Giornata Mondiale della Pace

Alle Autorità Pubbliche

Gentili Signore e Signori,

siamo onorati di invitarVi alla cerimonia di consegna alle autorità della Repubblica di San Marino e del Montefeltro del messaggio di Papa Francesco per la Giornata Mondiale della Pace, quale occasione all’inizio del nuovo anno di condivisione del comune impegno per la pace, oggi quanto mai necessario.
La cerimonia di consegna del messaggio da parte di S.E. Mons. Andrea Turazzi si terrà nella Basilica di San Marino (…Cattedrale a Pennabilli) alle ore 12.00 (…17.00) del 1° gennaio 2023 durante la Messa Solenne per la Pace presieduta dal Vescovo.
La cerimonia si terrà lo stesso giorno anche nella Cattedrale di Pennabilli (Basilica di San Marino) alle ore 17.00 (12.00).

Papa Francesco nella enciclica “Fratelli tutti” afferma che per costruire la pace è necessario sia l’architettura della pace, di cui sono responsabili le istituzioni della società, che l’artigianato della pace, che coinvolge e responsabilizza i singoli cittadini.
In quanto rappresentanti delle istituzioni, Voi siete chiamati ad essere sia architetti che artigiani della pace. Per noi sarebbe prezioso sapere secondo voi quali siano le condizioni necessarie e gli aspetti importanti per costruire pace, sia dal punto di vista della responsabilità istituzionale a cui siete chiamati, sia a livello personale nella vita quotidiana.

Attendiamo all’indirizzo email psl@diocesi-sanmarino-montefeltro.it un cortese riscontro circa la ricezione di questo invito e della vostra partecipazione alla celebrazione del 1° gennaio al fine di organizzare la cerimonia.
Saremmo anche felici di poter ricevere le vostre considerazioni sulla costruzione della pace.

Cordiali saluti.

Gian Luigi Giorgetti
Resp. Ufficio Pastorale Sociale e Lavoro

Omelia nella IV domenica di Avvento

Montegrimano (PU), Molino Giovanetti, 18 dicembre 2022

Is 7,10-14
Sal 23
Rm 1,1-7
Mt 1,18-24

La strada che percorriamo verso il Natale è utile e importante per tutti. Siamo passati dalla settimana della vigilanza, in cui abbiamo ricordato la necessità di stare attenti alle occasioni di incontro con il Signore (è venuto, verrà e viene continuamente) alla settimana della conversione: anche Giovanni Battista, a sua volta, ha dovuto sostenere un cambiamento, ha dovuto “girarsi” verso Gesù, accogliere il dono della sua novità. Lì per lì Giovanni non l’aveva riconosciuto, era perplesso, prigioniero dei suoi dubbi: «Sei tu il Messia che deve venire o dobbiamo aspettare un altro?». Poi, siamo passati per la settimana della gioia: è Gesù colui che è atteso dalle genti, è Gesù che viene a gridare il Vangelo e ci dice che il nostro mondo, con le sue strutture fatiscenti, è guaribile e chiama me, chiama ciascuno di noi, a compiere le sue opere; anzi, dirà: «Voi farete cose più grandi di me».
Ora è la settimana del sogno, la settimana di Giuseppe. Anche il Giuseppe dell’Antico Testamento era “uomo di sogni”. Giuseppe di Nazaret desidera sposare Maria; anzi, il matrimonio ufficialmente è già avvenuto, ma Giuseppe sogna di fare famiglia con lei, di prenderla nella sua casa e con lei poter costruire un futuro pieno di onestà, di fatica e di gioia com’era nella società di allora, ma anche di presenza del Signore. Nei suoi sogni torna Maria, la sua promessa sposa. Giuseppe non vede l’ora di andare a vivere con lei. Improvvisamente qualcuno lo avverte che Maria è incinta. Tutti i suoi progetti gli crollano addosso: che fare? In quanto marito tradito, Giuseppe dovrebbe ripudiare Maria, con tutte le conseguenze del caso. Giuseppe è sconvolto, ma pensa che Maria non gli sia stata infedele e non vuole farle del male. Eppure, quella gravidanza è sotto gli occhi di tutti. Allora medita di licenziarla in segreto, cosa impossibile in un piccolo paese come quello di Nazaret… Mentre si sta arrovellando, Giuseppe riprende a sognare. Questa volta il sogno non è suo, è di Dio: il bambino che Maria attende viene dallo Spirito Santo, lo ha concepito in maniera verginale, come avevano annunciato gli antichi profeti: «Ecco, la Vergine concepirà un figlio che sarà chiamato Emmanuele, che significa “Dio con noi”» (cfr. Is 7,14). Giuseppe conclude il matrimonio e prende Maria a casa sua. Una volta nato il bambino, Giuseppe, che è del casato di Davide, deve dargli il suo nome allo stato civile. In tal modo quel bambino sarà figlio di Dio per mezzo di Maria e figlio di Davide per mezzo di Giuseppe. Lui, Giuseppe, sarà il padre del Messia che «salverà il suo popolo dai suoi peccati», come dice la Scrittura. Questo pensiero è ancora più sconvolgente: è vero che lui ha sangue blu, essendo di discendenza davidica, ma non è che un modestissimo artigiano di paese e il suo casato è scaduto da secoli… Questa volta Giuseppe non si attorciglia attorno ai suoi dubbi e ai suoi pensieri, ma da vero uomo di fede «fece come gli aveva ordinato l’angelo del Signore», cioè obbedisce alla Parola di Dio.
Il Signore chiede di essere accolto nei nostri progetti e nelle nostre scelte. È lui che progetta, è lui che sceglie. Giuseppe è l’uomo dell’ascolto. A Pietrarubbia è stato ritrovato un dipinto di un autore anonimo marchigiano del XVII secolo in cui Giuseppe è colto di fianco e tutte le linee del quadro convergono sul suo orecchio illuminato, per dire che Giuseppe è l’uomo dell’ascolto.
Giuseppe non parla, nessuna parola di lui nei Vangeli, ma accoglie il disegno di Dio che lo sorprende.
Vi sono due annunciazioni, una narrata dall’evangelista Luca e una dall’evangelista Matteo: l’annunciazione a Maria e l’annunciazione a Giuseppe, perché il Signore si rivolge alla coppia e vuole il “sì” dell’uno e dell’altra. Interessante vedere i paralleli fra le due annunciazioni, consultando il libro della Sinossi (i tre Vangeli scritti da Matteo, Marco e Luca hanno un percorso simile. Fin dall’antichità sono stati accostati. Ci sono punti in cui i Vangeli sono assolutamente concordi, altri nei quali hanno particolari diversi).
In entrambi i racconti di annunciazione Maria è promessa sposa di Giuseppe; ad entrambi il messaggero divino dice: «Non temere…». In entrambe le annunciazioni il bambino si chiamerà Gesù, un bambino che ha origine dallo Spirito Santo. Altri dettagli presentano solo alcune differenze: in Matteo il latore del messaggio è un sogno che viene da Dio; in Luca è l’angelo Gabriele. Giuseppe è chiamato «uomo giusto», Maria è interpellata come «la piena di grazia». Giuseppe è sconvolto, Maria rimane turbata dall’annuncio dell’angelo. Il figlio di Giuseppe «salverà il suo popolo dai peccati» e il figlio di Maria – viene detto dall’angelo – «è santo ed è chiamato figlio di Dio». Giuseppe obbedisce, prende Maria nella sua casa; Maria è disponibile: «Avvenga di me quello che hai detto». Di strettamente lucano è soltanto il racconto successivo della visitazione di Maria ad Elisabetta, quando l’angelo le dice: «Questo è il segno: la tua parente, Elisabetta, ormai avanti nell’età ha concepito un bambino». E Maria partirà per incontrarla e mettersi a sua disposizione.
Questa è la settimana del sogno. Il Papa spesso, soprattutto quando parla ai giovani, invita a sognare, perché il sogno non è soltanto il passato che affiora nelle maglie, allargate dal sonno, della nostra coscienza (il vissuto che elaboriamo e che rappresentiamo dentro di noi), ma è anticipazione del futuro, sogno come desiderio. Il Signore vuole che abbiamo grandi desideri. Nella settimana del sogno e dei desideri diciamo: «Signore, vieni a colmare i desideri del nostro cuore. Solo tu lo puoi fare». Così sia.

Omelia nella IV domenica di Avvento

Fratte (PU), 18 dicembre 2022

Is 7,10-14
Sal 23
Rm 1,1-7
Mt 1,18-24

Ho raccolto da varie persone questa frase: «Spero passino presto il Natale e le feste…». La festa del Natale, così bella, piena di luci e di suggestioni, per contrasto fa sentire di più il dolore, in particolare il dolore per le persone che non ci sono più e hanno lasciato un posto vuoto nelle nostre famiglie. E poi tutto il dolore attorno… C’è anche da pensare ai regali (con sempre meno soldi a disposizione!), alla preparazione del pranzo di Natale, ai parenti…
Il Natale vero, quello che dà gioia nel cuore e porta conforto, è soltanto Gesù. La commercializzazione, l’esteriorità, ci sono, ma l’importante sarà concentrarsi su Gesù. Se c’è Lui, la gioia viene dal profondo. È Gesù che fa bello il Natale, non le vacanze…
Oggi è la domenica del sogno e del “sì”. Giuseppe ha detto un “sì” pieno, totale, alla sua fidanzata Maria. Ma prima che andassero a vivere insieme, Maria aspetta un bimbo. Giuseppe ha subito pensato che Maria avesse detto “sì” ad un altro. Che fare? In un primo tempo decide di farsi da parte. Il Vangelo ci presenta Giuseppe che dorme e sogna. Nel sogno non si hanno le briglie in mano della propria vita: il sogno porta dove vuole. È in quell’atteggiamento che il messaggero, l’angelo, gli dirà di non avere paura, perché è vero che Maria ha detto “sì” ad un altro, ma l’altro è Dio.
Oggi vorrei dire con voi: «Signore, prendi tu le briglie della mia vita. Mi “addormento” e mi lascio condurre da te, come ha fatto Giuseppe». Giuseppe, proprio perché ha lasciato le briglie al Signore, si è trovato coinvolto in questo grande mistero. Sognare per lui significa lasciare al Signore l’iniziativa, come avviene quando le forze ti abbandonano e non sei più padrone di te.
Questa è anche la domenica del “sì”. C’è il “sì” di Giuseppe a Maria, che desidera tanto fare una famiglia con lei. C’è il “sì” di Maria a Dio e poi a Giuseppe. È una storia di “sì”. In questi giorni la liturgia ci presenta una cascata di “sì” che preparano il “sì” di Giuseppe e il “sì” di Maria: il “sì” di Elisabetta, il “sì” di Zaccaria, il “sì” di tanti personaggi della Bibbia, da Abramo in poi.
Questa mattina, mentre venivo a Fratte, ho pensato: «Perché ho detto di sì al Papa quando mi ha chiamato per fare il vescovo? Avrei potuto dire di no, non ero obbligato…». Poi ho capito che, con quel “sì”, ho conosciuto tante persone a cui mi sono legato, persone che prima per me non esistevano. È stato per quel “sì” che queste persone esistono per me ed io esisto per loro. Senza quel “sì” non ci sarebbero tante belle amicizie. Il “sì” è sempre creativo. Quando dici “sì” al Signore, lui compie grandi cose.
Chiedo di essere come san Giuseppe, aperto all’inatteso.
Rinnoviamo insieme i nostri “sì” nel matrimonio, nel sacerdozio, nella professione, nelle responsabilità politiche e sociali, in ogni vocazione. Nel 2023 ogni domenica, in tutte le chiese della Diocesi di San Marino-Montefeltro, alla fine della Messa si dirà un’Ave Maria per le vocazioni. Dobbiamo essere tutti “costruttori di comunità” e fare tutta la nostra parte.

La luce di Betlemme

Ore 13:15. Arrivo del treno da Vienna con “la luce di Betlemme”: luce accesa direttamente dalla lampada che arde dove è nato Gesù. Vuole essere un messaggio di pace e di fraternità. La fragilità della fiamma ci ricorda quanto è difficile custodire la pace: la piccola fiamma ha bisogno di protezione e di cura.
Una delegazione diocesana, alla presenza del Vescovo Andrea, è andata alla stazione di Rimini per attingere alla fiamma e metterla a disposizione di tutte le comunità e di tutte le famiglie. Ottima idea come dono natalizio!
La fiamma è disponibile nella Cattedrale di Pennabilli e nella chiesa di Murata (RSM).

#lucedibetlemme

ANCHE TRA I BAMBINI RISUONA L’ECO GIOIOSA DEL NATALE

L’educazione religiosa nell’infanzia

In questi giorni, in molte famiglie e scuole risuona, anche per il mondo dei bambini, l’eco gioiosa del Natale. Nella nostra cultura le feste cristiane costituiscono le prime e principali occasioni per parlare ai bambini in modo organico e interessante di ciò che la Bibbia dice di Gesù. Ovviamente a loro misura.
Il discorso, a questo punto, si amplifica: pone interrogativi sull’educazione religiosa dei bambini. In queste settimane, nella Repubblica di San Marino, il tema ha innescato un dibattito interessante che, se affrontato correttamente, sarà un bene per tutti. Ad innescarlo è stato un atto dovuto: il Decreto reggenziale sulle “Indicazioni curricolari dell’insegnamento di Religione Cattolica (IRC)” che porta a compimento l’Accordo fra la Repubblica di San Marino e la Santa Sede per l’insegnamento di Religione Cattolica nelle scuole pubbliche. Su tutto questo interessante l’incontro, aperto a tutti e specialmente a genitori e docenti, che si terrà mercoledì 14 dicembre alle ore 18 (Teatro Sociale di Fiorentino, via La Rena – RSM).

Premessa fondamentale ai pensieri che seguono è il riconoscimento della responsabilità prima ed inviolabile dei genitori per quanto riguarda l’educazione dei figli. Le istituzioni educative, scolastiche in particolare, si pongono accanto e a servizio delle famiglie.

Non è consuetudine nell’assetto organizzativo della scuola sammarinese un insegnamento specifico di Religione Cattolica nella scuola d’infanzia. «I grandi temi di natura religiosa confluiscono nell’ambito dell’insegnamento di cultura religiosa che […] viene affidato agli insegnanti titolari di sezione» (Decreto Delegato sull’insegnamento di Religione Cattolica).
Diversa la prassi nella scuola italiana, che prevede un’ora e mezza di educazione religiosa all’infanzia e due ore alle elementari con disponibilità di un “esperto” se l’insegnante di sezione opta per non svolgere questo insegnamento. Da notare che in Italia, come nella Repubblica di San Marino, c’è voluto tempo per raggiungere la consapevolezza che la scuola d’infanzia sia una vera e propria scuola e non “asilo”: un passaggio importante, dalla custodia all’educazione.
Nel recente Accordo tra Repubblica di San Marino e Santa Sede è stato introdotto, accanto all’insegnamento di Religione Cattolica, l’insegnamento di Etica, cultura e società.
L’insegnamento di Religione Cattolica nella scuola d’infanzia ha proprie peculiarità nei contenuti, nel metodo e nell’organizzazione. Il bambino è al centro; la comunità scolastica è a servizio del suo sbocciare a tutto l’umano, del suo aprirsi alla relazione, dell’accoglienza della realtà che lo circonda.
Ogni essere umano è “persona”, che porta non solo bisogni primari, ma anche esigenze spirituali che vanno oltre il quotidiano e al di là della semplice apparenza delle cose; esigenze che rispondono alla domanda di senso. A dirla in breve: è una creatura finita aperta all’infinito. L’uomo è un essere relazionale e non può vivere senza gli altri (è stato il grande filosofo Lévinas a dire: «È l’altro che mi fa esistere»), cresce con un programma ben preciso: è programmato per l’amore. È grazie alla dimensione spirituale che è in grado di aprirsi all’altro, all’amore, a qualcosa di più grande di lui. È tutto ciò che costituisce la religiosità comune a tutti gli uomini e precede la religione stessa.
La grande pedagogista infantile, Maria Montessori, ha dimostrato che nel bambino è presente la dimensione religiosa e del sacro. Sofia Cavalletti parla di “potenziale religioso del bambino”; educare a sviluppare questa dimensione è educare all’amore, alla pace, alla realizzazione di sé e ad essere veramente “persona”. In questo senso l’educazione religiosa è fondamentale.
Ritengo necessario, utile e vantaggioso tenere il dibattito lontano da ogni preoccupazione ideologica. Occorre essere decisamente dalla parte dei bambini e delle bambine. Unica preoccupazione per tutti: aprire orizzonti, essere disponibili ai grandi interrogativi, pronti alla relazione.

+ Andrea Turazzi
Vescovo di San Marino-Montefeltro

L’insegnamento della Religione cattolica nella Scuola intacca la laicità dello Stato?

Omelia nella III domenica di Avvento

Pennabilli (RN), Cappella del Vescovado, 11 dicembre 2022

Is 35,1-6.8.10
Sal 145
Gc 5,7-10
Mt 11,2-11

Giovanni Battista, la voce che grida: «Il Signore è alle porte, cambiate vita!», adesso si trova in carcere. Ha osato contestare Erode ed è finito dietro le sbarre. Giovanni Battista non è semplicemente prigioniero di Erode, ma è prigioniero della Parola di Dio di cui è il messaggero. San Paolo, nelle sue Lettere, ripeterà tante volte: «Io, Paolo, il prigioniero del Signore» (cfr. Ef 3,1; 4,1; Fm 1.9). Paolo – ne è consapevole anche Giovanni Battista – sa che la Parola di Dio non è incatenata (cfr. 2Tm 2,9), non è rinchiudibile al di là dalle sbarre: la Parola di Dio corre. Ma Giovanni Battista è anche prigioniero del dubbio, delle sue perplessità riguardo al Messia, di cui ha intravisto le opere. Ha potuto riconoscere il carattere messianico di Gesù, tuttavia pone questa domanda: «Sei tu colui che deve venire o dobbiamo aspettare un altro?». Come a dire: «Che cosa aspetti Gesù a manifestarti veramente per quello che sei? Mi aspetto che tu, con un colpo di spugna, annulli tutto il peccato, il male, l’ingiustizia che c’è nel mondo e invece vedo che vai a tavola con i peccatori, che ti circondi di piccoli e di poveri, che sei troppo umile, dimesso… sei tu veramente il Messia o dobbiamo aspettare un altro?». Questo, per Giovanni Battista, è un grande dubbio. Ma il dubbio, in fondo, non guasta. La fede si pone domande.
A volte, davanti a Gesù e alle sue esigenze, capita anche a noi di non capire, di non essere in sintonia. A volte siamo provati dalle esigenze del Vangelo.
Da notare che Gesù non perde la stima per Giovanni. Sul finale della pagina di Vangelo che stiamo meditando lo elogia grandemente.
La location del carcere rappresenta bene tutta la storia di Israele. Giovanni è l’ultima voce che sale dall’Antico Testamento e poi si blocca: con Gesù c’è qualcosa di veramente nuovo, di imprevisto. Le sbarre esprimono l’impossibilità di andare oltre. C’è bisogno di una rivelazione ulteriore.
Sarebbe importante, a questo punto, approfondire il rapporto fra i primi cristiani e la tradizione del Battista. Dopo la morte di Giovanni, il suo gruppo ha continuato ad essere attivo. Pertanto, fu necessario quasi un negoziato fra la scuola di Giovanni Battista e i cristiani, per superare tensioni e difficoltà. Questo brano sembra alludere a questa esigenza: da una parte c’è l’elogio di Gesù verso Giovanni, dall’altra Giovanni manda messaggeri: «Sei tu colui che deve venire o dobbiamo aspettare un altro?».
Cosa risponde Gesù alla domanda di Giovanni Battista? Gesù non dice né sì né no; sfodera la sua pedagogia: invita a guardare, ad ascoltare e a fare attenzione. Dio, in Gesù, parte dagli ultimi, dai poveri, dai ciechi, dai sordi, dai malati, dai lebbrosi. Questo dovrebbe bastare ai messaggeri di Giovanni: Dio, in Gesù, parte dagli ultimi, dai poveri, dai piccoli. Questa, in fondo, non è altro che la via dell’Incarnazione.
C’è una parola piena di gioia nel messaggio di Gesù: il mondo è salvabile! Sì, il peccato è entrato nel mondo, ha guastato tutto, ci lascia nell’indolenza, nell’ingiustizia, nella pigrizia… Invece Gesù dice: «Guardate, i ciechi vedono, i sordi odono, i lebbrosi sono mondati e ai poveri è annunciata la parola del Vangelo». Queste opere sono un segno della presenza del Regno di Dio che salva e fa nuove tutte le cose. Giovanni deve comprendere il modo di fare di Dio e la pazienza con cui fa crescere piano piano la novità.
Ci si potrebbe chiedere: Gesù, in fondo, ha risanato poche persone… e tutte le altre che invocano salvezza? Gesù raduna attorno a sé un popolo che compie le sue opere; arriverà a dire: «Voi farete cose più grandi di me» (cfr. Gv 14,12).

L’elenco di persone con tante menomazioni – ciechi, zoppi, muti, sordi… – fino alla menomazione totale che è la morte sembra come una serie di specchi nei quali sono riflesse le nostre persone: «Io sono cieco, io sono zoppo, io sono lebbroso, io sono sordo alla Parola di Dio. Sono io che ho bisogno di essere salvato».
Gesù, a proposito del Battista, domanda: «Chi siete andati a vedere nel deserto?». Per ben tre volte Gesù si impone con degli interrogativi. Sembra dire: «Siete andati a vedere un abatino che sta in sagrestia? Avete incontrato una banderuola volubile?». E aggiunge un’affermazione che sorprende: «No, vi dico, tra i nati di donna non c’è nessuno pari a Giovanni Battista». E poi conclude: «Ma il più piccolo tra i miei discepoli è più grande di lui». È evidente che non è un confronto fra persone. Sono a confronto due epoche, due metodi. Il più piccolo dei discepoli del Signore, quando è consapevole di ciò che è, ed è ciò di cui è consapevole, compie le opere del Messia.
È pertinente ricordare a questo punto le beatitudini: «Beati i poveri… gli afflitti… i miti…» (cfr. Mt 5,1-12). La motivazione delle felicitazioni di Gesù è che Dio è vicino, è dalla loro parte. Il Vangelo si conclude con un’ultima beatitudine: «Beato colui che non si scandalizzerà di me», cioè colui che non avrà difficoltà a riconoscere che il metodo di Dio si manifesta non per le armi dei crociati, ma attraverso i segni modesti, ma reali, di una comunità in cui non poche persone amareggiate, chiuse in se stesse, deluse, cominciano ad aprirsi alla speranza.
Nella traduzione della CEI leggiamo: «Giovanni, avendo sentito parlare delle opere del Cristo, per mezzo dei suoi discepoli mandò a dirgli…». Ma c’è un’altra lezione del testo che si traduce in italiano con «mandò due dei suoi discepoli». Nella prassi ebraica per testimoniare, per dichiarare se una cosa è vera o falsa, se una persona è innocente o colpevole, occorre la deposizione concorde di due o più testimoni. Questo fa pensare che i messaggeri inviati dal Battista fossero due. «Andate a dire a Giovanni»: sono due evangelizzatori che portano una parola confortata dalla testimonianza di due paia di occhi che hanno visto e due paia di orecchi che hanno udito. C’è tutto il tema della testimonianza, dell’evangelizzazione: ai poveri è annunciato il Vangelo. «Signore, ti chiediamo di non essere scandalizzati dalle tue proposte, di non avere riserve mentali, di non fare passi indietro. Tutto come vuoi tu. Siamo zoppi che camminano, lebbrosi purificati, sordi che ascoltano. Come direbbe san Paolo, uno che è vivo dopo essere stato morto».
Accendiamo oggi la terza luce: è la luce della gioia. La prima era la luce della vigilanza, la seconda la luce della conversione, impegni che perdurano. La luce della gioia dice che il mondo è salvabile e Gesù chiama me e te, chiede che mettiamo a disposizione mani, piedi e cuore per collaborare alla sua opera: «Voi farete cose più grandi di me».

Omelia nella Festa di Santa Barbara con i Vigili del Fuoco

Novafeltria (RN), Caserma dei Vigili del Fuoco, 4 dicembre 2022

Is 11,1-10
Sal 71
Rm 15,4-9
Mt 3,1-12

Ricordo un fatto di alcuni anni fa. A Bascio, nel luogo dov’era andata a vivere l’eremita diocesana Sveva della Trinità, la Diocesi aveva avviato i restauri della casa canonica. Quando si trattò di restaurare la chiesa di Bascio, con grande sorpresa, fu trovato nel muro, sotto la calce, un affresco di un pittore riminese del Cinquecento, il Coda. Avevamo davanti due possibilità: tacere e coprire l’affresco con una mano di calce (considerando che ci avrebbe ripensato chi sarebbe venuto dopo di noi), oppure restaurare. Davanti ad un capolavoro del Cinquecento, i restauri sarebbero stati sicuramente impegnativi. Nel dialogo con la Soprintendenza delle Belle Arti, ci siamo trovati di fronte ad una nuova decisione da prendere: un restauro interpretativo, mettendo l’affresco nelle mani di un bravo artista, affinché componesse quello che mancava all’immagine ritrovata, oppure un restauro conservativo, per mantenere intatto quello che la storia ci aveva tramandato, senza aggiungere pitture di altri artisti. La linea scelta dalla Soprintendenza fu quella del restauro conservativo.
Cosa c’entra questo con santa Barbara?
Di santa Barbara ci è rimasta appena una traccia. Santa Barbara è una ragazza vissuta nel III secolo d.C., di famiglia nobile; probabilmente ha studiato (ma non sappiamo con certezza) ed è venuta a contatto con il cristianesimo. Viveva nella Bitinia, in Turchia. La Turchia fu una delle culle del cristianesimo, poi, dopo l’invasione islamica, è diventata musulmana. Nel Medioevo hanno pensato che una vicenda così bella come quella di santa Barbara avesse bisogno di un “restauro interpretativo” e hanno scritto su di lei, ma storicamente senza fondamento, quasi delle leggende. Tuttavia, questa ragazza ha avuto un fascino al di là della città in cui viveva e una popolarità così grande che la sua venerazione si è diffusa anche in Europa. Non possiamo affidarci solo ai racconti medioevali. Sappiamo che santa Barbara fu martire e che, tra gli uccisori, pare ci fosse anche il padre. Quello che importa sapere è che questa ragazza ha coraggiosamente scelto Gesù, l’ha amato, è stata capace – lei che era una giovane ragazza – di mantenere la parola che aveva dato, il Battesimo.
Tra le leggende medioevali ce n’è una che a cui si rifà il culto a santa Barbara professato dai Vigili del Fuoco. Si narra che, quando questa giovane donna fu portata al supplizio, si scatenarono fulmini che avrebbero ucciso il padre. Per questo santa Barbara è stata inserita nel gruppo dei santi ausiliatori: sono i santi che il popolo cristiano invoca per un aiuto particolare (invece i santi patroni sono i santi in cui si riconosce una comunità). Santa Barbara viene invocata nel pericolo di morte improvvisa, accidentale, per questo è divenuta patrona dei vigili del fuoco, che svolgono una professione “a rischio” (oggi più del passato), patrona degli artificieri, dei minatori… I luoghi dove si assembrano le armi hanno preso il nome “la santabarbara”.
Oggi ricordiamo santa Barbara e chiediamo di essere, come lei, fedeli al nostro Battesimo. Solo Dio si adora, i santi si venerano, si imita la loro fede, si pregano come protettori nel cielo, come del resto tanti della nostra famiglia che pensiamo in paradiso, benché non canonizzati.
Permettetemi ora una parola di commento sul Vangelo di questa seconda domenica di Avvento. Compare sulla scena Giovanni Battista. L’evangelista Matteo non ha ancora detto nulla di lui, lo introduce di colpo, perché Giovanni è una voce che riassume tutto l’Antico Testamento.
Giovanni Battista sta sul crinale fra l’Antico e il Nuovo Testamento. Qual è il suo grido? Cosa vuole dirci? «Gesù è alle porte, cambiate vita!». E lo dice con parole forti. Molte persone hanno accettato la predicazione del Battista. Invece farisei e sadducei pensano di non aver bisogno di conversione, si proclamano figli di Abramo e per questo presumono che l’appartenenza etnica li metta al sicuro. Giovanni li apostrofa così: «Razza di vipere, chi vi ha fatto credere di poter sfuggire al giudizio di Dio?». Una frase che rende pensosi.
Qual è la novità del Battista?
La Bibbia non è stata scritta di seguito, tutta d’un colpo, ma si è formata attraverso secoli di esperienze di ascolto del Signore, di preghiera. Negli strati più antichi – gli studiosi sanno distinguerli – quando si dice “conversione” si intende la pratica che placa il rimorso. Conversione, dunque, significava fare pratiche religiose, preghiere particolari, digiuni, ecc. In strati più recenti della Sacra Scrittura la conversione diventa più esigente e più interiore: significa cambiare mentalità, stile di vita. Quando sulla scena arriva “la voce”, cioè Giovanni Battista, convertirsi equivale alla decisione di “voltarsi” verso Cristo con la propria vita (fare “inversione ad U”) e considerare Gesù il Signore. L’invito del Battista, a due settimane dal Natale, è questo: «Gesù è alle porte, cambiate vita, cambiate direzione!». Prendiamo la decisione di rinnovare l’adesione al Signore, di dare spazio e tempo all’incontro con lui e di vivere i comandamenti. «Gesù è alle porte, cambiate vita!». Così sia.

Omelia nella II domenica di Avvento

Montegrimano (PU), 4 dicembre 2022

Is 11,1-10
Sal 71
Rm 15,4-9
Mt 3,1-12

Giovanni Battista entra in scena per la prima volta nel capitolo 3 del Vangelo di Matteo: non si dice chi è suo padre, chi è sua madre (lo sapremo dal Vangelo di Luca), non si dice da dove viene, né cosa fa. Giovanni è una “voce”!
Lo vediamo nel pieno del suo ministero profetico. L’evangelista Matteo ce lo presenta con “l’abbigliamento” degli antichi profeti: fa una vita austera («il suo cibo erano cavallette e miele selvatico»), annuncia l’imminenza del giudizio divino, pratica un battesimo di conversione nelle acque del fiume Giordano, è voce che grida: «Gesù è alle porte, cambiate vita!».
Noi Gesù l’abbiamo conosciuto, viviamo di lui, per lui, con lui, tuttavia questa parola di Giovanni Battista ci scuote: «Gesù è alle porte, cambiate vita!». È un invito a rivedere la nostra vita di fede.
Giovanni Battista assomiglia ai profeti dell’Antico Testamento: Ezechiele, Malachia, Zaccaria… come loro proclama l’urgenza della conversione.  Giovanni Battista smentisce le false sicurezze: farisei e sadducei pensavano che bastasse appartenere al popolo eletto per non andare nella Geenna (termine col quale si indicava l’inferno): «Nessun circonciso entrerà nella Geenna». Non è sufficiente l’appartenenza etnico-religiosa, bisogna che «l’albero produca buoni frutti». Giovanni si aspetta un “Messia di fuoco”, con la scure pronta a tagliare le radici dell’albero che non porta frutto e con il fuoco che incenerisce la pula rimasta sull’aia del giudizio finale.
Chiedo la grazia che la predicazione di Giovanni Battista ci scuota, ci stupisca, come se ascoltassimo le sue parole per la prima volta. Parla proprio a noi! Può capitare anche a noi di sentirci a posto e che siano gli altri a doversi convertire.
Negli strati più antichi della Bibbia (è noto che il testo sacro è stato composto nell’arco dei secoli), quando si parla di conversione, si invita a compiere atti di culto: fare digiuni, ascoltare il rimorso e placarlo compiendo devozioni e penitenze. La conversione è intesa, dunque, come una pratica. Negli strati successivi la conversione viene indicata come metanoia, cioè cambio di mentalità. Quindi, conversione non è più solo fare delle pratiche. Con la sua predicazione Giovanni Battista invita alla conversione chiedendo un cambio di prospettiva, precisamente di voltarsi verso Gesù. La conversione è possibile, perché se si accoglie Gesù, si riceverà il suo battesimo in «spirito santo e fuoco».
Qual è la differenza tra il battesimo di Giovanni Battista e il battesimo di Gesù? Giovanni Battista compie un battesimo simbolico, una pratica penitenziale che esige un cambiamento di mentalità. Il battesimo di Gesù, invece, trasforma, rende figli di Dio.
È stata accesa all’inizio di questa celebrazione la seconda lampada: la luce della conversione, che ci ricorda il grido di Giovanni Battista. Questo grido rievoca il grido nella notte che sveglia le dieci ragazze in attesa dello sposo: «Ecco lo Sposo, andategli incontro!». Cinque di loro – dice la parabola (cfr. Mt 25,1-12) – avevano una riserva di olio ed entrarono alla festa; le altre cinque, a causa della loro imprudenza, hanno dovuto restare fuori. Olio e lampade significano l’attesa operosa. Le opere sono quelle di una vita di fede e di fraternità.