Omelia nella Festa di San Leo

San Leo (RN), Cattedrale, 1° agosto 2022

Gn 12,1-4
Sal 16
Fl 4,4-9
Mt 7,21-27

1.

Cari amici, siamo saliti sul monte. Poggiamo i piedi sulla roccia del monte Feretro. Abbiamo percorso lo stesso sentiero che san Leone ha tracciato rivivendo l’esperienza spirituale di Abramo: «Vattene dal tuo paese, dalla tua patria e dalla casa di tuo padre, verso il paese che io ti indicherò» (Gn 12,1). Per fede. Solo per fede.

2.

Mettersi in cammino e salire montagne ci riporta allo stile di Gesù. Cinque sono i monti che hanno un significato particolare nei Vangeli (specialmente in Matteo). Saliamo su questi monti accompagnati dal Salmo 16 che caratterizza questa liturgia. La salita al monte ha di per sé una forte valenza simbolica: salire comporta fatica e distacco, ma anche orizzonti che si aprono e visioni che si allargano; chi sale sul monte vive una certa solitudine e profondi silenzi, ma diventa sempre più solidale con i compagni di viaggio. Che cosa hanno in comune queste cinque montagne? Hanno in comune l’annuncio della gioia. Saliamo.

3.

Sul monte delle Beatitudini (cfr. Mt 5,1-12). C’è tanta folla. Gesù sale nel punto più alto della collina. Sarà per farsi ascoltare? Per farsi vedere da tutti? Probabilmente quel suo piglio solenne ha un altro significato: quello che sta per dire è assai importante, sta per parlare con il massimo della sua autorevolezza. Dalla sua postazione vede volti e cuori. Sa quello che c’è in ciascuno. Conosci dolori, lacrime, speranze, attese. Vede me, vede te che ascolti, vede ognuno di noi, povero o perseguitato, amante della giustizia e costruttore di pace… Per ben otto volte ripete: “Beati”, cioè felici. Gesù si occupa della nostra felicità. Felicità: parola grossa. A noi basterebbe molto meno. Soprattutto non ci piace una felicità differita, rinviata all’aldilà. A prima vista parrebbe che Gesù intenda proprio così, ma le sue parole dicono altro. I poveri, i piangenti, i perseguitati, sono beati adesso perché Dio è dalla loro parte. Dio non ama le lacrime, ma quelli che piangono. Non ama il dolore, ama chi lo porta. Sussurra al nostro cuore: «Sono con te nel riflesso più profondo delle tue lacrime per moltiplicare il coraggio, per fasciare le ferite». Chiede di salire sul monte, cioè di fare nostro il suo atteggiamento, per tirarci fuori dalla mentalità corrente e per vedere Dio all’opera nella nostra vita. Dunque, non un’esortazione: «Beati sarete se…», ma una constatazione: «Beati siete!». «Ho detto a Dio: sei tu il mio Signore, senza di te non ho alcun bene» (Sal 16,2).

4.

Sul monte della preghiera (cfr. Lc 6,12-16; 11,1-2). Sul monte della preghiera il Signore prepara i discepoli e li attende. Nell’intimità dell’incontro parla così: «Non angustiatevi per nulla, ma in ogni necessità esponete a Dio le vostre richieste con preghiere, suppliche e ringraziamenti, e la pace di Dio, che sorpassa ogni intelligenza, custodirà i vostri cuori e i vostri pensieri in Cristo Gesù». Non è intimismo, semmai è speranza e voglia di continuare a spendersi e a donarsi: «Il Signore ama chi dona con gioia» (2Cor 9,7). «Io pongo sempre innanzi a me il Signore, sta alla mia destra, non posso vacillare» (Sal 16,8).

5.

Sul monte della Trasfigurazione (cfr. Mt 17,1-8). Gesù sta per salire a Gerusalemme: l’attendono il tradimento, la cattura, il processo, l’abbandono, la condanna, la crocifissione. Solitamente si interpreta la trasfigurazione come anticipazione della risurrezione: siano forti i discepoli e non si perdano d’animo quando arriverà il momento della prova. Tutto era previsto!

Preferisco un’altra lettura, altrettanto possibile. Gesù si trasfigura e diventa fulgore e datore di gioia, proprio in quel frangente. La trasfigurazione non è luce promessa per domani, ma è amore che rende luminosi anche il dolore, la fatica, l’assenza di vie di fuga, da subito. È proprio “nel mentre” – perdonate la forma sgrammaticata – che accade lo splendore della verità che è l’amore. L’amore trasfigura. Trasfigura le cose ardue, i passaggi difficili, persino i fallimenti. Se le onde sembrano travolgere il cuore, al fondo c’è calma: «Il Signore è mia parte di eredità e mio calice: nelle tue mani è la mia vita» (Sal 16,5).

6.

Sul Golgota (cfr. Gv 19,17). Gesù viene estromesso dalla città. Come Isacco sale l’erta della montagna del sacrificio. Sulla croce è spogliato di tutto: perde il suo posto in sinagoga, le folle, gli amici, persino la percezione della prossimità del Padre. Gesù, l’Abbandonato! Nello smarrimento di Gesù possiamo vedere i nostri smarrimenti; nel suo perdere il nostro perdere, nella sua oscurità, la nostra oscurità. È un’esperienza dolorosa, ma anche di fiducia e di liberazione. Appena un accenno all’attualità: siamo in un’epoca di smarrimento; non tanto sul piano etico. Anche. Ma soprattutto sul piano del pensare. Qualcuno ha parlato di “notte culturale”; c’è chi denuncia i cedimenti strutturali nell’antropologia (ad esempio scambiare per diritti quelli che sono ingiustizie palesi, come l’aborto, soppressione di una creatura indifesa) e architravi dell’umanesimo che vacillano (nel Vangelo appena proclamato abbiamo sentito la parabola dei due architetti: quello che sapiente che costruisce sulla roccia e quello sprovveduto che costruisce sulla sabbia). Così chiude il suo romanzo uno scrittore americano del ‘900: «Ahimè, mi manca il coraggio e il cuore mi si spezza! Signore, abbiate pietà del cristiano che dubita, dell’incredulo che vorrebbe credere, del forzato della vita che si imbarca solo nella notte, sotto un firmamento che non è più rischiarato dai fari dell’antica speranza» (Thomas Hardy). C’è chi, spaventato, si ancora alla cultura già appresa e non s’arrischia su nuovi cammini. C’è chi vorrebbe affrettare la nascita del nuovo come per incanto, strattonando. C’è chi, non volendo scomodarsi, rinuncia a cercare e lascia ad altri la fatica del cambiamento.
Gesù crocifisso è speranza. È cifra dell’essenziale. Di ciò che resta. In lui la vera modernità: il permanente valore della vita spesa per amore. «Signore, mi indicherai il sentiero della vita, gioia piena nella tua presenza, dolcezza senza fine alla tua destra» (Sal 16,11).

7.

Sul monte dell’Ascensione (cfr. Mt 28,16-20). Siamo sul monte dell’Ascensione, ma preferisco chiamarlo “monte della missione”. Gesù ha dato appuntamento ai discepoli nella Galilea delle genti: da lì era partito. I discepoli non mancano all’appuntamento: vedono Gesù Risorto, lo adorano, alcuni dubitano… Nonostante ciò, Gesù si avvicina, dà loro fiducia; per il potere che gli è stato dato in cielo e in terra dice: «Andate, dunque, e ammaestrate tutte le nazioni» (Mt 28,19). E aggiunge: «Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo» (Mt 28,20). Li manda liberi, leggeri, solo col Vangelo. Scrive un autore contemporaneo: «In questo tempo che non si capisce se è un tramonto o un’aurora, il compito dei credenti è ancora quello di tenere accesa, per il bene di tutti, la semplice fiamma della via evangelica. Forse più nessuno si aspetta seriamente qualcosa dalla Chiesa. Eppure, tutte le volte che essa restituisce ossigeno alla fiamma del Vangelo qualcuno alza lo sguardo. Magari solo da lontano la osservano come un segnale da non perdere d’occhio. Essa non deve pretendere di mettersi alla testa di tutti. La luce che ha fra le mani è anzitutto per se stessa. Per non smarrire la strada. Ma quando è capace di tenerla viva, i suoi riflessi trascinano anche le moltitudini. La Chiesa torna ad essere degna dello sguardo umano quando offre il suo disarmato e gratuito chiarore. Ovunque essa sia» (G. Zanchi, L’arte di accendere la luce, p. 10). Proprio in questo tempo di fragilità è necessario continuare a credere nello Spirito che genera e rigenera la comunità e continuare a vivere il Vangelo che ci è stato affidato, senza preoccuparsi troppo dei numeri. Accettando la nostra fragilità, rimanere fedeli. Innanzitutto, rimanere fedeli all’essenziale. Nella gioia. Sì, è così: «La gioia del Vangelo riempie il cuore e la vita intera di coloro che incontrano con Gesù […]. Con Gesù Cristo sempre nasce e rinasce la gioia» (EG 1).

Omelia nella XVIII domenica del Tempo Ordinario

Chiusi della Verna (AR), Colonia sammarinese, 31 luglio 2022

Qo 1,2;2,21-23
Sal 89
Col 3,1-5.9-11
Lc 12,13-21

Fino al cap. 9 del Vangelo di Luca, Gesù si reca dove la gente ha bisogno di lui: va a curare ammalati, va ad incontrare persone che hanno mancanza di insegnamenti, si intrattiene con i bambini. Dalla fine del cap. 9 in poi Gesù ha in mente solo una cosa: arrivare a Gerusalemme, la città santa. Gesù ha fretta, perché a Gerusalemme deve compiersi un passaggio difficile e bellissimo ad un tempo: la sua Pasqua, la sua morte in croce e la sua risurrezione, cioè la redenzione. Gesù è pieno di questa tensione per il Regno di Dio che sta per accadere, un avvenimento travolgente che mobilita tutto il suo cuore e l’entusiasmo dei primi discepoli. Immaginate Gesù in cammino, di fretta; gli si fa incontro una persona che gli pone una questione che per Gesù è del tutto secondaria, non perché non voglia immischiarsi in vicende famigliari penose, ma per l’urgenza dell’avvento del Regno di Dio sulla terra. Quella persona, dopo la morte del padre, gli chiede di fare da arbitro tra lui e suo fratello maggiore in merito all’eredità. Il padre aveva un’azienda e, secondo la legislazione dell’epoca, il figlio maggiore avrebbe ereditato tutti i beni immobili (case, terreni, attività avviate…). Tuttavia, i fratelli più giovani potevano chiedere un risarcimento. Ciò era fonte di grandi litigi famigliari. Il figlio più giovane va da Gesù e gli chiede: «Maestro, fai tu da arbitro in questa vicenda». Ma Gesù si sottrae: non è venuto sulla terra per fare l’avvocato! Anche se avrebbe potuto dire di fare metà per uno, oppure di dare al più grande una parte maggiore e al più piccolo una parte minore, in realtà Gesù sposta la questione più a monte: «Che rapporto hai con le cose, con il denaro? Dove hai il tuo cuore?». Gesù non è contrario ai beni della terra, ma, se hai il cuore solamente nel tuo smartphone, in quel vestito, nel denaro, quelle cose diventano i tuoi padroni, ne sei schiavo.
Gesù racconta una parabola. C’è un uomo che ha molta terra, il raccolto va straordinariamente bene e ciò diventa una preoccupazione: riempie i suoi magazzini di frumento, ma non ci sta tutto. Allora deve costruire altri magazzini, altri silos: è tutto preso da questo. Quell’uomo però è molto solo, parla tra sè: «I miei beni, i miei magazzini, la mia vita, il mio futuro…». Tutto è suo, è blindato dentro al proprio io. Ad un certo punto si sente una voce fuori campo che dice: «Stolto! Questa notte stessa ti porteranno via l’anima, morirai: che te ne fai dei tuoi tesori?».
È un invito ad usare bene le proprie ricchezze. Se uno è pieno di cupidigia, diventa infelice, perde la libertà, è sempre preoccupato. Le ricchezze si possono usare in due modi: per se stessi, fino al punto di diventare ingiusti con gli altri, oppure per la condivisione, per arricchire davanti al Signore. Cosa vuol dire arricchire davanti al Signore? Fare molte preghiere? Fare molta carità? Tutte cose buone… Si arricchisce davanti a Dio lavorando senza affanno, ma soprattutto aiutando il prossimo, creando legami di amicizia. Ho conosciuto persone talmente ripiegate su di sé, indaffarate, prese dal lavoro, che hanno perso la salute, la famiglia, l’amicizia col Signore.
Concludo con un racconto. Un cowboy voleva avere dei terreni che erano di una tribù di indiani. È andato a chiederli al capo tribù, ma non poteva cederli: erano dei loro padri. Il cowboy insistette. Il capo tribù fece questa proposta: «Ti diamo tutta la terra che vuoi; domattina, quando sorge il sole, parti dalla mia tenda e fai un giro che abbracci tutto ciò che desideri. Tutto quello che riesci a prendere dentro nel tuo giro sarà tuo… Così non faremo guerre tra noi». Secondo i patti, la mattina seguente il cowboy partì. Vide delle belle colline e le volle circoscrivere per conquistarle; vide un lago e volle anche quello, poi una prateria, un terreno coltivabile… Ormai il sole tramontava e fu costretto a rientrare. Quando arrivò davanti alla tenda del capo tribù stramazzò a terra morto stecchito. Chi troppo vuole, nulla stringe!
L’insegnamento di Gesù è moderno. Cari ragazzi, abituatevi ad essere liberi e generosi. Qui in Colonia siete come in un laboratorio: cercate di sperimentare una società più bella, in cui si condivide quello che si ha… Domani potrete esportare in tutta la Repubblica quello che qui sperimentate.

Omelia nella XVII domenica del Tempo Ordinario

San Marino Città (RSM), 24 luglio 2022

2a Giornata mondiale dei nonni e degli anziani

Gen 18,20-32
Sal 137
Col 2,12-14
Lc 11,1-13

L’Eucaristia, oggi, si carica di un ulteriore motivo: dire grazie al Signore per il dono e la presenza dei nonni e degli anziani. La Chiesa vuol fare festa a coloro che il Signore – come dice la Bibbia – «ha saziato di giorni». Una lunga vita è una benedizione e gli anziani sono un segno vivente della benevolenza di Dio che elargisce la vita in abbondanza. «Benedetta la casa che custodisce un anziano – scrive papa Francesco –, benedetta la famiglia che onora i suoi nonni» (Papa Francesco, Messaggio per la Giornata Mondiale dei nonni e degli anziani, 2022). Questo messaggio va controcorrente rispetto a ciò che talvolta si pensa di questa età della vita e anche rispetto all’atteggiamento, a volte rassegnato, di alcuni anziani che vanno avanti con poca speranza e senza più attendere nulla dal futuro. In effetti, la vecchiaia è una stagione non facile da comprendere per due motivi. Nonostante arrivi dopo un lungo cammino, nessuno prepara ad affrontarla, sembra quasi cogliere di sorpresa. Inoltre, la società spende molto per questa età della vita, e questo è bello, ma non sempre aiuta ad interpretarla: «Si offrono piani di assistenza, ma non sempre progetti di esistenza» (Papa Francesco, Catechesi sulla vecchiaia, 23.2.2022). È difficile guardare al futuro e cogliere l’orizzonte verso il quale tendere. Da una parte la tentazione di esorcizzare la vecchiaia, nascondendo le rughe, facendo finta d’esser giovani; dall’altra sembra che non si possa fare altro che vivere in maniera disillusa, rassegnati a non aver più frutti da portare. Ma ecco, la consegna che ci viene offerta in questa Giornata dei nonni e degli anziani: «Nella vecchiaia essi daranno ancora frutti» (Sal 91,15). Come vivere questa parola? Vivendo la relazione, la grande risorsa del cuore. Si possono perdere l’udito e la vista, ma il cuore non perde colpi!
Mi sono chiesto che cosa pensi Gesù dell’anzianità, lui che è morto giovane (a trenta o trentatré anni). Che cosa ne sa Gesù di ciò che vive una persona di settant’anni? Mi sovviene un testo che ci fa capire come Gesù, pur non avendo raggiunto l’anzianità, abbia saputo interpretarla: «Avendo amato i suoi, li amò sino alla fine» (Gv 13,1). Non c’è fine nell’amore! «Quando dici basta nell’amore, sei finito» (Sant’Agostino, Sermo 169, 15 [PL 38, 926]).
Per vivere la relazione è fondamentale condurre una vita attiva dal punto di vista spirituale. Molte volte abbiamo fatto “da Marta” nella vita, ora può essere più consona la vita “da Maria” di Betania: coltiviamo la vita interiore attraverso la lettura della Parola di Dio, la preghiera quotidiana, la consuetudine dei sacramenti. Poi, per portare frutto, insieme alla relazione con Dio occorre curare il rapporto con gli altri, con la famiglia, a cui offrire attenzione e affetto; spostare l’attenzione da sé verso gli altri. Quando ti chiedono “come stai?” e ti viene da iniziare il racconto di tutti gli acciacchi, replicare subito con: «E tu come stai? Che cosa stai vivendo in questo periodo? Che cosa passa per il tuo cuore?». Tutto questo può aiutare a non sentirsi spettatori nel teatro del mondo e della vita.
Papa Francesco parla della rivoluzione della tenerezza. L’ho avvertita ieri quando sono stato a celebrare la S.Messa in una Casa di riposo; ho visto l’attenzione e la prossimità agli anziani di tante persone. «Una rivoluzione – dice il Papa – disarmata e spirituale; una conversione che smilitarizza i cuori, permettendo a ciascuno di riconoscere nell’altro un fratello» (Papa Francesco, idem).
I nonni e gli anziani hanno una grande responsabilità. Siamo passati tutti sulle ginocchia dei nonni che ci hanno tenuto in braccio e hanno maturato una saggia e utile consapevolezza di cui il mondo ha tanto bisogno: non ci si salva da soli! La felicità è un pane che si mangia insieme.
Per gli anziani “più anziani”: anche il lasciarsi accudire, spesso da persone che vengono da altri paesi, è un modo per dire che vivere insieme non solo è possibile, ma necessario.
Il Papa invita i nonni a valorizzare lo strumento più prezioso a disposizione: la preghiera.
Permettete qualche sottolineatura sul brano di Vangelo proclamato poco fa dal diacono. Innanzitutto avrete notato lo stupore dei discepoli nel vedere come Gesù pregava. Anche noi siamo curiosi di conoscere il luogo adatto, il tempo migliore: «Signore, facci entrare nella tua preghiera!». Di solito i discepoli non fanno domande nei Vangeli, è rarissimo. È Gesù che fa le domande, è il suo metodo di argomentare: fare domande per suscitare la partecipazione dell’ascoltatore. Ma qui sono loro che chiedono: «Signore, insegnaci a pregare». Si chiedono se usa una raccolta di preghiere o se ha dei metodi privilegiati, come Giovanni Battista insegnava ai suoi discepoli o come gli Esseni che, nel deserto, facevano lunghe preghiere… Gesù non ha composto un libro di preghiere, ma ci insegna che la preghiera è un rapporto, una relazione. Gesù risponde: «Quando pregate, dite: Padre».
Poi c’è un elenco, quasi una traccia, per dire che con il Padre bisogna discorrere, avere perseveranza e audacia.
Ci sono preghiere che ci sembra non vengano esaudite… Ma la preghiera è per vivere con il Signore la nostra vita, per vivere con lui le nostre difficoltà. Il Padre non è il genio della lampada di Aladino, ai nostri ordini! L’evangelista Luca non vuole fondare la preghiera sull’illusione che basti chiedere qualsiasi cosa a Dio per essere immancabilmente esauditi. La preghiera, infatti, non deve essere considerata un mezzo per fare pressione su Dio, perché cambi idea e per ottenere che Egli ceda dinanzi ai nostri desideri. Solo la preghiera che ci apre all’azione dello Spirito Santo, un’azione che ci conforma ai desideri di Dio e alle sue esigenze, è una preghiera autentica. Così sia.

Omelia nella XVI domenica del Tempo Ordinario

Pennabilli (RN), Cappella del Vescovado, 17 luglio 2022

Gn 18,1-10
Sal 14
Col 1,24-28
Lc 10,38-42

«Gesù, sei un grande camminatore! Continui a camminare per le vie assolate della Palestina; dietro a te un grappolo di persone coraggiose che ti seguono e condividono il tuo sogno: tu senti di appartenere alla famiglia umana e vuoi che ogni fratello sia raggiunto dalla buona notizia del Vangelo, dall’annuncio di una liberazione che dà gioia e fa sentire la fraternità».

Ad un certo punto, Gesù sente il bisogno di una pausa. Entra in un villaggio. Era stato nei villaggi dei samaritani, dai quali era stato respinto, ora va a Betania, presso la casa di due sorelle, Maria e Marta; di loro abbiamo informazioni anche dall’evangelista Giovanni. Si fa avanti per prima Marta, che accoglie Gesù con gioia e organizza subito un pranzo per lui e per le persone che sono al suo seguito.
A dire il vero, Gesù non cerca soltanto una sosta perché è stanco, ma cerca amicizia: è un cultore dell’amicizia. Nell’Ultima Cena dirà: «Non vi chiamo più servi, ma amici» (Gv 15,15). Gesù cerca amicizia ed è sensibile alla gratitudine; attende il gesto di riconoscenza e di amicizia dei lebbrosi sanati: «Solo uno è tornato a ringraziare?» (cfr. Lc 17,17). Ricorderete, poi, la scena della donna silenziosa che, nella casa di Simone, non smette di baciare i piedi del Signore; a tanto amore Gesù risponderà col suo perdono (cfr. Lc 7,36-50). Mi piace come Giotto, nell’Ultima Cena, coglie l’apostolo Giovanni che mette il suo capo sul petto di Gesù. Dunque, Gesù vuole l’amicizia, l’intimità con lui e sembra dire: «Non m’importa quello che fate per me, mi interessa che voi siate con me».

Marta accoglie Gesù come un ospite di riguardo: lo chiama Signore, che è il termine col quale Gesù viene chiamato dopo la risurrezione. Maria si mette in cammino “stando seduta”. Sembra un controsenso! In realtà, sedendosi ai piedi di Gesù, mette in cammino il suo cuore, bevendo la sua Parola.
Ricordo una cara signora, la maestra Rina, che mi diceva: «Per stare in piedi bisogna stare in ginocchio» (una frase che diceva spesso anche don Oreste Benzi). Maria ha intuito quanto sia importante fermarsi per ascoltare il Signore: è la vera discepola! Quando Gesù si reca da qualcuno, non va per prendere, ma per dare: «C’è più gioia a dare che a ricevere» (At 20,35), insegnerà un giorno. Maria ne approfitta: Gesù le dona la sua Parola. Gesù vorrebbe che anche Marta potesse ricevere il dono della Parola, infatti la invita, ma Marta protesta la sua preoccupazione dicendo: «Signore, non t’importa che mia sorella sia distratta?». In verità, “distratta” è Marta, distratta dalle molte cose che deve fare. Sicché Marta rimane là dove gli uomini dell’epoca rinchiudevano le donne, cioè nella cucina, negli affari domestici, mentre invece Gesù introduce un seme di cambiamento di mentalità. Alla donna, infatti, non era consentito partecipare, come agli uomini, alle liturgie sinagogali; le donne avevano un posto riservato dal quale assistervi. Un testo del Talmud dice che la Torah preferisce «andare a bruciare nel fuoco piuttosto che essere messa nelle mani delle donne». È facilmente riconoscibile la mano di Luca, che non solo ama sottolineare la libertà di Gesù di fronte ai tabù religioso-culturali del suo ambiente, ma anche il ruolo dinamico delle donne nella nuova comunità messianica, non solo a livello pratico (cfr. At 9,36), ma anche nel compito dell’annuncio e della catechesi (cfr. At 18,26). Mi fa piacere che, proprio in questi giorni, papa Francesco affidi ad alcune donne ruoli importanti, organizzativi, significativi nel governo della Chiesa.
Non è vero che l’atteggiamento di Maria sia di disimpegno; in verità, Maria sta “facendo” ascoltando. Lo stare con Gesù non dis-trae, ma concentra e ti porta a compiere quello che sei chiamato a fare con attenzione di amore e di servizio. In Marta possiamo riconoscere l’atteggiamento interiore che ci porta a colmare il nostro tempo di “cose da fare”. C’è – per così dire –  la paura della solitudine o di essere soli con se stessi: «Non t’importa nulla che mia sorella mi abbia lasciata sola?». Allora il lavoro può diventare come una “droga” che stordisce: è una forma dell’accidia.
Non si deve contrapporre Marta a Maria; non bisogna farne, per così dire, due biografie troppo diverse. La preoccupazione di Luca è quella di presentarci l’armonia di Betania, dove l’ancella e l’amica vanno insieme: che cosa fa Maria dopo aver ascoltato il Signore, se non mettersi a servizio? E che cosa fa Marta una volta che ha finito di darsi da fare per l’accoglienza, se non mettersi a gustare la presenza del Signore?
Qui è tracciato l’itinerario di ogni cristiano: passare dalla preoccupazione di quello che deve fare per Dio alla emozionante sorpresa di vedere quello che Dio fa per lui.

Omelia nella XV domenica del Tempo Ordinario

Pennabilli (RN), Cappella del Vescovado, 10 luglio 2022

Dt 30,10-14
Sal 18
Col 1,15-20
Lc 10,25-37

Parabola arcinota (era persino sul mio Sussidiario delle Scuole elementari…), ma vorrei gustare insieme con voi la sua novità, provare qualcosa che smuova apatia e mediocrità, per divenire fervore e decisione nella vita. Penso che questo sia possibile se la rileggiamo come fosse la prima volta, nella preghiera e nell’ascolto profondo.

Possiamo iniziare con la composizione di luogo: ci troviamo in una strada tortuosa che discende da Gerusalemme verso Gerico, una strada di 27 km, con 1.000 metri di dislivello; una strada pericolosa, con curve e con possibili sorprese: i briganti. Un’altra cosa interessante da notare è che la parabola parla di «un uomo», un uomo senza identificazione; non viene detto il nome, né la provenienza, né l’età, né se sia povero o ricco, ignorante o colto. Potremmo vedere in quell’uomo, l’umanità, tutti noi. È, in fondo, il mistero di ogni persona umana che, prima o poi, si imbatte in qualche disavventura, che gli fa provare la sua fragilità e il suo bisogno di essere aiutato. Questo è il primo personaggio della parabola.

Gesù, poi, fa entrare in scena altri tre personaggi. Il primo è un sacerdote; non ci viene detto da dove viene; si può supporre venga da Gerusalemme, dove forse ha svolto il culto e ha fretta di tornare a casa, oppure forse sta salendo a Gerusalemme per praticarlo. Nella città di Gerico vivevano, infatti, molte famiglie di sacerdoti e di leviti. Il secondo personaggio, per l’appunto, è un levita, non addetto direttamente al culto, ma dedito ai servizi che si prestano nel tempio di Gerusalemme. Ambedue questi notabili peccano di omissione di soccorso. Il lettore si scandalizza: due educatori del popolo di Dio, due addetti al tempio, al culto, non si accorgono di un uomo che giace mezzo morto lungo la strada! Non sappiamo i motivi: Gesù non lo dice. Forse la paura? Potrebbe succedere anche a loro, mentre soccorrono il malcapitato, di cadere nelle mani dei briganti, quindi preferiscono darsela a gambe. Probabilmente temono il contatto con il sangue o con un morto e così contrarre impurità rituale, che avrebbe inibito il culto. Il lettore si scandalizza; insorge in lui un sentimento di anticlericalismo. Ma Gesù sorprende introducendo il terzo viaggiatore. Ci si aspetterebbe fosse un laico israelita. Questo darebbe alla parabola un carattere di giudizio sul clero: un laico fa quello che il religioso omette! Invece Gesù fa entrare un samaritano, un mercante, che si ferma e si prodiga a favore di quel malcapitato. Dunque, Gesù va ben oltre la vena anticlericale: fa vedere come proprio questo straniero, questa persona eretica, odiata, estromessa dal popolo di Dio (così erano considerati i samaritani), compia l’azione di soccorso, di aiuto.
È interessante – molti commentatori lo sottolineano – vedere l’abbondanza di verbi che descrivono nel dettaglio l’azione di misericordia del samaritano: lo vide, gli passò accanto, ne ebbe compassione, gli si fede vicino, gli fasciò le ferite, versando olio e vino, lo caricò sulla sua cavalcatura, lo portò in un albergo, si prese cura di lui, tirò fuori due denari, li diede all’albergatore… Undici verbi: uno in più delle dieci parole del Decalogo. Sorprendente!

Torno alla questione iniziale. Il dottore della legge aveva interloquito Gesù in questo modo: «Che devo fare per avere la vita eterna?». E Gesù gli aveva risposto: «Che cosa leggi nella Scrittura?». Il dottore della legge enuncia alla perfezione i due comandamenti dell’amore di Dio e dell’amore del prossimo. Gesù conclude dicendo: «Fa’ questo e vivrai». Ma quello, quasi per giustificarsi, perché vuol avere l’ultima parola o non vuol fare la figura dello scolaretto che ha detto la lezione, replica a sua volta: «Chi è il mio prossimo?». Una questione tutt’altro che innocua: al tempo di Gesù si discuteva, in modo legalistico, fin dove arrivasse l’estensione del precetto dell’amore al prossimo: per i farisei il prossimo è chi appartiene al loro circolo; per gli esseni valeva la regola: «Ama i figli della luce, odia i figli delle tenebre». Gesù doveva prendere posizione; propone un capovolgimento: risponde alla questione non attenendosi alla casistica, ma portando un fatto, raccontando un episodio. Tant’è vero che alcuni esegeti non definiscono questa come “parabola”, ma come “racconto di comportamento”. Gesù non dice «chi è il tuo prossimo», ma invita a farsi prossimi degli altri. Il capovolgimento è soprattutto perché Gesù mette nel comportamento del samaritano – uno che è fuori dal popolo dell’Alleanza – la professione del comandamento dell’amore al prossimo; lo pone come interprete della volontà di Dio. Dal samaritano viene questa lezione!
Riassumendo, Gesù risponde non legalisticamente, ma con un’esperienza: conferma che il prossimo sei tu che ti avvicini all’altro; invita a “prendere lezione” da una persona che non ti aspetteresti.

Torniamo all’«uomo incappato nei briganti». Attualizzando la parabola non si può evitare una riflessione sulla giustizia sociale. Oggi la parabola viene letta da milioni di cristiani, i quali si mettono davanti all’esigenza della carità, a comportamenti sempre più ispirati al Vangelo, ma anche di fronte alla prospettiva della fraternità universale. Una delle forme più alte della carità e dell’amore al prossimo è la politica: «Uscire dai problemi da soli – diceva don Lorenzo Milani – è l’egoismo, sortirne insieme è la politica». Intendo la politica nel senso più ampio di partecipazione alle vicende della comunità. Allora, quando guardiamo la tv, non fermiamoci solo ai programmi di evasione, ma mettiamoci in ascolto, partecipiamo al dibattito, sentiamo i problemi dei fratelli come i nostri.
Mi piace anche considerare che il samaritano non offre soltanto l’olio che cura le ferite o il vino che placa il dolore o i due denari per l’albergatore: tutte cose utili, belle, necessarie, ma che poi gli possono ritornare in qualche modo. Il samaritano dona soprattutto il suo tempo e il tempo, una volta che è stato dato, non torna più. I maestri antichi vedono nel buon samaritano la figura stessa di Gesù, che non dà qualcosa, ma se stesso.
Vi auguro di vivere questa settimana con questa tensione positiva, costruttiva. Donare non qualcosa, ma noi stessi: attenzione, tempo, disponibilità.

Omelia nella XIV domenica del Tempo Ordinario

Ponte Cappuccini (PU), 3 luglio 2022

Is 66,10-14
Sal 65
Gal 6,14-18
Lc 10,1-12.17-20

La parola “apostolo”, da cui derivano le parole “apostolato”, “apostolico”, significa “uno che è mandato”. Ma come intendeva Gesù i suoi apostoli?
L’evangelista Luca in forma narrativa ci descrive chi è l’apostolo e che cos’è l’apostolato. Parto con un esempio che riguarda le mie origini. Sono nato in un piccolo paese sulle rive del Po. Dalle mie parti, di tanto in tanto, si trova un barcone saldamente attraccato alla riva e trasformato in ristorante. Ebbene, la Chiesa non è un barcone attraccato all’argine: è una barca a vela che solca tutti i mari. La Chiesa o è missionaria, o è “in uscita”, o non è; altrimenti smentisce se stessa. O è apostolica oppure diventa museo con opere d’arte, volumi, papiri, tradizioni… Talvolta abbiamo un’idea della Chiesa molto statica: una Chiesa costruita sulla roccia, sì, ma questo non dice tutto, perché la Chiesa per definizione è un popolo in cammino, in movimento. Anche l’istituzione non va fraintesa: è un popolo unito e compaginato, ma itinerante.

«In quel tempo, Gesù designò altri 72». Alcuni li aveva già mandati (cfr. Lc 9,51-55): erano andati per preparare il suo arrivo. Non tutti hanno accettato l’arrivo degli apostoli missionari; due di loro, Giovanni e Giacomo, hanno proposto a Gesù una punizione: «Chiediamo a Dio che mandi dal cielo un fuoco che incenerisca “i cattivi”, come è stato fatto con Sodoma e Gomorra?». Ma questo non è lo stile di Gesù! Ora ne manda altri 72, e li manda 2 a 2. Questi numeri, evidentemente, hanno anche un valore simbolico: un’aritmetica teologica! Questo uno dei possibili significati del numero 72: 72 è il prodotto di 12 per 6. 12 è il numero del nuovo popolo d’Israele, fondato sulle 12 colonne che sono gli apostoli; 6, invece, è un numero imperfetto (7 sarebbe il numero della perfezione): Gesù insinua l’idea che siamo nel tempo del cammino, in cui non c’è ancora la pienezza. Lo scorrere del tempo accompagna questo camminare verso la pienezza; un po’ come il sesto giorno della creazione trova compimento nel settimo giorno, il giorno della pienezza.
I 72 che dovranno preparare l’arrivo di Gesù devono andare 2 a 2. Non per farsi compagnia e per guardarsi le spalle, ma perché 2 è il minimo della relazione e perché, per dare testimonianza, non basta una persona sola. E gli apostoli devono portare una testimonianza; non devono piazzare dei prodotti o elaborare teorie da rovesciare addosso alla gente: sono testimoni, la loro concordia parla. Che bella la testimonianza degli sposi con il loro amore fedele, perseverante, nel dono di sé: è Vangelo che parla! Possono essere testimoni anche due colleghi, due oblati, due suore, un vescovo e un sacerdote… Gesù vuole che la testimonianza venga portata con la vita. «Il Vangelo si testimonia con la vita, qualche volta anche con le parole», diceva san Francesco. I due apostoli itineranti vanno a constatare che Gesù è già arrivato. Il loro primo compito è di saper vedere quello che Dio sta facendo nel cuore dell’uomo. Partire da qui! La messe biondeggia… Gesù non è pessimista come noi, vede la messe abbondante, il Regno di Dio che avanza.

«Pregate perché il Padre mandi chi lavora la messe». La messe c’è già! L’evangelizzazione – sto sfiorando temi di dibattito oggi nella Chiesa – non è indottrinamento. A volte qualcuno pensa che bisogna essere più aggressivi, che occorra affrontare di petto l’antropologia dominante e cambiarla, sostituirla. Dall’altra parte c’è chi pensa non sia il caso di sbilanciarsi troppo per non favorire reazioni di rifiuto. Sono entrambi eccessi, sia l’evangelizzazione aggressiva che la paura di mettersi in gioco. L’apostolo deve andare e deve mettere in evidenza il Vangelo che c’è, partire dal positivo, fare interventi costruttivi. Quante persone si impegnano per la loro famiglia, sentono dentro il cuore il desiderio di infinito, a modo loro pregano…

«Non fermatevi a salutare per strada…». Gesù non voleva certamente negare i saluti, gli abbracci e la cortesia, ma intendeva dire che l’apostolo deve avere dentro la gioia e l’urgenza del Vangelo e stare attento a non perdersi in giri di parole e in convenevoli (Gesù parlava al mondo orientale dell’epoca, in cui i saluti erano una vera e propria cerimonia quotidiana). Gesù in sostanza dice: «Entrate subito “in medias res”», poi aggiunge che questi saluti non diventino un alibi per non arrivare al dunque, per non prendere la decisione e rinviare l’annuncio.
A volte, quando ero parroco, mi capitava mi chiamassero perché era successa una disgrazia; un giorno, ad esempio, una mamma si era tolta la vita mentre il papà era al mare con i bambini. Quando mi sono venuti a chiamare ho cercato di sottrarmi con la scusa di impegni già programmati, finché lo Spirito Santo mi ha spinto ad andare ad abbracciare il dolore di quella famiglia. I saluti a cui allude Gesù vediamoli come la tentazione dei nostri rinvii, le nostre pigrizie o le scuse del non sentirsi adeguati.

Gesù ci manda «come agnelli in mezzo ai lupi». Ci invita ad avere coraggio, non perché ci sbranino (non siamo in terra di martirio), ma perché quando testimoniamo il Vangelo ci mettiamo in gioco e siamo osservati, criticati. Gesù ci esorta a non avere paura perché lui è con noi. Con questa fiducia prendiamo dal Vangelo di oggi l’impegno ad essere apostoli, ognuno nel raggio d’azione in cui il Signore lo ha posto. Così sia.

Omelia nella XIV domenica del Tempo Ordinario

Maciano (RN), 2 luglio 2022

Trigesimo di mons. Maurizio Farneti

Is 66,10-14
Sal 65
Gal 6,14-18
Lc 10,1-12.17-20

Ringrazio i sacerdoti che concelebrano con noi questa sera: don Paolo, padre Liam, don Giorgio, don Pier Luigi.
Quando abbiamo celebrato il Rito funebre per don Maurizio ci trovammo di fronte ad una pagina del Vangelo di Luca: «Se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo; se invece muore produce molto frutto» (Gv 12,24-26). Questa sera il Vangelo si è aperto mettendoci davanti un campo pieno di spighe, una messe abbondante. Il Signore ci ha detto che quella messe è sua, perché sa fare risurrezione di tutti i chicchi di grano caduti per terra che hanno accettato di morire. Promessa mantenuta! Dalla vicenda di don Maurizio e da quella di tanti dei nostri cari alziamo lo sguardo e consideriamo quanto è grande la sofferenza che è nel mondo: per tutti i sofferenti nel corpo e nell’anima la nostra preghiera.

Don Maurizio ci ha lasciato una scia di luce con la sua fede cristallina e il suo cuore sacerdotale. Lo ricordiamo così, nel dolore che lo ha tanto provato, ma anche nella luce che viene da Gesù Crocifisso. Solo Dio sa che cosa ha prodotto e produce il sacrificio del suo sacerdote e quello di ogni chicco di grano che cade per terra. San Paolo è arrivato a dire: «Nessuno mi procuri fastidi: io porto le stigmate di Gesù sul mio corpo» (Gal 6,17). Non erano probabilmente i segni della Passione come quelli portati da san Francesco o da padre Pio o da altri santi… Comunque si tratta di sofferenze vissute con Cristo. Le radici della pianta che sta nel giardino sono aggrovigliate, ma nella tensione verso il sole; le radici sono le difficoltà che incontriamo nella vita, con i suoi alti e bassi, con i momenti di gioia e i momenti di malattia; la tensione verso l’alto ci ricorda la vocazione comune verso Dio, quel Dio che in Gesù si è fatto fratello nostro. Gesù ha sofferto come noi, più di noi, e ha seminato gioia e speranza. Questa sera, Signore, ti chiediamo di saperti ascoltare e di imparare da te a vivere, amando sempre, amando tutti, amando per primi, facendoci fratelli, solidali con la sofferenza di tutti. Le prove della vita sono tante, ma sono anche una pedana di lancio per guardare in alto e sentire la gioia di vivere la tappa terrena. «Un corpo mi hai dato – il famoso chicco di frumento di cui parla Gesù – […] Ecco, io vengo per fare, o Dio, la tua volontà» (Eb 10,5.7): sono le parole che l’autore della Lettera agli Ebrei mette sulle labbra del Messia nel suo entrare nel mondo. «Ecco, io vengo per fare, o Dio, la tua volontà: la compio nel mio corpo, con il mio corpo, attraverso il corpo che mi hai dato».

Penso alla testimonianza che ci ha dato don Maurizio; penso alla vocazione che tutti noi abbiamo scritta nel nostro corpo: siamo chiamati ad assumere la responsabilità del dono del corpo che ci unisce ai fratelli e alle sorelle. Ci uniscono anche le anime, certo, ma il modo umano di essere in relazione, di essere uniti è quello attraverso il corpo. Il corpo, di per sé, vibra di vita, di relazione. Anche il corpo tende all’alto! Con il corpo esprimiamo i sentimenti, nel corpo si registra immancabilmente il passare del tempo (prova ne sono le rughe e gli acciacchi…), il corpo si piega e cade sotto il peso del tempo e della sofferenza. Gesù, nei giorni della sua vita terrena, con il corpo ha potuto esprimere la sua lode a Dio, innalzando le mani, gli occhi, benedicendo; ha espresso il suo amore per tutti i fratelli, ha lavorato, ha parlato, ha sofferto fino a dare la vita sulla croce, versando il sangue, unendosi alla sofferenza di tutti. Solo con il corpo ha potuto farlo. Gesù ha pianto per la morte di Lazzaro, ha pianto su Gerusalemme, ha pianto e sudato sangue nel Getsemani, davanti alla Passione. E, aggiunge l’autore della Lettera agli Ebrei: «Proprio per questo, nei giorni della sua vita terrena, egli offrì preghiere e suppliche con forti grida e lacrime a colui che poteva liberarlo da morte ed è stato esaudito per la sua pietà» (Eb 5,7). Voi direte: «Però è stato crocifisso…». L’esaudimento è stata la risurrezione: risurrezione nella morte!
Il pianto è il segno del dolore che viviamo per il distacco dalle persone care. Dio, che è Amore, ci aiuti a vivere questa e ogni altra sofferenza; sappiamo che la risurrezione di Gesù sarà un giorno anche la nostra. Così sia.

Omelia nella Solennità del Corpus Domini

San Marino Città (RSM), Basilica del Santo Marino, 16 giugno 2022

Gn 14,18-20
Sal 109
1Cor 11,23-26
Lc 9,11b-17

Eccellenze,
Carissimi,
in questa pagina di Vangelo i discepoli sono letteralmente spiazzati da quello che accade, e noi con loro. La gente è là ad ascoltare Gesù, senza neppure rendersi conto che il giorno ormai tramonta. I Dodici dicono a Gesù: «Congeda la folla». «Date voi stessi loro da mangiare», replica pari pari Gesù. Allora rovistano nei loro tascapani e gli offrono quel poco che hanno. Secondo il racconto di Giovanni, uno degli apostoli soggiunge: «Ma che cos’è questo per tanta gente?» (cfr. Gv 6,9). L’apostolo era Andrea. È davvero sproporzionata la risorsa rispetto alle esigenze del momento: cinque pani e due pesci! Gesù accoglie questo poco, alza gli occhi al cielo, lo benedice, lo spezza e lo restituisce ai discepoli perché lo distribuiscano alla gente.
Dopo la risurrezione, quando questi stessi apostoli saranno riuniti in comunità a Gerusalemme, diventerà loro stile di vita la condivisione dei beni. Allora constateranno con i loro occhi che la condivisione è un miracolo a nostra portata. Se siamo attenti ai bisogni, sia spirituali che materiali, dei nostri fratelli, guardando il Signore Gesù, donatore di ogni bene, la nostra carità sarà veramente utile e necessaria.
Uno dei messaggi che ci viene dalla celebrazione del Corpus Domini e da questa pagina di Vangelo in particolare è una fraternità che ci impegna. Ora siamo come quelli che si trovano a risalire per un’erta piuttosto ripida; per farcela bisogna essere in cordata. «Nessuno si salva da solo!»: molti lo stanno capendo, ma c’è anche chi rimane chiuso nel suo individualismo. Questo vale per il mondo produttivo (proprio ieri sono uscite le statistiche dell’ISTAT sulla povertà in Italia), per l’organizzazione sociale, la scuola, la Chiesa, vale per la nostra Repubblica di San Marino, per tutti noi e per le nostre famiglie. È una sfida veramente dura, ma anche bella come tutte le prove che hanno un orizzonte. E noi abbiamo un orizzonte: siamo qui per questo. Dobbiamo, allora, mantenerlo fisso questo orizzonte, anche se succede di fare fatica. Prendiamo, ad esempio, il conflitto in atto, che tutti preoccupa. Pessima cosa abituarsi all’idea che l’unico modo per risolvere le questioni sia quello della violenza, con armi e altri mezzi di questo tipo. Purtroppo, c’è una logica diabolica… È una menzogna che la guerra sia lo strumento per la risoluzione dei conflitti. Lo affermano i principi, le istituzioni del nostro Paese – San Marino –, lo afferma anche la Costituzione della vicina Italia, che «ripudia la guerra per risolvere le questioni internazionali». Questo vuol dire non rassegnarsi all’idea che i più potenti abbiano ragione, significa pensare che c’è un altro modo per resistere. I cristiani lo sanno da sempre. Eppure… quando si fa la guerra in Europa, quando si muore di fame in Africa, nel vicino Oriente, si dice – di fatto – che la morte è inevitabilmente la soluzione. Allora si decide anche di non far nascere i bambini con l’aborto. Santa Teresa di Calcutta ci ha spiegato il legame strettissimo che c’è in tutte le ideologie di morte. La mia è una esile voce, ma è resa forte, sicura, persuasiva, insieme a quella di tanti altri, che contestano queste logiche di morte, con argomenti di ragione e con argomenti di fede.
La proposta costruttiva è ancora quella che ci viene da questo Pane di Vita, Corpus Domini. L’attenzione ai più piccoli, ai più poveri, ai più deboli è una priorità. L’accoglienza e l’assicurazione di un posto per tutti attorno alla mensa, un imperativo. Il Vangelo insiste nell’osservare che la distribuzione del pane, allora, fu a favore di tutti. Non ci possono essere disuguaglianze e disunità alla tavola del Signore. Impossibile defilarsi dalle responsabilità col pretesto che non si può rimediare a tutta la miseria che c’è nel mondo. «Date loro voi stessi da mangiare»… Affida anche a me, a ciascuno di voi, attraverso la Fractio Panis sacramentale, questo impegno, questa distribuzione. Nel testo parallelo di Marco Gesù domanda: «Quanti pani avete? Andate a vedere» (Mc 6,38). Nel nostro servizio non pensiamo d’aver fatto abbastanza: che Gesù Cristo ci usi misericordia! E nel nostro impegno non pensiamo d’aver faticato invano. Il Signore sa la sincerità del nostro proposito.

Omelia nella Liturgia della Passione del Signore

Pennabilli (RN), Cattedrale, 15 aprile 2022

Is 52,13- 53,12
Sal 30
Eb 4,14-16; 5,7-9
Gv 18,1- 19,42

Il diacono ha appena chiuso il Libro della Passione del Signore secondo Giovanni. Ma resta permanentemente aperto davanti ai nostri occhi e al nostro cuore Lui, il Crocifisso, libro vivente sul quale è stato scritto col sangue l’amore di un Dio che si è fatto uomo e ha dato la vita per noi: Gesù. In Lui Dio ha detto tutto.
Mi soffermo su qualche “fotogramma” della Passione per andare più in profondità.
«Presero Gesù ed egli, portando la croce, si avviò verso il luogo detto del Cranio, in ebraico Golgota, dove lo crocifissero». Il Golgota è un leggero rialzamento nel terreno appena fuori Gerusalemme, con la forma curiosa di un cranio. Nella tradizione giudaico-cristiana sarebbe il luogo della sepoltura di Adamo, un luogo importante, simbolico. Il sangue di Gesù, colando a terra, ne bagna gli strati, purifica il primo peccatore e tutti gli altri dopo di lui. Questa antica tradizione del Golgota recepisce questo luogo come il centro di tutta la storia e della redenzione dell’umanità.
Gesù viene crocifisso «con altri due, uno da una parte e uno dall’altra e lui in mezzo». Questa circostanza mette in forte relazione la croce di Gesù con gli uomini peccatori: «Chi è senza peccato?» (cfr. Gv 8,7).  Di per sé il problema non è l’essere peccatori o il non esserlo, ma quale sia la risoluzione da prendere quando se ne è consapevoli. Due sono le risoluzioni possibili. La prima risposta è quella dettata dall’orgoglio: «Io? Ma quando mai? Non sono peccatore, non ho bisogno di essere salvato, basto a me stesso…»: l’orgoglio di Adamo riemerge. Chi dice questo pensa, in fondo, che l’opposto del peccato sia la virtù: aumento l’impegno, faccio da me, non ho bisogno di un altro che mi salvi!
L’altra risoluzione: cadere tra le braccia della misericordia perdonante del Signore. Riconoscere il proprio male. Consegnarlo. Se la terra è insanguinata e cattiva, dipende anche da me, dipendono anche dalla mia umiltà il suo riscatto e la sua redenzione.
Nella liturgia del Venerdì Santo, come avete notato, ricorrono con insistenza due testi dell’Antico Testamento. Tutto il racconto della Passione ne è, per così dire: Isaia 53, il carme del Servo sofferente, e il Salmo 21.
Isaia 53. Si parla di un misterioso personaggio, un servo di Dio che soffre, accetta di soffrire. Isaia e la fede di Israele avevano elaborato una teologia secondo la quale la redenzione verrebbe da qualcuno che prenderà su di sé tutte le malattie, tutti i peccati, tutte le piaghe. «Dalle sue piaghe saremo guariti» (Is 53,5 ripreso in 1Pt 2,24). Israele sapeva tutto questo. I primi cristiani hanno ricompreso la crocifissione del loro Signore grazie a questo testo. Non sarebbe stato comprensibile che il loro Maestro, il Signore, facesse questa fine terribile; il testo di Isaia permetteva loro di capire il senso di ciò che umanamente senso non aveva: l’innocente messo a morte ingiustamente.
Veniamo all’altro testo, il Salmo 21. Anche questo ha molto aiutato i primi cristiani ad interpretare ed elaborare la crocifissione di Gesù. Giovanni non riporta l’incipit di questa preghiera sulle labbra di Gesù morente, a differenza di Marco e Matteo: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?» (Sal 21,1). Ci sono versetti successivi. In questo Salmo, l’orante, un sofferente misterioso – i cristiani vedono in lui Gesù – butta fuori tutta la disperazione; si sente perfino dimenticato da Dio, per questo esterna in un grido prolungato la sua paura, la sua tristezza, la sua angoscia. Tuttavia, in questo Salmo, qua e là emergono delle luci, dei ricordi di come Dio aveva soccorso i suoi padri. Ad un certo punto il Salmo parla addirittura di un banchetto: è il preannuncio della risurrezione. Ricaviamo subito un insegnamento: quando andiamo in preghiera esprimiamo al Signore quello che realmente sentiamo. Non abbiamo bisogno di mettere maschere e proclamare che “tutto va bene, mentre bene non va” (cfr. Ger 6,14). Occorre buttar fuori tutto il male per poi renderci conto che Dio è entrato proprio in questa angoscia. Tanti di noi possono dire che ci sono stati dei momenti terribili nella propria vita e che, tuttavia, hanno incontrato il Signore proprio in quei momenti come Salvatore. Così ha pregato Giacobbe nel suo esilio: «Certo, il Signore è in questo luogo e io non lo sapevo» (Gen 28,16). Il Salmo 21, alla fine, diventa una preghiera di ringraziamento.
Così Gesù è entrato nella morte ed è così che è veramente re, il Nazareno, re dei Giudei. Unico trono la croce, luogo nel quale si manifesta la signoria di Dio, realtà che capovolge la nostra immagine di Dio. Dio non è quel personaggio potente che risolve i problemi con le sue magie; Dio è colui che fa un tutt’uno con noi, ci incontra nel nostro male, nel punto più basso dei nostri fallimenti, dei nostri limiti, nel nostro essere incapaci di salvarci da soli. In questo lui è Dio! Nessun altro è così potente da fare comunione con chi è perduto. Nessuno di noi saprebbe diventare una cosa sola col più disgraziato. Lui sì! Egli è colui che trasforma il nostro fallimento in comunione con lui. In virtù dell’incarnazione, possiamo dire che siamo noi pure membra della redenzione. Quando si dice “offrire il nostro dolore” non è una pia pratica, ma riconoscere e la comunione profonda che c’è fra noi e il Signore, per cui completiamo nella nostra carne ciò che manca in noi dei patimenti di Cristo (cfr. Col 1,24). Davvero, Signore Gesù, il tuo amore sorprende, turba, disarma, converte, conquista, abbraccia, fa crescere. Accogli il nostro bacio.

Omelia nella S. Messa in Coena Domini

Pennabilli (RN), Cattedrale, 14 aprile 2022

Es 12,1-8.11-14
Sal 115
1Cor 11,23-26
Gv 13,1-15

Con la presenza dei bambini della Prima Comunione

1.
L’altare è il luogo dove Gesù rinnova quello che ha fatto durante l’Ultima Cena.
Nella mitologia antica erano state inventate storie di divinità potenti e capricciose, una storia più fantasiosa dell’altra, ma non è mai venuto in mente che un Dio si facesse pane, come poi farà Gesù, Figlio di Dio, nostro amico e fratello, che, volendo restare sempre accanto a noi, venisse addirittura dentro di noi, facendosi pane per essere mangiato. Una cosa inaudita! Una cosa che non può che suscitare ammirazione e stupore.

2.
L’amore ha questa caratteristica: vuole essere riamato, suscita reciprocità. Nell’amore c’è un andare e un venire, un donare e un ricevere. Gesù ha un amore verso di noi che è avido e liberale, due aggettivi che di solito non si usano (sembrano quasi un’offesa al Signore). Avido, perché è un amore che vuole tutto. Liberale, perché non forza, non obbliga, non costringe. Gesù dona tutto ciò che ha, tutto ciò che è, e vuole da noi tutto quello che siamo, tutto quello che abbiamo.

3.
Quando i cristiani mangiano il pane consacrato, che è Gesù, lui entra fino alle midolla delle loro ossa. Più il loro amore lo lascia fare, più possono gustare il suo amore infinito. Gesù ha una fame immensa, insaziabile; sa che siamo poveri, piccoli, ma non gli importa, non ci fa sconti!
Permettete questa immagine: Gesù ci “cuoce suo pane” per lui: ci prende come siamo, non gli fa paura se siamo, a volte, pieni di vizi, colpe, peccati. Siamo “cotti” dal suo amore, perché lui consuma tutto quello che c’è in noi di non puro, di non giusto, di non bello. Prende la nostra vita per trasformarla nella sua, trasfigura la nostra vita piena di vizi nella sua piena di grazia. Chi ama capisce questo linguaggio.
Si è fatto pane per nutrirci di sé, vuol fare di noi un pane per lui: che unità fra noi e Gesù! A volte ci dimentichiamo di questo, ci facciamo l’abitudine; addirittura, ci può capitare di riceve la Comunione sovrappensiero… Ci accompagni sempre la volontà di essere una cosa sola con lui, come lui vuole essere una cosa sola con noi. Dico questo soprattutto a voi, cari ragazzi, che fra un mese riceverete per la prima volta l’Eucaristia.
Ci sono persone che volano in aereo in Terra Santa – una terra sempre a rischio di conflitti – per andare sui luoghi di Gesù, per prendere un po’ di polvere del santo sepolcro, o l’olio del Golgota, o qualche sasso del lago di Tiberiade, per ricordare i luoghi dove Gesù è vissuto duemila anni fa. Ma nella Messa c’è Gesù in persona!
Nel Cantico dei Cantici, un libro della Bibbia, si racconta di un principe innamorato della sua bella. Una delle canzoni che compongono questo libro comincia con le parole rivolte dalla fidanzata alle guardie della città: «Avete visto l’amore del mio cuore? Ditemi dov’è!» (cfr. Ct 3,3). Parafrasando verrebbe da dire: «A quei tempi non c’era ancora Gesù sulla terra, ora invece, se una creatura che ama Gesù lo va cercando, lo trova sempre nel Santissimo Sacramento dell’Altare».
Insieme a voi faccio questa preghiera: «Amore infinito di Dio, degno di infinito amore! Come ti sei abbassato per trattenerti con noi, per unirti a noi, come ti sei fatto piccolo sotto le specie del pane! Verbo incarnato, sommo nell’umiliazione perché sommo nell’amore. Come posso non amarti con tutte le mie forze sapendo quanto hai fatto per amor mio? Ti amo, antepongo il tuo amore ad ogni altra cosa. Gesù, mio Dio, mio amore, mio tutto. Accendi in me il desiderio di starti vicino, di riceverti dentro di me». Diciamo queste parole a Gesù quando lo riceveremo sacramentalmente o spiritualmente.
Come abbiamo fatto in tutte le Messe, preghiamo per la pace, mettiamoci nei panni dei fratelli che stanno soffrendo così tanto. Quando ci si immedesima nella sofferenza degli altri la preghiera diviene fervorosa. L’amore agli altri ci aiuta a pregare. Così sia.