno voluto, ci hanno pensato e fatto crescere. La gratuità è soprattutto quella di Dio, che «fa sorgere il suo sole sopra i malvagi e sopra i buoni e fa piovere sopra i giusti e sopra gli ingiusti» (Mt 5,45). «Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date» (Mt 10,8).
Fin qui Gesù ha dato un insegnamento prendendo come paradigma “tu quando sei invitato”. Nella seconda parte Gesù dà insegnamenti “a te che inviti”. Gesù non vuole che tu faccia come fanno tanti, che chiamano le categorie più rassicuranti: fratelli, parenti stretti, amici importanti, vicini ricchi. Si riferisce ad una situazione che constatava al suo tempo, dove c’erano colazioni di lavoro, cene tra persone che avevano interessi comuni… Invece Gesù invita ad allargare la tua tavola. Nel linguaggio semitico, usato da Gesù, non si fa uso delle disgiuntive: le disgiunzioni sono espresse in maniera assoluta. «Non chiamare fratelli, parenti, amici, vicini ricchi, ma chiama…» significa: «Va bene che chiami fratelli, parenti, amici, vicini ricchi, ma non dimenticare le quattro categorie di persone che sono svantaggiate e possono mettere in imbarazzo: poveri, storpi, zoppi, ciechi (quelli che venivano scartati persino dal servizio liturgico!).
Sottolineo il valore della gratuità: le quattro categorie indicate da Gesù non possono contraccambiare.
Quando al banchetto ti metti all’ultimo posto, sia simbolo di uno stile della tua vita, il saper stare con gli ultimi. Proprio lì incontrerai Gesù, perché lui è vicino agli ultimi, ai poveri, a chi è in difficoltà per una strada sbagliata… Se ti avvicini col cuore a questi fratelli ti capiterà di incontrare Lui.
Gesù non ha niente contro il desiderio di progredire, di migliorare nell’ambito lavorativo o sportivo; non ha risentimenti contro “i primi posti”. Ma qual è il primo posto? Il primo posto è quello nel quale puoi amare di più. Tante volte coincide con l’ultimo posto sulla scena, ma in realtà è il primo. Andiamo a scoprire Gesù presente in quelli che noi chiamiamo “gli ultimi”.

Omelia nella XXII domenica del Tempo Ordinario

Sanzeno (VR), Casa delle Suore Orsoline, 28 agosto 2022

Sir 3,17-20.28-29
Sal 67
Eb 12,18-19.22-24
Lc 14,1.7-14

1.
Sono venuto per il compleanno di suor Zaira e per l’invito della Madre Superiora, ma nel profondo del cuore desideravo da tempo questo incontro (era stato organizzato prima del Covid), perché sono un vostro “figlio” (le Suore orsoline vengono solitamente chiamate “madre”, mentre nelle altre famiglie religiose, la Madre è soltanto la Superiora). Mi sento “figlio”, perché ho fatto presso la Casa delle Suore orsoline la scuola d’infanzia e il cammino con l’Azione Cattolica. Il luogo e la vita della pastorale erano per me la Casa delle Suore orsoline. Poi sono entrato in Seminario. Divenuto sacerdote, mi è stato chiesto di curare la pastorale dei ragazzi e la pastorale vocazionale. Abbiamo creato un vasto movimento proprio al Sant’Orsola (Casa delle Suore orsoline a Ferrara). L’arcidiocesi di Ferrara a quel tempo era costellata di residenze delle suore (ben 24!). Negli incarichi di quegli anni – Azione Cattolica, pastorale vocazionale e Ufficio Catechistico – non avrei potuto fare nulla senza la loro collaborazione. Pertanto, questa visita non è altro che una “restituzione”. Sono qui per dare lode al Signore per la vostra presenza nella Chiesa e nella mia vita.
A qualcuna di voi, a volte, viene da chiedersi: che frutti ho portato? Tanti sacerdoti, tante vocazioni, tanta gioventù. Grazie!
Ringrazio anche per il bene che le suore hanno voluto alla mia famiglia (mia sorella ha frequentato le Scuole Medie e l’Istituto Magistrale presso le Suore orsoline a Verona).

2.
Ieri ho celebrato la Messa alla Casa Madre delle Suore Maestre Pie dell’Addolorata di Rimini. Provenivo da un funerale tragico. In un incidente stradale hanno perso la vita un ragazzo di diciotto anni e una ragazza di sedici. Anch’io ero turbato. Poi era una giornata in cui non mi sentivo “in forma”… Pensavo: il Signore sarà contento di me? Era un problema che si poneva anche santa Teresa di Lisieux, che ebbe anche un sogno su questo argomento. È trascorsa metà della celebrazione con questi pensieri tristi. Poi, mi ha colpito la frase del Vangelo in cui Gesù dice: «Amico, vieni avanti!» (cfr. Lc 14,10). Mi è sembrato che Gesù lo dicesse a me, inquieto per quella disgrazia e turbato dal mio poco amore. Che cos’è, in fondo, la Messa, se non questo invito a venire alla tavola di Gesù: «Amico, vieni avanti!»?
Se ci fosse qualche suora che si chiede: «Signore, tu sei contento di me?», o che ha un momento di dubbio (le suore hanno una vita spirituale molto intensa e vivono anche momenti di “notte oscura”), le parole del Vangelo: «Amica, anzi mia sposa, vieni avanti… al primo posto!» sono un incoraggiamento di Gesù: Gesù vi vuole al primo posto!

Rivolgo ancora una parola di ringraziamento anche alla vostra Madre Superiora e alle Suore che si prendono cura di voi. Potrebbero pensare di essere più utili in qualche missione nel mondo, sentendosi all’ultimo posto qui a Sanzeno. In realtà, qui incontrano Gesù, perché Gesù è con i piccoli, con quelli che hanno problemi di salute, con chi ha dispiaceri. Qui, come dice papa Francesco, si tocca la carne di Gesù.
Vi metto nella preghiera quotidiana del Santo Rosario. Sia lodato Gesù Cristo.