Omelia nella XXII domenica del Tempo Ordinario

Pennabilli (RN), Cappella del Vescovado, 28 agosto 2022

Sir 3,17-20.28-29
Sal 67
Eb 12,18-19.22-24
Lc 14,1.7-14

Gesù ha un rapporto speciale con i banchetti: tante parabole hanno questa location! Molte volte fa del banchetto un segno del Regno di Dio, dell’amore fraterno, del perdono, della gioia, della festa… Gesù andava ai banchetti, partecipava, ne faceva addirittura il pulpito dell’annuncio del Regno di Dio. Talvolta, invitare Gesù al banchetto poteva essere compromettente o destabilizzante, come quella volta che Gesù era andato a casa del fariseo Simone ed era entrata la donna peccatrice; per noi è una scena bellissima di accoglienza, di riconciliazione e prospettiva di vita nuova, ma per il fariseo che aveva preparato il banchetto fu un momento veramente sconcertante. Così accade anche quando, nel Vangelo di Matteo, si racconta che Gesù va a casa di Levi, l’esattore delle imposte; fu un momento di gioia e di festa, ma suscitò infinite critiche: «Gesù va a mangiare con i peccatori… è un mangione e un beone!» (Mc 2,15; Mt 11,19). All’Ultima Cena Gesù interrompe il clima di festa pasquale e dice: «Prendete, mangiate questo è il mio corpo dato per voi… Prendete, bevete, questo vino è il calice del mio sangue» (cfr. Mt 26,26-28).
In uno di questi banchetti Gesù nota lo stile delle persone. C’è una strategia per cercare di andare nel posto più in vista: tutto questo non è altro che metafora della vita, dove si sgomita per avanzare di carriera, per avere i primi posti, per essere onorati. Addirittura, c’è chi arriva in ritardo, soprattutto le persone più importanti, per attraversare la sala, perché l’invitante faccia accomodare al primo posto. A Gesù certamente non interessa dare lezioni di galateo o norme per il buon vivere. Gesù parte dalla situazione reale che constata per fare un discorso più elevato: vuol dire qualcosa sul nostro modo di relazionarci con Dio. Gli invitati della parabola, infatti, rappresentano gli uomini nel loro rapporto con Dio. C’è chi esibisce il suo medagliere delle virtù: non ha bisogno di essere salvato, purificato e va orgoglioso davanti a Dio (cfr. Lc 18,9-14 la parabola del fariseo e del pubblicano). Invece dovrebbe ricordare le parole del Salmo di Davide, il Miserere: «Tu, o Dio, gradisci un cuore umile, che riconosce la propria povertà» (cfr. Sal 50). Ancor meglio, dovrebbe fare suo il Magnificat, dove la Vergine dice che Dio «abbassa i superbi, innalza gli umili» (Lc 1,52).
Consentitemi una digressione sulla virtù dell’umiltà. I maestri spirituali, pur precisando che si tratta di una virtù morale, quasi la annettono alle virtù teologali (fede, speranza, carità), perché è una virtù regolatrice del rapporto con Dio. L’umiltà ha tre caratteristiche.
L’umiltà è verità. Occorre prendere coscienza di quello che si è davanti agli altri e davanti a Dio: humus (terra) è la radice della parola “umile”. La condizione umana è di caducità e povertà con pregi e difetti: occorre sapersi accettare e accettare ogni fratello. Ci sono anche contraffazioni dell’umiltà, l’umiltà finta, che ci fa sminuire perché gli altri dicano che non è vero. C’è l’umiltà di chi non entra nel gioco, non accetta di rischiare per paura di perdere, perché inconsciamente vorrebbe vincere.
L’umiltà è dono, gratuità. Quando uno è umile è libero, non si ferma al parere degli altri su di lui e depone tutto quello che è zavorra: titoli, crediti, riconoscimenti. È semplicemente se stesso. In questa libertà gli è più facile essere dono, fare dono di sé.
L’umiltà è gratitudine. Quello che abbiamo l’abbiamo ricevuto. Il ringraziamento va alla nostra famiglia, alle persone che ci hanno plasmato. Hanno fatto quel che hanno potuto, con i loro difetti, ma ci hanno voluto, ci hanno pensato e fatto crescere. La gratuità è soprattutto quella di Dio, che «fa sorgere il suo sole sopra i malvagi e sopra i buoni e fa piovere sopra i giusti e sopra gli ingiusti» (Mt 5,45). «Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date» (Mt 10,8).
Fin qui Gesù ha dato un insegnamento prendendo come paradigma “tu quando sei invitato”. Nella seconda parte Gesù dà insegnamenti “a te che inviti”. Gesù non vuole che tu faccia come fanno tanti, che chiamano le categorie più rassicuranti: fratelli, parenti stretti, amici importanti, vicini ricchi. Si riferisce ad una situazione che constatava al suo tempo, dove c’erano colazioni di lavoro, cene tra persone che avevano interessi comuni… Invece Gesù invita ad allargare la tua tavola. Nel linguaggio semitico, usato da Gesù, non si fa uso delle disgiuntive: le disgiunzioni sono espresse in maniera assoluta. «Non chiamare fratelli, parenti, amici, vicini ricchi, ma chiama…» significa: «Va bene che chiami fratelli, parenti, amici, vicini ricchi, ma non dimenticare le quattro categorie di persone che sono svantaggiate e possono mettere in imbarazzo: poveri, storpi, zoppi, ciechi (quelli che venivano scartati persino dal servizio liturgico!).
Sottolineo il valore della gratuità: le quattro categorie indicate da Gesù non possono contraccambiare.
Quando al banchetto ti metti all’ultimo posto, sia simbolo di uno stile della tua vita, il saper stare con gli ultimi. Proprio lì incontrerai Gesù, perché lui è vicino agli ultimi, ai poveri, a chi è in difficoltà per una strada sbagliata… Se ti avvicini col cuore a questi fratelli ti capiterà di incontrare Lui.
Gesù non ha niente contro il desiderio di progredire, di migliorare nell’ambito lavorativo o sportivo; non ha risentimenti contro “i primi posti”. Ma qual è il primo posto? Il primo posto è quello nel quale puoi amare di più. Tante volte coincide con l’ultimo posto sulla scena, ma in realtà è il primo. Andiamo a scoprire Gesù presente in quelli che noi chiamiamo “gli ultimi”.

Omelia nella XXII domenica del Tempo Ordinario

Sanzeno (VR), Casa delle Suore Orsoline, 28 agosto 2022

Sir 3,17-20.28-29
Sal 67
Eb 12,18-19.22-24
Lc 14,1.7-14

1.
Sono venuto per il compleanno di suor Zaira e per l’invito della Madre Superiora, ma nel profondo del cuore desideravo da tempo questo incontro (era stato organizzato prima del Covid), perché sono un vostro “figlio” (le Suore orsoline vengono solitamente chiamate “madre”, mentre nelle altre famiglie religiose, la Madre è soltanto la Superiora). Mi sento “figlio”, perché ho fatto presso la Casa delle Suore orsoline la scuola d’infanzia e il cammino con l’Azione Cattolica. Il luogo e la vita della pastorale erano per me la Casa delle Suore orsoline. Poi sono entrato in Seminario. Divenuto sacerdote, mi è stato chiesto di curare la pastorale dei ragazzi e la pastorale vocazionale. Abbiamo creato un vasto movimento proprio al Sant’Orsola (Casa delle Suore orsoline a Ferrara). L’arcidiocesi di Ferrara a quel tempo era costellata di residenze delle suore (ben 24!). Negli incarichi di quegli anni – Azione Cattolica, pastorale vocazionale e Ufficio Catechistico – non avrei potuto fare nulla senza la loro collaborazione. Pertanto, questa visita non è altro che una “restituzione”. Sono qui per dare lode al Signore per la vostra presenza nella Chiesa e nella mia vita.
A qualcuna di voi, a volte, viene da chiedersi: che frutti ho portato? Tanti sacerdoti, tante vocazioni, tanta gioventù. Grazie!
Ringrazio anche per il bene che le suore hanno voluto alla mia famiglia (mia sorella ha frequentato le Scuole Medie e l’Istituto Magistrale presso le Suore orsoline a Verona).

2.
Ieri ho celebrato la Messa alla Casa Madre delle Suore Maestre Pie dell’Addolorata di Rimini. Provenivo da un funerale tragico. In un incidente stradale hanno perso la vita un ragazzo di diciotto anni e una ragazza di sedici. Anch’io ero turbato. Poi era una giornata in cui non mi sentivo “in forma”… Pensavo: il Signore sarà contento di me? Era un problema che si poneva anche santa Teresa di Lisieux, che ebbe anche un sogno su questo argomento. È trascorsa metà della celebrazione con questi pensieri tristi. Poi, mi ha colpito la frase del Vangelo in cui Gesù dice: «Amico, vieni avanti!» (cfr. Lc 14,10). Mi è sembrato che Gesù lo dicesse a me, inquieto per quella disgrazia e turbato dal mio poco amore. Che cos’è, in fondo, la Messa, se non questo invito a venire alla tavola di Gesù: «Amico, vieni avanti!»?
Se ci fosse qualche suora che si chiede: «Signore, tu sei contento di me?», o che ha un momento di dubbio (le suore hanno una vita spirituale molto intensa e vivono anche momenti di “notte oscura”), le parole del Vangelo: «Amica, anzi mia sposa, vieni avanti… al primo posto!» sono un incoraggiamento di Gesù: Gesù vi vuole al primo posto!

Rivolgo ancora una parola di ringraziamento anche alla vostra Madre Superiora e alle Suore che si prendono cura di voi. Potrebbero pensare di essere più utili in qualche missione nel mondo, sentendosi all’ultimo posto qui a Sanzeno. In realtà, qui incontrano Gesù, perché Gesù è con i piccoli, con quelli che hanno problemi di salute, con chi ha dispiaceri. Qui, come dice papa Francesco, si tocca la carne di Gesù.
Vi metto nella preghiera quotidiana del Santo Rosario. Sia lodato Gesù Cristo.

Omelia nella XXI domenica del Tempo Ordinario

Eremo di Carpegna (PU), Santuario B.V. Maria del Faggio, 21 agosto 2022

Camminata del Risveglio

Is 66,18-21
Sal 116
Eb 12,5-7.11-13
Lc 13,22-30

«Gesù passava insegnando per città e villaggi, mentre era in cammino verso Gerusalemme».
Chi ha partecipato alla Messa in questi mesi ha sentito spesso questa annotazione dell’evangelista Luca: «Gesù era in cammino verso Gerusalemme». Gesù era consapevole: Gerusalemme sarebbe stato il culmine della sua missione. A Gerusalemme sarebbe accaduto quello che aveva predetto ai discepoli: «Il Figlio dell’uomo deve soffrire molto, essere riprovato dagli anziani, dai sommi sacerdoti e dagli scribi, essere messo a morte e risorgere il terzo giorno» (Lc 9,22).
Provate ad immaginare che cosa provava Gesù nel suo cuore, cos’aveva dentro mentre camminava attraversando città e villaggi. «Città e villaggi» poi rappresentano il cuore di ogni persona. Gesù attraversa la vita e l’attraversa con questo progetto: spendere la sua per far crescere la vita degli altri. Mentre Gesù è per strada verso Gerusalemme, «un tale» – non avendo un nome potrebbe essere ciascuno di noi – gli attraversa la strada e gli dice: «Sono pochi quelli che si salvano?». Una domanda meschina. Avrebbe potuto dire: «Sono molti, Signore, quelli che si salvano?». Ma «quel tale» parte già con un pregiudizio. La meschinità, poi, contrasta con la consapevolezza di Gesù che sta per dare la vita, conscio che il “chicco di grano” diventerà una messe talmente grande che bisognerà pregare il padrone della messe che mandi altri operai (cfr. Lc 10,2). Mentre Gesù ha questi pensieri nel cuore, «quel tale» lo importuna per una questione aritmetica…
Come sempre, Gesù va al cuore del problema. Si rivolge all’interlocutore, e a tutti noi, adoperando il “voi”, un “voi” interpellante, che mette in crisi per una presa di responsabilità. Infatti, dice: «Sforzate-vi, perché molti, io vi dico, cercheranno di entrare ma non ci riusciranno. […] Egli vi dichiarerà: “Voi non so di dove siete. Allontanate-vi da me…”». Gesù interpella direttamente. Poi, usa una bellissima metafora, quella della “porta stretta”. Qualcuno pensa che il Signore faccia “il portinaio”: «Tu entri, tu stai fuori…». No. La porta è stretta perché è sagomata sulla nostra persona, sulla nostra figura. Per quella porta ci passo solo io, perché è la porta delle mie responsabilità, di quello che la mia vocazione mi chiede. Per passare per quella porta dovrò lasciare da parte le cose che ingombrano. Non passerà tutto di me, passerà solo quella parte che assomiglia allo stile di vita del Signore. La “porta stretta” non è per selezionare le persone, scartare qualcuno e prendere qualcun altro. Tutti siamo candidati. Gesù è morto per tutti. Ognuno sa che dentro di lui ci sono cose che deve mettere da parte, perché sono ingombranti. Quindi, la “porta stretta” è anche la porta dell’umiltà.
Perché «quel tale» ha fatto proprio questa domanda al Signore? Come gli è venuta in mente?
Era una questione discussa nelle scuole di teologia dell’epoca. C’eran di quelli che dicevano: «Chi si salva? Coloro che appartengono all’etnia ebraica, che sono di religione ebraica». Infatti, sta scritto nel Talmud: «Nessun circonciso andrà nella Geenna». C’erano anche scuole più moderate, che dicevano: «Tutti siamo candidati, ma bisogna pregare più volte al giorno con lo Shemà Israel, la preghiera del pio israelita («Ascolta Israele, amerai il Signore Dio tuo…») ed osservare i precetti e i comandamenti. Ma vi erano scuole che sostenevano si salvassero solo quelli della loro confraternita. Gesù dice che la salvezza non è legata all’appartenenza ad una etnia particolare, è per tutti. Poi, in sostanza, dice: «Non cadete in una forma di garantismo meschino, dicendo di avere uno zio prete, oppure di essere iscritti ad un movimento ecclesiale, di essere stati catechisti, ecc.». Non conta! Ciò che conta è se tutto questo, comprese le pratiche religiose, mi ha convertito.
Riferisco un episodio raccontato dal filosofo danese Søren Kierkegaard. Era rimasto vedovo. Da quando era morta la moglie Regine Olsen, non sapeva come gestire il suo guardaroba e andava per Copenaghen a cercare un luogo in cui stirassero i pantaloni. Trovò su una vetrina un cartello con scritto: «Qui si stirano calzoni». Entrò. La commessa gli disse che lì non stiravano i calzoni, ma fabbricavano targhette! Attenzione: non sono le “targhette” che ci garantiscono davanti al Signore, ma la pratica della giustizia e dell’amore!
Talvolta, la sera, mi faccio la domanda: «Mi salverò?». Non conta essere vescovo! La targhetta «eccellenza» non garantisce il paradiso! Mi faccio serio. Mi fa bene pormi questa domanda. Ricordo la massima di sant’Alfonso Maria de’ Liguori: «Chi prega si salva, chi non prega si danna». Poi vado a dormire contento perché vedo le braccia aperte di Gesù e sento la Parola di Dio che parla di un banchetto a cui si siedono tutti i popoli della terra: «Tarsis, Put, Lud, Mesec, Ros, Tubal, Iavan e tutte le isole lontane» (cfr. Is 66,19), un banchetto preparato anche per me!
In questo momento siamo quella parte dell’umanità che rivela la famiglia dei figli di Dio radunati attorno all’altare del Signore. È il destino di tutta l’umanità. Ripartiamo da questa Messa con una grande carica di gioia, fiducia e speranza.

Discorso all’arrivo dei pellegrini davanti al Santuario

Saluto tutti, in modo particolare gli amici che hanno fatto a piedi la Camminata del Risveglio e anche quelli che, per varie ragioni, hanno dovuto percorrere tratti in automobile. Tutti siamo sul Cammino del Risveglio, risveglio della nostra fede. «Ne basta un granello» (cfr. Mt 17,20), ha detto Gesù.
In questo periodo è la seconda volta di un raduno così imponente a livello diocesano. Sono con noi anche tanti amici che vengono da Rimini, Cesena, Pesaro. Tutti insieme siamo un popolo. Eravamo in tanti all’Assemblea di fine anno pastorale e alla Veglia di Pentecoste. Spiritualmente era presente tutta la Diocesi. Fu bello non perché eravamo in tanti – l’essenziale non sono i numeri – ma perché nel Santuario di Valdragone c’era la presenza di Gesù Risorto e Maria, la mamma di Gesù, pregava con noi. Era quasi palpabile la presenza dello Spirito Santo. Eravamo Cenacolo. Ci siamo trovati le porte spalancate, come le hanno trovate gli apostoli che, scesi sulla piazza, hanno dato la loro testimonianza. Questo di oggi è per noi un giorno di testimonianza. Chiediamo alla Madonna di darci coraggio e forza.
Mi sorprende un testo del Concilio di Trento (1545-1563), punto fermo della riforma cattolica. La Chiesa è paragonata alla sposa del Cantico dei Cantici che, con una sola treccia – così dice la Scrittura – è capace di espugnare eserciti, per la sua bellezza! Il testo conciliare conclude dicendo che la bellezza della Chiesa è la sua unità. Qui c’è un raggio di quella bellezza, la nostra unità, al di là dei nostri caratteri e dei nostri limiti… Uniti perché abbiamo un’unica chiamata, perché siamo tutti “sotto” la Parola di Dio, perché siamo radunati attorno alla mensa dell’Eucaristia, perché guardiamo al nostro futuro con speranza. Così sia.

Omelia nella S.Messa per le Esequie di don Lazzaro Ferrini

Pennabilli (RN), Cattedrale, 19 agosto 2022

Ap 21,1-5a.6b-7
Sal 121
Gv 17,24-26

1.

«Io Giovanni, vidi un cielo nuovo ed una terra nuova: il cielo e la terra di prima infatti erano scomparsi e il mare non c’era più. E vidi anche la città santa, la Gerusalemme nuova, scendere dal cielo, da Dio, pronta come una sposa adorna per il suo sposo» (Ap 21,1-2).
L’audacia e lo spazio della preghiera consentono di intravvedere l’invisibile: ecco don Lazzaro smarrito, pieno di stupore e finalmente felice, avvolto da questo splendore dell’Apocalisse. Uno “spettacolo” in senso etimologico! Come l’autore del libro sacro egli vede «un grande trono bianco e colui che vi si siede» (Ap 20,11), Dio.
Don Lazzaro piange di commozione e ride, come gli succedeva talvolta quando era tra noi. Ora non può sottrarsi a colui che l’ha amato da principio, l’ha scelto fin da ragazzo e gli ha affidato i tesori della sua casa da dispensare ai fratelli.
Grandezza del ministero sacerdotale e fragilità dello strumento come è per ciascuno di noi presbiteri: ricchi per la grazia che dispensiamo, poveri perché sono parole e gesti non nostri. Di nostro, nulla! Solo le nostre miserie!
Lazzaro, piccolo qui in terra e ora grande nella nuova Gerusalemme. Non più lacrime né lamenti: «Io, dice il Signore, sarò suo Dio ed egli sarà mio figlio» (cfr. Ap 20,12).

2.

Nei Vangeli (cfr. Lc 16,19-31) Lazzaro, protagonista della parabola, viene portato dagli angeli nel seno di Abramo e invocato perché attinga nell’acqua la punta del dito, «cuius una stilla salvum facere totum mundum quit ab omni scelere (una sola goccia di quell’acqua può salvare il mondo intero da ogni male)» (San Tommaso d’Acquino, Adoro te devote, Inno eucaristico). Il ministero di don Lazzaro continua: il carattere sacerdotale è indelebile; ministero in forma diversa, di preghiera e di intercessione.
Nei Vangeli Lazzaro è l’amico di Gesù, ospita con le sorelle Marta e Maria il Signore e siede a mensa con lui (cfr. Gv 12,1; cfr. Lc 10,38-42). La gente, quando vede Gesù piangere per la morte di Lazzaro, sussurra: «Vedi, come lo amava» (Gv 11,36), mentre qualcun altro dei presenti muove una critica pungente: «Costui che ha sanato il cieco non poteva anche far sì che questi non morisse?» (Gv 11,37).
Il nostro don Lazzaro, «arguto e spassoso, disponibile alla famigliarità», ha svolto il servizio pastorale nelle comunità di Villagrande, Frontino, Maciano e Soanne. Gli ultimi anni, quiescente, li ha trascorsi in casa di riposo. Il suo assillo quotidiano era la Messa, un impegno divenuto gravoso per le manifestazioni di ansia, alle prese col nuovo Messale e i volumi per la Liturgia delle Ore. Grazie a mons. Vicario che l’ha seguito passo passo. Grazie al personale della Cooperativa che l’ha assistito con tanto amore, rispetto e pazienza. Grazie all’accolito Raffaele Guerra che l’ha accompagnato in questi ultimi mesi perché potesse celebrare l’Eucaristia.

3.

In questo momento riuniti davanti alla bara di un fratello presbitero, siamo richiamati alla tipica partecipazione del sacerdote alla celebrazione eucaristica in forza del dono ricevuto (don Lazzaro è stato consacrato il 3 luglio 1960 da mons. Antonio Bergamaschi); tale tipicità si esprime nella presidenza, non per propri meriti o qualità, né per un compito assegnato dalla comunità, ma per l’effusione dello Spirito Santo. Il presbitero viene formato dal suo presiedere l’assemblea che celebra.
Cari fedeli, avete il diritto di poter sentire nei gesti e nelle parole del sacerdote il desiderio che il Signore ha, come nell’Ultima Cena, di continuare a mangiare la Pasqua con noi. Il Risorto è dunque il protagonista.
Il presbitero stesso è sopraffatto da questo desiderio di comunione che il Signore ha verso ciascuno: è come se fosse posto in mezzo tra il cuore ardente d’amore di Cristo e il cuore di ciascuno di voi, oggetto del suo amore. Vedeteci così, cari fratelli, circondati di infermità e tuttavia immersi nella fornace dell’amore di Dio (cfr. Papa Francesco, Desiderio desideravi, Lettera Apostolica 2022).
Cari sacerdoti, la celebrazione stessa ci educa a questa qualità di presidenza. Chi presiede lo faccia con l’umiltà di chi serve. Non rubi la centralità dell’altare, segno di Cristo, dal cui fianco squarciato scaturiscono l’acqua e il sangue fonte dei sacramenti della nostra fede.
Nell’accostarci all’altare per l’offerta siamo educati all’umiltà e alla conversione: «Umili e pentiti accoglici, o Signore: ti sia gradito il nostro sacrificio che oggi si compie dinanzi a te». Con la prece eucaristica – nella quale anche i battezzati partecipano con riverenza e silenzio e intervenendo con le acclamazioni – chi presiede ha la forza, a nome di tutto il popolo di Dio, di «ricordare» al Padre l’offerta del Figlio suo, perché quel dono immenso si renda presente sull’altare. A quell’offerta partecipiamo, cari sacerdoti, con l’offerta di noi stessi. Non possiamo narrare l’Ultima Cena senza esserne partecipi. Non possiamo dire: «Prendete e mangiatene tutti: questo è il mio corpo offerto in sacrificio per voi» e non vivere lo stesso desiderio di offrire il proprio corpo, la propria vita per il nostro popolo. Vita santa, senza ambiguità, sforzo per migliorare la propria umanità e il proprio carattere, contegno appropriato dentro e fuori noi stessi…

4.

Noi presbiteri con le parole dell’offerta e della consacrazione, e voi fratelli con la proclamazione dell’Amen che suggella la grande dossologia: «Per Cristo, con Cristo e in Cristo», formiamo insieme una comunità eucaristica. Elemento fondante la comunione è Gesù tra noi: «Padre Santo, voglio che quelli che mi hai dato siano anch’essi con me dove sono io» (Gv 17,24). Voglio «che l’amore con il quale mi hai amato sia in essi e io in loro» (Gv 17,26). Nella preghiera sacerdotale, di cui è stato proclamato un breve tratto dal diacono, Gesù sembra ingaggiare un gioco d’amore, una trama di relazioni: «Tu in me e io in te…», «loro in noi e noi in loro…». «Uniti perché il mondo creda» (Gv 17,21). Nessuno stia soltanto a guardare questo gioco d’amore, magari col pretesto della propria inadeguatezza. Don Lazzaro ora vede chiaramente tutto questo: con lui e tra noi una comunione vissuta, riprogrammata e rinnovata, tema del nuovo anno pastorale 2022/23.
Concludo con qualche riga di una vecchia canzone nella quale si allude alle vicende del cuore alle prese con desideri e delusioni, con slanci e cadute, un cuore di nuovo pronto a ricominciare.
«Sempre riaccendo il mio lume, sempre si spegne; perché?
[…] Volevo offrirti dei doni, un vaso colmar di virtù,
ma sempre vuoto è il mio vaso, è sempre spoglia la casa.
Prendi, Signore, il mio nulla, quel che io sono ti do.
Come un bambino che piange, poi guarda in alto e sorride…
Come in un gioco d’amore.
Vengo, continuo a giocare: questo mi basta perché,
so già che tu vincerai, solo m’importa d’amare […].
In questo istante so amare, cogli, Signore, questo fiore…
continuo il gioco d’amore».
Così sia.

Omelia nella Solennità dell’Assunzione della Beata Vergine Maria

Pennabilli (RN), Santuario B.V. Grazie, 15 agosto 2022

Ap 11,19; 12,1-6.10
Sal 44
1Cor 15,20-26
Lc 1,39-56

Non ci soffermiamo quasi mai su un dettaglio importante. Si tratta di un versetto che, a prima vista, può sembrare soltanto redazionale. In realtà, apre la mente ed il cuore ad una profonda meditazione: «E l’angelo partì da lei» (Lc 1,38).
Siamo nella casa di Nazaret. Qui il Vangelo di Luca narra l’evento dell’Annunciazione. Qui è accaduto qualcosa di unico e di straordinario. C’è un annuncio portato da un messaggero celeste, c’è la risposta di un’umile ragazza. «Et verbum caro factum est» (Gv 1,14).
San Bernardo di Chiaravalle, in una celebre omelia, contempla l’attimo di sospensione fra chiamata e risposta. Immaginando d’essere presente, con la preghiera implora il “sì” di Maria: «Perché tardi? Perché temi? Credi all’opera del Signore, dà il tuo assenso ad essa, accoglila. […] Apri, Vergine beata, il cuore alla fede, le labbra all’assenso, il grembo al Creatore. Ecco che colui al quale è volto il desiderio di tutte le genti batte fuori alla porta. […] Levati su, corri, apri! Levati con la fede, corri con la devozione, apri con il tuo assenso. “Ecco”, dice, “sono la serva del Signore, avvenga di me quello che hai detto”» (Lc 1, 38). (Bernardo di Chiaravalle, Om. 4, 8-9; Opera omnia, ed. Cisterc. 4, 1966, 53-54)
Potremmo anche noi avere l’audacia di un intervento: lo potremmo fare immaginando di essere il lebbroso che implora guarigione, oppure il cieco di Gerico che domanda luce, oppure la peccatrice che chiede d’essere accompagnata ad una vita nuova. Col suo “sì” Maria introdurrà nel mondo colui che risana, che dà luce, che fa nuovi: Gesù Salvatore! Dio ha chiesto la collaborazione di Maria. L’angelo ha dato l’annuncio, ha recato a Nazaret il desiderio di Dio. Maria deve rispondere liberamente.
A volte ci chiediamo come fu l’Annunciazione. Fu una visione interiore che scosse la fanciulla di Nazaret? Fu irruzione di luce in quel “tugurio” (una povera casa palestinese)? Ci fu un lembo di Cielo che si è reso visibile?
Il racconto evangelico, da questo punto di vista, è assai laconico. Una cosa è certa: dopo quell’annuncio non ci sarà svolazzo di angeli su quella casa, né sul quotidiano di Maria. Ci fu, semmai, un quotidiano povero, umile, nascosto al mondo e tanto silenzio.
«E l’angelo partì da lei». L’incarico è adempiuto. Ma questa è soltanto cronaca? Il commiato dell’angelo impone una particolare attenzione. «L’angelo partì da lei», ma lo Spirito continuò ad agire in lei: la spinse ad attraversare le montagne, a raggiungere la “città di Giuda”, per soccorrere la cugina Elisabetta, per cantare la lode alle grandi opere di Dio. Soccorrere e cantare!
Anche noi siamo, almeno qualche volta nella nostra vita, sfiorati dall’angelo. Riceviamo un incarico, una chiamata, una missione, un dono della grazia, una luce, ma non possiamo fermare il momento che fluisce. Ci accade spesso di non riuscire a vivere “il passaggio”, ci chiudiamo nella “grande ora”, mentre esteriormente la vita continua. Corriamo il pericolo di fermarci su ciò che è avvenuto, come in un sogno, come in un nostalgico incanto, sorvolando sul presente. Oppure è il presente che ci travolge e ci fa smarrire quello che dovrebbe essere lievito della quotidianità.
A Maria riuscì “il passaggio”. Lo Spirito fece crescere in lei la Parola e il coraggio dei piccoli e grandi passi richiesti dalla sua vocazione.
Anche ai discepoli presenti all’evento della Trasfigurazione è successo di pensare «alle tre tende» (cfr. Lc 9,33). Gesù domanda loro di scendere dal Tabor, di fare “il passaggio”. È necessario il coraggio di riversare la “grande ora” nella prosaicità della vita e dell’agire quotidiano.

Che cosa fa Maria lungo la via? La domanda non porta a speculazioni pie. Maria, nella dedizione alla meta della sua via, guardò dentro se stessa, nella Parola che viveva e cresceva in lei. Maria pregò. Più volte il Vangelo ci ricorda che «Maria conservava tutte queste cose meditandole nel suo cuore» (cfr. Lc 2,19.51).
La meditazione può continuare sul tema della Visitazione. Maria va da Elisabetta a soccorrere, perché Elisabetta è incinta: una gravidanza ai tempi supplementari. In due versetti Luca, per quattro volte, usa la particella “verso”: un avverbio di moto che esprime concretezza, apertura, relazione, attenzione, fatica e, finalmente, la gioia incontenibile dell’incontro.
A ben vedere il testo evangelico non ci riferisce soltanto un episodio di cronaca famigliare e neppure solo un esempio di virtù: troppo poco per occupare uno spazio così centrale nel Nuovo Testamento. Maria è mossa dallo Spirito. È gravida di Gesù. Realizza il disegno del Padre. Tutta la Trinità è presente.
Quella visita va ben oltre la cortesia: è segno del Dio che visita il suo popolo. I Salmi e i profeti l’hanno implorato: «Oh se tu squarciassi i cieli e scendessi» (cfr. Is 63,19), «vieni, Signore, a visitare la terra» (cfr. Sal 64,10). Il tema della Visitazione sarà l’esordio della grande berakah (benedizione) di Zaccaria, appena riavuta la parola: «Benedetto il Dio d’Israele perché ha visitato il suo popolo» (cfr. Lc 1,68).
Il racconto evangelico della Visitazione è tutto incentrato e collegato con l’evento dell’Incarnazione del Verbo: Dio viene a salvare!
Allora si capiscono il sussulto del bambino di Elisabetta nel grembo, l’inondazione di Spirito Santo che avvolge la scena, il canto di Elisabetta che ricalca quello del racconto antico che saluta l’Arca dell’Alleanza trasportata nella città santa (cfr. 2Sam 6,1-15) e poi il saluto di Maria, nuova Arca dell’Alleanza!
Maria è andata a soccorrere Elisabetta in una città della Giudea. Solitamente viene individuata con il villaggio di Ain-Karim, sei chilometri a ovest di Gerusalemme. Ma la Vergine è andata anche a cantare la lode del Signore. Non c’è contrapposizione fra il soccorso e il canto, fra azione e contemplazione, fra servizio e preghiera.
Il canto del Magnificat mette al centro l’opera di Dio; l’Ancella ci indica dove guardare, dove deve indirizzarsi il nostro canto insieme al suo. Maria è tutta “fuori di se stessa”; lo sguardo è rivolto verso Dio. Nessun intimismo, ma consapevolezza della sua missione. Maria guarda l’opera di Dio e la sua visita all’umanità assetata di giustizia, di amore e tuttavia così provata dall’odio e dalle divisioni… Un testo rivoluzionario!
Preghiamo il Magnificat.

Omelia nella XX domenica del Tempo Ordinario

Pennabilli (RN), Cappella del Vescovado, 14 agosto 2022

Ger 38,4-6.8-10
Sal 39
Eb 12,1-4
Lc 12,49-53

Gesù adopera due immagini archetipe: il fuoco e l’acqua del Battesimo. Prometeo – secondo la mitologia greca – ruba il fuoco agli dei che ne erano gelosissimi. Per questo sconterà un terribile castigo. Gesù, invece, viene a portare il fuoco. La storia dell’umanità è segnata dal tentativo di impossessarsi del fuoco, di dominarlo e di farne sorgente di energia per la propria vita. Il fuoco illumina, scalda, purifica, fonde i metalli e li rende plasmabili… Purtroppo il fuoco distrugge. Gli incendi procurano ferite profonde nella natura (lo stiamo vedendo anche quest’anno). «Sono venuto a portare fuoco sulla terra», dice Gesù. Ed aggiunge: «Come vorrei fosse già acceso!». Ma si riferisce all’amore!
L’acqua dice vita e dice morte. Gesù allude al Battesimo che sta per ricevere, la sua Pasqua, il momento in cui darà la prova del suo slancio e del suo amore. Gli avversari vorrebbero impedirgli di parlare, di prendere posizione o di agire, ma lui prosegue il cammino che lo porterà dritto al Calvario. Nella Pasqua si compie il giudizio di Dio. Anche il cristiano è chiamato ad un giudizio sulle situazioni, ad una certa aggressività (che non ha nulla a che fare con l’intolleranza) e ad una presenza significativa che altro non è che amore. Non è possibile delegare, dilazionare, stare con un piede su due staffe. Né si può immaginare che il Battesimo introduca automaticamente in una “pace paradisiaca”. Gesù dice che non è venuto a portare pace sulla terra, ma inquietudine. Gesù fa una specie di sociogramma presentando l’immagine di una famiglia in cui ci si divide «due contro tre e tre contro due». È un’allusione ad un testo di Michea (cfr. Mi 7,6), profeta del dopo esilio, che registra come non tutti volevano tornare in Palestina, perché in esilio in molti si erano fatti il proprio “nido”, c’erano anche imperatori tolleranti che permettevano di vivere bene. All’interno delle stesse famiglie – dice Michea – c’era chi voleva tornare e chi voleva restare. In una famiglia ci può essere disaccordo a motivo di Gesù: occorre fare una scelta e vivere la conflittualità come ha fatto san Massimiliano Kolbe, che festeggiamo oggi. A noi piacerebbe che tutti fossero contenti di noi, che tutti fossero come noi; invece, la diversità, che viene tanto inneggiata, a volte fa soffrire. Non sempre siamo accettati, accolti, graditi.
L’insegnamento di Gesù è Gesù stesso. Gesù non dà un insegnamento, ma si dà lui stesso, lui che è passato attraverso il fuoco, attraverso l’acqua del Battesimo, attraverso il conflitto, semplicemente per amore, amando. La vocazione cristiana è di una serietà drammatica: vuoi vivere da “uomo nuovo”? Sì o no? Prendere o lasciare!

Discorso alla Fiaccolata durante la festa patronale della Pieve di Ponte Messa

Ponte Messa (RN), 13 agosto 2022

Ponte Messa è in festa. Vedo tanta gente che si è unita, bambini e giovani, famiglie e adulti, uomini e donne. In mezzo a noi, spiritualmente, è presente la Madonna.
Può essere che durante il percorso a piedi non sempre siamo stati attenti (ci è venuto da pensare che non piove mai, oppure a chissà cosa pensano gli automobilisti che sfiorano la processione…), le distrazioni sono tante. Tuttavia, ci siamo fatti accompagnare dalla Madonna. Prima di lasciare la vostra splendida Pieve, incoraggio ciascuno a formulare una preghiera personale, che parta dal cuore.
La Madonna non ha bisogno di essere portata a spalle, è sempre in mezzo a noi, però il segno della Madonna lungo le strade della comunità ha un grande valore simbolico. Non siamo noi che accompagniamo la Madonna: è Maria che visita le nostre case.
Il Vangelo che è stato scelto per la festa dell’Assunzione (15 agosto) è quello della Visitazione: Maria, dopo aver ricevuto l’annuncio dall’angelo e aver detto il suo “sì”, si è stretta al cuore la Parola di Dio che era arrivata a lei attraverso il messaggero. Avrebbe potuto bearsi, perdersi in quella Parola e invece lascia Nazaret e si incammina verso un quartiere alle porte di Gerusalemme che si chiama Ain Karim (a 6 km da Gerusalemme). Maria conserva la Parola nel suo cuore. Più volte il Vangelo dirà che Maria «conservava tutte queste cose e le meditava nel suo cuore» (Lc 2,19). Nel contempo si mette in cammino e va da Elisabetta, sua cugina. In due versetti del Vangelo di Luca per ben quattro volte incontriamo la particella “verso”. Perché questa ripetizione? L’evangelista vuol farci capire che Maria è tutta dono, è tutta “fuori di sé”, attenta “verso” chi ha bisogno, in questo caso sua cugina che è incinta. Maria non pensa a sé, non ha nessun ripiegamento su di sé, è rivolta verso gli altri. La preghiera e l’ascolto della Parola di Dio da una parte, l’impegno e la concretezza dall’altra, vanno insieme, non si escludono a vicenda. Anzi, se a volte siamo poco concreti, poco caritatevoli è perché stiamo poco nella preghiera.

Concludo con tre sottolineature sulla preghiera mariana.

  1. Pregare attraverso Maria. Spesso usiamo questo modo di dire: «Prego la Madonna». Non è un errore. Tuttavia, la preghiera cristiana, di per sé, è sempre rivolta a Dio: Dio Padre, Figlio e Spirito Santo. Quando diciamo che preghiamo Maria, si intende dire che Maria prega per noi, si mette fra noi e Dio, intercede per noi. Questo è accaduto anche a Cana di Galilea, quando ci fu il banchetto per le nozze e Maria si accorse che era venuto a mancare il vino. Maria intercede e parla a Gesù di noi. A noi dice: «Fate quello che lui vi dirà» (Gv 2,11).
  2. Pregare con Maria. La Madonna è al nostro fianco quando preghiamo. Lo fa come una mamma che sostiene il parlare incerto del suo bimbo. Si mette accanto a noi, prega con noi. A questo riguardo è molto bello ricordare quando Gesù, sulla croce, affida la Madonna al discepolo Giovanni, che ci rappresenta tutti: «Ecco tua madre» (Gv 19,27). Anche i discepoli che vanno nel Cenacolo dopo l’Ascensione godono della presenza di Maria che prega insieme con loro.
  3. Pregare come Maria. Come pregava Maria? Custodiva nel suo cuore tutte le cose che viveva; le vedeva e le considerava davanti al Signore, le cose più belle e quelle più difficili. Maria ci insegna come si fa a pregare. Nel giorno dell’Assunzione di Maria leggeremo e mediteremo: «L’anima mia magnifica il Signore» (Lc 1,46). San Luca non era presente, non l’ha registrato dalle labbra di Maria, ma è sorprendente che metta sulle labbra di una ragazzina una preghiera di lode al Signore così aperta sulle vicende della storia del suo popolo. Dio sta dalla parte dei poveri e mantiene le sue promesse di salvezza. Attraverso Maria, Dio visita il suo popolo.

La Madonna è stata con noi questa sera e lo sarà per sempre. La sua presenza ci dice che il Signore, l’Onnipotente, è in mezzo a noi e di noi si prende cura.

Omelia nella Festa di Santa Chiara

Valdragone (RSM), convento delle Clarisse, 10 agosto 2022

Auguri per la festa della vostra Madre e… vostra, perché ognuna di voi è chiamata ad essere Chiara.
Le immagini di santa Chiara di Assisi sono tantissime, tutte suggestive, tutte esegesi del Vangelo, tutte ben documentate nella storia. Penso all’incontro di Chiara con Francesco, alla “fuga d’amore” di Chiara che, alla domanda di Francesco: «Cosa vuoi?», risponde: «Dio!». Penso all’immagine di Chiara circondata da una schiera di vergini che la seguono; e all’incontro con il Papa per chiedere il privilegio di vivere in assoluta povertà.
Desidero fermarmi sull’icona che raffigura Chiara che va incontro ai saraceni, assoldati dall’imperatore per saccheggiare il monastero, stringendo nelle mani il ciborio con l’Eucaristia e attorno a lei le sue figlie. Chiara, le sue sorelle, il monastero, l’Eucaristia, il programma di vita fraterna, Gesù povero in mezzo a loro: tutto questo ci parla della Chiesa, Sposa di Cristo, Corpo di Gesù.

Sono quattro gli elementi essenziali che rivelano, radicano, configurano la Chiesa nella comunione: da essi non si può prescindere.

  1. La comune chiamata. Noi non ci siamo scelti, siamo stati chiamati, al di là delle singole provenienze. Si sta insieme, come cristiani, non per simpatia o per comunanza di idee, tanto meno per un censo economico. Paolo, rivolgendosi ai Corinti, dirà: «Non vi sono tra voi molti nobili, molti sapienti, eppure al Signore è piaciuto riunirvi insieme» (cfr. 1Cor 1,26-27). È un Altro che ci ha chiamati e ci tiene insieme; è guardando a lui, il Signore Gesù, che facciamo comunione tra noi.
  2. L’ascolto della Parola di Dio. Siamo tutti sotto la sua Parola. C’è un momento suggestivo nell’ordinazione di un vescovo: due diaconi prendono l’Evangeliario e lo mettono sul capo dell’eletto come per dirgli: «Sei sotto la Parola di Dio; accoglila, fanne riferimento esplicito della tua vita». Questo è vero per ogni cristiano. La comunità cresce sempre di più con la condivisione dei frutti della Parola: «Quando leggi il Vangelo e lo vivi, ti trasforma in un altro Gesù», tant’è vero che la Chiesa – docile alla Parola – diventa Corpo di Cristo. Si potrebbe stabilire un’analogia fra le parole pronunziate sul Pane nella Messa e le parole pronunziate sulla comunità. La condivisione delle esperienze consolida il tessuto comunitario; si tratta di narrazioni che testimoniano ciò che lo Spirito fa in ciascuno di noi.
  3. L’Eucaristia. Si dice: «L’Eucaristia fa la Chiesa» ed è proprio così, Chiara ce lo insegna in modo particolare. Come far sì che le nostre diventino sempre di più comunità eucaristiche? Bisogna che quanto si celebra diventi programma di vita. Proviamo a passare in rassegna tutti i momenti della Messa: l’accoglienza; la richiesta e l’offerta di perdono; l’ascolto attento della Parola di Dio; l’offertorio, con cui si mette sull’altare la nostra vita, la nostra giornata, quello che ci rattrista e quello che ci rallegra: la vita cristiana come oblatività; la consacrazione: parole pronunciate sul pane ma anche sulla comunità: «Questo è il mio corpo dato per voi, questo è il mio sangue versato per voi» (Lc 22,19-20); il momento dell’intimità con lo Sposo; la missione. Se vivessimo tutti i momenti della Messa, potremmo dire di avere una vita eucaristica.
  4. L’attesa, la tensione verso l’avvento del Regno. In genere si dà poca importanza all’attesa, relegandola al momento liturgico dell’Avvento, eppure è elemento fondamentale. Di fronte al comune sguardo sull’orizzonte, sul futuro, su quello che avverrà alla fine della nostra vita e alla fine della storia, i nostri passi e le nostre volontà si congiungono e gridiamo: «Vieni Signore Gesù!». La comunità è tale non solo per l’origine, ma anche per l’attesa condivisa, traguardo del cammino, speranza del futuro.

Elementi tutt’altro che decorativi, soprattutto nei momenti in cui è facile perdersi di coraggio e si sente la stanchezza. Questi quattro elementi – la comune chiamata, l’ascolto della Parola di Dio, l’Eucaristia, la tensione verso l’avvento del Regno – sono, in fondo, le quattro perseveranze di cui ci parlano gli Atti degli Apostoli. Così si dice dei primi discepoli: «Erano perseveranti nell’ascoltare l’insegnamento, nell’unione fraterna, nella frazione del pane e nelle preghiere» (At 2,42). Tutto questo è da calare nel nostro tempo. Qual è il nostro compito come comunità cristiana? È quello di tenere accesa, per il bene di tutti, la semplice fiamma della vita evangelica. «Tutte le volte che la comunità dei cristiani sa restituire ossigeno alla fiamma del Vangelo qualcuno alza sguardo»; qualcuno di altra cultura, di altra formazione che, magari solo da lontano, osserva la fiamma del Vangelo come un segnale da non perdere d’occhio. Quella luce che la comunità cristiana ha tra le sue mani serve anzitutto a lei per non smarrire la strada, ma quando è capace di tenerla viva i suoi riflessi trascinano anche le moltitudini.
Ormai alla fine dell’estate si sta cominciando a pensare al Programma Pastorale che la nostra Chiesa vuole ostinatamente attuare. In questo tempo di fragilità è necessario credere nello Spirito Santo, che genera e rigenera la comunità, continuare a vivere il Vangelo che ci è stato affidato, senza preoccuparci troppo dei numeri, tentazione sempre in agguato. Quando ci si incontra tra vescovi spesso ci si chiede: «Quanti seminaristi hai? Quanti giovani perseverano? Quante famiglie sanno progredire nella comprensione del sacramento del matrimonio?». Domande che costringono a prendere nota dei numeri. Non dobbiamo preoccuparci di questo, ma rimanere fedeli all’essenziale, reagire, nel caso ci sia avvilimento, continuare ad essere discepoli.
È passato circa un mese dall’Assemblea di fine anno pastorale. I partecipanti, in quell’occasione, hanno avuto la percezione spirituale di ritrovarsi nel Cenacolo, insieme con Maria, la Madre di Gesù, avvolti dallo splendore dello Spirito Santo. Propongo di ripartire, nel nuovo anno, in continuità con quell’esperienza. È il momento dell’uscita dal Cenacolo sulla piazza della città. Questo vale anche per chi non era presente all’Assemblea, vale per tutti. Credenti e diversamente credenti siamo mandati ad “abbracciare il mondo”, particolarmente in questi giorni così difficili; siamo chiamati ad esercitare la nostra responsabilità, non da soli ma insieme. Ho rivisitato recentemente un testo antico, dal Concilio di Trento (1563), mi è parso suggestivo: la comunità è paragonata alla Sposa del Cantico dei Cantici, della quale si dice che è così bella che sbaraglia eserciti con una sola delle sue trecce. La bellezza che conquista è la sua unità (cfr.  Sessione XXIII, c.4). «Uniti perché il mondo creda» (cfr. Gv 17,21). Facciamo nostro il fascino della comunione. Così sia.

Omelia nella Festa di San Lorenzo

Belforte all’Isauro (PU), 10 agosto 2022

2Cor 9,6-10
Sal 111
Gv 12,24-26

Ci sono due modi di spiegare la Parola di Dio. C’è l’esegesi, cioè lo studio “parola per parola” sui testi originali, facendo confronti e paralleli. Dobbiamo essere molto grati a coloro che studiano le Sacre Scritture, perché forniscono, anche a noi sacerdoti, suggestioni e contenuti: tirano fuori la ricchezza che è implicita nella Parola di Dio.
C’è un secondo modo di spiegare la Parola: è la vita dei santi. I santi sono la spiegazione viva, anzi vivente, della Parola del Signore.
Oggi ci siamo trovati di fronte ad un brano di Vangelo con paradossi e contraddizioni (anche se, poi, diremo che sono apparenti): morire per dare vita, guadagnare perdendo…
Come Gesù ci ha dato la sua vita, il fiotto immortale della risurrezione, attraverso il suo morire, così il discepolo e diacono Lorenzo ha dato la sua vita nel martirio. La sua vita è stata piena di senso ed è stata gioia per i poveri che assisteva. Non ha soltanto donato la vita nel morire, ma tutto il suo vivere è stato un dono di sé.
Se preferiamo Cristo e il suo Vangelo ai nostri interessi personali, alle nostre soddisfazioni, ai nostri egoismi, allora, per così dire, moriamo a noi stessi, ma viviamo veramente. Anche in ciascuno di noi si compie questo “paradosso”: «Si passa da morte a vita perché si ama» (cfr. 1Gv 3,14).
Ci sono due modi di amare e di vivere: si può amare malamente, e quindi vivere malamente, e si può amare bene, e quindi vivere bene. Vivere malamente la propria vita è trascorrerla egoisticamente. Viverla bene è donarla a Dio e ai fratelli.
Penso a Maria di Betania, che – dice il Vangelo di Giovanni (cfr. Gv 12,1-3) – accoglie Gesù nella sua casa e spezza un vaso intero di profumo, di nardo purissimo, assai costoso, per cospargere Gesù; Maria non dona col contagocce: dà tutto; quel gesto è simbolo del dono totale di sé. Come ha fatto san Lorenzo con i poveri della Chiesa.
Ricavo un’altra sottolineatura dalla prima delle letture che sono state proclamate. Questo il contesto: c’è una carestia; tutta la comunità di Gerusalemme soffre per la fame. San Paolo invita i Corinti a fare una colletta per raccogliere il necessario da mandare ai fratelli di Gerusalemme (cfr. 2Cor 9,6-10). Questo particolare è importante, perché sta a dirci che il dono di sé non è sempre programmabile: l’occasione per realizzarlo non accade sempre secondo i nostri programmi. Tante volte bisogna essere attenti alle circostanze, alle occasioni in cui vivere questa dedizione. Mai i cristiani di Corinto avrebbero immaginato di avere una relazione così stretta con i cristiani di Gerusalemme: non si conoscevano e le distanze erano enormi. Eppure, hanno colto l’occasione: si sono fatti fratelli concretamente. Secondo la tradizione, Lorenzo è morto giovane, martirizzato. Avrebbe potuto pensare di donare se stesso da più adulto, come a volte diciamo noi: quando avrò più tempo, quando avrò finito gli studi, quando andrò in pensione… allora mi dedicherò agli altri. No, Lorenzo ha colto subito l’occasione. È sempre il momento buono per giocarsi una “vita per”.
Siamo in pieno paradosso cristiano: morire per vivere pienamente (morire a se stessi, al proprio egoismo). Tutti desideriamo non morire e non restare soli, però Gesù dice che, se non si vuole morire a se stessi, ai propri gusti, alla propria volontà, alle false ricchezze, non si può che restare soli, chiusi nel proprio mondo; chi, invece, rinuncia liberamente a se stesso, apre il cuore ad una dimensione più grande di lui, si apre al mondo, agli altri. La sua preghiera non è asfittica, non si limita a pregare per le proprie intenzioni; egli diviene “uomo-mondo” che sa alzare lo sguardo e si incammina verso Dio tenendo per mano gli altri, soprattutto i fratelli più in difficoltà.

Morire fa paura: tutte le morti, quelle parziali, di ogni giorno, fino a quella definitiva. Ma questa parola di Gesù ci assicura che, come è stato per lui, così sarà per noi: il chicco di grano che cade in terra porta molto frutto (cfr. Gv 12,24).
Concludo con un fatto che mi ha emozionato. Alla fine di maggio un nostro sacerdote, don Maurizio Farneti, è morto tra grandi sofferenze. Alla Messa del suo funerale fu proclamato il Vangelo del chicco di grano. Nell’omelia ho tentato di spiegare la logica del morire per vivere pienamente. Alla Messa del Trigesimo fu proclamato il brano di Vangelo che parlava di una messe abbondante, biondeggiante; e Gesù dice: «Pregate il Padre perché mandi operai…». Come capire questa logica “illogica” del Vangelo? Solo lo Spirito Santo può darcene la capacità. «Vieni, Spirito Santo, persuadi ciascuno di noi a vivere una vita piena di senso perché piena del dono di sé, ricominciando ogni giorno, cogliendo sempre nuove occasioni, come ha fatto il giovane martire Lorenzo, che non ha aspettato di essere grande, ma ha cominciato da subito a donarsi, e per questo fu grande!». Così sia.

Omelia nella XIX domenica del Tempo Ordinario

Pennabilli (RN), Cappella del Vescovado, 7 agosto 2022

Sap 18,6-9
Sal 32
Eb 11,1-2.8-19
Lc 12,32-48

«Non temere, piccolo gregge, perché al Padre vostro è piaciuto dare a voi il Regno». La Chiesa di oggi è “un piccolo gregge”. Sono solito, quando parlo ai ragazzi o ai giovani, rappresentare la Chiesa con le tre “p”: siamo pochi, poveri e piccoli. Eppure, è il gregge che il Signore ama! È luogo della sua presenza. Il Signore non manda “le sue pecorelle” con chissà quale equipaggiamento, ma con la relazione che lui ha con loro. E loro andranno ad accendere altrettante relazioni. Un “piccolo gregge”, che è chiamato a moltiplicarsi e a crescere. Gesù ricorre ad un’altra immagine, quella del cuore che inevitabilmente è attratto dal suo tesoro: «Dov’è il tuo tesoro, là sarà anche il tuo cuore». Leggendo questo brano di Vangelo, vorremmo poter assicurare a Gesù che lui è il nostro tesoro, perché vorremmo che il nostro cuore fosse con lui. Verranno i momenti di difficoltà, di prova, i fallimenti… Anche i fallimenti possono essere occasione per dire: «Signore, io ho scelto te, non ho scelto la riuscita, i successi, ecc.».

Vorrei invitarvi a fare un lavoro su quello che forse è il tema principale del brano: la fedeltà.

  1. La mia fedeltà si fonda sulla fedeltà di Dio. È quello che è capitato ad Abramo e Sara: si sono fidati. Dio gli aveva promesso la sua vicinanza e loro hanno corso il rischio: «Parti, esci dalla casa di tuo padre, dalla tua patria, verso una terra che io ti mostrerò» (Gn 12,1). Dio gli ha promesso anche una discendenza «numerosa come la sabbia sulla riva del mare» (Gn 22,17) e loro l’hanno accolta, non poggiandosi sulle loro capacità, ma sulla fedeltà di Dio. A volte siamo fedeli perché abbiamo dato la parola: il nostro onore ci chiede di non mancare a quell’appuntamento, a quell’impegno, a quella responsabilità. C’è chi è molto fedele per rispetto alla persona, all’altro. Va benissimo. Ma, nel messaggio evangelico troviamo “una marcia in più”: sappiamo che sulla Parola di Gesù possiamo «gettare le reti» (cfr. Gv 21,6), possiamo dire il nostro “sì”. Di noi non ci fidiamo, ma ci fidiamo della forza e della vicinanza del Signore. Ci ispiriamo alla sua fedeltà. Fedeli perché lui è fedele! (cfr. 2Tm 2,13).

 

  1. La fedeltà è vigile. Gesù dice che è un guaio se il servo comincia a lasciarsi andare, visto che il padrone tarda a venire, o si mette a spadroneggiare nell’azienda, trattando male le persone… Occorre essere all’erta, perché il padrone, ad un certo punto, arriva e bisogna che il servo si faccia trovare fedele al suo posto di lavoro. Allargo la riflessione alla vita di coppia, alla mia vita di consacrato per il Signore, ai componenti di un gruppo; capiamo di dover essere umili, cioè consapevoli della nostra debolezza: allora scatta la vigilanza su di noi e sulle situazioni. Ad esempio, vediamo come oggi sia necessario essere vigilanti sulle notizie; è molto facile essere ingannati dalle notizie infondate (le fake news), ma anche dalle dottrine sbagliate che circolano nella comunità e soprattutto dalle false ricchezze. A volte si scambia quello che vale veramente con quello che è paccottiglia.

 

  1. La fedeltà è questione di amore. Guai se la fedeltà diventa rigorismo, rigidità, scrupolo! C’è qualcosa che non va quando si è troppo inflessibili, rigoristi, quando si ragiona per “si è sempre fatto così”. Non va imprigionata la fantasia dell’amore per il bene dell’altro, per ciò che giova veramente. Oggi vediamo tanta instabilità, ad esempio, nei sentimenti. È un fatto che è sotto gli occhi di tutti. Viene da dire: «Posso contare sulla mia capacità di amare o sulla capacità di amare dell’altro che è in relazione con me? Come posso promettere amore?». Ci vuole tenacia, fiducia, speranza. Questo vale in tutte le vocazioni. Penso alla mia vocazione sacerdotale (cinquant’anni!), a quando mi sono disteso per terra in cattedrale, secondo la ritualità dell’ordinazione, mentre si cantavano le litanie dei santi mi sono detto: «Sarò capace di essere fedele? Ho le risorse per esserlo?». Mi sono affidato, dicendo: «Signore, tu lo sai; ti dico il mio “sì”». In effetti, la fedeltà non è una cosa giocata una volta per tutte, ma qualcosa che si rinnova giorno per giorno, ogni giorno un “sì”.

 

  1. La fedeltà è apertura al futuro. Due ragazzi che si sposano, due genitori che donano la vita alla loro creatura, un sacerdote che comincia il ministero, una ragazza che si consacra al Signore, non sanno quello che accadrà lungo il loro percorso. Nella Lettera agli Ebrei si dice che il Messia, entrando nel mondo, prende nelle mani il rotolo scritto al suo interno e sigillato e dice: «Ecco, io vengo, per fare la tua volontà» (Ebr 10,7). Quindi, la fedeltà è il “sì” detto ogni giorno: occorre avere fiducia in Dio, negli altri e nel futuro. Il Signore ci chiede non tanto di fare “il dettato”, ma “il tema”: vuole la nostra creatività, non una fedeltà pedissequa.

Rivolgo a tutti questo augurio: restiamo sempre in “tuta da servizio”, pensiamo a Gesù che è venuto «non per essere servito, ma per servire» (Mc 10,45). La fedeltà è “accorgersi”. Quando si è in atteggiamento di apertura, di ascolto, di servizio “ci si accorge”. Accorgersi che uno del gruppo è in crisi, non parla più; accorgersi di uno che vorrebbe salutarti mentre tu parli con altri; accorgersi che manca un bicchiere sulla tavola… Accorgersi: anche questa è la fedeltà!