Sui rapporti fra la Chiesa e la Scuola

Al Vescovo di San Marino-Montefeltro è stato chiesto di esprimere una valutazione su quanto è accaduto nell’Istituto Comprensivo “P. Olivieri” di Pennabilli a proposito della benedizione pasquale in alcuni plessi del medesimo istituto. I rapporti fra la Chiesa e la Scuola in questi anni sono sempre stati cordiali, di dialogo e di collaborazione.

Laicità, dialogo, identità, inclusione. Tutte parole importanti perché richiamano grandi valori di convivenza, anzi di “fraternità”. Sono parole preziose perché “conquistate” e pertanto patrimonio comune. Ma centro della nostra cura e riflessione sono i bambini, i ragazzi e i giovani, verso i quali siamo debitori di speranza e di tutto ciò che costituisce un patrimonio di valori, storia, cultura e fede, che caratterizza il nostro territorio e il nostro tempo.
Non trovo contraddizione e incomunicabilità fra laicità e, ad esempio, realtà forti come il Natale e la Pasqua: Natale con i suoi segni come il presepio, l’albero, i canti e soprattutto l’appello alla solidarietà; Pasqua con il segno dell’ulivo, dell’acqua lustrale, dell’Alleluia e del messaggio di pace, perdono e rinascita.
Per quanto riguarda la presenza di questi segni nella scuola di tutti credo occorra dialogo e rispetto reciproco. Perché tenere all’oscuro, passare sotto silenzio, quello che caratterizza la vita dei nostri centri, dei nostri borghi e di tante famiglie?
La visita del parroco, nelle modalità convenute con il dirigente scolastico, per un saluto ed un augurio e, per chi è credente, il segno della benedizione, credo possano essere vissuti come un momento bello e gioioso per tutti.
L’insegnamento della Religione Cattolica nella scuola si pone senza dubbio sul piano culturale, ma perché non far vivere a chi si avvale di questo insegnamento anche un momento esperienziale? Non lo trovo così inopportuno. Il sapere non è mai pura teoria…
Per quanto riguarda le esigenze dell’inclusione credo siano in atto tante esperienze positive e rispettose verso chi è di altra cultura e di altra convinzione. Non è tempo di battaglie, ce lo ricorda spesso papa Francesco, semmai è tempo di fraternità, di apprezzamento del patrimonio gli uni degli altri e del concorso per il bene di tutti (la differenza delle ragioni e la ragione delle differenze: una buona suggestione).
Molto importante che il dibattito coinvolga, in qualche modo, le famiglie e in particolare i genitori, i primi responsabili dell’educazione dei figli, prima, molto prima dello Stato.
In questo ambito Chiesa, Stato, istituzioni scolastiche devono pensarsi al loro servizio.

Pennabilli, 22 marzo 2023

+ Andrea Turazzi
Vescovo di San Marino-Montefeltro

Marcia-Veglia missionaria

Saper leggere e scrivere è un regalo grande. Prima di tutto ringrazio il buon Dio che mi ha dato la possibilità d’imparare a leggere e scrivere. Ringrazio per tutte le persone mi hanno aiutato. Rivolgo questo ringraziamento a tutto il mondo scolastico della nostra Diocesi e del mondo intero. Sarebbe bello sapere quanti professori e studenti ci sono nella nostra Diocesi. Sarebbe bello sapere quante scuole e studenti sono aiutati da Istituzioni, Associazioni e privati in tante parti del mondo, soprattutto nei paesi poveri…Gesù sapeva leggere (Luca 4,16), Filippo è stato inviato all’Etiope per spiegargli il brano di Isaia che stava leggendo (Atti 8,26-40) ma le parole più significative sono: “In verità vi dico: tutto quello che avete fatto a uno dei miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me” (Matteo 25,40).

Quest’anno per la Quaresima Missionaria vogliamo aiutare la scuola elementare parrocchiale di Tadu in Congo, un paese ricco d’umanità, fede, speranza, amore e con una grande sete d’imparare a leggere e scrivere. La consueta marcia-veglia missionaria sarà venerdì 31 marzo con partenza alle ore 20:45 dalla piazza Vittorio Emanuele II di Novafeltria fino al Santuario del Crocifisso di Talamello. Aiutiamo questa scuola in Congo con le nostre offerte e con la forza di Gesù Risorto andiamo in tutto il mondo a proclamare che la vita è un dono meraviglioso e tutti parliamo il linguaggio dell’Amore.

Santa Pasqua anche a nome dei bambini del Congo!

Don Rousbell Parrado, Direttore del Centro Missionario Diocesano

Omelia nella Solennità del “Venerdì Bello”

Pennabilli (RN), Santuario della Madonna delle Grazie, 17 marzo 2023

Gen 37,3-4.12-13.17-28
Sal 104
Lc 1,26-38

Carissimi, la tradizione ci ha consegnato la memoria di un avvenimento straordinario: una lacrimazione dell’immagine della Santa Vergine, evento gelosamente custodito, trasmesso fedelmente da una generazione all’altra con lo stesso fervore, la stessa meraviglia e la stessa gratitudine. Un evento di lacrime, ma tramandatoci come bellezza, chiamato, da quel venerdì del 1489 (allora era il 20 marzo), il “Venerdì Bello”!
Non stupisce che la Madre del Signore sia venerata in tanti dei nostri borghi e delle nostre chiese come la Vergine Addolorata, testimonianza delle sofferenze di queste popolazioni, ma qui è la stabat mater lacrimosa, accanto al Figlio Gesù e accanto a questo popolo.
Il Cielo è vicino alle nostre vicende?
L’umanità risorta del Signore e l’umanità della Vergine Assunta sono umanità trasfigurate e gloriose, divina quella di Gesù, divinizzata quella della Madre, la prima della creazione ad entrare nella gloria, in corpo e anima, segno e anticipo della nostra vocazione alla santità e alla divinizzazione.
Sull’immagine della Santa Vergine, qui a Pennabilli, in questa chiesa, furono viste lacrime. Le lacrime sono punto d’incontro fra corpo e anima: esprimono sentimenti, accompagnano la preghiera, indicano un dolore esteriore ed interiore, fisico e spirituale; una distinzione – quest’ultima – improbabile, perché il dolore e le lacrime dicono l’unità della persona nella sua realtà psicofisica.
Quanta tristezza ci capita di scorgere sui volti che incontriamo, specialmente – mi rivolgo ai sacerdoti – in queste settimane di visita alle famiglie. Quante lacrime vengono versate ad ogni istante – in questo istante – nel mondo; una diversa dall’altra, e insieme formano come un oceano che invoca compassione e consolazione.
Le più amare sono quelle provocate dalla malvagità umana: le lacrime di chi si vede strappare violentemente una persona cara, di chi si sente abbandonato, fallito, incompreso. Questi sono giorni di lacrime: lo testimonia la cronaca; sofferenze costantemente presenti nei nostri cuori di pastori e nella nostra quotidiana preghiera: ci mettiamo nei panni degli altri: «Piangere con chi piange…» (cfr. Rom 12,15).
E che dire delle nostre lacrime? Ci sono lacrime che ci fanno onore. Il Messale e la Tradizione spirituale ci esortano a chiedere il dono delle lacrime, come segno della partecipazione del cuore alle sofferenze degli altri e alla Passione del Signore. Nei momenti di tristezza, di senso di inadeguatezza, nella malattia, nel lutto, nella critica che punge, nella persecuzione… Come scrive papa Francesco, «ognuno cerca una parola di consolazione, cerca paternità e fraternità; sente forte il bisogno che qualcuno gli stia vicino e provi compassione per lui, che possa realmente capire il suo dolore». Ci sono occhi che spesso rimangono fissi sul tramonto e stentano a vedere l’alba di un giorno nuovo» (Veglia di preghiera “per asciugare le lacrime”, 5 maggio 2016).
Le lacrime sono ben note nelle Sacre Scritture, un tema ricorrente nella storia della salvezza: c’è un’umanità che piange, un popolo in cerca di liberazione, cuori, volti, occhi bagnati di lacrime. Basta sfogliare il libro dei Salmi, il nostro libro di preghiera. «Torrenti di lacrime gli scendono dagli occhi» (Sal 119,136). «Irroro di lacrime il mio letto» (Sal 6,7). «Signore, non essere sordo alle mie lacrime» (Sal 39,16). L’orante insiste: «Le lacrime sono mio pane giorno e notte» (Sal 42,4). «Le mie lacrime nell’otre tuo raccogli» (Sal 56,9). Il profeta Geremia tante volte allude al pianto: «Occhi che grondano lacrime» (Ge 14,17). «Il mio occhio si scioglie in lacrime» (Ge 13,17). «I miei occhi sono consumati nelle lacrime» (Lam 2,11). «Nell’andare se ne va e piange» (Sal 126,6).
Ma il salmista sa che «chi semina nelle lacrime, mieterà con gioia» (Sal 126,6): è la promessa!
«Signore, hai liberato i miei occhi dalle lacrime» (Sal 116,8): questo è motivo di gratitudine.
Sì, il Signore «asciugherà le lacrime» (Is 25,8), «tergerà ogni lacrima dai loro occhi» (Ap 7,17;21,4).
Si potrebbero considerare le lacrime di diversi personaggi biblici colti nell’atteggiamento delle lacrime; sarebbe molto bello e incoraggiante.
Giuseppe, venduto dai fratelli, piange cinque volte: sembra essere il personaggio biblico più propenso alle lacrime. Tre volte piange di gioia per rapporti riallacciati, per una fraternità ritrovata… Piange così forte che lo sente tutto il palazzo del faraone. Versa lacrime di dolore – è la quarta volta – per la morte di Giacobbe, suo padre, ma c’è una quinta lacrimazione, la più pungente: è quando i fratelli, dopo la morte del padre, vanno dal vicerè (Giuseppe è il fratello che ha fatto carriera), si prostrano davanti a lui per chiedergli pietà. Giuseppe piange perché non credono alla sua misericordia, al suo cuore (cfr. Gn 15-21). Sono le lacrime più amare.
Faccio un salto nel Nuovo Testamento, ad una persona di cui non sappiamo neppure il nome: la donna silenziosa che, nel Vangelo di Luca, bagna di lacrime i piedi di Gesù e li asciuga con i capelli (cfr. Lc 7,38): lacrime che contengono il dolore per il suo peccato e la consolazione per il perdono.
Paolo di Tarso. Mi piace considerare le lacrime dell’Apostolo. Ritroviamo in lui le nostre. Esorta con lacrime, scrive lettere tra le lacrime (2Cor 2,3.4; 9,7.8.12). Sono lacrime di delusione.
Ma è soprattutto Gesù che vediamo in lacrime: per la morte dell’amico Lazzaro (cfr. Gv 11,35-36) e alla vista di Gerusalemme ingrata (cfr. Lc 19,41). Di lui, l’autore della Lettera agli Ebrei ricorda che, nei giorni della sua vita terrena, «offrì preghiere e suppliche con forti grida e lacrime» (Ebr 5,7).
Il nostro ministero, cari fratelli sacerdoti, è un ministero di consolazione, un quotidiano asciugare lacrime, un piangere con chi piange (cfr. Rom 12,15), quasi per far nostro l’invito di Gesù a non piangere su di lui ma sui nostri figli (cfr. Lc 23,28) fino a proclamare la beatitudine: «Beati voi che ora piangete, perché riderete» (Lc 6,21). Siamo annunciatori, spesso incompresi, della Risurrezione.
Spendo ora una parola sulle lacrime di Dio, tornando alla domanda iniziale: «Il Cielo è vicino alle nostre vicende? C’è sofferenza in Dio? C’è partecipazione al dolore umano?». La teologia ha sempre affermato l’impassibilità di Dio. Dio, assoluta perfezione, non conosce il limite, la privazione, lo scadere del tempo. Dio è lo splendore del vero, senza ombra alcuna. È l’assoluto. Dio è incorruttibile bellezza e armonia.
Come possono esserci lacrime nell’Essere supremo? Come anche solo immaginare una qualche forma di sofferenza in colui che è Eterna beatitudine?
I filosofi hanno considerato la sofferenza nel suo aspetto di limite, imperfezione, mancanza. In questo senso è, quanto meno, contraddittorio mettere insieme lacrime e perfezione divina. La prospettiva cambia completamente quando la sofferenza viene collocata nell’ambito dell’amore. Allora viene riscattata dalla sua negatività: più grande è l’amore, più comprensibile è il dolore.
Certo, Dio non è un uomo! Siamo ben lontani dalle rappresentazioni del paganesimo.
Per la fede cristiana, Dio si fa uomo, piange lacrime salate come le nostre, assume il limite, ama sino alla follia.
Che Dio conosca la sofferenza dell’uomo è ben chiaro già dalla vicenda vocazionale di Mosè, al quale è stato dato di sentire le parole di Dio misericordioso: ho visto la sofferenza del mio popolo, ho sentito il suo lamento… (cfr. Es 3,7-10).
Dunque, Dio vede, sente, partecipa e, soprattutto, ama. E in Gesù Cristo vuole provare come sta l’uomo sotto il peso della croce, come patisce l’uomo per l’amarezza dell’ingratitudine, come risuonano nel petto i battiti del cuore umano e quanto è abissale l’oscurità delle notti dell’anima.
Siamo qui per fare Eucaristia, per dire il nostro grazie, per rinnovare la nostra consacrazione alla Madonna delle Grazie, alla quale abbiamo tanto da chiedere, e per stringere i vincoli della fraternità sacerdotale e universale.

Giornata internazionale della donna

LA DONNA: QUALE SPERANZA?
Veglia per la Festa Internazionale della Donna

Alla vigilia della loro festa addolora constatare quanto ancora nel mondo le donne siano soggette a discriminazioni e violenze che si manifestano in molteplici forme, dall’aspetto più visibile e inqualificabile a quello più insidioso e incosciente. A parole si affermano certe cose, ma l’organizzazione delle società in tutto il mondo è ancora lontana dal rispecchiare con chiarezza che le donne hanno esattamente la stessa dignità e identici diritti degli uomini.
Se da un lato questo è vero, è anche vero che la realtà ci consegna la speranza di un futuro diverso verso il quale ci guidano le donne stesse, attraverso il genio femminile non soltanto delle donne grandi e famose vissute nel passato o nostre contemporanee, ma anche di quelle semplici, che esprimono il loro talento femminile a servizio degli altri nella normalità del quotidiano.
La comunità diocesana rifletterà, si confronterà e pregherà per questo nella Veglia per la Festa della Donna presieduta dal Vescovo Andrea, che si svolgerà il 7 marzo alle ore 21.00 presso la chiesa parrocchiale di Macerata Feltria. L’appuntamento è aperto alla partecipazione di tutti.

Ufficio diocesano di Pastorale Sociale e del Lavoro

#giornatainternazionaledelladonna

Sinodalità allo s(nodo) della Forma Ecclesiae

Siamo lieti di segnalarVi che tra le proposte formative in programma nel presente Anno Accademico presso l’ISSR “A. Marvelli”, è previsto lo svolgimento di un ciclo monografico di lezioni sul tema Sinodalità allo s(nodo) della Forma Ecclesiae, tenute dal Prof. Filippo Gridelli OFM Cap.

Le lezioni partiranno lunedì 27 febbraio alle ore 20.45, e si svolgeranno on-line sulla piattaforma Cisco Webex Meetings con cadenza settimanale. Dopo la lezione iniziale, le altre si svolgeranno nelle seguenti date: 6-13-20-27 marzo e 2-8-15-22-29 maggio (per le lezioni di maggio ci sarà anche la possibilità di partecipare in presenza).

Il corso prevede in totale 24 ore di lezione, e rilascerà agli studenti che lo frequenteranno 3 crediti formativi (ects).

Il corso è aperto sia agli studenti già iscritti all’ISSR sia ad ospiti esterni.

Programma del corso:

Il corso intende presentare un affondo teologico sulla forma della Chiesa nel contemporaneo, in stretto rapporto col cammino sinodale, ed è proposto dal prof. Filippo Gridelli, OFM Cap., che inquadrerà il processo sinodale in atto, frutto maturo dell’evento sinodale-pastorale Concilio Vaticano II, a partire dalla tensione generativa innescata con la sua esigenza più radicale: la riforma della Chiesa. La riflessione e soprattutto la pratica sinodale, pur nelle sue inevitabili fatiche, lentezze ed incognite invoca una incidenza sulla forma della Chiesa a diversi livelli: giuridici, ministeriali, pastorali. Ben conoscendo la complessità della questione nasce una prima domanda: che significa evocare la forma/riforma? Il corso parte da una ricognizione di questa categoria nelle sue molteplici accezioni, soffermandosi in particolare sulle virtualità ermeneutiche dagli sviluppi contemporanei della forma in ambito estetico, filosofico, linguistico. Il passaggio successivo sarà una rapida indagine su come la categoria è stata recepita in teologia, in ambito dogmatico, liturgico ed in particolare ecclesiologico. Nell’ultimo segmento il tentativo sarà quello di rileggere l’abbozzo ecclesiologico di alcuni teologi contemporanei in connessione alle categorie di “forma” relazionali, processuali e osmotiche, e suggerendone virtualità pratiche per la maturazione di una forma Ecclesiae sinodale al vaglio del cambiamento d’epoca in atto.

Filippo Gridelli

Dopo la Laurea magistrale in Beni culturali, ha conseguito il Baccalaureato all’Antonianum di Bologna, la Licenza e il Dottorato in Teologia Fondamentale alla Pontificia Università Gregoriana, con una tesi su Forma Ecclesiae e Forma della vita religiosa. Alla ricerca di una relazione sotto il principio di pastoralità di Vaticano II, allo stesso tema ha dedicato anche studi e articoli. Ha collaborato con il Centro Fede e Cultura Hurtado, presso la Pontificia Università Gregoriana, e insegnato Teologia Fondamentale all’Istituto Teologico Laurentianum, nella sede di Milano.

Il corso si rivolge in modo particolare a coloro che svolgono attività pastorale o educativa, laici e presbiteri, ma non avrà un taglio specialistico, sarà pertanto fruibile anche da chi non abbia una formazione teologica, in quanto il linguaggio utilizzato sarà accessibile a tutti.

Il percorso avrà un costo di 50 euro per gli studenti ospiti esterni, mentre per gli studenti già iscritti all’ISSR sarà gratuito. A tutti è comunque richiesta un’iscrizione da effettuare in segreteria entro il 24 febbraio.

Per informazioni e iscrizioni contattare la Segreteria dell’Istituto Superiore di Scienze Religiose “A. Marvelli”, Rimini – Via Covignano 265; Tel. e fax 0541-751367; sito: www.isssrmarvelli.it; e-mail: segreteria@isrmarvelli.it.

Omelia nella Solennità del Mercoledì delle Ceneri

Pennabilli (RN), 22 febbraio 2023

Gl 2,12-18
Sal 50
2Cor 5,20-6,2
Mt 6,1-6.16-18

Nell’ingresso in Quaresima Gesù ci invita alla preghiera, al digiuno e alla condivisione (preferisco il termine condivisione perché elemosina dà l’idea dello spicciolo che si dà ad un passante): tre atteggiamenti necessari che il Signore domanda esplicitamente per scuotere il nostro cuore e per sollevarci dalla nostra mediocrità.
C’è una condizione che torna come un ritornello: fare nel segreto. Il segreto è l’intimo del cuore, il luogo dove il Padre ha stabilito la sua dimora e dove noi possiamo incontrarlo. Nel segreto cadono le maschere, siamo finalmente noi stessi, nella verità del nostro essere. Il segreto, poi, è la garanzia della gratuità di quello che facciamo, del nostro fare sul serio. Dunque, non ci sarà nessun vantaggio, nessun guadagno per l’immagine che gli altri possono essersi fatti di noi: siamo quello che siamo, non importano i complimenti e neppure il vestito, il copricapo… L’essere nel segreto non esclude l’essere in comunione con gli altri. È qui che il Padre ci attende per consegnarci ai nostri fratelli.
Dei tre atteggiamenti necessari – preghiera, digiuno e condivisione – questa sera preferisco dire una parola sul digiuno: «Quando digiunate non assumete un’aria melanconica come gli ipocriti». Nel Salmo 50 c’è una frase che ha molta pertinenza con la Quaresima: «Rendimi la gioia di essere salvato» (cfr. Sal 50,14). Per questo la Quaresima non è un tempo triste!
Il digiuno fa bene al nostro corpo, al nostro spirito e al nostro rapporto con il Signore. La pratica del digiuno si trova in tutte le tradizioni religiose (ad esempio nel ramadan dei musulmani, nella regola dei monaci buddisti, nella prassi dell’ebraismo in occasione di diverse feste, tra i cristiani in Quaresima e non solo…) e si ritrovano diversi esempi nell’Antico e nel Nuovo Testamento: ad esempio quando Neemia, dopo il rientro dalla cattività babilonese, convoca tutto il popolo e proclama un giorno di grande digiuno, oppure quando la principessa Ester invita i giudei a digiunare insieme ai suoi servi o quando san Paolo prega per gli anziani inviati alle nuove comunità che sono state fondate. Nell’antichità il cibo scarseggiava, tuttavia si digiunava. Invece oggi il digiuno non trova una grande accoglienza; è una pratica desueta, perché sinonimo di mortificazione e di austerità. I parroci più fervorosi invitano tutt’al più ad altre forme di moderazione, indicano altre forme di penitenza (es. la rinuncia alla tv). Allora perché digiunare?

  1. Il credente digiunando coinvolge l’intero suo corpo. È un modo concreto di spendersi: la nostra fede non è disincarnata. Quando Gesù ci chiede di camminare con lui chiede di investire non soltanto l’anima, ma anche la nostra corporeità: muovere dei passi con lui, mettere in azione dei muscoli… Non si può avere una visione soltanto intellettualistica della fede. Possiamo dire che il digiuno è la più incarnata delle preghiere.
  2. Digiunare è un mezzo per partecipare a quello che vivono tanti poveri che sono nel mondo. I poveri mancano del minimo per vivere, mentre noi – nonostante anche qui ci siano difficoltà – facciamo parte della società del benessere. Fare una rinuncia, fare un digiuno è un piccolo passo verso gli altri che sono in difficoltà.

Attenzione, non si deve fare il digiuno quasi come una forma di scambio con il Signore: «Io digiuno e tu fai quello che io ti chiedo». Non si compra Dio! Non è detto che perché digiuni Dio manderà magicamente un pasto caldo a quella famiglia che tribola nell’inverno dell’Ucraina. Se digiuno è per pensare a Dio, per essere unito ai poveri, allora il digiuno è una preghiera.

  1. Il digiuno ci segna profondamente. Non mangiare lascia un vuoto concreto, metafora di un vuoto più profondo che dobbiamo riconoscere dentro di noi, un bisogno da colmare: «Non di solo pane vive l’uomo». Digiunare è come aprire una porta, creare uno spazio di disponibilità. Quando si fa una bella cena, un bell’incontro conviviale, più del buon cibo e del buon vino si dice che si fa famiglia. Si può fare famiglia anche con il digiuno.

Ma che ne pensa del nostro digiuno chi ha fame? Che beneficio ricava dal nostro digiuno?
Daremmo volentieri metà del nostro pranzo per chi ha fame, ma non lo possiamo spedire a chi ne ha bisogno. Allora a cosa serve digiunare? Digiunare in due è ancora peggio…
In certi periodi in famiglia si raccoglieva l’equivalente della cena e lo si consegnava in chiesa. Mio papà diceva: «Ti do i soldi per una cena, ma io ceno!». Digiunare ci lega veramente con chi soffre. La sofferenza dell’altro non ci sarà mai completamente accessibile, non la sentiremo totalmente su di noi. Tuttavia, digiunare vuol dire stare un po’ accanto ed esprime la misura della nostra capacità di fraternità. Vedendoci incapaci di risolvere il problema proviamo dispiacere, ma ci fa bene, ci rende umili. Non abbiamo altra risorsa che questa. Il digiuno produce questo effetto: non ci sentiamo più la persona che dall’alto si china benevolmente per offrire qualcosa: diventiamo compartecipi. Non ci resta che pregare e sperare.
Se la pratica del digiuno ci avvicina a Dio è perché, in fondo, è un atto di fede. Anche quando non vediamo gli effetti. Noi credenti sappiamo che il nostro digiuno non è mai un ricatto, come certi digiuni esibiti: «Mi lascio morire di fame davanti a te, perché non ho altra arma umana per ottenere ciò che voglio». No, il nostro digiuno è un atto di fede.
Crediamo anche alla dimensione soprannaturale che ci lega, il Corpo Mistico: «Quando un membro soffre, tutto il corpo partecipa di questa sofferenza» (cfr. 1Cor 12,26-27).
Inoltre, il digiuno lo si pratica in vista di un cammino che vogliamo fare dietro a Gesù per rispondere alla sua chiamata, per essere in comunione.
Avevo aperto la riflessione dicendo: «Perché digiunare?». La concludo dicendo: «Per chi digiunare?». Il profeta Zaccaria, rimproverando il popolo, scriveva: «Quando avete fatto digiuni e lamenti lo facevate per me?» (cfr. Zac 7,5). Vorrei che questa sera tutti dicessero: «Signore, vogliamo fare digiuno per te, perché vogliamo sentire la fraternità come la senti tu!».

Omelia nella S.Messa esequiale per il signor Tonino Giorgetti

Valdragone (RSM), Santuario del Cuore Immacolato di Maria, 21 febbraio 2023

Sir 2,1-13
Sal 36
Mt 25,31-46

La Prima Lettura dal Libro del Siracide presenta il ritratto del saggio secondo l’Antico Testamento. Vengono evidenziate tre caratteristiche: il saggio è intraprendente, si fida del Signore, ascolta. Ma il giusto viene anche provato: «Sii paziente nelle vicende dolorose, perché l’oro si prova con il fuoco e gli uomini ben accetti nel crogiuolo del dolore». Il saggio, nella prova, si abbandona al Signore e non smette mai di coltivare l’amicizia con il Signore. Poi il brano si conclude così: «Si è mai sentito dire che un uomo così sia abbandonato da Dio?», domanda ripetuta tre volte.
Ora mi accingo a tuffarmi nel brano evangelico. Mi sembra che Tonino, questa sera, ci faccia un grande dono, dicendo a ciascuno di noi: «Non guardate me, guardate il Signore!».
Faccio notare, innanzitutto, che c’è uno stupefacente contrasto fra la grande scenografia del Giudizio finale e la semplicità delle domande che il Signore fa: «Avevo fame, mi hai dato da mangiare? Avevo sete, mi hai dato da bere?». Siamo di fronte all’esame più facile e più difficile che ci sia: facile perché, fin d’ora, ci viene dato l’elenco delle domande; difficile perché quell’esame costituisce la verifica sul nostro modo di pensare l’esistenza: lo svelamento della verità ultima del vivere, rivelazione di ciò che rimane quando non rimane più niente: l’amore.
Questa pagina di Vangelo risponde alla più seria delle domande: «Che cos’hai fatto di tuo fratello?». Il Signore elenca sei “opere”, ma poi sconfina: «Tutto ciò che avete fatto ad uno dei miei fratelli, l’avete fatto a me». Gesù Cristo stabilisce un legame così stretto tra sé e gli uomini da arrivare a identificarsi con loro: «L’avete fatto a me!».

Sottolineo tre passaggi.

  1. Dio ci appare come colui che tende la mano: «Avevo fame, avevo sete, ero malato, ero nudo…». È come se a Dio mancasse qualcosa. Questa rivelazione – un Dio che chiede, che tende la mano – capovolge ogni idea sul divino che talvolta abbiamo. C’è da innamorarsi di un Dio così, mendicante di pane e di casa, che non cerca venerazione per sé, ma per i suoi amati. Li vuole tutti saziati, dissetati, vestiti, guariti, visitati, liberati: queste le risposte alle sei domande dell’esame. Davanti a questo Dio c’è da incantarsi. Vogliamo accoglierlo ed entrare nel suo mondo insieme a Tonino.
  2. L’argomento del giudizio non è il male, ma il bene. La misura dell’uomo e del mondo non è il negativo, l’ombra, ma il positivo, la luce. La bilancia di Dio non è tarata sui peccati, ma sulla bontà; verità dell’uomo non sono le sue debolezze, ma la bellezza del cuore.
  3. «Alla sera della vita saremo giudicati solo sull’amore (san Giovanni della Croce), non su devozioni o riti, pur importanti, ma sul nostro farci carico del dolore dell’altro. Il Signore non guarderà a me staccato dal mio contesto, ma accoglierà nel suo sguardo la realtà che ho attorno, comprese le persone di cui mi sono preso cura.

«Se mi chiudo nel mio io, pur adorno di tutte le virtù, e non partecipo all’esistenza degli altri, se non sono sensibile e non mi impegno, posso anche essere privo di peccati, ma vivo in una situazione di peccato» (E. Ronchi).
In questa pagina di Vangelo il Signore non ci appare come un bonaccione che caccia dentro al suo Regno tutti con una pacca sulla spalla e non è neanche un professore sessantottino che promuove tutti con il sei politico. La scena del Giudizio finale ci fa capire che il Signore prende sul serio le nostre azioni. Per lui non siamo marionette tenute dai fili di un grande burattinaio, ma siamo figli responsabili, chiamati a far fruttare le qualità che ci ha dato, qualità con cui possiamo far crescere la sua famiglia, perché costruiamo il cantiere che è la comunità, espressione della comunione effusa dallo Spirito. Rinnoviamo tutti l’impegno di essere costruttori di comunità: messaggio che ci rilancia Tonino.

Omelia nella S.Messa per la Giornata del Malato

San Marino Città (RSM), chiesa dei Santi Pietro, Marino e Leone, 11 febbraio 2023

Is 53, 1-5.7-10
Sal 102
Lc 1, 39-56

La liturgia della Parola ci presenta, nella Prima Lettura, il cosiddetto “Carme del Servo Sofferente” e il Vangelo della Visitazione di Maria ad Elisabetta, con il cantico del Magnificat: ambedue i testi parlano di Gesù. Il Servo Sofferente che prende su di sé il peccato dell’umanità, che redime con la sua sofferenza e diventa luce per le genti è il medesimo che Giovanni Battista, dal grembo di Elisabetta, sua mamma, già riconosce e saluta danzando. La Visitazione di Maria, in fondo, è una visitazione del Signore: Maria è l’arca che lo porta. Ognuno di noi oggi è qui per consegnare alla Madre la sofferenza, il dolore, la sua lotta personale e quella di tanti altri, ma viene invitato, sommessamente, dalla liturgia ad uscire da sé, ad alzare lo sguardo, a contemplare il Signore. Succede a tutti di ripiegarsi su di sé, soprattutto quando si è sotto un peso che schiaccia. Ci si lamenta, non si trattengono le lacrime. Ci dobbiamo aiutare, in questo momento, almeno per un attimo, a volgere uno sguardo d’amore, di riconoscenza, di compassione a «colui che hanno trafitto» (cfr. Gv 19,37), Gesù.
Mi hanno raccontato che padre Pio da Pietrelcina, quando ha ricevuto le stigmate, piangeva non per sé, per il male che sentiva, ma per il pensiero di quanto Gesù aveva sofferto. Aiutiamoci a non piangere su noi stessi, almeno per un momento, ma sul Signore, e in particolare sul suo Corpo Mistico che è l’umanità: Lui è il capo, noi umani le membra, membra che soffrono (ricordiamo le vittime e i sopravvissuti al terremoto… Ma di terremoti ce ne sono di tutti i tipi).

Chi è, dunque, il servo misterioso di cui parla il profeta Isaia? Alcuni ritengono che il profeta parli di se stesso; qualcuno pensa sia un’allusione al popolo di Israele, sempre umiliato, percosso, esiliato; qualcun altro pensa sia figura di ogni uomo che si mantiene fedele al bene e alla libertà, a costo della sofferenza, a costo di pagare di persona (in questo momento storico un popolo intero, l’Ucraina, sta difendendo la sua indipendenza). Questo carme, superando i confini dello spazio e del tempo, preannuncia misteriosamente Gesù, il vero Servo del Signore, prediletto dal Padre, Salvatore del mondo attraverso l’offerta della propria vita, poi glorificato da Dio e divenuto luce degli uomini. Gli evangelisti, e poi la tradizione cristiana, hanno sempre dato questa interpretazione. In effetti sembra che questa pagina profetica sia in anteprima il racconto della Passione. Il servo svolge la sua missione con dolcezza e con fermezza di fronte alla sofferenza, agnello di Dio che prende su di sé il peccato del mondo e accetta la sofferenza ingiusta, l’accetta in silenzio, senza difendersi, senza chiedere la punizione dei nemici. Dopo la risurrezione la Chiesa ha continuato a rendere presente nel mondo il mistero salvifico di Gesù: «Dalle sue piaghe siamo stati risanati», «Dalla sua pienezza noi tutti abbiamo ricevuto…».
Il discorso qui si sposta un po’. Ogni cristiano può essere servo del Signore, può continuare a rendere presente ciò che Gesù ha già realizzato, perché, in forza del Battesimo, è unito a Cristo, è una cosa sola con Lui e, come Lui – se accetta – diventa membra della redenzione. Ogni dolore fisico, spirituale, morale, ogni fragilità possono essere offerti per amore.
C’è un ministero della sofferenza, prima o poi per tutti, che viene riconosciuto e consacrato da un sacramento specifico che è l’Unzione degli infermi.
Il cristiano prolunga il ministero del Servo sofferente facendosi carico anche, con la parola e con le opere, delle sofferenze dei fratelli. Dobbiamo allargare l’orizzonte e considerare come servi del Signore coloro che portano la croce che dal mondo viene messa sulle loro spalle. Penso alla fatica e all’impegno quotidiano di chi cerca la pace, la giustizia, di chi si spende per gli altri. Anche questa ministerialità viene riconosciuta e santificata dall’unzione-sacramento, quella della Cresima.
Dice papa Francesco parlando della globalizzazione dell’indifferenza: «Vivere indifferenti davanti al dolore non è una scelta possibile». «La malattia fa parte dell’esperienza umana»: prima o poi tutti passiamo attraverso questa strada. Ma essa può diventare disumana. È umana perché di tutti gli umani, ma è disumana «quando è vissuta nell’isolamento e nell’abbandono». Eppure, attraverso l’esperienza della fragilità e della malattia, possiamo imparare a camminare insieme con lo stile di Gesù.
Ho imparato molto da mio fratello missionario, padre Silvio: era paraplegico, è stato più di cinquant’anni su una sedia a rotelle. Quando era ora di partire per tornare in Africa – veniva a casa ogni tre anni – andava da solo. I nostri genitori erano preoccupati, ma lui li rassicurava dicendo che, quando arrivava all’aeroporto, vedendolo su una carrozzina andavano a gara per aiutarlo. Di fronte alla sofferenza gli altri tirano fuori il meglio: l’amore che hanno dentro. L’esperienza della fragilità e della malattia è disumana, soprattutto quando vissuta nell’abbandono e nella solitudine, ma può essere la molla per farci riscoprire la fraternità. Nel suo Messaggio per la XXXI Giornata Mondiale del Malato il Papa ci ha affidato l’icona del buon samaritano. Sottolineo un particolare: il buon samaritano, all’inizio del brano, fa esercizio di fraternità e di cura a tu per tu, ma poi la cura si allarga ad una cura organizzata. C’è il pericolo che un certo tipo di pensiero di cultura e di filosofia, non faccia riferimento a criteri sicuri per la scelta dei valori più importanti nella pratica sanitaria e nella politica sanitaria. Che cos’è assolutamente dovuto alla persona malata? Il rischio è di rispondere: «Ciò che i bilanci preventivi consentono». Questa risposta ha una parte di verità, ma, se diventa l’unica, insidia la cultura del primato della persona. Oggi è più che mai necessario un supplemento di sapienza, di saggezza, che sappia vedere chiaramente qual è il bene intangibile della persona e individuare quanto ne debba essere assicurato. Impariamo dal Signore ad essere una comunità che cammina insieme, capace di non lasciarsi contagiare dalla cultura dello scarto.
Mi metto, ora, davanti al Vangelo della Visitazione: Maria si mette in viaggio verso la montagna, raggiunge in fretta la casa di Elisabetta, che è anziana e gravida al sesto mese. La visita di Maria alla grande casa che è la Chiesa e alle nostre case è attualità, come lo è stato a Lourdes per prendersi cura di noi peccatori, «adesso e nell’ora della nostra morte». Così sia.

Quaresima missionaria

È consuetudine in Diocesi concretizzare le proposte della Quaresima – preghiera, digiuno ed elemosina – indicando un obiettivo concreto, possibile, coinvolgente singoli e comunità. Ufficio missionario e Caritas hanno scelto di concorrere alla costruzione di una scuola nella Repubblica Democratica del Congo, precisamente nella Diocesi di Isiro-Niangara, di cui è originario il nostro don Jean-Florent Angolafale (amministratore parrocchiale di Talamello, unità pastorale di Novafeltria).
Abbiamo ancora negli occhi e nel cuore le immagini della recente visita pastorale di papa Francesco in terra d’Africa. Le necessità sono tante, ma l’opera più urgente è la formazione: preparare “uomini nuovi” per un’Africa sempre più protagonista.

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“Appuntamento a Pasqua”: pomeriggio di spiritualità unitario

Chi l’ha detto che la Quaresima debba essere un tempo lugubre e amaro? Il canto che ritorna di frequente in questi quaranta giorni – il Salmo 50 – suggerisce il contrario: «Signore, rendimi la gioia di essere salvato». Dunque, un’attesa di gioia! La gioia è una dimensione della Quaresima; nel suo svolgimento il credente sperimenterà la gioia di sentirsi amato da Dio e la gioia di essere salvato da Cristo: è il mistero della Pasqua.

Si parte dal mercoledì delle Ceneri (22 febbraio) per puntare decisamente alla Veglia pasquale (la notte fra l’8 e il 9 aprile). “Quaresima e gioia” è una combinata che sembra rimbalzare sullo sfondo della primavera che trionfa sull’inverno. C’è un versetto del Cantico dei Cantici che risuona nella liturgia con l’armonia di un flauto dolce, è l’invito alla gioia di un innamorato: «L’inverno è passato, è cessata la pioggia, se n’è andata; i fiori sono apparsi nei campi, il tempo del canto è tornato…» (Cant 2,11).

Da qualche anno, gruppi, associazioni, movimenti hanno deciso di entrare insieme in Quaresima (come già per l’Avvento): una mezza giornata di intensa spiritualità, aperta a tutti. I vantaggi sono evidenti: superamento di una certa frammentarietà, maggiore ricchezza di stimoli, più ampia disponibilità di risorse.
L’iniziativa vuole essere un segno di come l’Anno Liturgico debba essere affrontato e percorso non individualisticamente dal singolo cristiano, quanto dalla comunità intera che vi si impegna e vi si esprime. In effetti, la proposta fatta dagli Uffici Pastorali diocesani rende più tangibile questo principio. La Quaresima non è un tempo privato, ma pubblico, senza nulla togliere al coinvolgimento e all’impegno personale. Come tale, comporta un programma, una successione di domeniche, organizzate secondo una coerenza complessiva.

Domenica 26 febbraio è la prima tappa dell’itinerario orientato alla Pasqua, centro dell’Anno Liturgico. Il pomeriggio verrà aperto e concluso dal Vescovo Andrea. A suggerire i temi di riflessione sarà mons. Francesco Lambiasi, vescovo emerito di Rimini, particolarmente apprezzato e amato, che aiuterà i partecipanti a sviluppare le tappe del percorso (ciclo annuale A).

L’itinerario della Quaresima nel ciclo liturgico dell’anno A

È un itinerario fortemente caratterizzato dalla tematica battesimale e costituisce la traccia per il catecumenato.
I quaranta giorni della Quaresima sono un tempo di particolare grazia e di forte esperienza ecclesiale: non si va da soli, ma si avanza “in cordata”.
La preghiera, il digiuno, la condivisione, l’intercessione dei santi e della Madonna, uniti alla grazia di Cristo, sono un tesoro a cui tutti possono attingere, un camminare “a corpo”.
Quest’anno la Quaresima missionaria propone di convogliare l’elemosina nel progetto “Scuola Murupi”: si partecipa alla costruzione di una scuola elementare nella Repubblica Democratica del Congo (diocesi di Isiro-Niangara).

La prima tappa pone il catecumeno di fronte all’esperienza drammatica delle tentazioni di Gesù nel deserto. Egli condivide con gli uomini l’asperità del cammino verso la libertà. Insegnamento necessario per chi muove i primi passi.
La seconda tappa si apre con uno squarcio di futuro e di speranza: la Trasfigurazione. I discepoli possono guardare con audacia la meta della loro trasfigurazione per mezzo del Battesimo. Intanto possono trasformare la realtà in cui sono immersi con l’amore che dà senso a tutte le cose.
La terza tappa presenta Gesù che chiede e offre acqua da bere alla donna samaritana: è un’acqua viva capace di colmare i desideri più profondi del cuore.
La quarta tappa vede in Gesù colui che dona la vista ad un cieco dalla nascita. Come nelle tappe precedenti, è anticipata la realtà del Battesimo, considerato come esperienza di purificazione e di luce.
L’ultima tappa prima della Settimana Santa ripropone il segno della risurrezione dell’amico Lazzaro, promessa di una pienezza di vita: la vita nuova in Cristo.

Quaranta giorni speciali! Giorni di cammino, di gioia e di speranza, come i quaranta giorni di Mosè sul monte; come i quaranta giorni di cammino del profeta Elia verso l’Oreb, come i quaranta giorni trascorsi da Gesù nel deserto…
Tutta la Chiesa si mette sulle orme del suo Maestro e avanza. La meta? Per i catecumeni il Battesimo; per i fedeli la rinnovazione delle promesse battesimali; per tutti «l’unica cosa necessaria» (cf. Lc 10,45): in Quaresima si cammina e si sta! Si sta seduti ai piedi di Cristo per ascoltare la sua Parola; si cammina fuori da se stessi e dal proprio peccato.

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