Omelia nella Festa del Battesimo del Signore

Pieve di Carpegna (PU), 8 gennaio 2023

Istituzione Lettorato e Accolitato
a fra Giovanni Magini, fra Martino Ellis, fra Gabriele Graziani

Is 42,1-4.6-7
Sal 28
At 10,34-38
Mt 3,13-17

Questa domenica abbiamo ascoltato le prime parole uscite dalle labbra di Gesù secondo il Vangelo di Matteo. Matteo ci ha presentato Gesù bambino sulle ginocchia di Maria, un Gesù adorato e beneficato dai magi, rappresentanti di tutto il genere umano. Adesso Gesù arriva sulla scena e finalmente udiamo la sua prima parola.
Oggi ricordiamo il battesimo del Signore. Gesù scende sulle rive del fiume Giordano. Il lettore antico (forse anche noi moderni) immediatamente collega questo avvenimento con un altro passaggio accaduto proprio sulle rive del fiume Giordano: l’ingresso nella terra promessa. Il popolo d’Israele veniva da quarant’anni di peregrinazione nel deserto, un luogo arido, minacciato dall’arsura e da serpenti e scorpioni. Ma fu un tempo educativo: i quarant’anni nel deserto non sono un castigo, ma sono il momento in cui il popolo d’Israele viene preso per mano dal Signore che lo guida, lo educa, gli dà la legge (le “dieci parole”). Quando Matteo racconta che Gesù scende da Nazaret, arriva al fiume Giordano e fa il suo ingresso, ci richiama tutta questa realtà stupenda. I primi lettori cristiani – Matteo scrive 80 anni dopo la nascita di Gesù – pensano al loro rito di ingresso; anche i cristiani fanno “un passaggio”, ricevendo il battesimo, attraverso l’acqua, sia pure simbolicamente, ma si tratta di un passaggio reale. San Paolo, nel 50 d.C, aveva già sviluppato la teologia del battesimo (cfr. Lettera ai Romani), approfondendo che cos’è il battesimo per un cristiano, però si trova in difficoltà, perché nella lingua ebraica, con il termine tabal si intendevano i riti di abluzione, che si compivano prima dei pasti, o in momenti importanti della vita, oppure quando si andava in sinagoga (dagli scavi archeologici si è osservata la presenza di vasche o piscine  usate per la purificazione, ad esempio delle donne nel periodo dell’impurità oppure degli adulti, quando avevano avuto contatti con un morto, oppure, per qualunque motivo, sentivano il bisogno della purità rituale. Ma il battesimo era un’altra cosa, c’era qualcosa di più, qualcosa di sublime, di ontologico, cioè che riguardava l’essere; non si trattava di una semplice purificazione per rimuovere lo sporco in senso moralistico. A quel tempo l’aramaico era parlato solo in Palestina, ma i cristiani – ormai erano diventati tanti – parlavano il greco (basti pensare alle chiese dell’attuale Turchia, del Nord Africa e a Roma). Per indicare il battesimo adoperano una parola nuova, la parola baptisma, dal verbo greco bapto, che ha a che fare con l’acqua, ma non significa semplicemente purificazione. In questa parola c’è un rimando all’acqua come luogo di morte, perché nell’acqua affoghi, puoi morire. Il battesimo è essere tuffati, immersi, nella morte, non per restarci, ma per risorgere, proprio come è accaduto a Gesù. Per lui entrare nella morte equivale al dono di sé, gradito al Padre, che vuole che i suoi figli amino fino al punto di donarsi, di perdersi. La risurrezione è il segno dell’approvazione del Padre. L’invito è ad andare fino al fondo della propria morte e capire che in quel fondo, lì dove si ha paura di essere abbandonati, di essere soli, proprio lì si incontra il Signore. Il Signore è morto per aspettarci, perché vuole che in quel momento noi sentiamo la sua presenza e perché – se ci fidiamo – si dà il momento più importante della nostra vita.

Matteo ci racconta il battesimo come annuncio di una cosa meravigliosa: morte e risurrezione di Gesù, morte e risurrezione per noi cristiani. Matteo vuol far capire al lettore che quando morirà, in quel momento entrerà nella Pasqua di Gesù. Non dobbiamo pensare solo alla morte fisica come fine della vita, ci sono tante altre esperienze di morte che facciamo. Ad esempio, quella di amare; tante volte per amare bisogna fare un passo indietro, dimenticare se stessi, fare spazio all’altro. Poi ci sono i momenti di fallimento. Il Signore ti aspetta proprio lì. Non ti deluderà.

Finalmente vengo alla prima parola che esce dalle labbra del Signore: «Lascia fare…». Lascia fare al Signore. Questa parola è stata detta anche altre volte nelle Scritture, ma qui acquista una solennità particolare. Ad esempio, quando Pietro, davanti a Gesù che gli sta lavando i piedi, dice: «Signore, tu lavi i piedi a me?» e Gesù risponde: «Lascia fare…» (cfr. Gv 13,6-7). Oppure quando, nella cena di Betania, mentre Marta serve, Maria prende un vaso di nardo preziosissimo (un profumo raro anche ai nostri giorni, coltivato nel Tibet), lo rompe (non ha fatto uscire solo qualche goccia come facciamo noi con i profumi!) e Giuda esclama: «Che spreco!». Gesù replica: «Lasciala fare…» (cfr. Mc 14,4-6). Lasciar fare a Dio.
Fra Giovanni, fra Martino e fra Gabriele, con i quali stiamo pregando stamattina, ci ricordano che è bello lasciar fare a Dio. Anche quelli tra voi che vivono l’esperienza stupenda del matrimonio possono testimoniare com’è bello lasciar fare a Dio. Ogni battezzato deve proclamare che è bello lasciar fare a Dio.

Questi monaci verranno istituiti con il ministero del Lettorato e dell’Accolitato. Al Lettore la Chiesa consegna i Santi Libri (nel passato i cristiani sono stati messi a morte perché i pagani volevano entrare in possesso dei libri sacri; alcuni cristiani li hanno consegnati e sono stati chiamati “traditori” (traditores), nel senso di “chi consegna”. Noi vogliamo essere “traditori” in senso buono, trasmettitori della Parola del Signore, da amare, baciare, venerare, incensare, onorare, ma soprattutto vivere, permettendo che la Parola dentro di noi ci prenda per mano: «Lasciar fare alla Parola». Quando leggi il Vangelo e lo vivi ti trasforma in un altro Gesù.
Gli stessi verranno istituiti ministri dell’Altare, Accoliti (dal verbo greco che significa “camminare attorno” all’altare). Li vedremo servire all’Altare con una grazia particolare (ci sono altri ministri che servono l’Altare, ma loro lo faranno con una grazia speciale). Avranno la consegna di accostarsi all’Eucaristia e potranno, quando non c’è il sacerdote o in aiuto al sacerdote, distribuire l’Eucaristia ai fedeli.
Lasciamo fare a Dio.

Folla, raccoglimento e ricordi…

Riceviamo e pubblichiamo un messaggio del Vescovo Andrea dopo la S.Messa per le Esequie di papa Benedetto XVI.

Carissimi,
sto tornando dalla liturgia funebre per papa Benedetto XVI.
Folla, raccoglimento e ricordi… Grande emozione spirituale.
Mi tornavano alla mente continuamente le ultime parole “comprensibili” di Benedetto pronunciate con un fil di voce: “Gesù, ti amo”.
Vorrei potessimo dire tutti così in questo momento.
Sono parole piene di tenerezza, che acquistano un significato particolare sulle labbra di una persona così profonda e acuta razionalmente.
Gesù Cristo è stato il suo Tutto. È guardando e amando Gesù che troviamo l’unità.
Ci sono momenti nei quali la Chiesa appare divinamente bella.
Ci vorrà tempo per approfondire il magistero e la portata storica del pontificato di papa Benedetto XVI, comprese le difficoltà.
Consiglio a tutti di riascoltare (o rileggere) l’omelia di papa Francesco: “Pascere è amare. Amare vuol dire essere pronti a soffrire”.
Ho pregato tanto per la Chiesa e per la nostra amata Diocesi di San Marino-Montefeltro.
Vescovo Andrea

Anno di preghiera per le vocazioni

Il Vescovo Andrea ha indetto un anno di particolare attenzione e preghiera per le vocazioni nell’anno che ha come obiettivo pastorale quello di diventare costruttori sempre più generosi e qualificati di comunità: “Signore, cosa vuoi che io faccia?”.
Oltre al decreto di indizione, valido a partire dalla festa del Battesimo del Signore domenica 8 gennaio 2023, si pubblica il testo di una preghiera da intonare al termine delle Messe festive e prefestive.
Con queste parole il Vescovo invita tutti alla preghiera: “Abbiamo bisogno di famiglie cristiane e presbiteri, guide forti e amabili per il servizio alla Parola, al Sacramento e alla comunione. Non può venir meno nelle nostre comunità la risposta coraggiosa al Signore di giovani e ragazze per una radicale vita di consacrazione, di testimonianza per il Regno dei cieli e di servizio ai poveri e ai piccoli”.

Scarica il decreto vescovile

Scarica la preghiera per le vocazioni

 

S.Messa per le Esequie di papa Benedetto XVI

Riceviamo e pubblichiamo un breve messaggio del Vescovo Andrea in viaggio verso Roma in occasione dei funerali di papa Benedetto XVI.

Carissimi tutti,
sono in viaggio per Roma: porto la preghiera, la gratitudine e l’affetto di tutti per Benedetto XVI.
Gli dobbiamo tantissimo: ci è stato maestro, padre e amico.
Ce lo ha mostrato anche con la visita alla nostra diocesi: un giorno intero!
Che dal Cielo ci ottenga di amare il Signore Gesù con la tenerezza e la profondità con cui l’ha amato lui… O almeno un poco!
Vi benedico,
Vescovo Andrea

Pellegrinaggio diocesano ad Arbe

Ecco un invito attraente, un’opportunità unica, un’esperienza straordinaria: andare pellegrini sui luoghi che hanno dato i natali al santo Marino, fondatore della città-stato che porta il suo nome, la Repubblica di San Marino.
Da anni la Diocesi non organizza una visita alla stupenda isola di Arbe, adagiata sull’Adriatico, nella costa croata.
Questo viaggio è anzitutto un gesto di gratitudine, quasi una restituzione per il dono che Marino, insieme a Leone, ha fatto alle nostre genti portando “la gioia del Vangelo”.
Sarà un’esperienza forte di fede, ne abbiamo bisogno per questi giorni difficili, e – perché no? – un tornare alle radici da cui è nato un popolo credente, laborioso, libero ed ospitale.
Si vivrà un tuffo nell’incanto della primavera croata: splendidi paesaggi, verdi pendii declinanti su spiagge assolate. Ci sarà tempo per una visita ai centri storici, accompagnati da guide esperte, per conoscere storia e cultura di un popolo che sta di fronte a noi ma… al di là del mare! È previsto l’incontro con personalità importanti e la possibilità di pregare nell’antica Cattedrale.
Torneremo a casa più amici perché il viaggio offrirà tante occasioni di dialogo, di scoperta di nuove amicizie e di condivisione.
… Un invito da cogliere. Un’opportunità da sfruttare. Un’esperienza da non perdere.+

+ Andrea Turazzi

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Annuncio della morte di papa Benedetto XVI

Carissimi Sacerdoti, Religiosi e Religiose, Diaconi e fedeli della Diocesi,

a un anno esatto dalla morte di S. Ecc.za Mons. Negri, abbiamo appreso con dolore della morte del Papa emerito Benedetto XVI. Due personalità, ciascuno delle quali per la propria parte, ha segnato profondamente la vita della nostra Chiesa Particolare.
Non possiamo dimenticare la visita di Benedetto XVI il 19 giugno del 2011 alla Diocesi e alla Repubblica di San Marino, visita voluta fortemente da Mons. Negri, “perché Pietro venisse a rafforzare la nostra fede”.

Oggi sono entrambi nella Casa del Padre, in quel vincolo pieno, di affetto e di amicizia
che li ha uniti qui in terra.
Li accompagniamo entrambi con la nostra riconoscenza e con la nostra preghiera, e chiediamo ad entrambi il coraggio della fede e la forza della testimonianza che essi hanno vissuto non solo personalmente, ma che hanno cercato di rafforzare anche in ognuno di noi, secondo il mandato che il Signore aveva loro affidato.

Mentre Mons. Negri l’abbiamo ricordato nella S. Messa in occasione del 1° anniversario della morte presieduta dal Vescovo in cattedrale, per quanto riguarda la preghiera per il Papa emerito Benedetto XVI, si sta valutando una celebrazione diocesana in occasione del giorno trigesimo della morte. Appena deciso sarà comunicato il giorno, l’ora e il luogo. Nel frattempo ciascuno è invitato a ricordare nella preghiera l’anima eletta del Papa emerito Benedetto XVI.

Pennabilli, 31 dicembre 2022

Mons. Elio Ciccioni

S.Messa in ricordo di S.E. Mons. Luigi Negri

Sabato 31 dicembre ricorre il 1° anniversario della morte dell’Arcivescovo Luigi Negri, già vescovo della nostra Diocesi di San Marino-Montefeltro.
Alle ore 17:30 nella Cattedrale di Pennabilli il Vescovo Andrea Turazzi celebra la S.Messa in suo ricordo e suffragio.
Nella giornata del 31 dicembre monsignor Luigi sarà ricordato in tutte le celebrazioni eucaristiche.

Omelia nella Solennità del Natale del Signore (Messa del Giorno)

Pennabilli (RN), Cattedrale, 25 dicembre 2022

Is 52,7-10
Sal 97
Eb 1,1-6
Gv 1,1-18

Il Natale è di tutti. Il sole che illumina le mie finestre non riguarda solo me, abbraccia e avvolge di splendore tutto e tutti. Così il Bambino di Betlemme. Il Natale è per tutti, non è riservato agli intellettuali, alle persone squisite spiritualmente, ad una specifica categoria di persone, ma è per tutti. Il Vangelo della Natività ha una forte carica effusiva: tracima e riempie di significato, di senso, di gioia tutte le persone del mondo. Il Natale è con tutti: siamo tutti convocati attorno al mistero della Natività di questo Bambino adagiato nella mangiatoia. La Natività è da vivere con volontà di perdono, di amicizia, di superamento delle tensioni che talvolta caratterizzano le relazioni; in modo particolare, è da vivere – lo raccomandava il Santo Padre nella Messa della Mezzanotte – con le persone fragili, in difficoltà, povere (sulla terra sono miliardi), a partire da quelle vicine.
Natale di tutti, Natale per tutti, Natale con tutti.

Dopo l’emozione della Messa di Mezzanotte, siamo invitati a fare una meditazione approfondita di una pagina straordinaria, la pagina introduttiva al Vangelo secondo Giovanni: il Prologo. Cerchiamo di sottolineare in questa pagina alcune parole “strategiche”, tecniche, che hanno un significato particolare nella lingua del Vangelo, il greco (alcune volte le traduzioni sono belle ma infedeli, cioè non rispecchiano perfettamente il pensiero di chi scrive).

Questa notte abbiamo letto il racconto della Natività nel Vangelo secondo Luca. Luca ha incontrato Gesù morto e risorto e, come l’evangelista Marco, il primo degli evangelisti, ha narrato la vita di Gesù “con gli occhiali” dell’incontro pasquale. Mentre Marco inizia il suo racconto dal battesimo di Gesù, Luca racconta la vita di Gesù dall’infanzia. Quel Gesù morto e risorto, che è apparso ai primi discepoli, che ha mangiato con loro e che loro stanno annunciando in tutto il mondo, era già il Signore nel momento della sua nascita. Da qui la decisione di Luca di raccontarci l’infanzia di Gesù, evidenziando il ruolo di Maria di Nazaret, la sua mamma. Matteo, invece, racconterà dell’infanzia in modo più succinto e dal punto di vista di Giuseppe.
L’evangelista Giovanni fa un passo ancora più indietro: comincia a considerare “quel Gesù” risorto, che ha incontrato e che ha cambiato la sua vita (Giovanni è il discepolo che ha appoggiato la sua guancia sul petto di Gesù, per dire l’intimità che aveva con lui…) nella sua preesistenza; lo fa adoperando un termine greco con cui dobbiamo familiarizzare: «In principio era il Logos…». I cristiani a cui indirizza il suo Vangelo avevano a che fare con la cultura greca che dava grande importanza alla parola Logos, che noi traduciamo con “Verbo”. Il Logos era considerato ciò che dà significato a tutto, la ragione di tutto, la ragion d’essere della realtà. Anche nel nostro tempo è necessario tradurre la fede cristiana con parole e concetti di oggi (senza trasformare la fede cristiana in un’altra fede). Giovanni, dunque, compie un’operazione teologica straordinaria, ma anche una grande provocazione, perché dice: «Questo Verbo (Logos), che voi filosofi vedete come un principio astratto, immateriale, si è fatto carne». «E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi» (Gv 1,14). “Carne” (sarx) è un’altra parola tecnica il cui vero significato è “fragilità”. Potremmo tradurre: «E il Verbo si è fatto fragilità». La nostra fede è originale, sconvolgente, straordinaria: crediamo in un Dio che diviene fragile per amore. Nessuna mitologia, nessuna “bacchetta magica”, ma un Dio che si fa fragile, nasce in un luogo di fortuna, si lascia fasciare… e poi coprire di baci. «E il Verbo si è fatto carne».

Il Prologo incomincia con: «In principio era il Verbo». Consideriamo ora la parola “in principio”. È un rimando esplicito a Genesi 1,1 (bereshìt), parola da non intendere in senso cronologico. Gli ebrei, quando dicevano “in principio”, pensavano a qualcosa di analogo al Logos. Giovanni deve essere fedele alla tradizione biblica ebraica: «In principio… Dio creò il cielo e la terra» (Gn 1,1), quindi scrive “in principio” nel senso di “principio di tutto”. Nella comunità cristiana ci sono pagani convertiti (sono greci o comunque appartenenti all’area del Mediterraneo di allora) e ci sono cristiani provenienti dall’ebraismo. L’evangelista Giovanni crea un’opera di inculturazione. Altro termine importante per la tradizione ebraica è dabar che si traduce con “Verbo-parola”.
La Bibbia dice: «In principio Dio creò il cielo e la terra», con la sua parola, con il suo verbo: «Dio disse, e le cose furono fatte», «Dio disse “sia la luce” e la luce fu». La parola mediante la quale il Creatore crea è il Verbo.
Ancora un particolare. Giovanni scrive: «Il Verbo era presso Dio» (pros significa “verso”), ma non in senso statico: l’espressione vuol dire che il Logos era rivolto verso Dio, era nella relazione con Lui.
Quando facciamo nostro il Vangelo, per Giovanni siamo rivolti anche noi, attraverso il Verbo, Gesù Cristo, verso Dio, ed entriamo nella relazione con Lui. Il Verbo è ad un tempo rivolto verso Dio e, nello stesso tempo, mette noi in relazione con Dio.
Nel Prologo Giovanni introduce Giovanni Battista e lo chiama “martire”. “Martire” sta per “testimone”. Secondo il diritto ebraico la testimonianza vale se ci sono due testimoni concordi (servono due testimoni per salvare la verità o per negarla se è una falsità). Noi che cominciamo a leggere il Vangelo di Giovanni siamo coinvolti: se tu leggi il Vangelo diventi “martire” (non necessariamente un martire insanguinato), cioè “l’altro testimone”. In che senso? Se leggi il Vangelo troverai la donna perdonata e lei è testimone del dono ricevuto; troverai il lebbroso che è stato risanato e anche lui è testimone; troverai il cieco che ha riacquistato la vista; troverai i poveri che hanno cominciato a danzare di gioia perché evangelizzati. E chi è il secondo testimone? Il secondo testimone sei tu, è ciascuno di noi che legge.
«Il Verbo si è fatto fragilità». A noi la fragilità spaventa. Ma oggi siamo invitati ad accoglierla perché è stata redenta, ci fa più fratelli e ci rende più solidali verso i fragili. È questione di amore. Accogliamo la fragilità. Buon Natale.

Omelia nella Solennità del Natale del Signore (Messa della notte)

San Leo (RN), Cattedrale, 24 dicembre 2022

Is 9,1-6
Sal 95
Tt 2,11-14
Lc 2,1-14

1.
«Mentre si trovavano in quel luogo si compirono per lei i giorni del parto. Diede alla luce il suo figlio primogenito, lo avvolse in fasce e lo pose in una mangiatoia perché per loro non c’era posto nell’alloggio». Appena due righe. Il Signore sa cosa c’è nel cuore di ciascuno di noi. Lui saprà dirci la parola giusta e noi ci prepariamo ad accoglierla. A me tocca il compito di proclamare, in questa notte, che il Natale è di tutti. Come il sole che illumina il mio giardino, così la Natività illumina il giardino interiore di ogni persona. Tutti possono trovare nel Bambino di Betlemme, che Maria ha adagiato nella mangiatoia, la speranza. Il Natale è di tutti, perché “fatto” di cose concrete, prossime alla quotidianità: un alloggio di fortuna, forse una capanna, una grotta o una stalla, l’acqua per lavare il neonato, le fasce e la paglia… C’è la mamma e c’è Giuseppe. Poi arrivano i pastori. Il Natale è di tutti.

2.
Il Natale è per tutti, non è un messaggio destinato ad una élite di persone, di intellettuali, uomini di raffinata spiritualità, ma a tutte le persone senza distinzione, soprattutto alle persone provate dalla sofferenza e dalla povertà. La notte di Natale è la notte del censimento, dove ognuno va a ricongiungersi con le sue radici. I bambini, grandi protagonisti nei nostri borghi di montagna, ci prendono per mano. Noi crediamo di tenere loro per mano, ma in realtà sono loro che ci fanno strada, ci fanno uscire dai nostri incubi, ci mettono davanti alle grandi domande, come sanno fare con la loro ingenuità, ci mettono davanti al Mistero e ci riportano alla nostra infanzia, beninteso non all’infantilismo, ma a ciò che costituisce la capacità di essere umili, di abbracciare la novità e di sapersi affidare.

3.
Il Natale è con tutti, è un invito alla condivisione, a farsi l’uno per l’altro dono; contiene un invito al perdono, tutti fratelli. Oggi più che mai stiamo prendendo consapevolezza dell’interdipendenza nella società. Non ci si salva da soli. Il Natale ci chiede di essere portatori di gioia, la gioia di cui parla l’angelo: «Vi annuncio una grande gioia che sarà di tutto il popolo». Ho sottolineato il dimostrativo “tutti”. Per tutti siamo portatori di gioia, e la gioia più profonda del nostro cammino di cristiani è la certezza che siamo amati, amati immensamente. Da questo amore sono nati la creazione nel suo splendore, la redenzione, il perdono; da questo amore nasce il Bambino Gesù. In fondo, l’unico compito della vita, a ben pensarci, è amare, quindi generare ogni persona alla gioia. Ognuno sa cosa vuol dire questa parola così grande e consumata a causa dell’abitudine, ognuno sa dare il contenuto operativo. “Amare con i muscoli”, cioè non “pensare” di amare, ma amare concretamente.

L’atmosfera della festa, le luci, la poesia possono – ahimè – trasformare il Natale in una fiaba, quasi dimenticando il vero motivo per cui si festeggia il 25 dicembre. Anche le mie parole – ne sono consapevole – sono a rischio di retorica. Me ne accorgo, vorrei evitarlo. Che fare? Il Natale è quello narrato dai Vangeli! Riascoltiamo: una natività avvenuta più di duemila anni fa, in un piccolo villaggio della Palestina, precisamente in un campo di pastori, da due giovani sposi che, essendo in viaggio, non dispongono neppure di una casa, di una tettoia per accogliere il loro bambino. Quanta povertà! Ma quanto amore. Bisogna allora riprendere i racconti degli evangelisti e provare a rileggerli. Facciamolo in questi giorni. In questa notte abbiamo sentito leggere il racconto secondo Luca. Anche Matteo ha riscritto la Natività, in un’altra forma. È bello mettere a confronto il racconto dei due evangelisti: i due racconti si completano. Sono diversi, ma complementari. Ad esempio, Luca sceglie di mettere in luce, fra i tanti contenuti, la povertà di Gesù, «deposto in una mangiatoia perché non c’era posto nell’alloggio», onorato soltanto da alcuni pastori che vegliano di notte, facendo la guardia al loro gregge. L’evangelista Matteo, invece, sembra preferire gli aspetti drammatici. Quel bambino fa paura ad Erode, che vorrebbe ucciderlo e cerca con un trucco di convincere i magi, questi misteriosi personaggi venuti da oriente seguendo una stella, ad indicargli il luogo dove si trova il neonato. Così, per mettere in salvo il figlio, Maria e Giuseppe devono fuggire profughi in Egitto, in terra straniera. Ecco Gesù, poverissimo eppure temuto, adorato dai ricchi sapienti che gli portano doni preziosi, come l’oro, l’incenso e gli aromi pregiati, e tuttavia mancante di una semplice culla. Chi è davvero questo bambino? Povertà e grandezza, poesia degli uni e cattiveria di un potente: sono le stesse condizioni che poi questo Gesù, divenuto adulto, conoscerà durante tutta la sua vita. Luca e Matteo hanno incontrato Gesù risorto e l’hanno riconosciuto come Messia, il Signore atteso dalle genti e annunciato dai profeti. Chi lo accoglie, come hanno fatto loro, sperimenta una luce e una forza sorprendenti. Quando leggiamo pagine di profezia trionfalistiche, grandiose, ricordiamoci che la chiave ermeneutica è Gesù Crocifisso: è proprio lui il Signore! Non dimentichiamolo. Impariamo a riconoscerlo nella fede. Anche per noi il segno della grande gioia, del Salvatore annunciato dall’angelo è «un bambino avvolto in fasce che giace in una mangiatoia». Buon Natale!

Omelia nella S. Messa di Natale con gli studenti delle scuole superiori di San Marino

San Marino Città (RSM), chiesa di San Francesco, 23 dicembre 2022

Ml 3,1-4.23-24
Sal 24
Lc 1,57-66

Questo è il foglio destinato a raccogliere i pensieri che devo dire. È bianco!
Permettetemi una confidenza. Ieri sera ho cominciato tante volte a scrivere appunti, ma non sono stato capace di sintetizzare l’esuberanza di temi e di luci del Natale. Di per sé il Natale è la cosa più semplice che ci sia.
Nelle settimane che precedono il Natale (il tempo dell’Avvento) è stato spesso evocato questo annuncio profetico: il mondo è guaribile. Le profezie parlano di lebbrosi che vengono mondati, di ciechi che finalmente vedono, di sordi che odono, di poveri a cui è annunciata la liberazione. Che cosa vuol dire che il mondo è guaribile? Quando ti comunicano che non c’è più niente da fare si va in crisi. Se invece ti dicono: «Puoi lottare, se ce la metti tutta ce la puoi fare!», nasce la speranza. Guardo l’umanità nel suo insieme. A volte mi capita, nella preghiera, di immedesimarmi nelle persone che soffrono. È insopportabile caricarsi di così tante sofferenze. Pensate alla sofferenza delle persone che si trovano in una casa di cura (sabato scorso sono andato in una casa dove ci sono disabili psichici, ieri sono stato un pomeriggio intero con gli anziani, spesso rimasti soli in questi ultimi tempi, al Casale La Fiorina), e alla situazione attuale di povertà e di guerra (freddo e buio senza corrente elettrica).
Cari ragazzi, anche voi venite da un’esperienza di dolore: due vostri amici sono stati vittima di un grave incidente stradale. Questo è il mondo. Il Signore dice che il mondo è salvabile. C’è una prospettiva, un futuro che lui ci promette; la fede ci informa che c’è vita piena. Questo discorso sull’aldilà non dev’essere frainteso. L’annuncio di un mondo guaribile non implica semplicisticamente il rinvio ad un’altra vita; il mondo è guaribile ora «come in cielo così in terra». Ciò provoca il nostro impegno di cura e di fatica per progredire. Sono guaribili sulla terra anche la povertà e la guerra. La povertà non è un fatto “strutturale”, ma contingente: ci sono meccanismi che portano alle situazioni di povertà. C’è spazio per l’impegno, la lotta, il superamento. Si dice: «Ci sono sempre state le guerre; ciò non significa che la guerra faccia parte della struttura dell’organizzazione umana. Si può superare: ecco il messaggio del Natale. Le profezie dell’Antico Testamento proclamano: «Il lupo dimorerà insieme con l’agnello, la pantera si sdraierà accanto al capretto…» (Is 11,6). «Ogni calzatura di soldato nella mischia e ogni mantello macchiato di sangue sarà bruciato… Perché un bambino è nato per noi…» (Is 9,4-5). «Il popolo che camminava nelle tenebre ha visto una grande luce…» (Is 9,1). «Forgeranno le loro spade in vomeri, le loro lance in falci» (Is 2,4). Il linguaggio è poetico, ma dice la grande risorsa che è la nostra fede, che è Gesù.
Concludo con l’emozione che ho provato qualche sera fa quando una parrocchia mi ha invitato al saggio dei bambini delle scuole primarie (quella sera avevo la tentazione di andare a Ferrara perché al Teatro comunale eseguivano la Messa in Si Minore di Bach). C’erano più di cento bambini e la chiesa era gremita. Ma più dello spettacolo mi hanno colpito gli adulti, le mamme e i papà visibilmente commossi davanti ai loro bambini. Ho capito ancora di più quello che è stato il mio augurio per questi giorni: «Menomale che ci sono i bambini…». Quest’anno veniva voglia di lasciare gli addobbi nella cassapanca, invece i bambini provocano e ci prendono per mano, ci fanno andare oltre le nostre paure e ci portano davanti al Mistero che fa grande gli uomini. Noi credevamo di tenerli per mano, ma quella sera erano i bambini che tenevano per mano noi e ci introducevano in una dimensione che non dobbiamo smarrire, quella dell’infanzia – non ingenuità puerile o infantilismo – ma alla riconquista del puer evangelicus che è dentro di noi, cioè la dimensione dell’umiltà e della piccolezza. La piccolezza è il primo requisito per voler bene, per far spazio all’altro.
Abbiamo considerato un mondo da risanare, ma anche ciascuno di noi porta delle ferite.
Il Signore nato a Betlemme ci fa superare i condizionamenti del nostro egoismo, si prende cura di noi e ci fa nuovi: nel suo Natale il nostro Natale. Auguri!