Omelia nella XXVII domenica del Tempo Ordinario

Ponte Cappuccini (PU), 2 ottobre 2022

Sante Cresime

Ab 1,2-3;2,2-4
Sal 94
2Tm 1,6-8.13-14
Lc 17,5-10

Le prime due letture appena proclamate preparano alla lettura del Vangelo: pongono la domanda fondamentale che riguarda il più giovane fra noi fino al più grande: che cos’è la fede? Serve la fede? È necessaria per la vita? Emergono tre pensieri.

  1. Il primo pensiero è una provocazione: cos’ha a che fare la fede con i problemi enormi e le sofferenze grandi che ci troviamo a vivere? La Prima Lettura è di Abacuc, un antico profeta. Da lui parte un grido di dolore, una vera e propria imprecazione verso Dio. È un santo in collera con Dio, in difficoltà con la sua fede perché Gerusalemme è stata distrutta e le popolazioni attorno a Gerusalemme sono annientate. Abacuc dice testualmente: «Signore, imploro aiuto e non mi ascolti; a te alzo il grido “Violenza!” e tu non salvi? Perché mi fai vedere l’iniquità e resti spettatore dell’oppressione?». Che coraggio! Prendere Dio per il collo e dire: «Che fai?». È una provocazione per la fede. Ai ragazzi che stanno per ricevere la Cresima ho confidato, durante un incontro, che ho avuto periodi della vita, uno in particolare, in cui sono stato in difficoltà con la mia fede. «Dove sei Signore? Cosa fai? Signore, resti spettatore?», mi chiedevo. La fede è interpellata dai nostri dubbi. Pensate che dovrei dirvi solo certezze? No, vi dico la domanda perché mobilita la mente e il cuore. Bisognerebbe che andassimo a casa tutti con la domanda (se uno si pone la domanda vuol dire che prende sul serio la fede, e che la fede per lui non è solo una cerimonia…).
  2. Il secondo pensiero: la fede va custodita, perché la si può perdere, oppure la si può tenere talmente sotto la cenere che pian piano si spegne. Allora bisogna soffiare sulle braci e, appena riappare una fiammella, mettere alcuni tizzoni di legna. Racconto un’esperienza. Quando studiavo all’università a Bologna, avevo un professore che era molto apprezzato in Italia (era un opinionista del Corriere della Sera, cattolico). Questo professore venne chiamato dal Presidente del Consiglio per una consulenza; era, infatti, un famoso economista. Al termine della riunione il professore si alzò in piedi, salutò e, mentre era sulla porta, il Presidente lo richiamò e gli disse: «Se lei sapesse come la invidio…». Non era per l’età (il professore era molto giovane) o perché era un grande economista, ma per la fede che avrebbe voluto avere anche lui. Un altro episodio. Nel capitolo XXIII dei Promessi Sposi l’Innominato è sconvolto nel vedere la forza e il coraggio di Lucia Mondella, la ragazzina insidiata da don Rodrigo. È tormentato e si fa tante domande sulla fede. Dopo una notte insonne sente suonare le campane (abitava nel suo castello) e vede tanta gente che arriva alla chiesetta del paese. Quel giorno c’è il Cardinale di Milano; allora va, vorrebbe parlare con lui. Rompe ogni indugio, chiede il colloquio. Il segretario dissuade il Cardinale dall’incontrare l’Innominato, spiegando che è un delinquente. Invece, il Cardinale gli va incontro e lo abbraccia. L’Innominato si ritrae… Il Cardinale gli dice: «Ero io che avrei dovuto venire da te, invece tu sei venuto da me; ero io che avrei dovuto portarti la pace di Dio». Allora l’Innominato sbotta: «Dio, Dio, se lo vedessi, se lo sentissi!». Il Cardinale replica: «Dio è quel tormento che ti lascia inquieto, che ti mette in cammino…». L’Innominato si sente capito e amato e si converte.

Ecco, vengo a dirvi che quel tormento che sentiamo dentro è proprio Lui che bussa al nostro cuore.

Quando la Bibbia parla del mare, lo pensa come qualcosa di terribile e terrificante, paragonabile al male. Eppure, Gesù dice: «Se aveste fede come un granello di senape (il più piccolo dei semi), voi potreste dire ad un gelso (una pianta presente in Palestina, famosa per le sue radici, ramificate e profonde) “sradicati e vatti a trapiantare nel mare”». Gesù usa questa immagine che è paradossale per dire: «Se tu hai fede, puoi affrontare anche le cose impossibili». Al profeta Abacuc risponderebbe: «Stai tranquillo, abbi pazienza, io ci sono. Non venirmi a chiedere bacchette magiche, ma sono con te nella prova e ti farò resistere».

  1. Il terzo pensiero: la fede va testimoniata. Mi riferisco alla Seconda Lettura. Cari ragazzi, con la Cresima il Signore vi darà uno spirito di forza, non di timidezza. Un mio alunno aveva fatto il proposito, durante il mese di maggio, di dire il Rosario tutti i giorni; una mattina, a scuola, mentre era alla lavagna, tirando fuori il fazzoletto, gli uscì la corona dalla tasca… I compagni iniziarono a deriderlo, ma lui rispose con tranquillità: «Sì, vado in chiesa, non si può?» Dimostrò a tutti di avere personalità, di essere un ragazzo in gamba. Al posto della derisione si guadagnò la stima di tutti. Ma quello che importa è che è stato testimone coraggioso della fede.

Avere fede. Conservare la fede. Testimoniare la fede.

Omelia nella XXVII domenica del Tempo Ordinario

Macerata Feltria (PU), 2 ottobre 2022

Sante Cresime

Ab 1,2-3;2,2-4
Sal 94
2Tm 1,6-8.13-14
Lc 17,5-10

Il tema delle tre letture è la fede.
Ho avuto un giovane professore che era un celebre economista, cattolico. In quel periodo in Italia c’era un “governo tecnico” guidato da un “laico”. Il professore ci raccontò in classe che era stato chiamato dal Presidente del Consiglio per le sue competenze. Alla fine del colloquio, mentre si congedava, il Presidente gli confidò la sua invidia: non era per la giovane età del professore, ma per la sua fede. Quante persone ci invidiano questo tesoro!
Voi ragazzi pensate di avere tutta la vita davanti, pensate di essere belli, simpatici, forti, intelligenti… Talvolta, inspiegabilmente, può succedere di sentire una grande malinconia. L’adolescenza è il periodo delle grandi domande, anche sulla fede. A me capitò di non avere il coraggio di confidarmi; non erano argomenti che volevo trattare con i miei genitori e non mi sentivo di parlarne neppure con il mio padre spirituale. Man mano che si va avanti nella vita si fa l’incontro con il dubbio, ci si pone in prima persona davanti alle grandi domande dell’esistenza. Se poi in famiglia capita una disgrazia, ci si chiede il perché della sofferenza e del dolore innocente…
La Prima Lettura che è stata proclamata è un testo del 600 a.C. Il profeta Abacuc critica Dio con un certo coraggio: «Ecco il grido “Violenza” e tu non salvi? Perché mi fai vedere l’iniquità e resti spettatore dell’oppressione?» (Ab 1,2-3). Il profeta va giù pesante con Dio. Tante volte nei Salmi c’è la preghiera dell’uomo che protesta davanti a Dio. Abacuc, che scriveva nel 600 a.C., aveva visto la violenza delle potenze mondiali di allora, che avevano distrutto Gerusalemme, la città santa, e avevano sterminato popolazioni intere.
Cosa risponde Dio ad Abacuc? Lo incoraggia a mantenere la fede, a pazientare con fiducia nelle prove della vita. Oltre alle guerre, ci sono tante altre disgrazie che accadono: terremoti e alluvioni, anche dentro i cuori. La fede soccorre in queste difficoltà. La fede è un dono, ma anche una decisione. È qualcosa che viene trasmesso, dai nostri genitori, dai nonni, dagli antenati. Basti pensare a questa chiesa: qualcuno l’ha costruita pietra su pietra, con arte, perché ha creduto.
Viene il momento in cui la fede è una nostra decisione personale. Siamo davanti a Gesù. Il suo Vangelo è cosa concreta. Gesù ci dice: «Credi? Ti fidi di me?». Rispondiamo: «Sì, Signore. Mi fido di te perché ho visto che quando vivo le parole del Vangelo si realizzano». Agli apostoli che, come noi, dicono: «Signore, aumenta la nostra fede!», Gesù dà una risposta che sembrerebbe insensata, paradossale: «Se aveste fede quanto un granello di senape…», cioè non è una questione di quantità, ma di qualità, «… potreste dire a questo gelso, sradicati e trapiantati nel mare e vi ascolterebbe». Il gelso è una pianta palestinese famosa per le sue radici, che sono articolate e vanno molto in profondità, una pianta difficilmente sradicabile (ci sono gelsi che hanno radici di seicento anni!). Gesù afferma che la fede è capace di sradicare un gelso e addirittura di trapiantarlo nel mare. Alberi trapiantati nel mare non se ne vedono… Gesù usa un’iperbole per dire una cosa forte: la fede è capace di compiere l’impossibile.
La Bibbia parla varie volte di alberi o legni nel mare. Ad esempio, l’arca di Noè, la barca di Gesù e degli apostoli durante la tempesta sul lago, l’albero della croce, piantato per terra, ma in verità radicato in un oceano di dolore, di peccato. Nella fede di Gesù quel legno ha trasformato il mare, che per gli antichi è simbolo delle potenze oscure del male. La croce piantata nella fede ha cambiato la situazione.
Ho conosciuto tanti alberi piantati nel mare, persone concrete. Una carissima amica ha lasciato tutto, è diventata una Piccola Sorella di Gesù e ora si trova ad Hong Kong, dove i cristiani sono pochissimi. Vive in un piccolo appartamento e fa la commessa in un supermercato: non fa altro che tessere relazioni per dire che dietro ad ogni rapporto di amore c’è Gesù. Per il resto della giornata prega. Ho conosciuto una mamma della mia parrocchia, che aveva una figlia gravemente disabile (era completamente immobile, respirava artificialmente, muoveva solo i suoi splendidi occhi). La ragazzina si chiamava Fidelia. Quando andavo a trovarla si sentivano le grida gioiose dei ragazzi che giocavano nel cortile della parrocchia. Ho chiesto alla mamma se la infastidivano quelle grida, pensando a sua figlia che invece era immobile nel letto. Mi rispondeva che era felice della presenza dei ragazzi, era felice della loro felicità! A ripensarci mi commuovo ancora. Quella mamma era come un “albero trapiantato nel mare”.
Cari ragazzi, tra poco si compirà su di voi qualcosa di straordinario. Ho parlato di alberi trapiantati nel mare, ma pensiamo agli apostoli, dodici pescatori, impauriti, che quando hanno ricevuto lo Spirito Santo nella Pentecoste sono diventati inaspettatamente coraggiosi. Il libro degli Atti degli Apostoli dice che erano «plebei illetterati» (At 4,13), ma dopo l’effusione dello Spirito hanno cominciato a testimoniare la loro fede in Gesù e hanno avuto l’audacia di presentarsi all’areopago di Atene…
Nel silenzio dite dentro di voi: «Vieni Spirito Santo. Questa mattina ti dico la mia fiducia, mi affido a te. Ho bisogno di te. È un momento importante della mia vita, devo prendere decisioni, devo fare i conti con i sentimenti che esplodono dentro di me, devo decidere ciò che è male e ciò che è bene. Vieni, Spirito Santo».

Omelia nell’ordinazione presbiterale di don Larry Johan Jaramillo Londono

Pennabilli (RN), Cattedrale, 1° ottobre 2022

Ab 1,2-3; 2,2-4
Sal 94
2Tm 1,6-8.13-14
Lc 17,5-10

1.
Ecco, oggi un giovane è eletto al ministero presbiterale, in un tempo di grande prova. La liturgia ci ha fatto ascoltare il grido del profeta Abacuc, un grido che viene da lontano, non ancora spento; viene da cuori che soffrono e gridano: «“Violenza!” e non salvi, Signore?».
Abacuc è testimone degli eccessi commessi dagli invasori che hanno devastato Gerusalemme e massacrato popolazioni (siamo intorno al 600 a.C.). Le immagini delle guerre di oggi ci fanno ben comprendere l’imprecazione e il pianto del profeta. Allo stesso modo profeti e Salmi hanno alzato grida di dolore e richieste d’aiuto. Anche Gesù ha gridato al Padre il suo abbandono durante la Passione. L’eco di queste implorazioni ci insegna come anche noi possiamo riversare davanti a Dio l’onda delle nostre angosce, delle nostre paure e persino delle nostre proteste: «Fino a quando, Signore, implorerò aiuto e non ascolti?».
Ma Dio risponde con caratteri indelebili scolpiti sulla pietra. Egli invita ad una fiduciosa e paziente attesa. Manda suoi messaggeri a rincuorare, a fasciare piaghe, ad asciugare lacrime, ad essere accanto ai fratelli nella prova. Questi sono vivi e resistono per la loro fede!
Caro Larry, il Signore ti manda per un ministero di consolazione. Ispirati al “buon samaritano”. Sii uomo di fede.

2.
«Ravviva il dono di Dio che è in te mediante l’imposizione delle mie mani», sono le parole di Paolo a Timoteo. Tra i riti dell’Ordine sacro il gesto principale è l’imposizione delle mani, accompagnato da una preghiera che ne indica la portata.
Questo gesto sul capo di Larry sarà compiuto dal vescovo e da tutti i presbiteri presenti, i suoi nuovi fratelli. La preghiera consacratoria è costituita da una solenne invocazione allo Spirito Santo – una epiclesi – proprio come nella preghiera eucaristica sul pane e sul vino che diventano Corpo e Sangue di Gesù per la vita del mondo. Allo stesso modo sul nulla di Larry si china la potenza dell’Altissimo e Larry sarà trasfigurato. Ma non verrà allontanato dai suoi fratelli, al contrario, è per loro questa sua santificazione. Ricordate le parole di Gesù: «Io per loro santifico me stesso» (Gv 17,19).
Il neoconsacrato non viene innalzato, ma è il Signore che si abbassa su di lui. La sacralità di cui viene rivestito sta tutta nell’essere dono che genera vita. Gesù gli domanda di renderlo visibile per essere sua parola viva per chi è smarrito, suo cuore perché possa manifestare a tutti il suo amore, per essere i suoi piedi per camminare tra i fratelli e le sorelle a cui dare speranza.
Quando Larry tornerà dalla cattedrale, dallo splendore di questa santa assemblea, ne percepiremo il “cambiamento”. Accadde anche agli ebrei quando videro Mosè scendere dal Sinai, ma non dobbiamo vivere questa percezione come disagio.
Se il Signore trasforma non è per staccare, ma per unire. Se il Signore prende e avvolge una persona è per renderla più vicina, più amica, più… Lui!
Se il Signore chiama qualcuno – è il mistero dell’elezione divina – è per risvegliare in tutti la dimensione vocazionale.
Torno alla Seconda Lettura. Timoteo rappresenta i pastori succeduti agli apostoli. Questa successiva generazione di responsabili di comunità non ha conosciuto Gesù prima della risurrezione. Di conseguenza la loro fede si fonda sulla testimonianza degli apostoli, che è “l’insegnamento solido”, il “deposito del Vangelo”.
Caro Larry, è su questa tradizione di fede che dovrai formulare il tuo insegnamento. Per far ciò non sei scoperto e disarmato, perché lo Spirito Santo abita in te! In ogni incontro – anche casuale – lascia un seme di Vangelo. Non esitare per l’aridità del terreno. Non vergognarti di dare testimonianza al Signore. «Custodisci il bene prezioso che ti è stato affidato».

3.
«Se aveste fede quanto un granello di senape, potreste dire a questo gelso sradicati e vai a piantarti nel mare».
Le Scritture ci parlano di legni sul mare che hanno reso un servizio veramente utile grazie alla fede. Lo furono, ad esempio, l’arca di Noè, la barca di Gesù e dei discepoli e, soprattutto, lo fu il legno della croce, sì piantato in terra, ma innalzato su un oceano di odio e di peccato. La fede di Gesù nel Padre ha capovolto la situazione. La fede è la forza che Gesù assicura ai discepoli sbigottiti davanti alla missione e agli ideali che propone loro. Loro ne chiedono “di più”: «Aumenta la nostra fede», ma la fede non si acquista “a pacchi”! È questione di qualità piuttosto che di quantità. Ne basta quanto un granello di senape: un seme piccolissimo che rende capaci di cose grandi. Prova decisiva della fede sono le opere del servizio. Attenzione: per Gesù il servizio non è un titolo di credito davanti a Dio. Il vero discepolo non cerca vantaggi per sé, non ha secondi fini. Le opere che nascono dalla fede sono soltanto amore, amore gratuito. Servire, voce del verbo amare.
Nella conclusione della parabola ci stupisce l’espressione usata da Gesù: «Siamo servi inutili, servi qualunque». In verità, Gesù sa che ciascuno di noi è unico agli occhi di Dio. «Inutili» perché non indispensabili. Dio potrebbe fare a meno degli uomini. Ma non lo fa! Dio ci chiama come suoi collaboratori e messaggeri. Per di più non ci chiama come servi, ma come amici (cfr. Gv 15,15). Fa esattamente al contrario del padrone della parabola perché lui stesso in persona ci fa sedere alla sua mensa, quella dell’Eucaristia, e passa a servirci!
Secondo alcuni autori la traduzione italiana del testo evangelico non rende bene l’idea di Gesù e non fa un buon servizio alla comprensione del testo. Nessuno è inutile per il Signore che ha detto per mezzo del profeta: «Tu sei prezioso ai miei occhi, perché sei degno ti stima e io ti amo» (Is 43,4).

Caro Larry, ripeto anche a te: «Quando cominci pensi al “per sempre”». Ho scritto queste parole aprendo le Sacre Scritture alla prima pagina: «Bereshît bara’ Elohîm (All’inzio Dio creò)» (Gn 1,1). Ogni opera di Dio è eterna, fedele, salvifica. La Parola di Dio ci fa conoscere infiniti eventi di creazione, di liberazione, di salvezza. Lo fa per educarci a comprendere come Dio è sempre all’opera nella nostra vita e come ogni inizio è sotto la sua volontà di benedizione. Il “per sempre” è perché lui ha iniziato in te. Ogni chiamata, ogni giorno, ogni ora, partecipa di quell’inizio: «Tu sei fedele, perché lui è fedele!».
La piccola Teresa di Lisieux, di cui oggi facciamo memoria, ti accompagni e ti sia guida nella “piccola via” della confidenza e dell’amore.
Ricordati di tutti noi, in particolare della tua famiglia, e anche di me, all’Altare del Signore.

Omelia nella S. Messa di Insediamento degli Ecc.mi Capitani Reggenti

San Marino Città (RSM), Basilica del Santo Marino, 1° ottobre 2022

Sap 9,1-6.9-11
Sal 126
Mt 7,24-27

Eccellenze,
Signori Ambasciatori, Autorità, e amici che siete presenti a questa celebrazione, un saluto cordiale.
Nel Primo Libro dei Re si legge che il Signore Dio apparve in sogno durante la notte a Salomone, il grande re d’Israele. Gli disse: «Chiedimi ciò che io devo concederti». Salomone non chiese né una lunga vita, né la ricchezza e neppure la morte dei suoi nemici; desiderava e chiedeva la sapienza. Il Signore Dio gli disse: «Ecco, siccome non hai chiesto nessuna di queste cose, ma un cuore docile e che sa ascoltare, ti concedo sapienza e intelligenza» (cfr. 1Re 3,4-14).
“Sapienza” viene da “sapere”, nei due significati: il significato transitivo, “sapere” qualcosa e il significato intransitivo “sapere di” qualcosa, dunque un sapere che ha sapore.
La Prima Lettura che è stata proclamata si basa sulla preghiera di Salomone. L’autore sa che la sapienza è un dono di Dio, per questo diviene l’oggetto della sua supplica. Due sono i motivi per cui invocare con fiducia questo dono: da un lato il Creatore vuole che l’uomo governi il mondo con intraprendenza e con giustizia (sapienza in riferimento alle decisioni) e dall’altra l’uomo non sembra essere in grado, per la sua debolezza, di realizzare un compito così difficile senza l’aiuto della sapienza (qui la sapienza è avvedutezza).
Il Dio della Bibbia vuole l’uomo come suo impresario e collaboratore; ne ha stima, «l’ha fatto poco meno di un dio» (cfr. Sal 8,6), può contare su di lui, gli affida la creazione e la sua famiglia. Questa la responsabilità dell’uomo: da una parte rispondere a chi lo chiama, dall’altra rispondere di quanto gli è stato affidato. Solo con la sapienza è possibile compiere questa missione.
La sapienza è la risorsa più necessaria, più utile e più desiderabile. Ecco alcune caratteristiche della sapienza secondo il testo sacro.
La sapienza siede accanto al trono di Dio: è famigliarità con Dio. Conosce le opere di Dio: sa vedere il suo disegno d’amore e discernere ciò che gli è conforme. Il testo sacro dice che la sapienza era presente e ordinava la sinfonia della creazione: la sapienza dà gusto e sapore, come il sale, a ciò che l’uomo è chiamato a fare. Ahimè, la sapienza è un valore poco apprezzato nel mondo: siamo frettolosi, sbadati e continuamente scavalcati dagli avvenimenti, pertanto in affanno; siamo condizionati da ciò che è più appariscente, che ci conviene e ci gratifica, insomma siamo tentati dall’egoismo.
Non resta che, come Salomone, invocare la sapienza: «Dammi la sapienza, che siede in trono accanto a te. Le parole con cui il testo sacro descrive la sapienza nel Nuovo Testamento sono riprese e rilette come rivelazione di colui che è il Verbo, il Figlio di Dio, Gesù Cristo: Lui è la Sapienza. Allora ascoltiamolo.
Nella pagina evangelica abbiamo ascoltato come Gesù tracci il profilo di due architetti. Ambedue sono abili costruttori. Hanno a disposizione in egual misura progetti e materiali. A nessuno dei due vengono risparmiate verifiche esigenti: nubifragi, alluvioni, tempeste… Non è così anche nella vita? Non è così anche nella società?
La differenza tra i due sta nell’accortezza e nella sapienza del porre fondamenta. Il primo architetto è sapiente perché costruisce sulla roccia dei valori trascendenti della carità e della verità. Il secondo architetto è stolto: costruisce castelli di sabbia, cioè costruisce sull’immanenza senza spiritualità.
La solidità del cantiere si vede nei tempi duri, ad esempio questi. Allora una società costruita e governata sapientemente reggerà l’urto degli eventi. Per quanto riguarda i “castelli di sabbia” è sufficiente una mareggiata per distruggere tutto!
Ben a ragione abbiamo proclamato nel Salmo: «Se il Signore non costruisce la casa, invano vi faticano i costruttori» (Sal 126,1).
«Nel nostro servizio non contano i risultati – diceva madre Teresa di Calcutta – ma quanto amore metti in ciò che fai». Chi non costruisce le relazioni sull’amore non avrà, per questo, una vita più facile o una società senza problemi: «Strariperanno fiumi, soffieranno venti» per gli uni e per gli altri. Il saggio non avrà una vita semplificata, ma un’esistenza nella consistenza, con più gioia, con radici salde che combaciano con la roccia.
«O Signore, dammi la sapienza che siede in trono accanto a te»!

Omelia nella XXVI domenica del Tempo Ordinario

Secchiano (RN), 24 settembre 2022

Festa degli anniversari di matrimonio

Am 6,1.4-7
Sal 145
1Tm 6,11-16
Lc 16,19-31

Due uomini guardati da Dio. Dio vede, eccome! Sono due uomini agli antipodi della scala sociale: un ricco e un poveraccio. Dio vede il ricco con abiti firmati, «di porpora e di bisso», che banchetta tutti i giorni, anche i giorni feriali; vede anche un uomo povero, ricoperto di piaghe. Appare subito una differenza: del povero viene detto il nome. Nelle parabole i personaggi non vengono mai chiamati con il nome proprio; questo povero, invece, ha un nome davanti a Dio, si chiama Lazzaro, che vuol dire “Dio aiuta”. Tutti noi che viviamo nelle povertà, economiche o psicologiche o di inadeguatezza, siamo dei “Lazzaro”, persone che Dio aiuta. Il ricco viene soprannominato (ma non è il suo nome!) “epulone”, cioè “mangione”. Dio vede l’uno e l’altro.
Di per sé Gesù non vuole parlare dell’aldilà, descrivere come sono l’inferno e il paradiso; non è questa la pagina su cui fondiamo le nostre conoscenze, seppur limitate. Gesù, infatti, non ha mai svelato com’è l’aldilà; parla solo di una gioia infinita presso di lui e di una lontananza da lui, quando quel cuore infiammato d’amore, che è il cuore di Dio, sta davanti a noi e noi, anziché bruciare d’amore per lui a nostra volta, siamo imbarazzati davanti al suo volto. L’inferno è essere dentro al cuore di Dio e non riuscire ad amarlo, non volerlo amare. Gesù non voleva neppure parlarci, con questa parabola, di un programma di lotta di classe o di giustizia sociale, anche se viene da pensare a noi popoli ricchi che diventiamo sempre più ricchi a scapito di popoli poveri che diventano sempre più poveri. Non vale dire che il mondo è fatto così. Dio non ha fatto il mondo così, ha fatto il mondo pensandolo come una casa in cui vivono fratelli e sorelle e ha reso ricco questo mondo di beni, di natura, di intelligenze e di libertà che si prendano a cuore la sorte del fratello. Le doti di ognuno sono state date per vivere la fraternità.
L’insegnamento della parabola si può esprimere attraverso tre immagini: l’immagine del muro, l’immagine del fossato o dell’abisso e l’immagine della solitudine. Il Vangelo ci lascia intendere che c’è come un muro che separa il ricco dal povero. Chi l’ha costruito? Viene da pensare che soltanto Dio possa fare un muro che parte dagli inferi e raggiunge il cielo. Non l’ha costruito Dio, ma il ricco epulone, giorno per giorno, con la sua insensibilità. Non si è accorto che davanti alla porta della sua casa c’era un povero. Se ne sono accorti i cani, che gli andavano a leccare le ferite, ma lui non se n’è mai accorto. Si direbbe quasi che il cuore, a causa dell’indifferenza, muoia a fuoco lento. Il muro invalicabile è la relazione mancata.
L’altra immagine è quella del fossato o dell’abisso. Il ricco dice: «Padre Abramo, chiedi a Lazzaro se può intingere anche soltanto un dito nell’acqua e lasci cadere qualche goccia sulla mia bocca arsa dal fuoco. Mi accontenterei…». Abramo risponde: «C’è un abisso fra te e lui; l’hai creato tu, giorno dopo giorno, senza accorgertene. Non dico che sei stato cattivo, che hai fatto del male a Lazzaro o l’hai scacciato, ma che, semplicemente, non ti sei accorto di lui».
La solitudine. È interessante vedere come questo personaggio, il ricco, non venga mai colto in compagnia di altri. Banchetta, ma si è creata attorno a lui una solitudine, la solitudine della non-relazione. Non si è curato nemmeno di mandare quello che rimaneva del suo pranzo a quel povero che era seduto alla porta della sua reggia. La solitudine: ecco l’inferno. Ribadisco: Gesù ci fa questo racconto non tanto per parlarci dell’aldilà, ma per svegliarci nell’aldiquà. Attenzione a non costruire muri, a non scavare fossati, a non chiuderci nel nostro io egoistico. Nella nostra povertà di meriti, di capacità, è rassicurante sapere che Dio ci aiuta perché ci vede. Stiamo sotto il suo sguardo, uno sguardo che non è inquietante, indagatorio, anzi uno sguardo che «fa crescere» (cfr. Sal 17,36). Un altro bellissimo Salmo inizia così: «Signore, tu mi scruti e mi conosci, tu sai quando mi alzo e quando mi siedo. Penetri da lontano i miei pensieri…» (Sal 138,1-2). Mettiamoci sotto quello sguardo.

Omelia nella XXIII domenica del Tempo Ordinario

Pennabilli (RN), Cattedrale, 4 settembre 2022

Sante Cresime

Sap 9,13-18
Sal 89
At 2,14a.36-41
Lc 14,25-33

Una catechista mi ha detto: «Lo sa, Eccellenza, che i nostri ragazzi sono diventati grandi? Allora ho spiegato loro che la Cresima è come una piccola Pentecoste!».
Ho risposto che la Pentecoste o è “grande” o Pentecoste non è! La Pentecoste è un avvenimento straordinario, irruente, luminosissimo. Quando si è manifestata per la prima volta, i discepoli che erano riuniti insieme nel Cenacolo hanno spalancato le porte e sono scesi in piazza. Loro che erano «plebei illetterati» sono diventati coraggiosi testimoni: non avevano più paura, hanno accettato persino di finire in carcere.
La Pentecoste sta accadendo adesso come è accaduta tanti anni fa, come abbiamo sentito proclamare negli Atti degli Apostoli.
Faccio un esempio per i ragazzi, sebbene, come tutti gli esempi, sia imperfetto. Quando lavorate al computer e volete richiamare un file, cliccate sull’icona che lo rappresenta e il file si apre davanti a voi. In un certo senso la Cresima fa quel “click”, in modo che viva la Pentecoste, la stessa che mobilitò gli apostoli e i discepoli e li fece diventare testimoni di Gesù. Fra qualche minuto accadrà qui quello che è accaduto a Gerusalemme. Non una piccola Pentecoste, una grandissima Pentecoste!

Prendiamo qualche spunto dal Vangelo di oggi. Dice: «Siccome una folla numerosa andava con lui, egli si voltò…» (Lc 14,25). Non è solo una frase redazionale. Quello che Gesù sta per dire è così importante che, mentre cammina, con «una folla numerosa» che lo segue, di botto si ferma e si volta. La gente dietro Gesù chiacchiera; c’è chi è curioso di conoscerlo, chi racconta i miracoli a cui ha assistito e le parole che ha ascoltato… Gesù si ferma, si gira e guarda: cerca i cuori, non gli importano le chiacchiere, gli applausi, neppure il successo. Cerca i cuori dei dodici apostoli, ma gli sarebbe bastato anche un cuore solo. Gesù adesso si volta e guarda ciascuno di noi. Gli basterebbe un cuore, il cuore di uno di noi che gli dica: «Ti voglio bene». Gesù aggiunge parole molto forti: «Se uno viene a me e non mi ama più di quanto ami suo padre, sua madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo» (Lc 14,26). Non intende ingaggiare una competizione per escludere qualcuno. Gesù non dice di amare meno gli altri, dice di amare di più lui. Se noi amiamo lui di più, perché lui è Dio, allora il suo amore scende e rende puro, bello, luminoso l’amore per i familiari, gli amici, i fratelli, tutte le persone. Gesù propone non una sottrazione di amore, ma un amore più grande.
Se chiediamo ad un bambino: «Quanto vuoi bene alla mamma?», sa che nel vocabolario non c’è una parola adatta per esprimere tutto l’amore che prova, allora stende le braccia per dire un bene immenso. Gesù dice: «Se quella è una misura immensa, ti chiedo di amare ancora di più».
Aggiunge poi un’altra frase: «Colui che non porta la propria croce e non viene dietro a me, non può essere mio discepolo» (Lc 14,27). Noi oggi portiamo la croce al collo, piantiamo la croce sulla vetta dei monti, è un simbolo nobile, ma al tempo di Gesù era terribile nominare la croce, era come parlare di ghigliottina, di sedia elettrica, ecc. Portare come lui la croce significa caricarci di quella porzione di dolore che ogni amore comporta. Quando si vuole bene fino in fondo ad una persona, per lei si è pronti a tutto: è una legge della vita. All’amico cui vuoi bene fai spazio nel tuo cuore, lo svuoti perché sia più accogliente.
Un esempio per i ragazzi. Ad un amico piaceva tanto fare zapping al televisore, lo faceva tutto il giorno, ma la sera, quando arrivava a casa il papà, rinunciava al telecomando per lasciargli guardare il programma che preferiva. Quel ragazzo voleva bene al papà coi fatti, non a parole; ad amare c’è sempre una piccola o grande porzione di dolore. Gesù ci chiede, anche per amare lui, una dimostrazione che può passare attraverso una fatica, una rinuncia, un dolore.
Qual è, in pratica, il centro di questa pagina di Vangelo?
Gesù dice che per vivere questi insegnamenti bisogna fare una cosa molto semplice: «Se vuoi vivere così, siediti e fai i tuoi calcoli» (cfr. Lc 14,28-33). Intende dirci che occorre fare una scelta che sia pensata. “Sedersi” vuol dire fare tesoro di quanto propone Gesù, ascoltare i maestri, pregare, prepararsi alle sfide che dobbiamo affrontare, fare calcolo e tesoro dello Spirito Santo che abbiamo ricevuto.

Omelia nella Festa di San Marino

San Marino Città (RSM), Basilica del Santo Marino, 3 settembre 2022

Sir 14,20-15.4
Sal 47
At 2,42-48
Mt 5,13-16

Eccellentissimi Capitani Reggenti,
Autorità civili e militari,
Carissimi sorelle e fratelli, presenti e collegati in diretta tv,
il mio più cordiale saluto.
Buona festa di San Marino.
È trascorso un altro anno. C’è stato l’impegno di tanti per migliorare sempre più la qualità di vita dei cittadini. Vita spirituale e vita civile. Ci siamo misurati con emergenze drammatiche e successive: il contenimento della pandemia, con risposte efficaci; la guerra e le sue conseguenze, con il giudizio, con gli aiuti e con l’accoglienza; ora ci interpella la crisi energetica che incombe su imprese e famiglie. Poi, la ripresa, dopo il Covid, di tante iniziative per la gioventù: nella scuola, nello sport, nell’università, mentre si affrontano la sofferenza e il disagio con la presenza delle istituzioni e del volontariato. Affidiamo all’intercessione di san Marino preoccupazioni, speranze e sfide.
Permettete un ricordo commosso per le famiglie che piangono, in questi giorni, per la perdita dei loro ragazzi: Simone e Giada. Ci stringiamo sinceramente a loro con l’affetto e con la preghiera.
In un’unica festa celebriamo la fondazione della nostra comunità civile e il santo Fondatore Marino. Nella stessa comunità la dimensione civile e la dimensione religiosa si intrecciano. Sono chiamate ad essere unite, ma non confuse, inseparabili ma senza prevaricazioni. San Marino – a quanto è dato ricostruire – non intese fondare una comunità religiosa, un monastero a cielo aperto, né un sistema integralistico, ma una società fraterna, dove si dà «a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio» (Mt 22,21). La liturgia ci suggerisce di interpretare questa forma di società sull’esempio della comunità cristiana degli inizi: «I cristiani erano assidui nell’ascoltare l’insegnamento degli apostoli e nella unione fraterna, nella frazione del pane e nelle preghiere… Tutti coloro che erano diventati credenti stavano insieme e tenevano ogni cosa in comune» (At 2,42.44).
Da sempre la nostra tradizione ha promosso, più o meno consapevolmente, più o meno felicemente, il valore e la pratica della laicità, facendo vivere insieme persone di diverse convinzioni e orientamenti.
Questa laicità trae uno dei suoi punti di forza dalla visione integrale della persona (propria dell’antropologia cristiana). Chi non è credente non tema le radici cristiane della nostra comunità, è proprio su queste radici che si fonda il rispetto e la libertà di ognuno. La nostra libertà è reale, non per concessione di qualcuno, ma perché fondata sulla dignità della persona.
D’altra parte, chi è credente può contare sul rispetto e la considerazione di chi, di altra convinzione, professa la laicità come valore.
Laicità è anzitutto accoglienza dell’altro, del suo patrimonio ideale, della sua storia, dei suoi diritti ad avere spazi e mezzi, insieme ai doveri, di manifestare pubblicamente il proprio pensiero e di intraprendere iniziative secondo il principio di sussidiarietà (riconosciuto universalmente). La vera laicità è molto più della tolleranza, è più della semplice cortesia, è simpatia verso il dono che ognuno può portare all’insieme.
Riflessioni troppo ideali? Sappiamo tutti che la convivenza comporta diversità, tensioni e persino conflitti. Realisticamente. È stato così in passato. Lo è nel presente. Per fortuna possiamo imparare a gestire i conflitti nella diversità delle ragioni.
Credenti e non credenti siamo consapevoli che le nostre origini vengono da un santo della Chiesa Cattolica. È per questo motivo che, insieme e gioiosamente, facciamo memoria del santo Fondatore con questa solenne celebrazione e con la processione per le vie della città. Anche questo dato storico fa parte della nostra peculiarità, ci costituisce – appunto – sammarinesi. Certo, siamo anche aperti al nuovo, alla modernità, alla inclusione, agli sviluppi della cultura: «Tutto quello che è vero, nobile, giusto, puro, amabile, onorato, quello che è virtù e merita lode, tutto questo sia oggetto dei vostri pensieri» (Fil 4,8).
Non posso non condividere con questa assemblea la lacerazione nel cuore che, come cattolici, abbiamo vissuto e stiamo vivendo in questo tempo, a proposito della legge che consente la pratica dell’aborto. Questione delicata che ha a che fare con la dimensione religiosa (principi di fede) e con la dimensione sociale (insieme principi di fede e principi di ragione). Nessuna legge che ammette la soppressione della vita nascente è buona: la vita è sacra e inviolabile. Sempre. Molto si è lavorato attorno a questa legge e si è fatto il possibile per recepire istanze morali. Rimane il principio secondo il quale ciò che è legale non sempre è morale. Un esempio: la schiavitù ai tempi di san Paolo era legalizzata, ma l’apostolo chiede a Filemone (un discepolo) di considerare Onesimo non uno schiavo, ma come un fratello in Cristo (cfr. Filemone).
Ci si è messi dalla parte delle donne. Consentitemi una domanda: «Davvero?». Davanti ad una gravidanza indesiderata, davvero l’opzione “interruzione” giova, in qualche modo soccorre la domanda, il grido di vita che è proprio della donna?
Ci si è messi dalla parte delle donne, e più che giustamente: portano la gioia ma anche la fatica del grembo, e soprattutto portano secoli di prepotenze e abusi. Ma non sono l’unico soggetto: che dire del nascituro? Che dire del padre? Che dire della società, famiglia umana?
Questo è il momento più adatto per rinnovare il nostro impegno a favore di una cultura della vita e della famiglia; tra l’altro non è secondaria la questione demografica e soprattutto quella educativa: accompagnare i giovani alla comprensione dell’affettività e della corporeità. Costruiamo ponti di collaborazione. Proprio in nome della dignità della persona quale “assoluto umano” (E. Mounier) esprimiamo, come cristiani, il massimo rispetto per gli eventi e le diversità che possono manifestarsi e segnare i nostri giorni. Guardiamo avanti. Facciamo di tutto per prevenire, per quanto possibile, l’interruzione volontaria della gravidanza. Tutti concordiamo, comunque, che è un dramma umano che tocca tutti.
Mi piace citare un celebre passaggio dalla Lettera a Diogneto, un documento antico, dei primissimi secoli cristiani, che già prefigura il rapporto cristiano-società: «I cristiani né per regione, né per voce, né per costumi sono da distinguere dagli altri uomini. Infatti, non abitano città proprie, né usano un gergo che si differenzia, né conducono un genere di vita speciale. Vivendo in città greche e barbare, come a ciascuno è capitato, e adeguandosi ai costumi del luogo nel vestito, nel cibo e nel resto, testimoniano un metodo di vita sociale mirabile e indubbiamente paradossale. […] Si sposano come tutti e generano figli, ma non gettano i neonati. Mettono in comune la mensa, ma non il letto. Sono nella carne, ma non vivono secondo la carne. Dimorano nella terra, ma hanno la loro cittadinanza nel cielo. Obbediscono alle leggi stabilite, e con la loro vita superano le leggi. […] A dirla in breve, come è l’anima nel corpo, così nel mondo sono i cristiani». Concludo con la preghiera: «Signore, che hai chiamato il santo diacono Marino a riunire una comunità di credenti conforme allo stile di vita della Chiesa dei primi tempi e l’hai posta sul monte perché fosse glorificato il tuo nome, concedi a noi di proseguire con fedeltà l’opera da lui iniziata». Così sia.

Omelia nella Giornata per la Cura del Creato

San Marino Città (RSM), Basilica del Santo, 31 agosto 2022

Da qualche anno, in tutta la Chiesa – o meglio in tutte le Chiese – si celebra la Giornata Mondiale di preghiera per la Cura del Creato. L’iniziativa è partita dal Patriarca di Costantinopoli. Il 1° settembre, infatti, è il giorno nel quale la liturgia orientale ortodossa celebra il “Giorno della Creazione”. Nella Chiesa Cattolica, effettivamente, festeggiamo il Natale, la Pasqua, l’Ascensione, la Pentecoste, i santi e la Madonna, ma non c’è un giorno in cui considerare il mistero straordinario della creazione. Prima papa Benedetto XVI e poi papa Francesco hanno indetto una Giornata, proprio il 1° settembre in unità con tutte le Chiese, per la preghiera e la cura del creato con tre scopi: fare festa al dono di Dio che è il creato; convertirci: spesso si spadroneggia sul creato; prendere insieme un impegno di cura.
In questo giorno e nelle settimane successive, fino alla festa di san Francesco d’Assisi, il 4 ottobre, si moltiplicano le iniziative, i convegni, gli incontri, le veglie di preghiera. Grande rilievo si dà, in questo periodo, al documento di papa Francesco che ha reso più pensosa l’umanità la Lettera Enciclica Laudato si’. In essa il Papa coraggiosamente denuncia il saccheggio che si opera contro la natura e contesta, critica, quello che è “a monte” di questo atteggiamento, cioè lo sfrenato desiderio della ricchezza e il volere a tutti i costi dominare il creato.
Anche la nostra Commissione diocesana per la pastorale sociale e del lavoro ha lanciato questa Giornata e questo Tempo per il creato. Siamo appena all’inizio. Dovremmo, anno per anno, coinvolgere sempre più fratelli e sorelle.
La Giornata del Creato ha sempre un tema specifico. Quest’anno è: «Ascolta la voce del creato». Se impariamo ad ascoltare la voce del creato notiamo in essa una sorta di dissonanza, così sottolinea papa Francesco nel Messaggio per questa Giornata. Da un lato è un dolce canto che loda il creatore: abbiamo cantato insieme un versetto del Salmo 18: «I cieli narrano la gloria di Dio, l’opera delle sue mani annuncia il firmamento», ma tutta la poesia biblica è un inno alla creazione e al creatore. Da un altro lato c’è un grido amaro che lamenta i nostri tradimenti. Significativo a questo proposito quanto abbiamo sentito nella Prima Lettura: il roveto che arde senza consumarsi e l’invito rivolto a Mosè, che si mette in profondo atteggiamento di ascolto e si toglie i sandali, perché quella terra è santa (cfr. Es 3).
Viene proposto il tema della meraviglia: Mosè, e noi con lui, vorremmo non perdere mai il senso della meraviglia. Quello che vediamo, il mondo in cui viviamo, sono un dono. C’è stato dato non per il saccheggio, ma per la custodia. Dovremmo fare per il creato quello che Dio fa, dunque, per il suo popolo. Avrete notato i verbi della premura di Dio: ho osservato la miseria del mio popolo, ho udito il suo grido, conosco la sua sofferenza, sono sceso per liberare (cfr. Es 3,7-8). Poi l’invito a Mosè: «Va’, io ti mando…» (Es 3,10). Il creato non smette mai di parlare: lo ascoltiamo?
La pagina del Vangelo che è stata proclamata invita alla fiducia e lo fa mettendoci in contemplazione: «Guardate». Guardare è un verbo che dice profondità: un conto è vedere – gli occhi vedono – un conto è guardare: nel guardare c’è una intenzionalità, un inizio di contemplazione: «Guardate gli uccelli nel cielo» (Lc 12,24). Poi Gesù dice: «Osservate»; un verbo ancora più intenso, più carico. «Osservate – ripete – i gigli del campo; neanche Salomone con tutta la sua gloria vestiva come uno di loro» (cfr. Lc 12,27). Gli uccelli del cielo, i gigli del campo sono il nostro libro di meditazione. «Il dolce canto del creato – dice papa Francesco nel suo Messaggio – ci invita a praticare la “spiritualità ecologica”, attenta alla presenza di Dio nel mondo naturale. È un invito a fondare la nostra spiritualità sull’amorevole consapevolezza di non essere separati dalle altre creature, ma di formare con gli altri esseri dell’universo una stupenda comunione universale». Per i discepoli di Cristo, in particolare, tale luminosa esperienza rafforza la consapevolezza di quello che dice Giovanni nel Prologo del suo Vangelo: «Tutto è stato fatto per mezzo di lui (del Verbo) e senza di lui nulla è stato fatto di ciò che esiste» (Gv 1,3). Allora in questo Tempo del Creato riprendiamo a pregare nella grande cattedrale del creato, godendo del “grandioso coro cosmico” di innumerevoli creature che cantano le lodi di Dio. «Purtroppo quella dolce canzone è accompagnata da un grido amaro – cito ancora papa Francesco – o meglio da un coro di grida amare» (Papa Francesco, Messaggio per la Giornata Mondiale di preghiera per la cura del creato, 2022).
Il Papa nomina cinque soggetti di questo coro: la madre terra, in balia dei nostri eccessi consumistici; le diverse creature, alla mercè di un “antropocentrismo dispotico”; i poveri che sono tra noi esposti alle crisi climatiche, al forte impatto della siccità, alle inondazioni e agli uragani; le sorelle e i fratelli dei popoli nativi, vittime di interessi economici predatori; infine, gridano i nostri figli, minacciati da un miope egoismo.
Concludo con una breve sottolineatura sulla pagina di San Paolo. Ci riferisce il grido drammatico della creazione sottoposta alla caducità, nella speranza che anche lei sarà liberata dalla schiavitù della corruzione per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio. «Sappiamo infatti che tutta la creazione geme e soffre per le doglie del parto» (Rm 8,22). Ma la sofferenza del creato e dell’umanità viene aperta alla speranza. Animati dalla speranza dobbiamo fare tutta la nostra parte.

Omelia nella S. Messa per le Esequie di Giada Penserini

Gualdicciolo (RSM), 31 agosto 2022

2Cor 4,14-5,1
Gv 12,23-28

Anzitutto un abbraccio.
Certamente il mio; ma soprattutto quello caldo dei giovani e degli amici di Giada, dei compagni di Liceo; l’abbraccio di questa chiesa che l’ha vista bambina: qui il suo primo incontro con Gesù nella Prima Comunione.
Un abbraccio grande da parte di tutta la comunità sammarinese e degli operatori della comunicazione che hanno seguito e seguono quanto accaduto.

Coraggio, in questo momento di buio.
Non una esortazione retorica, ma nella certezza che Giada è accanto, fiera della sua famiglia, da cui ha ricevuto tanto amore, sostanza della sua breve esistenza terrena. Giada vuole certamente che la vita della sua famiglia riprenda, ancora una volta nel segno del dono di sé. Lei – mi par di sentirla – dice: «Brava mamma. Bravo papà!».
Significativo il nome che avete scelto per lei, “Giada”, pietra preziosa e di particolare lucentezza, ricca di sfumature colorate.

Una lezione.
La sofferenza e il dolore, benché incomprensibili, fanno andare in profondità. E nel profondo si scopre quanta solidarietà, quanto amore, quanta empatia si sprigiona. Si cresce nell’amore reciproco. D’incanto si diventa più umili, più consapevoli della propria fragilità, senza amarezza, ma bisognosi gli uni degli altri, più coscienti di ciò che vale e resta. Riferisco la raccomandazione che proprio ieri mi hanno rivolto i nonni di Giada: «Dica ai ragazzi la nostra gratitudine per la vicinanza a Giada e alla famiglia».

La vita può ricominciare?
Negli anni di Liceo ho vissuto un’esperienza dolorosa come questa: la morte del mio compagno di banco…
Mi ritrovai in questa pagina delle Confessioni di Sant’Agostino, dettate dai ricordi, dall’amicizia e da una vita che ricomincia: «E poi c’erano altre cose che avvincevano il mio animo: le conversazioni e le risate insieme, lo scambio di affettuose gentilezze, la lettura in comune di libri piacevoli, fare insieme cose ora insignificanti ora importanti, contrasti passeggeri, senza rancore, come succede ad ogni uomo anche con se stesso, e con quei contrasti peraltro così rari, rendere più gustosa l’abituale concordanza di vedute; insegnarci cose nuove a vicenda, sentire acutamente la nostalgia per gli assenti e accoglierli con gioia al loro ritorno: questi e altri simili segni, sgorganti da cuori che amano e si sentono riamati, ed espressi col contegno, con le parole, con lo sguardo e con mille graditissimi gesti, fondono insieme come fiamma gli animi e di molti ne fanno uno solo». (Sant’Agostino, Confessioni, IV,8).

Parole di vita eterna.
Si dicono parole – mi rendo conto che sto pronunciando parole dinanzi a tutti – ma le parole non placano il dolore. Ci sono parole ben diverse dalle nostre per l’origine, lo spessore e la forza. Sono state proclamate poco fa. Vengono da Dio, affrontano la realtà senza circonlocuzioni, hanno la stessa forza della creazione: «Dio disse, e le cose furono fatte». Sono una sfida, sono paradossali: parlano di una vista, di uno sguardo che sa vedere e penetrare l’invisibile: «Noi non fissiamo lo sguardo sulle cose visibili, ma su quelle invisibili». È lo sguardo della fede. Parafrasando, un autore cristiano scrive: «Non si vede bene che con il cuore». Il cuore vede e sa quello che non si vede e non si capisce.
Sono parole che assicurano il destino di vita del chicco di grano caduto in terra che, misteriosamente, produce molto frutto. È la piccola parabola che Gesù racconta per noi, ma anche per lui, spaventato e schiacciato dall’ora della croce che sta per scoccare: «Ora l’anima mia è turbata; che cosa devo dire?». Gesù fa della sua vita un’offerta.
Esprimo ammirazione e dico grazie ai genitori che hanno messo a disposizione gli organi di Giada per salvare vite. Penso a Giada chicco di frumento divenuto moltiplicatore di vita.

Omelia nel 40° anniversario della visita di Papa Giovanni Paolo II alla Repubblica di San Marino e alla Diocesi (1982-2022)

Serravalle (RSM), 28 agosto 2022

1.

40 anni fa Giovanni Paolo II faceva visita alla Repubblica di San Marino e alla Diocesi di San Marino-Montefeltro: il primo papa a metter piede sul monte Titano!
Chi era presente può testimoniare la gioia e l’entusiasmo suscitati da quell’evento straordinario. Noi, che oggi ricordiamo con gratitudine, sentiamo tutta la responsabilità del messaggio che ci ha lasciato e rispondiamo “sì” ai suoi appelli: due discorsi importanti e ampi, uno più breve, ma molto affettuoso, al momento dell’Angelus. Si è soliti citare un passaggio della sua omelia, tenuta durante la Messa qui a Serravalle: «Cari Sammarinesi, la vostra Comunità deve rimanere fedele al patrimonio ideale costruito nei secoli sull’impulso del suo Fondatore».

2.

Consentitemi di riproporre alcune chiavi di lettura del magistero di questo straordinario pontefice, a noi divenuto ancora più caro col passare degli anni e ora santo.
Anzitutto considero le sue origini. A molti era sconosciuto; al momento della elezione, sul bancone di san Pietro, lui stesso si presenta come «un uomo venuto da lontano». È il primo papa non italiano. Interrompe una tradizione di cinquecento anni. È polacco, figlio di una nazione contesa, travagliata, ricca di storia e di cultura. Giovanni Paolo II avrà molto a cuore la storia e la cultura, non solo polacca, ma di ogni nazione del continente. Proporrà nella sua visita all’ONU la stesura di una “Carta dei diritti delle nazioni”; a Compostela, nel 1992, rivendicherà solennemente le radici cristiane dell’Europa. Ha conosciuto l’antisemitismo di stato, gli orrori della Seconda Guerra Mondiale, i crimini della Shoah e l’altro totalitarismo che ha segnato il secolo, il comunismo. Non c’è da stupirsi allora, se questo papa, forse più dei predecessori, ha cercato il rapporto con gli ebrei, si è speso con tutte le sue forze per superare i conflitti, è intervenuto con vigore sui fatti di società; per questo è stato definito «il papa dei diritti dell’uomo». Quale papa italiano, francese, tedesco o africano avrebbe potuto sostenere il sindacato Solidarnosc con la stessa convinzione e la stessa forza? A lui è toccato, perché polacco, il compito di superare lo status quo di una Europa divisa in due blocchi. A lui il merito di spiegarci che il comunismo è stato una parentesi della storia e la divisione dell’Europa un accidente. Solzenicyn, all’indomani del conclave del 1978 dichiarò: «Questo papa è un dono del cielo!».

3.

Quasi tutti i papi prima di lui sono entrati giovanissimi in Seminario (c’erano i Seminari minori, secondo la prassi di allora). Invece Giovanni Paolo si incammina verso il sacerdozio avendo compiuto ventun anni. Durante la guerra, appassionato di teatro, è attore. Una passione che l’ha accompagnato fin dall’adolescenza. Dedica tempo a leggere testi, a ripeterli e a recitarli, tutto questo con giovani e ragazze, amici e amiche, come lui appassionati di letteratura polacca e impegnati, sotto la dominazione nazista, a difendere il patrimonio della nazione. Queste frequentazioni, soprattutto la presenza femminile, segnano la sua maturazione. Ciò sarà determinante per la pastorale del futuro papa. All’amico giornalista André Frossard, Wojtyla confiderà di non aver mai considerato l’amore umano un problema. Si appassionerà a questo tema, l’amore umano, soprattutto nel periodo in cui è stato assistente degli universitari a Cracovia, avvicinando centinaia di adolescenti e di giovani. In piena occupazione comunista, pubblica, durante gli anni ‘50, il libro “Amore e responsabilità”. È il periodo in cui è professore di etica all’università di Lublino e a breve sarà vescovo, tra i più giovani al mondo, poi arcivescovo di Cracovia. Affronta con schiettezza temi che toccano da vicino i giovani. Ad esempio, l’egoismo maschile, un tabù che Karol contesta considerando la relazione sessuale un dono assoluto e reciproco fra uomo e donna, e non la strumentalizzazione dell’uno per la soddisfazione dell’altro. È perché crede che l’atto sessuale sia qualcosa di positivo che Wojtyla è diventato un avversario della contraccezione, tutto ciò che altera l’assoluto di questo magnifico dono è da condannare. Fino alla fine Giovanni Paolo II sarà coerente con questa posizione esigente, come ribadirà a Kampala in Uganda, nel cuore dell’Africa segnata dall’AIDS: un discorso che gli attirerà molte critiche.

4.

Da giovane sacerdote, da vescovo e poi da papa avrà un’assidua frequentazione della gioventù. Lo chiamavano “wojcik” (“zio”), un soprannome che ha facilitato rapporti, condivisioni e anche viaggi in libertà (in calzoncini) lungo i fiumi della Polonia praticando la canoa. Da papa non ha smesso di incontrare i giovani. A Castelgandolfo, d’estate, viveva momenti intensi di preghiera e di dialogo con loro, come nelle serate di Cracovia. Sono stati questi dialoghi ravvicinati a suggerirgli l’idea delle Giornate Mondiali della Gioventù. La prima volta fu per accogliere la proposta dell’ONU di dedicare l’anno 1985 alla gioventù, ma questo pretesto ha dato luogo ai grandi eventi della GMG, eventi memorabili, momenti di grazia, ma anche esperienze profonde di interiorità per i giovani protagonisti. Nei luoghi prescelti per la GMG Giovanni Paolo II affronta direttamente, di petto, i problemi di quella comunità. A Denver (1993), la prima GMG a cui ho partecipato come assistente, il tema era la vita. Qualche volta ha dovuto anche misurarsi con lo scetticismo dei vescovi. Chi avrebbe immaginato il raccogliersi di milioni di giovani attorno ad un anziano vestito di bianco che spiega, senza alcuna reticenza, ma con immenso amore, che non si devono confondere il bene e il male in momenti di poca chiarezza.

5.

Dunque, una personalità fuori dal comune, stratega politico, pastore eccezionale, globe trotter infaticabile. Ma Giovanni Paolo II è stato soprattutto un grande credente. La sua fede non è astratta, la sua religione è profondamente incarnata. Mette in ogni questione l’Uomo al centro di tutto. L’Uomo con la “U” maiuscola. Chi non ricorda quell’ «aprite le porte a Cristo, non abbiate paura». Non c’è dubbio: nella storia moderna verrà ricordato come il papa dei diritti dell’uomo, il cantore instancabile della responsabilità, della dignità e del primato dell’uomo; ma verrà ricordato soprattutto per la sua fede. Gli ultimi tempi della sua vita ne furono la rappresentazione, tanto chiara quanto commovente. Ricordiamo tutti questo anziano sofferente, affaticato, piegato in due, a cui era difficile camminare, parlare, persino benedire. Sussurri di dimissioni, smentite! Il papa comunicatore è perfettamente cosciente dell’immagine che, attraverso la tv, dà a tutto il mondo. Il mondo deve vedere che non è più il papa sportivo, che scia, va in canoa, si arrampica sui monti, che il cardinale Marty chiamava “l’atleta di Dio”. Il vecchio papa sofferente mostra e insegna che un uomo malato, disabile, allettato, è ancora un uomo. Ciò che lo rende ancora più bello e più nobile è la lezione di vita impartita fino all’ultimo respiro, al mondo intero. Un interrogativo: che risposte stiamo dando noi, la nostra Chiesa e la nostra Repubblica agli appelli di questa straordinaria guida dell’umanità, di questo santo così luminoso del nostro tempo? Conserviamo gelosamente la memoria della sua visita. Chiediamo la sua intercessione. Così sia.