OMELIA PER LA VEGLIA PASQUALE

Lasciarsi trasformare

20 aprile, Cattedrale di Pennabilli

 

Lasciarsi amare.

Lasciarsi amare da un Dio che s’è fatto vicino, perché perdutamente innamorato (non c’è altro motivo); un Dio che si piega a lavare i piedi alla sua creatura. E’ un’esigenza del suo amore intrattenersi in una relazione d’amore con noi, come sposo dolcissimo.

Lasciarsi salvare.

Lasciarsi salvare: sappiamo tutti quanto è corto il nostro fiato, quanto in salita la strada, quanto buio l’orizzonte, quanto ardua l’impresa dell’esistenza. Lui non umilia, non interviene dall’alto; condivide la nostra condizione, si mette, anzi, al disotto di noi, dalla più scomoda delle posizioni, quella dell’innocente condannato a morte. Si passa da morte a vita quando si ama (cfr. 1 Gv, 3-14): ecco il segreto, la formula che ci salva. Non il dolore, ma l’amore: il suo.

Lasciarsi trasformare.

Lasciarsi trasformare: Cristo ci vuole come altrettanti “Lui”. Come Lui amanti. Come Lui amanti salvati e salvatori a nostra volta. In questa notte abbiamo vissuto l’esodo, in cammino dietro una colonna di fuoco (il cero pasquale). Ecco la prima trasformazione: non più schiavi, ma liberi.

Abbiamo ascoltato squarci di storia della salvezza; quella storia ci racconta che siamo stati creati a sua immagine, immagine indistruttibile anche se deturpata dall’infedeltà, ma poi resa ancor più splendente. E’ la seconda trasformazione: cuori di pietra in cuori di carne, perché appaia che siamo fatti di cielo.

L’annuncio della resurrezione di Gesù ci assicura che anche per noi c’è un destino di “vita per sempre”. Cristo è risorto! Noi siamo risorti con lui! L’acqua del Battesimo – che tra poco scorrerà abbondante da questo tempio – significa morte e vita. Le tre immersioni nell’acqua battesimale significano i tre giorni di Cristo nel sepolcro e poi lo splendore del terzo giorno: la resurrezione. E’ la terza trasformazione: da morituri a immortali! Evviva il Battesimo di cui in questa notte rinnoviamo le promesse.

Ancora un passaggio, un passaggio inebriante: “Prendimi, mangiami. Sono risorto e sono sempre con te. Mangiami: io in te, tu in me, in reciproca immanenza. Ma non sei tu a trasformarmi. Io ti trasformo in me”. E’ una quarta trasformazione: noi in lui, per il corpo di cui ci siamo nutriti.

Il diacono ci congeda e ci riconsegna alla nostra responsabilità di vivere nel mondo: «la messa è finita andate in pace». Un congedo accompagnato da festosi, perentori «alleluia». La liturgia è terminata; inizia la nostra messa nella vita. Il diacono ci ricorda che il donarsi di Gesù, il suo perdersi per amore, è ceduto a noi. Il Signore ci dona il suo donarsi, perde il suo perdersi. E’ la quinta trasformazione. Ci trasforma in sua Chiesa, suo corpo per la salvezza del mondo.

Trasformazioni mistiche? Ma la vita cristiana non è etica, prima di tutto è mistica.

Omelia alle esequie di Milena Sabba

Sant’Agata Feltria, 10 aprile 2014 

Cari genitori, cara sorella di Milena,

tutti i presenti – sono tantissimi – piccoli e grandi, se fosse possibile, vorrebbero stringervi forte forte per dirvi tutto il loro affetto e la loro vicinanza. Anch’io lo voglio… Nessuno può prendere il posto di Milena nella vostra casa e nel vostro cuore. Avete bisogno di consolazione, ma ne abbiamo bisogno anche noi. Tutta Sant’Agata Feltria è coinvolta. Io sono qui per dire, come l’apostolo Pietro, «Signore da chi andremo? Solo tu hai parole di vita» (Gv 6, 68).

Quel giorno alle porte della cittadina di Nain – ce ne fa un resoconto l’evangelista Luca – avvenne un incontro straordinario. Un gruppo di persone stava abbandonando la città: era un corteo mesto che accompagnava un ragazzo a sepoltura; accanto a lui una mamma in lacrime. La città, di per sé, è simbolo di vita: case, piazze e vicoli, fontane, negozi, vociare di bambini, rumore e ronzio di mestieri… come in un alveare.

Quel grappolo di gente esce dalla città, lasciandosi alle spalle la vita; è incamminata verso la morte. Ma sulla soglia ecco l’incontro inatteso. Sta salendo verso la città un altro drappello: è Gesù coi suoi amici. L’incontro ha sempre qualcosa di sorprendente. Ma questo è speciale. Qualcuno potrebbe pensare che è casuale: se il corteo fosse partito un’ora più tardi, se Gesù fosse salito prima… Allora si potrebbe ridurre ogni “incontro” a casualità. Ma l’incontro è reale, accade. E’ un dono! Sulla soglia, all’ingresso della città di Nain, è stato così: sguardi, compassione, intraprendente tenerezza di Gesù, il suo farsi vicino. Il corteo si ferma. E poi la parola dolcissima di Gesù alla mamma: “Non piangere”. Lui ha potuto dirla in verità. Anche noi stiamo vivendo un incontro reale con Gesù; sulla soglia di questa chiesa sentiamo la sua Parola e sperimentiamo la sua tenerezza che conforta e che ci parla di un’altra città, di altre strade e piazze, di un’altra vita, di una vita piena, felice. Una vita con lui.

Sì, Signore, crediamo! La liturgia non conosce lacrime, conosce solo lacrime asciugate.

Omelia Messa in Coena Domini

17 aprile 2014
Cattedrale di Pennabilli,

Es 12,1-8.11-14
Sal 115
1Cor 11,23-26
Gv 13,1-15
Lasciarsi amare .
C’è un diverbio, subito appianato, fra Pietro e Gesù: «Signore, tu lavi i piedi a me?…Non mi laverai mai i piedi». E Gesù, perentoriamente: «Se non ti laverò, non avrai parte con me». Il gesto di Gesù è un gesto d’amore. «Dopo aver amato i suoi, li amò sino alla fine». L’ora suprema della manifestazione di questo amore è giunta.
Gesù deve amare. E l’inizio di questo culmine è appunto la lavanda dei piedi. Gesù sente in sé la spinta travolgente di questo sentimento, la necessità incontenibile di questa donazione e l’urgenza che questa donazione gli pone nel cuore. Ma Pietro non capisce. Pietro non capisce che Gesù è così e, senza volerlo, non capisce se stesso.
Lasciarsi amare. Perché? C’è anche in noi una strana ritrosia. Forse per falso pudore (o per falsa umiltà) di non meritare quell’attenzione. Forse per timore di un equivoco, uno scambio di persona: proprio io, Signore? Forse perché quella sua dichiarazione d’amore appare troppo impegnativa: troppo difficile corrispondere all’amore?
“Pietro, lasciati amare”. Ma vale per tutti noi questo invito. Riconosciamo in noi la necessità di essere amati. Arrendiamoci. Dio ha posto in noi una sete infinita d’amore. E’ un desiderio che solo lui può colmare. La parola stessa – desiderio – fa riferimento etimologicamente, al nostro provenire da lui, dalla “stella”, e siamo inquieti e in tensione fino a che ci ricongiungiamo con la nostra origine. Lasciamoci amare: bisogna che Qualcuno – l’Amore – ci venga incontro. Ci sono indispensabili la sua luce e il suo calore per sbocciare.
Lasciarsi amare per capirsi e guadagnare una conoscenza vera di sé. Se un Dio ti ama vuol dire che sei amabile, non sei uno scarto. Sei creatura, ma fatta di cielo, fatta per il tuo Creatore, predisposta per entrare in comunione con lui. «Riconosci la tua dignità» e la tua grandezza. A volte ti accontenti di troppo poco e ti lasci corteggiare da chi ti offre molto meno; ti blandisce e poi ti delude e ti lascia vuoto. La relazione mette in evidenza la tua verità fatta di grandezza, ma fatta anche di meschinità, e in un gioco d’amore anche questa serve.
Lasciarti amare perché, nella dinamica dell’amore, l’iniziativa di Gesù è decisiva perché ti accende di ardore. A tua volta allora ami e la tua condizione di amante consente, a chi per primo ti ha amato, di amarti ancora di più. Dio ama per amare! (cfr. SANT’AGOSTINO, Contra Julianum). Ed è solo l’inizio di una spirale d’amore senza fine. Questa sera egli vuol lavare i piedi a te. Cogli l’invito. Non sottrarti. Lascialo fare.
Sai cosa ti dice?
«Vedi se in me trovi altro che amore» (cfr. Beata Angela da Foligno). Egli si propone, si offre e poi si impone, si fa irruente e irrompe nel cuore, ricorrendo ad ogni mezzo pur di amare: non gli è bastato crearti e redimerti, vuole santificarti. Lascialo amare!

 

[1] cfr. Omelia di Mons. Luigi Maverna, 1989

 

DOMENICA DELLE PALME

13 aprile 2014 – Pennabilli

 

Is 50, 4-7

Sal 21

Fil 2, 6-11

Mt 26, 14 – 27, 66

L’evangelista Matteo dà del crocifisso un’immagine ieratica e maestosa, come di un grande sovrano. Perché la Passione – letta con gli occhi della fede – è la presa di potere del re d’Israele. La comunità dei credenti che contempla il Crocifisso non tarderà ad accorgersi che colui che i militari scherniscono dicendogli: “Salve re dei Giudei! ” lo acclama veramente come re. Così come quella scritta sul suo capo “Questi è Gesù il Re dei Giudei” è una vera e propria consacrazione; e dunque Caifa e Pilato, condannandolo alla croce, lo accompagnano – ironia della sorte – nella sua salita al trono. A Caifa che lo scongiura: “Per il Dio vivente dicci se tu sei il Messia, il Figlio di Dio” Gesù risponde: “Tu l’hai detto”; e a Pilato che lo interroga: “Sei tu il re dei Giudei?” risponde ugualmente: “Tu lo dici”. Essi stessi, pur senza accorgersene, confessano come stanno veramente le cose. Sono gli esecutori involontari della promessa che Dio ha fatto ad Israele per bocca dei profeti. Per questa ragione Matteo dà grande risalto al compiersi delle profezie: “percuoterò il pastore”, sta scritto di lui, ma in tal modo tutti vedranno “il Figlio dell’uomo seduto alla destra di Dio” come hanno preannunciato i profeti. Notare: sulla scena c’è agitazione, un andirivieni di personaggi inquieti, persino la moglie di Pilato… solo Gesù resta sovranamente padrone della scena.

Gesù è il re d’Israele, ma è anche molto di più. Viene valutato “trenta monete d’argento” come il Signore Dio d’Israele (cfr. Zac 11, 12). E come lui potrebbe chiamare “più di dodici legioni di angeli” e annientare gli avversari, sebbene non lo faccia. Alla sua morte “il velo del tempio si squarciò in due, da cima a fondo, la terra si scosse, le rocce si spezzarono e i sepolcri si aprirono”: è uno sconquassamento generale della natura e della città santa, come nelle manifestazioni di Dio ad Israele. Ecco cosa deve imparare a vedere la comunità credente che fissa lo sguardo sul Crocifisso: la suprema manifestazione di Dio. Allora esclamerà con stupore incredulo: è il Signore! Capirà che non vi è altro Dio che quello che si manifesta in Gesù Cristo Crocifisso. Regnavit a ligno Deus!

Tu, Gesù, nostro re! Ti adoriamo Cristo e ti benediciamo perché con la tua croce hai redento il mondo. Oggi assistiamo ad una nuova apostasia dalla fede. La società in cui viviamo abbandona il riferimento a Cristo. Un rifiuto “culturale” del pensiero, prima che della volontà. Viene estromesso. Ma non per questo è meno Re!

 

Quale la nostra risposta? Ecco, noi stiamo uniti a lui, lo proponiamo al mondo così! Fedeli e fieri della sua nudità sulla croce, stoltezza per i pagani, scandalo per i giudei ma, per chi è disposto a credere, potenza di Dio (cfr. 1 Cor 1, 18).

 

Due proposte concrete per questa Settimana Santa:

 

1. Staccare, qualche volta, il crocifisso dalla parte in cui sta confinato; spolverarlo, coprirlo di baci e tenerlo sulle ginocchia o tra le mani durante la preghiera. Libro inarrivabile che ci racconta “l’altezza, la larghezza, la profondità” dell’Amore di Dio (cfr. Ef 3, 18-19).

 

2. Facciamo risuonare dentro la mente ed il cuore l’invito di Paolo ai Filippesi: “Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù” (Fil 2, 5). Seguiamolo passo passo in questa sua Pasqua. “Che cosa hai vissuto come oggi? Con quale stato d’animo? Come posso anch’io venire con te?

COMMEMORAZIONE STRAGE DI FRAGHETO

5 aprile 2014 – A Fragheto e Casteldelci

 

Ger 11, 18-20

Sal 7

Gv 7, 40-53

 

Inizio la meditazione sulla Parola di Dio con un celebre testo: la finale dell’Amleto di Shakespeare. La tragedia si chiude col tradimento, la morte della regina e poi del re usurpatore. Amleto, ferito dalla punta della spada avvelenata, sta per morire. Anche l’amico Orazio vorrebbe seguirlo nella morte, felice di abbandonare la scena drammatica e amara di questa vita, bevendo l’ultimo sorso di veleno che è rimasto. Amleto non vuole e gli dice: “Se sei un uomo, dammi la coppa; lasciala, per Bacco! La voglio. Oh buon Orazio che nome infame lascerei se tutto questo rimanesse ignorato? (…) in questo mondo crudele devi trarre il tuo respiro per raccontare la mia storia”. E poi conclude: “Il resto è silenzio”.

Restare per raccontare.

Raccontare perché non vada persa la memoria e perché quanto è successo settanta anni fa qui a Fragheto non scivoli nell’oblio: rappresaglia e strage di innocenti inermi. Ricordare e raccontare, non per vendetta ma per giustizia.

Non per bloccare la storia su immagini di sangue, ma per apprendere la lezione della pace e la pedagogia dell’incontro: dall’orrore per la barbarie al quotidiano lavoro su noi stessi per dominare le “passioni”.

Anche la prima lettura che abbiamo ascoltata in questa liturgia, una celebre pagina del profeta Geremia, ci porta dentro uno scenario di sangue: un agnello innocente viene condotto al macello. Il profeta teme che il suo nome non sia più ricordato e il sacrificio inutilmente sprecato. L’agnello è figura di Gesù, l’innocente che si è caricato del peccato e del male che è nel mondo. Egli rimette la sua causa a Dio: chicco di frumento che cade per terra e muore, ma per portare frutto e vita (cfr. Gv 12, 24).

“Egli è stato trafitto per i nostri delitti, schiacciato per le nostre iniquità. Il castigo che ci dà salvezza si è abbattuto su di lui; per le sue piaghe siamo guariti” (Is 53, 5).

Un dolore innocente: il Figlio di Dio è solidale fino in fondo. Egli ci indica nell’abbandono in Dio e nel perdono la via della redenzione.

Il Vangelo ci riferisce la disputa dei Giudei intorno a Gesù: c’è chi lo riconosce Messia; c’è chi gli è ostile; c’è chi sta a guardare. Curiosa l’esortazione dei farisei a Nicodemo – il visitatore notturno di Gesù – “Studia e vedrai…” (Gv 7, 52). Un’esortazione valida anche per noi: applicarsi allo studio delle Scritture, imparare le lingue, non dimenticare l’importanza della ricerca storica, ecc… In ogni caso, mettere in attività la ragione: “La cura per l’istruzione è amore” (Sap 6, 17).

Quale tipologia di studio ci viene chiesta? Quella dei farisei, dove il sapere diventa una forma di potere? Lo studio riservato ad una élite? La cultura presuntuosa di chi è pago della sua erudizione e non ascolta il cuore? Nicodemo ci mostra il sapere che sa andare di pari passo col cuore e con la vita, perché si lascia interpellare e mettere in questione. Un sapere aperto; Nicodemo pone una domanda aperta intorno a Gesù: “E se costui…”

Un avvertimento: non trascuriamo d’essere attenti all’attualità e ai segni dei tempi da decifrare, ma impariamo anche dal passato, la storia è maestra di vita e apertura al futuro che speriamo migliore.

Omelia Valdragone, 13 marzo 2014

Ester 4,17k-u

Sal 137

Mt 7,7-12

 

La liturgia della Parola, questa sera, ci propone una pagina stupenda dal Libro di Ester: una accorata e fiduciosa preghiera che sgorga dal cuore della protagonista racchiusa in un libro della Bibbia scritto per tempi difficili come i nostri. La vicenda di Ester è ambientata nei sontuosi palazzi del re di Persia. La protagonista è una ragazza orfana che porta scritta nella sua storia la sofferta realtà della diaspora giudaica (l’esilio). Il suo nome significa “Stella”. La vicenda assomiglia alla fiaba di Cenerentola: anche qui c’è un capovolgimento delle sorti. In breve: la splendida regina Vasti si rifiuta di comparire davanti al re che vuole mostrare la sua bellezza al popolo e ai capi. “E’ un oltraggio”, gridano i saggi di corte: “Si deve immediatamente sostituire l’orgogliosa regina”. Viene bandito allora un concorso di bellezza: la più bella sarà regina al posto di Vasti. Anche la piccola Ester viene iscritta dallo zio che l’ha presa a casa sua da quando è rimasta sola e orfana. Il re rimane conquistato dalla sua bellezza e la vuole regina. Intanto, a corte, un potente ministro del re sta organizzando un programma di sterminio degli Ebrei. Lo zio di Ester riconosce come provvidenziale l’elezione della nipote: il Signore vuol servirsi di lei per salvare il suo popolo (Ester come Mosè!). E così accade: il popolo è salvo e lo zio di Ester viene esaltato, mentre il cattivo ministro Amman viene punito. “Per i giudei era spuntata una luce; ci fu letizia, esultanza, onore”.

La liturgia di oggi ci fa vedere il valore della preghiera di intercessione e, nella provvidenziale intercessione di Ester, il ruolo di Maria presso il Signore che l’ha voluta come tenerissima madre e regina, accanto a Lui e accanto a noi. Di che cosa parla Maria quando è davanti al Signore, se non di noi? Di che cosa parla Maria quando è accanto a noi, se non di Lui? “Non hanno più vino”, dice a Gesù. E a noi: “Fate tutto quello che vi dirà”!

Perché ricorrere a Maria? Forse che il Signore ha bisogno d’essere convinto? Sarebbe puerile pensarlo. L’Onnipotente vuole piuttosto coinvolgere la creatura nel suo piano d’amore e Maria, in esso ha un posto particolare. La preghiera e il coraggio della piccola Ester sono figura della tenerezza e dell’amore di Maria. Dio vuole attorno a lui un campo d’amore ad alta tensione: Maria è al centro. Anche al centro diocesi – a Pennabilli – la veneriamo col titolo di Madonna delle Grazie. Ci sono tanti fedeli che, prima di salire al Signore, sostano davanti a lei: certi che le cose sono fatte. Non fu così anche alle nozze di Cana? La premura di Maria spostò in avanti le lancette dell’ora di Gesù!

Anche il Vangelo ci parla di preghiera.

In particolare, svela come è il volto del Padre a cui indirizziamo la preghiera: un Padre provvidente, desideroso di condividere e di farci dono di ciò di cui il nostro cuore è assetato: “Bussate… chiedete… cercate”. Che contrasto con l’immagine di Dio che – nella Genesi – il serpente vuole insinuare! Il Padre non aspetta altro che farci dono di ciò che ha di meglio per noi, la sua stessa vita. Ma il serpente è sempre in agguato per frammettersi tra noi e il Padre. Arriva persino – l’abbiamo sentito domenica scorsa nel racconto delle tentazioni – a travestirsi della sua Parola per alimentare le nostre pretese di onnipotenza (“giocare a fare Dio”, come diceva papa Francesco) o la presunzione di bastare a noi stessi. Che questa Quaresima ci faccia trovare o ri-trovare la gioia che viene dalla certezza di sentirci amati.

Insediamento dei Capitani Reggenti

Basilica di San Marino, 1 aprile 2014

 

Ez 47, 1-9.12

Sal 45

Gv 5,1-16

 

Il lato destro dal quale sgorga l’acqua che dà vita in eccedente abbondanza è il petto trafitto del Signore (cfr.  Ez 47, 1-ss; Gv 7, 37-39). Lui è il tempio vivo (cfr.  Gv 2,21), Sacramento dell’incontro con Dio (cfr.  Gv 14,9).

Viviamo questo inizio del nostro cammino civico con lo sguardo rivolto al Crocifisso.  Papa Francesco, qualche giorno fa, ci confidava di aver strappato furtivamente il piccolo crocifisso dalle mani del suo vecchio confessore ormai composto nella bara e da allora di portarlo sempre sul suo cuore. Guardiamo il Crocifisso (cfr.  Zac 12, 10; Gv 19,37). E che cosa ci dice? “Guarda se in me vedi altro che amore” (cfr. Beata Angela da Foligno).

Anche noi, come i nostri padri, come milioni di credenti sparsi nel mondo, “sale della terra” (così Gesù chiamava i suoi discepoli, cfr. Mt 5,13) e come tanti uomini di buona volontà senza pregiudizi, apprendiamo da quelle braccia spalancate e immobilizzate dai chiodi nel gesto di accoglienza, la lezione dell’amore che si dona senza riserve. “E’ un fiume – cantiamo parafrasando il salmo 45 – e noi i suoi ruscelli che rallegrano la città di Dio”. Il fiume è il suo amore, noi vorremmo essere i testimoni e i portatori. Il Vangelo ci ha parlato di Gesù che prende l’iniziativa e guarisce. Chi di noi non è desideroso di guarire dalle sue fragilità e infermità? Gesù non domanda niente, né fa rimproveri. Non per indifferenza ma perché ci prende dal punto in cui siamo. E perché ci vuol preservare nella prova raccomanda: “Non peccare più, che non ti accada di peggio”.

A nostra volta vorremmo essere – autorità e cittadini – portatori di una vita nuova, più giusta e più bella, pronti a chinarci sulle necessità dei fratelli.

Grazie ai Capitani che lasciano e ai nuovi eletti alla Suprema Magistratura: auguri. Confidiamo sappiano essere garanti e testimoni dei Valori che San Marino ci ha trasmesso e di cui siamo fieri.

Omelia Quarta Domenica di Quaresima

Sante Cresime

Lunano, 30 marzo 2014

 

1Sam 16,1.4.6-7.10-13

Sal 22

Ef 5,8-14

Gv 9,1-41

 

Un cieco qualsiasi lungo la strada… Ci piacerebbe conoscere il suo volto e il suo nome e interrogarlo sul “prima” e sul “dopo” l’incontro con Gesù. Un incontro fortunato, inatteso e risanatore. Gesù gli ha ridato la vista: era cieco dalla nascita. Adesso vede tutto per la prima volta! Una festa per i suoi occhi e per la sua mente. Il suo nome non ci è stato tramandato, forse per dirci che quel cieco è ciascuno di noi; il cieco innominato è l’interprete della nostra condizione umana di non-vedenti. In effetti, vediamo solo quello che è racchiuso dentro l’orizzonte della nostra vista, non riusciamo a vedere oltre. Gli uomini hanno allargato gli orizzonti mediante la tecnologia: il telescopio per le grandi distanze, il microscopio per l’infinitamente piccolo, l’internet per istantanei e planetari collegamenti audio e video…

Ci sono poi messaggi e sentimenti affidati a segni grafici convenzionali. L’analfabeta, benché in buona vista, non può leggerli. Rimangono indecifrati. Chi sa leggere può andare più in profondità decifrando e interpretando. Chi sa leggere può navigare verso altri orizzonti.

Ma c’è, nel cieco che siamo noi, una sete d’infinito; sta affacciato alla finestra del suo cuore e vorrebbe “vedere” il prima e il dopo della sua esistenza. In altre parole: vorrebbe vedere il senso del suo esistere e del suo destino. Questo desiderio struggente è ben espresso dal canto di Giacomo Leopardi, il poeta dell’Infinito.

Gesù si avvicina a noi, cura i nostri occhi e ci permette di vedere “oltre”. Ci fa dono della fede. La fede ci consente di conoscere, di avere lo stesso sguardo di Gesù.

Certo, è una sfida per noi. Dal nostro posto in chiesa fissiamo il Crocifisso: per quanto possa sembrare “incredibile”, la fede ci fa vedere nell’uomo inchiodato alla croce il Signore, rivelatore dell’amore di Dio. Tra poco il sacerdote alzerà l’ostia consacrata: si farà grande silenzio e gli occhi di tutti vedranno, nel dono di un pane spezzato, la presenza del Risorto. Grande dono la fede!

Quando ci riuniamo attorno ad una bara, pur tra le lacrime, intravediamo eternità di vita. La fede ci porta a promuovere e a difendere, se necessario, valori e profezie anche quando sono impopolari. E’ la fede che ci fa considerare la bellezza che c’è nell’ “altro” e non ci fa fermare ai difetti di cui soffre e si duole. Come Dio che non guarda le apparenze, ma vede il cuore. La fede mette ordine nella nostra vita e le ripropone il suo vero senso. Signore, cura la nostra cecità, aumenta la nostra fede!

Terza domenica di Quaresima

Basilica di San Marino, 23 marzo 2014

 

Es 17,3-7

Sal 94

Rm 5,1-2.5-8

Gv 4,5-42

 

Strade che si intrecciano attorno a quel pozzo… Gesù, stanco per il lungo cammino, si ferma al pozzo. Anche una donna di Samaria in ricerca scende a quel pozzo. C’è un incontro. Anche gli apostoli e i samaritani si muovono attorno al pozzo presso il quale Giacobbe aveva riunito le dodici tribù.

La nostra meditazione potrebbe prendere il via proprio da queste suggestioni: la strada, il pozzo, l’incontro.

Le strade percorse da questi “cercatori” non sono strade idilliache…

Gesù e i suoi compagni di viaggio sono Galilei fedeli alla liturgia del tempio di Gerusalemme. La donna e i samaritani sono avversari; tra gli uni e gli altri c’è un’antica ostilità e incomprensione.

Gesù è stanco non del ministero, semmai è il ministero che lo ha stancato, affamato e assetato: sono le ore dodici! (allusione ad un altro mezzogiorno: quello del Venerdì santo).

La donna che sopraggiunge al pozzo è vivace, intraprendente, capace di reagire, ma è una donna sconfitta, segnata da una serie di vicende affettive finite male.

Davanti a Gesù, ebreo e maschio, rivendica con orgoglio la propria appartenenza e dice: “Sei forse tu più importante di Abramo?”.

Gesù si presenta in modo semplice: ha bisogno di bere. Non parte da un tema, da una correzione, ma da un suo bisogno che manifesta umanità. E’ un chiedere che è un darsi. Gesù si mette nelle mani di quella donna per coinvolgerla. Ciò che fa partire il cammino è quel “dammi da bere”. Il mostrarsi nella sua fragilità è per Gesù non un ostacolo, ma un punto di partenza. Vale anche per noi: non facciamo mai delle nostre fragilità una scusa per tirarci indietro.

Ancora un dettaglio che rafforza l’atteggiamento umile di Gesù favorendo e facilitando l’incontro: secondo alcuni codici Gesù si mette a sedere “per terra”.

“Se tu conoscessi il dono di Dio”: il dono è Gesù in persona! E’ lui l’acqua viva!

“Acqua viva” è una espressione mutuata dall’Antico Testamento che significa vitalità divina, rivelazione, sapienza. Anche la Torah era salutata come acqua viva.

Adesso davanti alla donna di Samaria c’è l’acqua viva: è Gesù!

Gesù pian piano conduce la Samaritana alla scoperta della sua identità: giudeo, operatore di prodigi, profeta, Messia, inviato del Padre, Salvatore del mondo.

Attraverso l’incontro, la donna è passata dalla chiusura e dal dubbio all’apertura, alla meraviglia, alla fede incerta e, infine, alla piena confessione.

L’anfora rimane sul pozzo perché ci sarà un ritorno, il ritorno della donna e dei samaritani. Che cosa ci dice quell’anfora lasciata presso il pozzo?

Perché Gesù beva? Per dirci che la donna non ha più bisogno d’attingere acqua?

Forse viene lasciata lì per proporci l’esperienza sacramentale, il nostro incontro con la persona viva di Gesù attraverso il sacramento, segno della sua presenza.

Chiunque beve quest’acqua avrà un’acqua che gorgoglia dentro di lui, diventerà lui stesso pozzo d’acqua viva!

Omelia “Venerdì bello”

21 Marzo 2014
Santuario della B.V. delle Grazie di Pennabilli,

Gen 37,3-4.12-13.17-28
Sal 104
Lc 1,26-38

Entriamo in punta di piedi nella casa di Nazaret. Impariamo alla scuola di Maria il raccoglimento, condizione prima e indispensabile per andare in profondità ed ascoltare quello che il Signore vuole dirci.
L’angelo entrò da lei: anche la mia Nazaret, pur fra tante voci che l’attraversano, può essere casa del raccoglimento, spazio formativo, atmosfera spirituale. Un luogo interiore ed un luogo esteriore, vero angolo di preghiera, forse disadorno o col sapore della nostra casa; eppure è lì che Dio mi sfiora. Mi sfiora non solo nelle liturgie solenni della cattedrale, ma anche nel quotidiano più feriale; come nella Messa dove il sublime confina con una tovaglia bianca, con un calice ed un pane. Nazaret è la mia casa!
Nazaret è anche il mio cuore, quando lo custodisco e lo difendo dal chiacchiericcio, dalla impertinenza dei giudizi, dall’invadenza dell’immaginazione.
La prima parola che esce dalla bocca dell’angelo è una parola di gioia: Rallegrati, Maria. Troppo riduttivo tradurre una delle prime parole dell’evangelo con Ave. Le parole del saluto angelico appartengono più alle promesse messianiche che al galateo. Invitano Maria alla gioia prima ancora che si espliciti il dialogo con le sue conseguenze. Non si tratta di una gioia effimera e intimistica. E’ una gioia divina che spiega il senso della sua esistenza. Gioia, dunque, per un amore incondizionato che precede; per una presenza che la rende colma. Allo stesso modo Dio vuole entrare nella nostra vita, vuole abitare la nostra povertà, fecondare la nostra sterilità.
Noi moderni abbiamo qualche difficoltà a situarci di fronte ad un racconto come questo. L’evento non è certo di quelli di cui possa occuparsi la storiografia scientifica: siamo di fronte ad un evento soprannaturale, il Verbo di Dio si fa carne. Non ci interessano le modalità, ma la sostanza dell’evento.
La parlata dell’angelo a Maria è costituita da un rammendo di citazioni bibliche. In questo modo viene svelato alla fanciulla di Nazaret il compimento delle antiche scritture: Dio parla ai piccoli! Ed è ciò che fa prendere coscienza a Maria del suo destino eccezionale e a noi annuncia la vera identità del nascituro. Colui che la fanciulla di Nazaret sta per concepire è il Messia! Dio visita il suo popolo. Non sapremo mai come è avvenuto il concepimento, ma questo non è essenziale: dobbiamo rispettare l’intimità di una donna. Anche nella nostra vita è accaduta un’annunciazione: il Verbo vuol prendere carne in noi. Come Maria gli diciamo: Eccomi!