Omelia nella Festa di Santa Barbara con i Vigili del Fuoco

Novafeltria (RN), Caserma dei Vigili del Fuoco, 4 dicembre 2022

Is 11,1-10
Sal 71
Rm 15,4-9
Mt 3,1-12

Ricordo un fatto di alcuni anni fa. A Bascio, nel luogo dov’era andata a vivere l’eremita diocesana Sveva della Trinità, la Diocesi aveva avviato i restauri della casa canonica. Quando si trattò di restaurare la chiesa di Bascio, con grande sorpresa, fu trovato nel muro, sotto la calce, un affresco di un pittore riminese del Cinquecento, il Coda. Avevamo davanti due possibilità: tacere e coprire l’affresco con una mano di calce (considerando che ci avrebbe ripensato chi sarebbe venuto dopo di noi), oppure restaurare. Davanti ad un capolavoro del Cinquecento, i restauri sarebbero stati sicuramente impegnativi. Nel dialogo con la Soprintendenza delle Belle Arti, ci siamo trovati di fronte ad una nuova decisione da prendere: un restauro interpretativo, mettendo l’affresco nelle mani di un bravo artista, affinché componesse quello che mancava all’immagine ritrovata, oppure un restauro conservativo, per mantenere intatto quello che la storia ci aveva tramandato, senza aggiungere pitture di altri artisti. La linea scelta dalla Soprintendenza fu quella del restauro conservativo.
Cosa c’entra questo con santa Barbara?
Di santa Barbara ci è rimasta appena una traccia. Santa Barbara è una ragazza vissuta nel III secolo d.C., di famiglia nobile; probabilmente ha studiato (ma non sappiamo con certezza) ed è venuta a contatto con il cristianesimo. Viveva nella Bitinia, in Turchia. La Turchia fu una delle culle del cristianesimo, poi, dopo l’invasione islamica, è diventata musulmana. Nel Medioevo hanno pensato che una vicenda così bella come quella di santa Barbara avesse bisogno di un “restauro interpretativo” e hanno scritto su di lei, ma storicamente senza fondamento, quasi delle leggende. Tuttavia, questa ragazza ha avuto un fascino al di là della città in cui viveva e una popolarità così grande che la sua venerazione si è diffusa anche in Europa. Non possiamo affidarci solo ai racconti medioevali. Sappiamo che santa Barbara fu martire e che, tra gli uccisori, pare ci fosse anche il padre. Quello che importa sapere è che questa ragazza ha coraggiosamente scelto Gesù, l’ha amato, è stata capace – lei che era una giovane ragazza – di mantenere la parola che aveva dato, il Battesimo.
Tra le leggende medioevali ce n’è una che a cui si rifà il culto a santa Barbara professato dai Vigili del Fuoco. Si narra che, quando questa giovane donna fu portata al supplizio, si scatenarono fulmini che avrebbero ucciso il padre. Per questo santa Barbara è stata inserita nel gruppo dei santi ausiliatori: sono i santi che il popolo cristiano invoca per un aiuto particolare (invece i santi patroni sono i santi in cui si riconosce una comunità). Santa Barbara viene invocata nel pericolo di morte improvvisa, accidentale, per questo è divenuta patrona dei vigili del fuoco, che svolgono una professione “a rischio” (oggi più del passato), patrona degli artificieri, dei minatori… I luoghi dove si assembrano le armi hanno preso il nome “la santabarbara”.
Oggi ricordiamo santa Barbara e chiediamo di essere, come lei, fedeli al nostro Battesimo. Solo Dio si adora, i santi si venerano, si imita la loro fede, si pregano come protettori nel cielo, come del resto tanti della nostra famiglia che pensiamo in paradiso, benché non canonizzati.
Permettetemi ora una parola di commento sul Vangelo di questa seconda domenica di Avvento. Compare sulla scena Giovanni Battista. L’evangelista Matteo non ha ancora detto nulla di lui, lo introduce di colpo, perché Giovanni è una voce che riassume tutto l’Antico Testamento.
Giovanni Battista sta sul crinale fra l’Antico e il Nuovo Testamento. Qual è il suo grido? Cosa vuole dirci? «Gesù è alle porte, cambiate vita!». E lo dice con parole forti. Molte persone hanno accettato la predicazione del Battista. Invece farisei e sadducei pensano di non aver bisogno di conversione, si proclamano figli di Abramo e per questo presumono che l’appartenenza etnica li metta al sicuro. Giovanni li apostrofa così: «Razza di vipere, chi vi ha fatto credere di poter sfuggire al giudizio di Dio?». Una frase che rende pensosi.
Qual è la novità del Battista?
La Bibbia non è stata scritta di seguito, tutta d’un colpo, ma si è formata attraverso secoli di esperienze di ascolto del Signore, di preghiera. Negli strati più antichi – gli studiosi sanno distinguerli – quando si dice “conversione” si intende la pratica che placa il rimorso. Conversione, dunque, significava fare pratiche religiose, preghiere particolari, digiuni, ecc. In strati più recenti della Sacra Scrittura la conversione diventa più esigente e più interiore: significa cambiare mentalità, stile di vita. Quando sulla scena arriva “la voce”, cioè Giovanni Battista, convertirsi equivale alla decisione di “voltarsi” verso Cristo con la propria vita (fare “inversione ad U”) e considerare Gesù il Signore. L’invito del Battista, a due settimane dal Natale, è questo: «Gesù è alle porte, cambiate vita, cambiate direzione!». Prendiamo la decisione di rinnovare l’adesione al Signore, di dare spazio e tempo all’incontro con lui e di vivere i comandamenti. «Gesù è alle porte, cambiate vita!». Così sia.

Omelia nella II domenica di Avvento

Montegrimano (PU), 4 dicembre 2022

Is 11,1-10
Sal 71
Rm 15,4-9
Mt 3,1-12

Giovanni Battista entra in scena per la prima volta nel capitolo 3 del Vangelo di Matteo: non si dice chi è suo padre, chi è sua madre (lo sapremo dal Vangelo di Luca), non si dice da dove viene, né cosa fa. Giovanni è una “voce”!
Lo vediamo nel pieno del suo ministero profetico. L’evangelista Matteo ce lo presenta con “l’abbigliamento” degli antichi profeti: fa una vita austera («il suo cibo erano cavallette e miele selvatico»), annuncia l’imminenza del giudizio divino, pratica un battesimo di conversione nelle acque del fiume Giordano, è voce che grida: «Gesù è alle porte, cambiate vita!».
Noi Gesù l’abbiamo conosciuto, viviamo di lui, per lui, con lui, tuttavia questa parola di Giovanni Battista ci scuote: «Gesù è alle porte, cambiate vita!». È un invito a rivedere la nostra vita di fede.
Giovanni Battista assomiglia ai profeti dell’Antico Testamento: Ezechiele, Malachia, Zaccaria… come loro proclama l’urgenza della conversione.  Giovanni Battista smentisce le false sicurezze: farisei e sadducei pensavano che bastasse appartenere al popolo eletto per non andare nella Geenna (termine col quale si indicava l’inferno): «Nessun circonciso entrerà nella Geenna». Non è sufficiente l’appartenenza etnico-religiosa, bisogna che «l’albero produca buoni frutti». Giovanni si aspetta un “Messia di fuoco”, con la scure pronta a tagliare le radici dell’albero che non porta frutto e con il fuoco che incenerisce la pula rimasta sull’aia del giudizio finale.
Chiedo la grazia che la predicazione di Giovanni Battista ci scuota, ci stupisca, come se ascoltassimo le sue parole per la prima volta. Parla proprio a noi! Può capitare anche a noi di sentirci a posto e che siano gli altri a doversi convertire.
Negli strati più antichi della Bibbia (è noto che il testo sacro è stato composto nell’arco dei secoli), quando si parla di conversione, si invita a compiere atti di culto: fare digiuni, ascoltare il rimorso e placarlo compiendo devozioni e penitenze. La conversione è intesa, dunque, come una pratica. Negli strati successivi la conversione viene indicata come metanoia, cioè cambio di mentalità. Quindi, conversione non è più solo fare delle pratiche. Con la sua predicazione Giovanni Battista invita alla conversione chiedendo un cambio di prospettiva, precisamente di voltarsi verso Gesù. La conversione è possibile, perché se si accoglie Gesù, si riceverà il suo battesimo in «spirito santo e fuoco».
Qual è la differenza tra il battesimo di Giovanni Battista e il battesimo di Gesù? Giovanni Battista compie un battesimo simbolico, una pratica penitenziale che esige un cambiamento di mentalità. Il battesimo di Gesù, invece, trasforma, rende figli di Dio.
È stata accesa all’inizio di questa celebrazione la seconda lampada: la luce della conversione, che ci ricorda il grido di Giovanni Battista. Questo grido rievoca il grido nella notte che sveglia le dieci ragazze in attesa dello sposo: «Ecco lo Sposo, andategli incontro!». Cinque di loro – dice la parabola (cfr. Mt 25,1-12) – avevano una riserva di olio ed entrarono alla festa; le altre cinque, a causa della loro imprudenza, hanno dovuto restare fuori. Olio e lampade significano l’attesa operosa. Le opere sono quelle di una vita di fede e di fraternità.

Omelia nella I domenica di Avvento

Pennabilli (RN), Cappella del Vescovado, 27 novembre 2022

Is 2,1-5
Sal 121
Rm 13,11-14
Mt 24,37-44

Buon anno! Non vi meravigliate di questo augurio… Oggi inizia un nuovo anno liturgico e inizia il Tempo dell’Avvento. Siamo accompagnati nel cammino evangelico e spirituale da Matteo, il primo degli evangelisti. Ci farà da maestro. Come Chiesa vorremmo abbracciare il mistero di Cristo tutto intero e tutto in una volta, ma non è possibile perché siamo nel tempo. Allora ogni anno percorriamo un ciclo nuovo, come i gradini di una scala a chiocciola, tramite cui si sale, ci si avvita e si sale ancora fino al momento in cui si incontrerà il Signore per sempre. Apriamo, allora, il Vangelo secondo Matteo. Non vi lasciate troppo stupire dal fatto che non cominciamo dalla prima pagina, quella che racconta la genealogia di Cristo, l’annunciazione a Giuseppe, la nascita di Gesù, la visita dei magi, ecc. Si parte quasi dalla fine, dagli ultimi capitoli. Permettete questo inciso: Matteo ha cinque grandi discorsi che rappresentano l’ossatura del suo Vangelo. Nel primo discorso, quello che noi chiamiamo il “discorso della montagna”, viene presentato il programma del Regno. Matteo presenta in modo dinamico il discorso sul Regno di Dio. Segue il discorso sugli araldi del Regno: sono i capitoli che riguardano l’invio missionario degli apostoli e dei discepoli. Poi c’è il discorso riguardante i misteri del Regno, con le parabole che lo rivelano e nello stesso tempo lo velano. Il quarto discorso tratta dell’organizzazione del Regno, con la sua storicizzazione nella comunità dei discepoli, la Chiesa. L’ultimo discorso di Gesù, quello che noi chiamiamo il “discorso escatologico”, riguarda le cose che accadranno. Che cosa accadrà? Il lettore lo sa: la perfetta, totale, definitiva, manifestazione del Regno del Signore, quella che viene chiamata parusia. La traslitterazione della parola greca “parusia” in latino è adventus, in italiano avvento. Si usava la parola “parusia” per annunciare l’arrivo trionfale dell’imperatore dopo le conquiste. Per la circostanza veniva preparato un arco di trionfo per festeggiare il suo arrivo (celeberrimi alcuni archi dal punto di vista storico e artistico). Il passaggio sotto l’arco rappresentava la drammatizzazione della presa di possesso, della sua regalità; era il momento solenne del suo avvento, del suo arrivo, motivo di attesa, di gioia, di festa, ecc. Il Vangelo di Matteo è pieno di questa idea del ritorno del Signore. A ritroso Matteo racconterà come è nato Gesù, come via via ha annunciato il Regno con le parabole, come ha compiuto miracoli che ne indicarono già la presenza, come ne ha promesso il pieno compimento.
A questo punto ci chiediamo da dove scaturisce questa pagina scelta per la nostra meditazione di oggi. Scaturisce dalla domanda dei discepoli: «Signore, quando accadrà questo?». In realtà Gesù non risponderà, non svelerà segreti. Conosce la tendenza dei discepoli ad essere curiosi e impazienti. Questi atteggiamenti, secondo l’insegnamento di Gesù, ci deviano da quello che è decisivo per noi: la vigilanza. L’ora finale è certa e verrà improvvisa. Importante farsi trovare pronti, allerta, attenti. Allora Gesù racconta tre mini-parabole. La prima è presa dalla storia biblica: la vicenda di Noè. Noè prepara l’arca tra lo stupore della gente che non capisce l’urgenza con cui annuncia il diluvio. La gente tornava agli affari, lavora, mangia, beve, mette su famiglia, incurante di quanto sta per succedere. Qui la sottolineatura non è tanto sull’arrivo del diluvio come un castigo, ma sul fatto che è qualcosa di improvviso, di inatteso. Purtroppo, va a finire male per coloro che sono stati disattenti e che non hanno colto il messaggio di Noè. Insegnamento analogo contiene la parabola dei due contadini che sono nel campo a lavorare e delle due mugnaie al mulino. Un contadino verrà preso e un altro lasciato, una donna verrà presa e un’altra lasciata. Improvvisamente. Non c’è tempo per fare calcoli. Così come non si può calcolare – è la terza mini-parabola – l’arrivo del ladro, perché arriva sempre all’improvviso, quando si è disattenti. Ribadisco che l’accento non è sul carattere punitivo dell’arrivo del Signore, ma sul carattere fulmineo, improvviso. Pertanto, bisogna che quando arriva ci trovi pronti, svegli, al nostro posto. E qual è il nostro posto? Col grembiule, in atteggiamento di servizio. Tutto questo è spiegato molto bene nel capitolo successivo, dove si racconta del servo che ha saputo valorizzare i talenti che gli sono stati dati. Quel servo non ha perso tempo e, quando arriva il padrone, può consegnare moltiplicato quello che aveva ricevuto. Altrettanto viene detto delle cinque vergini sagge che vanno incontro allo Sposo con le luci accese: l’olio nelle lampade e le luci accese rappresentano la loro attesa operosa, attiva. Particolarmente significativa la parabola “del giudizio finale”: quando il Signore verrà si rivolgerà ai discepoli dicendo: «Venite benedetti del Padre mio, perché ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero forestiero e mi avete accolto». E loro replicheranno: «Ma quando mai…».
Diamo inizio a questo tempo di Avvento accogliendo l’invito alla vigilanza operosa: il Signore verrà! Propongo di preparare nelle nostre case la corona dell’Avvento, con quattro luci che rappresentano le quattro settimane che preparano al Natale. La cosa più importante è che attorno a questa corona la nostra famiglia preghi. L’impegno della prima luce è la vigilanza operosa nel servizio. Se il Signore ci troverà così, beati noi. Buon Avvento!

Omelia nella I domenica di Avvento

Grassano (PU), 27 novembre 2022

Is 2,1-5
Sal 121
Rm 13,11-14
Mt 24,37-44

Inizia oggi un nuovo anno liturgico. L’anno liturgico è una grande scuola per tutti. Una scuola di evangelizzazione, perché durante il corso dell’anno approfondiamo la storia di Gesù, la sua vita, le parabole, i detti, il suo mistero; la Chiesa, come Sposa di Gesù, vorrebbe abbracciarlo tutto e tutto in una volta, ma non è possibile perché è nel tempo, allora ogni anno riprende il suo canto d’amore e di attesa. Ogni anno c’è qualcosa di nuovo. Quest’anno la guida è l’evangelista Matteo. L’anno liturgico è una scuola di spiritualità, perché approfondiamo via via le dimensioni della spiritualità cristiana. In Avvento l’attesa, la vigilanza: nelle quattro settimane si rivivono, per così dire, i millenni che hanno preparato l’arrivo del Messia. Poi verrà il Tempo del Natale, con in evidenza altri sentimenti, altri aspetti della vita spirituale, la Quaresima, ecc. Dobbiamo imparare a conoscere bene l’anno liturgico. L’anno liturgico è anche una scuola di pastorale: ispira, sostiene e anima scelte per il cammino della comunità.

Nella pagina evangelica proclamata oggi, Gesù parla con un tono piuttosto forte: «Due uomini saranno nel campo: uno verrà portato via e l’altro lasciato. Due donne macineranno alla mola: una verrà portata via e l’altra lasciata… come avvenne al tempo di Noè». Non è una minaccia: Gesù vuol dire che l’arrivo del Regno di Dio è improvviso. Non sappiamo quando sarà: può succedere oggi, domani o fra mille anni, ma è come dire che succede sempre. Gesù invita a vegliare, a stare allerta, pronti a cogliere l’attimo: «In quo locorum sera rosa moretur (raccogliere adesso la rosa perché dopo c’è il buio)» (Orazio). Per noi cristiani, invece, il concetto dell’attimo presente è che tutto il tempo è gravido della presenza del Signore, ogni attimo è prezioso.
Concludo con uno spot televisivo di alcuni anni fa. È atteso un personaggio importante. Davanti alla villa si è piazzata una schiera di paparazzi che desiderano scattare una foto per immortalare l’evento. C’è chi si è arrampicato su un albero, chi sulle mura di cinta, per cogliere almeno un fotogramma. Passa un certo tempo; ad un certo punto l’auto arriva, il cancello si apre e si chiude immediatamente, tutti sono costretti a rimanere fuori dal parco. Mentre i fotografi sono ormai disattenti, si sente il ciak dello scatto di uno di loro. Tutti si voltano e chiedono: «Cosa è successo?». «Tutto», risponde il reporter. Il personaggio aveva spostato la tendina della finestra del suo appartamento e aveva guardato verso il giardino. Gli altri avevano perso quell’attimo. È una metafora del Tempo dell’Avvento.
Questa settimana proponiamoci di non perdere l’incontro con Gesù, nella preghiera, nei pensieri, ma soprattutto nel servizio. Nel capitolo 25 del Vangelo di Matteo, immediatamente successivo, Gesù dice esplicitamente cosa si deve fare nell’attesa. I discepoli gli avevano chiesto: «Quando accadrà questo?». E Gesù non aveva risposto, aveva solo detto: «State pronti». Nessuno lo sa. È cosa del Padre. Cosa fare nel frattempo? Mettersi a servizio. Lo spiegano efficacemente la parabola dei talenti, la parabola delle dieci vergini e la parabola del giudizio finale: «Ho avuto fame, mi avete dato mangiare…». «Venite benedetti dal Padre mio… ». E tu dirai: «Signore, non ti abbiamo mai dato da mangiare…». «Quando l’avete fatto ad uno di questi piccoli, l’avete fatto a me…», dirà Gesù. «Venite benedetti dal Padre mio… perché siete nel suo regno».

Omelia nella Solennità di Cristo Re dell’Universo

San Leo (RN), Cattedrale, 20 novembre 2022

2Sam 5,1-3
Sal 121
Col 1,12-20
Lc 23,35-43

Che cosa vuol dire essere re? Che cos’è il potere?
Oggi Gesù rivela quale sia il potere più profondo. Abbiamo letto una parte del racconto della Passione, appena uno spezzone. Del resto, tutto il Vangelo può considerarsi una lunga introduzione ai racconti della Passione e Risurrezione. Il Vangelo di Luca, che abbiamo letto durante quest’anno, ci ha presentato tanti incontri, dialoghi, parabole e miracoli di Gesù lungo la strada che lo conduce verso la meta. La meta sono la sua Passione e la Risurrezione. Lì si svela la vera identità di Gesù e in Gesù l’amore folle di Dio per noi.
Meditiamo insieme la pagina evangelica di oggi. Incomincia con: «…la gente stava a vedere». Il verbo usato nella lingua greca dice non soltanto “un guardare occasionale”, “un vedere distratto”: la gente sta ad osservare, quasi si lascia penetrare da quello che sta succedendo. Chi è pratico di studi biblici sa che il verbo “vedere” nella letteratura biblica presenta una certa ambiguità, perché “vedere” in senso forte significa “possesso”: quello che guardi, in qualche modo, lo fai tuo. Ecco perché Dio non si vede. Dunque, vedere è un atto possessivo: Dio non si può vedere, non si può possedere. Quando Dio si fa vedere in Gesù, Verbo incarnato, accade qualcosa di sconcertante. In un certo modo, il Dio che si fa vedere si lascia “possedere”, si lascia “inchiodare”, prima che sul legno della croce, dal nostro sguardo. Un Dio “visto”, diceva un antico padre della Chiesa, è un Dio “morto”. Quando osservo qualcosa, quasi scompongo l’oggetto del mio sguardo; Gesù è l’unico oggetto che trasforma chi lo guarda. Contemplando Gesù sei tu che vieni cambiato, non sei tu che domini Gesù. Gesù contemplato capovolgerà il tuo modo di essere.
Il Vangelo prosegue così: «I capi, invece, lo schernivano». Anche i soldati lo scherniranno. I capi che scherniscono Gesù raffigurano la nostra razionalità che non accetta quello che accade sotto i nostri occhi. Forse il cuore sarebbe anche disponibile, ma la nostra razionalità dice: «Non è possibile che non sia capace di salvare se stesso. Ha salvato tanti altri, perché non salva se stesso?». Questa è una delle proteste più forti contro Dio. Perché Dio non ha voluto salvare se stesso? È una domanda che testimonia la nostra difficoltà di fede. In realtà, quello che accade durante la Passione è una risposta su che cosa sia il vero potere secondo Dio. Per noi, normalmente, avere potere significa guardare gli altri dall’alto in basso, essere sopra, dominare; invece, qui Dio rivela che il suo è il potere di non avere potere, cioè il potere di donarsi, di amare, di dare tutto. In questo lui è re.
Oggi celebriamo Cristo Re dell’Universo, un titolo che può nascondere ambiguità se non è capito: potrebbe indicare qualcosa di sfolgorante, di dominante, di mondano, invece il vero potere di Gesù Crocifisso è quello di dare tutto, di consegnarsi, il potere di amare.
Immaginiamo di fare una zoomata sui due malfattori crocifissi con Gesù. Non c’è più la folla, non c’è più il chiasso di una pubblica esecuzione capitale, regna un grande silenzio. Ci sono soltanto loro in intimità con Gesù, a pochi metri. Anche il nostro cuore partecipa… Uno dei due ladroni, ancora una volta, riformula l’accusa contro Gesù: «Ha salvato altri, salvi se stesso e noi». Non accetta un Dio che non salva se stesso. Nella sua vita di malfattore ha ragionato sempre al contrario: dominare, spadroneggiare sugli altri, essere prepotente, arrogante. Quando facciamo così nella nostra vita, salviamo noi stessi e, se c’è qualcosa che ci brucia, è quando non siamo capaci di dominare: ci sentiamo perduti. Invece il buon ladrone accetta di non essere Dio; implicitamente ha percepito che in Gesù Crocifisso c’è la presenza di Dio: uno che non salva se stesso. Il Signore Gesù, pur di stare con noi nella morte, accetta quella posizione così scomoda e trasforma il nostro morire nella comunione con Lui. Perciò dice quella parola commovente e sempre nuova: «Oggi sarai con me in paradiso», cioè «trasformo la tua morte, il tuo fallimento, la tua vita fallita, nel massimo dell’intimità con me». «Sarai con me». Bellissimo contemplare il Signore Crocifisso e così, sotto il suo sguardo, vedere come anche i nostri fallimenti vengono trasformati in un incontro con lui: «Oggi sarai con me in paradiso». Notare l’avverbio «oggi». Forse il ladrone aveva partecipato alle catechesi, agli insegnamenti della sinagoga, e pensava che il Regno di Dio era qualcosa che sarebbe venuto in futuro. Invece, Gesù dice che è qualcosa che è presente adesso. Il paradiso non viene descritto con immagini di fantasia. Il paradiso è “essere con Gesù”. Volendo essere più precisi si potrebbe tradurre così: «Oggi sarai per me in paradiso»; la particella che esprime l’essere per Gesù è dinamica, indica la relazione, il coinvolgimento, la vita per Lui, non soltanto la compagnia con Lui, che è qualcosa di esterno. «Sarai per me»: che sia così anche per noi.

Conferimento della cura pastorale dell’unità pastorale di Pennabilli a don Mirco Cesarini, don Emilio Contreras e don Rousbell Parrado

Pennabilli (RN), Cattedrale, 1° novembre 2022

Solennità di Tutti i Santi

Un saluto particolare al signor Sindaco, che rappresenta la popolazione e l’intero comune di Pennabilli, al Maresciallo e ai Carabinieri che si occupano della nostra sicurezza (i nostri angeli custodi!). Un caro saluto a tutte le parrocchie qui partecipi.
Domenica scorsa a due co-parroci e ad un diacono è stata affidata la cura pastorale di quattro comunità parrocchiali, invitate a loro volta a progettarsi nell’unità pastorale. Si è trattato della prima volta: un inizio. Mi è venuto spontaneo considerare questo inizio come una grazia, non un ripiego, per questi tempi di crisi. Ho proposto ai parrocchiani, ai sacerdoti e al diacono di agganciare quell’inizio a tre pagine della Sacra Scrittura. Le riassumo, perché quello che dirò tra poco è in continuazione di quello che ho detto loro.
Primo brano. Il primo versetto della Genesi: «In principio Dio creò». È Dio che dà ogni inizio, perché Dio è eternamente giovane, creatore di tutte le cose, presente nei nostri giorni con la stessa forza e la stessa fedeltà. Si inizia, dunque, nel nome del Signore.
Secondo brano. Ho ricordato una tappa importante della storia del popolo di Dio e, in particolare, di Gerusalemme. Fu una svolta per Gerusalemme, la città santa, un nuovo inizio, con la riscoperta dei “rotoli dell’Alleanza”, da anni dimenticati nei rispostigli del Tempio: Parola di Dio finita nel dimenticatoio! Ogni nostra ripartenza deve aver inizio dalla Sacra Scrittura. Il Dio fedele e creatore ci parla!
Un terzo brano illumina questo tempo – il nostro – “tempo di crisi”, si dice. Visto alla luce della fede nel Dio fedele può essere un tempo di grazia, di nuova ripartenza per tutti. Alla fede tradizionale, che vacilla e viene meno, ecco un nuovo scatto per una fede più adulta e responsabile. Al calo delle vocazioni sacerdotali, ecco la presa di coscienza del Battesimo e della Cresima da parte di tutti i fedeli. All’eclissi del sentimento religioso, ecco la riscoperta di Gesù, «luce delle genti» (Lc 2,32), e del suo Vangelo. Alla diminuzione delle celebrazioni eucaristiche, ecco la valorizzazione di comunità eucaristiche più ricche di presenze, più fervorose nel canto, più fraterne nelle relazioni. All’indebolirsi dei servizi pastorali, ecco il nascere di nuove forme di ministerialità, maschili e femminili.
Che aggiungere oggi a commento e come augurio per la nascita di un’altra unità pastorale, la vostra, con le comunità di Pennabilli, Maciano, Ponte Messa, Scavolino, Soanne, compreso il territorio di Casteldelci? Dieci parrocchie! Anche qui si tratta di un nuovo inizio: vale anche per oggi, qui, dare il via avendo in cuore il Dio fedele e creatore, che «fa nuove tutte le cose» (cfr. Is 65,17; Ap 21,5); imprescindibile, poi, partire mettendo al centro la Parola di Dio; e ancora – lo ripeto – disponibili a vivere il tempo della crisi come un’occasione, un kairòs, un motivo di nuovo slancio, superando ogni lamentazione, ogni chiusura, ogni tradizionalismo.
Oggi sottolineo il valore aggiunto della fraternità sacerdotale. Molto dipenderà dall’unione dei vostri sacerdoti: don Mirco, don Emilio, don Rousbell, del diacono Antimo e, all’occorrenza, del diacono Gilberto, con la disponibilità della comunità monastica di Maciano e della preghiera delle nostre monache della Rupe e delle persone consacrate.

1.
Vedo nella fraternità sacerdotale anzitutto un “segno dei tempi”, una profezia, una parola da parte di Dio. Non posso non fare riferimento alla Lettera del Santo Padre Fratelli tutti. In una società sempre più individualista, segnata dalle divisioni, dall’arrivismo, ecco tre uomini che si uniscono per servire, non dico per servire di più, ma per servire sicuramente meglio, per mettere in comune i loro talenti e per completarsi, armonizzandosi. Insieme si arriva più lontano e senza affanno, mostrando il volto gioioso del ministero sacerdotale, che sa di famiglia, con un intelligente gioco di squadra. Questa sarà una pietra miliare della nuova pastorale vocazionale.

2.
La fraternità sacerdotale farà bene al popolo di Dio che siete voi. Senza nulla togliere alla sublimità dell’Ordine Sacro, la figura del prete risulterà, in un certo senso, ridimensionata. Perché? Non si va a Messa per simpatia per quel sacerdote o per l’altro, o per altre ragioni troppo umane… si va per il Signore! Il sacerdote è un aiuto, un fratello che il Signore mette sul vostro cammino, con la sua umanità, le sue qualità, i suoi limiti, come tutti. Le comunità saranno invogliate dalla testimonianza dei loro preti ad essere collaborative, specialmente per quanto riguarda il catechismo dell’iniziazione cristiana, la pastorale giovanile, la pastorale familiare, la testimonianza della carità. Vietato sottrarsi, salvo per gravi motivi familiari. Non verrà tolto nulla, ma tutti saranno arricchiti: il Signore Gesù ha «mandato i discepoli due a due ad evangelizzare» (cfr. Lc 10,1), ha unito a sé un gruppo di amici, che chiamerà apostoli. E ha detto: «Chi ascolta voi ascolta me» (Lc 10,16): è Lui, Gesù, il vero sacerdote; noi sacerdoti siamo “più Lui” quando siamo uniti. Guai ai navigatori solitari: geniali forse, ma troppo singolari!

3.
La fraternità sacerdotale fa bene ai sacerdoti. La fraternità nulla toglie all’esercizio della paternità – tutt’e tre sono padri –, allo spirito di iniziativa, al fruttificare dei talenti, diversi e complementari. La fraternità fa bene perché aiuta i sacerdoti a vivere l’amore reciproco, vincolo di perfezione, molla invincibile per l’evangelizzazione: «Da questo sapranno che siete miei discepoli – ha detto Gesù – se avrete amore gli uni per gli altri» (cfr. Gv 13,35). E ancora: «Uniti perché il mondo creda» (Gv 17,21). La fraternità è garanzia della presenza del Signore che ha detto: «Dove due o più sono uniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro» (Mt 18,20). Il tempo che don Mirco, don Emilio, don Rousbell dedicheranno a pregare insieme – quando sarà possibile –, a programmare, a studiare e a confrontarsi, non sarà sottratto a voi, ma sarà un investimento per voi.
I sacerdoti che fanno famiglia testimoniano lo splendore della vocazione al celibato. Chi l’ha detto che la scelta del celibato è una rinuncia ad amare e una rinuncia ad ogni forma di famiglia? Il celibato è per una libertà più grande nell’amore fraterno. Ho parlato consapevolmente di fraternità e non di amicizia, che è pur sempre un sentimento nobilissimo. Amici ci si sceglie, fratelli si viene affidati gli uni agli altri. Si tratta di una fraternità che si allarga verso tutti i presbiteri della Diocesi: tutti i presbiteri hanno ricevuto, per l’imposizione delle mani, il medesimo sacramento che li conforma a Cristo Buon Pastore.

4.
Non mi rimane, cari don Mirco, don Emilio, don Rousbell, e caro diacono Antimo, che consegnarvi tre parole: fede, maturità, oblatività.
Fede: ritornate costantemente alle motivazioni della vostra scelta. Tutto è comprensibile in un’ottica di fede, anche gli spostamenti, con i relativi distacchi, che fanno soffrire. È nella fede che avete lasciato tutto per il Tutto! Con la fede potrete essere sentinelle nella notte, con la fiaccola accesa, aiutando le comunità ad affrontare ogni avversità, incomprensione e oscurità (cfr. Is 21,11).
Maturità: non si è maturi perché si è “arrivati”, ma per la disponibilità a crescere ancora. Vi trovate all’inizio di un cammino che incontrerà difficoltà, ostacoli e forse critiche. Maturità qui significa perseveranza, tensione alla santità, «misura che conviene alla piena maturità di Cristo» (Ef 4,13). Marta e Maria insieme (cfr. Lc 10,38-42).
Oblatività: vivere fuori di sé, nella ricerca di relazioni autentiche. La vita insieme è una grande scuola, una palestra. Valgono anche per voi sacerdoti, nella vostra casa (la canonica), le tre parole che papa Francesco ha affidato alle famiglie cristiane: scusa, per favore, grazie. E continuare a donarsi, a spendersi, senza riserve, senza protagonismi, senza calcoli. La misura del dono di voi stessi, come per ogni sacerdote, è niente di meno che l’Eucaristia. Ci vorranno anni perché si realizzi questo squarcio di futuro in una Chiesa secondo il Vaticano II: una comunità governata non in modo monocratico, ma guidata da una famiglia di presbiteri insieme ai diaconi.
Cari fedeli, nei primi sei mesi di quest’anno ci hanno lasciato ben quattro sacerdoti, tutti del vostro vicariato: don Orazio, don Luigi, don Maurizio, don Lazzaro. È pensando a loro, alla loro vita spesa per il Signore e per voi, che rileggo il Vangelo di oggi, festa di tutti i santi. Felici voi, cari sacerdoti, che vi siete privati di qualcosa per donare agli altri, specialmente ai più poveri. Felici voi che vi siete serviti della tenerezza per trasformare la terra. Felici voi che avete offerto la vostra vicinanza per sostenere chi piangeva. Felici voi che avete lavorato senza sosta per la giustizia, per sfamare chi cercava dignità. Felici voi che avete aperto il vostro cuore per accogliere la sofferenza del mondo. Felici voi che avete dimorato nella verità per lasciar trasparire in voi la luce di Dio. Felici voi che vi siete opposti alla violenza per lasciare alla pace di edificare la città. Felici voi che siete rimasti saldi nella confidenza in Gesù, malgrado le incertezze e i cambiamenti di questo tempo. Con Cristo e il suo Vangelo avete fatto nascere la felicità sulla terra! Amen.

Discorso nel conferimento della cura pastorale dell’unità pastorale di Novafeltria a don Simone Tintoni e a don Jean-Florent Angolafale

Novafeltria (RN), 30 ottobre 2022

1.

Un inizio. Come ad ogni inizio c’è curiosità, trepidazione e gioia (come quando si apre un regalo: cosa ci sarà dentro?). Inizia un nuovo assetto pastorale. A don Simone Tintoni, don Jean-Florent Angolafale e al diacono Vittorio Fiumana sono affidate le parrocchie di Novafeltria, Talamello, Torricella e Sartiano. Don Simone e don Jean-Florent sono parroci insieme. A don Simone viene dato l’incarico di moderatore dell’unità pastorale. A Vittorio è chiesta la disponibilità alla diaconia. Si tratta di un primo passo verso quella conversione pastorale tanto auspicata da papa Francesco e segnalata anche nei nostri dialoghi sinodali; realtà che non riguarda solamente rapporti fra i presbiteri – rapporti di fraternità, di lavoro insieme, di complementarità –, ma anche fra i presbiteri e i laici e dei laici fra loro, di una comunità e dell’altra, tutti fratelli, tutti discepoli di Gesù, tutti desiderosi di essere missionari. Viene chiesta apertura di cuore e di mente per impegnarsi con viva corresponsabilità. A tutti viene chiesto di superare attaccamenti alle proprie abitudini (non oso immaginare ci siano campanilismi; nel caso ci fossero bisogna che ci educhiamo gli uni gli altri). Ho usato la parola “apertura” almeno in tre sensi. 1. Apertura reale e sincera a ciò che lo Spirito Santo vuol dire oggi alla Chiesa. Siamo tutti scolari, alunni, discepoli, tutti bisognosi di imparare. 2. Apertura delle realtà ecclesiali le une verso le altre e ciascuna verso l’intera Chiesa, sotto la guida del Pietro di oggi, che è il Santo Padre papa Francesco e, nella nostra Diocesi, del Vescovo. 3. Apertura a nuove forme di ministerialità che riguardano i fratelli, gli uomini, e le sorelle, le donne. A partire dal prossimo anno, potranno accedere ai ministeri istituiti anche le donne. Oltre al ministero del lettorato, dell’accolitato e del catechista, il Signore susciterà certamente altri ministeri in una Chiesa che vuole essere comunione e missione.
Nel nuovo inizio c’è una certa continuità: non si parte da zero! Abbiamo una tradizione ricchissima; spesso non ci rendiamo conto di cosa vuol dire avere alle spalle duemila anni di cristianesimo: chi viene da paesi in cui la Chiesa è giovane se ne accorge maggiormente. Non immaginate chissà quale terremoto con questo nuovo assetto. Però c’è anche una discontinuità: ci troviamo davanti ad una pagina bianca da scrivere, disegnare, colorare; cose forse già vissute, ma da adesso in poi da vedere e da considerare con occhi nuovi.

2.

L’inizio è anzitutto una grazia, perché sollecita creatività e mobilita nuove energie. Per il credente è sempre accompagnata da un collegamento alle parole che aprono la Sacra Scrittura: «Bereshît bara’ Elohîm (All’inizio Dio creò)» (Gn 1,1). Il verbo bara’ dice l’iniziativa salvifica di Dio che continua nella storia. Dio è fuori dal tempo. Quando Dio decide, fa, pensa, crea, permane in quell’atteggiamento; non ci sono passato, presente, futuro: è tutto presente. C’è il medesimo progetto d’amore, sotteso a tutto l’arco dell’azione divina, dall’inizio alla fine. Quel verbo, bara’, non indica soltanto l’azione potente del Creatore sul cosmo, ma l’intera sua presenza che abbraccia la storia, quella grande e quella piccola, quella personale e quella di ciascuno di noi. Ci sarà una lunga serie di avvenimenti, di creazione, di liberazione, di nuovi inizi che la Bibbia ci fa conoscere e lo fa per educarci a vedere come Dio sia sempre all’opera nelle nostre esistenze e come ogni inizio sia sotto la sua volontà di benedizione. Di per sé ogni giorno, ogni ora, ogni iniziativa partecipa di quell’inizio. «All’inizio» devi pensare al per sempre, il per sempre dell’amore di Dio e della sua fedeltà.

3.

Mi sono riferito al primo versetto della Genesi; ora, per parlare dell’inizio, consentitemi di fare una breve incursione nel Secondo Libro dei Re. Gerusalemme era diventata infedele verso il Signore, aveva abbandonato il suo Dio, aveva amoreggiato con gli idoli dei pagani e col loro stile di vita; anche il tempio era andato in decadenza. Il Signore Dio suscita un santo re, di nome Giosia. Siamo nel VII secolo a.C. Il re Giosia pensa sia il momento di rimettere le cose a posto. Da dove partire? Dal tempio. Allora, chiama un’impresa edile, un’azienda di pulizie, degli artisti, affinché il tempio torni al suo primitivo splendore. Quella che sto raccontando, in fondo, è un’allegoria di oggi. Alcuni fervorosi nel fare le pulizie (come le signore che rendono così bella questa chiesa) trovano nei ripostigli del tempio dei rotoli, un po’ malmessi. Svolgendoli si accorgono che vi sono scritte le parole di Dio e che forse si tratta dei rotoli dell’Alleanza, che narrano il patto che il Signore ha stipulato con Mosè sul monte Sinai. Vanno da un esperto, lo scriba Safan. Egli riscontra che si tratta del libro della Legge… dimenticato per anni nel Tempio! Vanno a dirlo al re Giosia, che dopo averlo fatto leggere dalla profetessa Culda, si straccia le vesti, chiede perdono a Dio e proclama una grande convocazione di popolo. Non basterà la giornata perché vengano letti ad alta voce i libri dell’Alleanza. Quella liturgia solenne si trasforma in una grande festa che dura giorni interi: la riscoperta della Parola di Dio (cfr. 2Re 22, 8-11). Non sarà per caso che al fondo della crisi di oggi nelle parrocchie ci sia il fatto che la Parola di Dio è caduta nel dimenticatoio? Guai! Se è così, abbiamo bisogno di un nuovo inizio.

4.

Faccio riferimento anche ad un’altra pagina della Sacra Scrittura, presa dal Libro del Profeta Geremia, un profeta a cui è capitato di vivere in un tempo terrificante: Geremia, infatti, deve assistere alla distruzione di Gerusalemme, la città santa. Il Tempio, che era stato in parte recuperato dal santo re Giosia, di nuovo ritorna in macerie. La dinastia davidica viene interrotta; sono deportati a Babilonia il re, la regina, i figli e tutti i notabili del popolo, insieme a tanta gente. I sacerdoti non compiono più liturgie, niente più incensi. Il Signore manda il profeta Geremia a portare una lettera ai deportati, una lettera che sembra scritta oggi da un vescovo nel “tempo della crisi”: secolarizzazione, scandali nella Chiesa, abbandono della pratica religiosa, calo delle vocazioni e poi la pandemia, ora la guerra. La lettera del profeta Geremia dice come vivere il tempo della crisi. La crisi può essere un tempo utile e necessario per il cambiamento. «Così dice il Signore degli eserciti, Dio d’Israele, a tutti gli esuli che ho fatto deportare da Gerusalemme a Babilonia…» (Ger 29,4). A deportare non è stato Nabucodonosor? Sì, per le cronache e per i libri di storia, ma quello che è accaduto è accaduto perché il Signore lo ha permesso: l’ha voluto per purificare il suo popolo; infatti, il Signore aggiunge: «Costruite case, abitatele (non vivete da barboni sotto i ponti perché siete a Babilonia in un paese straniero), piantate orti, mangiatene i frutti; prendete mogli, mettete al mondo figli. Lì moltiplicatevi e non diminuite. Cercate il benessere nel paese in cui vi ho fatto deportare e pregate per esso il Signore» (Ger 29,5-7).  Il Signore fa capire che il tempo della crisi può essere un tempo davvero di nuovo inizio. E così accade. È stato abbattuto il Tempio, ma i credenti hanno cominciato ad incontrarsi nelle sinagoghe, in piccoli spazi, quasi un raduno di famiglia, dove si leggono le Scritture (i famosi rotoli). Cominciano a comprendere che Dio non è soltanto il Dio d’Israele, di Gerusalemme, ma il Signore di tutto il mondo: emerge la dimensione universale del monoteismo. È come se Dio dicesse inoltre: «In questo tempo di crisi datevi da fare: famiglia, lavoro, impegno sociale…». Non è un’allusione all’impegno dei laici nel quotidiano? Non ci sono più sacerdoti al Tempio, nascono i rabbini, nuove forme di ministerialità. Poi c’è la parola conclusiva: «Quando saranno compiuti a Babilonia settant’anni, vi visiterò e realizzerò la mia buona promessa di ricondurvi in questo luogo. […] Mi cercherete e mi troverete, perché mi cercherete con tutto il cuore; mi lascerò trovare da voi» (Ger 29,10.13). Dunque, con l’esperienza dell’“inizio” consideriamo la fedeltà di Dio; partiamo dalla riscoperta del Vangelo; ritroviamo forza per affrontare la crisi, tempo che il Signore vuole per la nostra maturazione. Così sia.

Discorso nel conferimento della cura pastorale della parrocchia di Serravalle a don Pier Luigi Bondioni

Serravalle (RSM), 23 ottobre 2022

C’è gioia e c’è attesa per questo nuovo inizio. Ma soprattutto vince la carità reciproca che è il segno unitivo e distintivo dei discepoli del Signore. «Dove due o più sono uniti nel mio nome – dice Gesù – io sono presente in mezzo a loro» (Mt 18,20). E noi ne godiamo. «Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri» (Gv 13,35). «Come io e il Padre siamo una cosa sola, così anche voi uniti perché il mondo creda» (cfr. Gv 17,21). Questa è la prima e fondamentale testimonianza che evangelizza e ognuno di noi si mette in gioco. Questa è la nostra carta d’identità. Siamo un popolo messianico che ha per capo Cristo, come statuto la dignità e la libertà dei figli di Dio, la sua legge è il comandamento nuovo di amarci, come lui ci ha amato. Il suo fine, il fine di questo popolo, è il regno di Dio, iniziato sulla terra da Dio stesso, ma destinato a dilatarsi sempre di più (cfr. Concilio Vaticano II, Lumen gentium, n. 9). Questo amore deve essere aperto alle persone che vivono in questo territorio, soprattutto ai più fragili, a chi soffre, a chi non trova ragioni per vivere.
Mi piace rivisitare quello che è il nostro luminoso cammino attraverso le parole di un’altra pagina del Vaticano II: «Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini di oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo e nulla vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore» (Concilio Vaticano II, Gaudium et spes, n.1).
Davanti a me, in questo momento, è riunita una comunità parrocchiale desiderosa di proseguire il suo cammino con nuovo slancio; una comunità che – ripeto – vuole aprirsi al territorio, consapevole di avere una missione da portare a servizio di tutti.
Rivolgo un saluto particolare alla mamma di don Pierluigi e ai suoi familiari, ma soprattutto a don Pierluigi. Viene da Pennabilli, dalla parrocchia della Cattedrale, una realtà significativa, dove ha dato se stesso ed è stato riamato, dove ha imparato le sorprese della relazione umana, caratteristica del pastore. Ora si allargano per lui gli spazi della carità pastorale su una realtà più grande (Serravalle è cinque volte più grande di Pennabilli), sicuramente più impegnativa, ma più giovane, socialmente più ricca, anche se complessa. Caro don Pierluigi, hai davanti un vasto campo di apostolato. D’altra parte, conosci già tanti amici e amiche di questa comunità, guardali con occhi nuovi, ora sicuramente con occhi e cuore più maturi. Don Pierluigi conosce bene la storia di Serravalle, le sue vicende passate e vicine, e riceve un’eredità ricca di passione pastorale – penso a don Peppino – e ricca di spiritualità – penso a don Simone. Con questi sacerdoti tanti laici si sono spesi, e lo faranno ancora, impegnando cuore, volontà, braccia, soprattutto per la gioventù, per l’educazione, per il sociale, per le attività più svariate (centro sociale sant’Andrea, coro, circolo anziani, associazioni, gruppi, realtà sportive, Colonia La Verna, ecc.).
Don Pierluigi sale su un treno ben avviato. Il nuovo inizio è anche una grazia di rinnovamento. Come ci ricorda spesso papa Francesco, bisogna andare oltre il “si è sempre fatto così” e rinnovarsi. Aiuterà sicuramente l’esperienza, ben avviata a Serravalle, del Cammino Sinodale, da riprendere appena possibile; un cammino fatto di ascolto sincero, aperto, senza repliche, di corresponsabilità, lettura della realtà, da cui arrivare alle decisioni da prendere insieme, con laici attivi, consapevoli del loro Battesimo. Qui, don Pierluigi, hai un grande tesoro, un grande dono: la presenza delle suore.
Permettimi qualche indicazione per il tuo ministero. Essere costituito parroco in questa comunità non deve farti perdere di vista la Diocesi come grembo; non deve allentarsi il legame con il presbiterio, di cui fai parte per vincolo sacramentale. Sei a Serravalle perché accompagnato e introdotto dal Vescovo. Il tempo che dedicherai agli incontri con i confratelli e con il Vescovo non è rubato alla parrocchia, ma è un accumulo di grazia: le mattine di spiritualità, l’aggiornamento, gli esercizi spirituali e tutte le altre convocazioni. Ritorna a quell’unico cuore da cui partono i sacerdoti e dal quale sono nutriti per trasmettere la comunione ecclesiale.
Permettimi anche una confidenza, dopo cinquant’anni di sacerdozio. Ho ricevuto categorie teologiche, sempre valide, universali, ma in me hanno avuto una sorta di evoluzione negli anni. Si diceva, con una certa enfasi, sacerdos alter Christus; in cima al regolamento del Seminario leggevo: Tu autem homo Dei. Teologie da capogiro, a ben pensarci! E poi “sacerdote come dispensatore dei divini misteri” e si studiava la teologia dei poteri del presbitero, tria munera. Ma si trattava di una teologia che doveva necessariamente aprirsi ad altri orizzonti. Del resto, non è sacerdote ognuno di voi secondo il Battesimo? Non offrite ogni giorno la vostra vita a Dio? Il matrimonio non è forse una forma sublime di esercizio del sacerdozio regale, perché dono di sé senza misura? Il sacerdozio ministeriale, quello del prete, è a servizio del sacerdozio regale, battesimale. Il sacerdozio è da vivere per il proprio popolo, alla maniera di Gesù che offre la sua vita, mette a disposizione le sue mani, il suo cuore, fa di se stesso un dono. Allora i tre doni – insegnare, guidare, santificare – diventano più comprensibili dentro una comunità. A chi insegno, chi guido, chi santifico, se non una comunità? Quando un presbitero celebra Messa, solo lui può dire le parole: «Questo è il mio corpo, questo è il mio sangue», ma alla fine c’è l’Amen dell’assemblea, che conferma con la sua fede. Dopo cinquant’anni di sacerdozio posso dire che sono stato generato dalla mia gente, senza nulla togliere all’imposizione delle mani, al sacramento dell’Ordine Sacro. Le persone mi hanno insegnato come si fa il prete, con le loro domande, a volte provocatorie, con le loro richieste, con le loro proposte. E anche il sacro celibato, custodito gelosamente, l’ho compreso sempre più come misura dell’amore pastorale, affetti ricevuti e affetti ricambiati.
Caro don Pierluigi, ti chiedo un’attenzione speciale per la famiglia, primo nucleo della comunità, come la chiama il Concilio, «piccola chiesa domestica» (cfr. Concilio Vaticano II, Lumen gentium, n. 11; Apostolicam Actuositatem, n. 11). Vicinanza alla famiglia nel suo nascere, cura dei fidanzati e prima ancora dei giovani e della loro educazione affettiva (ti chiedo la presenza nei percorsi prematrimoniali che si tengono in San Marino). Vicinanza nella celebrazione del sacramento del matrimonio, ricordandone l’efficacia per la vita e per la missione degli sposi; poi nell’accompagnamento di genitori e figli all’iniziazione cristiana. Presenza nei momenti del dolore, quando in famiglia fanno la loro comparsa la malattia, la sofferenza, la solitudine, il lutto. Presenza nelle situazioni di crisi, nell’incontro con le famiglie “ferite” (in questa comunità è stata avviata una bella esperienza di accoglienza, di accompagnamento e di incoraggiamento alla partecipazione alla vita piena della comunità; ti prego di avere un’attenzione specialissima per questa realtà).
Poi una confidenza personale, avendoti conosciuto da vicino: non avere paura di aprire il tuo cuore, non temere neppure per i tuoi limiti; quando saprai accettarli e manifestarli, sarà il momento in cui ti sentirai ancora più accolto, più amato. Crescerai con la comunità che stai sposando e la comunità crescerà con te. Autenticità: mi sembra la parola più adatta e sintetica.
Infine, vorrei potessi esprimere anche qui il tuo amore per la santa liturgia, per l’altare, come maestro di preghiera. Il Vangelo che tra poco il diacono proclamerà si apre e si chiude con due verbi di moto: moto a luogo – si parla di una salita al tempio – e moto da luogo, il ritorno dal tempio; in mezzo lo spazio della preghiera come un dono, non come cerimonia, ma come incontro col Signore. Se umilmente lasciamo fare a Dio, scenderemo giustificati, come dice il Vangelo. Giustificati significa luminosi, come Mosè che scende dal monte col viso raggiante. Lo auguro a te che presiedi l’assemblea, lo auguro ai fedeli che proclamano con l’Amen il loro sacerdozio battesimale. Auguri!

Omelia nella XXIX domenica del Tempo Ordinario

Pennabilli (RN), Santuario B.V. delle Grazie, 16 ottobre 2022

Es 17,8-13
Sal 120
2Tm 3,14-4,2
Lc 18,1-8

Per due settimane avremo come tematica e come proposta di vita la cura della preghiera. Gesù, nel bel mezzo di un discorso escatologico (discorso sulle “cose ultime”, là dove arriva il disegno di Dio), inserisce una catechesi sulla preghiera: «Dovete pregare sempre senza stancarvi». Poi fa un discorso che può essere interpretato secondo due prospettive, una più ampia e una più intima, personale. La prima prospettiva è la seguente. I cristiani dicono: «Il Signore è venuto! È la parusia: con Gesù Risorto tutto è compiuto, ma non ancora completamente manifestato. Il Signore ritornerà». Sono già passati tanti anni – forse cinquant’anni quando Luca scrive – ma il ritorno di Gesù, lo splendore della sua regalità, ancora non si vede. Molti discepoli cominciano a stancarsi, a perdere la tensione verso Gesù. Anche le loro preghiere, un tempo fervorose, si “spengono” pian piano. Sono in difficoltà a causa del “ritardo del Signore”. Allora Luca racconta una parabola di Gesù che viene a proposito. I protagonisti sono due: un giudice di iniquità, che non ascolta, non prende sul serio le cause dei poveri, e una vedova che insiste per ottenere giustizia (Luca parla spesso delle vedove nel suo Vangelo). La bellezza dell’azione della vedova è che non molla, non lascia nulla di intentato, fino al punto che il giudice dice tra sé: «Questa vedova mi sta estenuando; non m’importa nulla di lei, ho già i miei clienti che pagano bene… ma se non le do retta mi fa un occhio nero (questa la traduzione letterale dal greco)». Con questa parabola è come se Gesù dicesse: «Siete una comunità affannata, che subisce le persecuzioni, con tanti problemi, vi potrebbe succedere di perdere l’entusiasmo. Invece, dovete avere fiducia, perché se un giudice di iniquità ha esaudito la povera vedova, figuriamoci se Dio non vi viene incontro e non lo fa prontamente». Il messaggio è per quella situazione, ma anche per noi oggi; anche noi viviamo situazioni di limite e di prova, sia a livello mondiale che nazionale, sia anche nell’esperienza di Chiesa: non dobbiamo perdere l’entusiasmo. Gesù vede, ascolta, sa. Se ascolta il giudice di iniquità, figuriamoci se non ascolta Lui!
Il secondo messaggio, più personale, di Gesù, tiene conto del contesto escatologico, in cui Dio è giudice, ma non un giudice di iniquità. Gesù vuole, se ce ne fosse bisogno, scalzare questa idea di Dio che tante volte abbiamo dentro di noi, l’idea di un Dio-giudice che non ascolta, che è più propenso verso chi è ricco piuttosto che alla povera vedova, un Dio severo, lontano, che si disinteressa al nostro grido. Qualche volta questo è il nostro pensiero su Dio, forse per l’educazione ricevuta. La condizione della vedova è anche la nostra: siamo tutti, in qualche modo, nella vedovanza. La vedova è una che ha perso la ragione della sua vita, la bellezza della sua esistenza. Allora Gesù dice: «Ricordatevi bene che io non sono quel giudice che forse immaginate; al contrario io vado di corsa verso di voi per soccorrervi; vi sono vicino». Torna il grande discorso della preghiera: «Non stancatevi di pregare, pregate sempre senza cessare…». Ciò sembra in contraddizione col Vangelo di Matteo in cui è scritto: «Non sprecate parole quando pregate, non fate come i pagani…» (cfr. Mt 6,7). Gesù intende dire che la preghiera continua è vivere alla sua presenza. Abbiamo la grazia di poter vivere questa dimensione della preghiera praticando “la Parola di vita”. Abbiamo bisogno di alfabetizzarci con la Parola, anche prendendo una frase alla volta: «Ogni scrittura è divinamente ispirata» (2Tm 3,16), è Dio che parla.
Concludo con un racconto dei padri del deserto. Un discepolo va dal maestro di preghiera e gli chiede: «Insegnami a pregare. Come faccio per raggiungere il vero raccoglimento?». Il maestro risponde: «Vedi queste montagne. Dove si raccolgono le acque? Giù in valle, nel profondo. Quindi ti dico di andare in profondità». Il discepolo obietta che ha saputo di un suo compagno che ha posto la stessa domanda e il maestro gli ha risposto che doveva salire sul monte, andare in alto, nella solitudine e negli spazi infiniti. «Allora devo andare in profondità o in alto?», replica il discepolo. Il maestro lo guarda e dice: «C’è un luogo dove la profondità e l’altezza si combinano? È il momento presente». Nel momento presente vai in profondità e c’è il raccoglimento totale; nello stesso tempo il momento presente è la vetta; è proprio lì, nel momento presente, che devi essere una cosa sola col tuo Signore: vivere il Vangelo nel momento presente.

Omelia nella XXVIII domenica del Tempo Ordinario

Miniera (RN), 9 ottobre 2022

Sante Cresime

2Re 5,14-17
Sal 97
2Tm 2,8-13
Lc 17,11-19

Inizio con alcune premesse che servono alla nostra meditazione. Prima premessa: chi erano i samaritani? I samaritani erano un piccolo popolo all’interno della Palestina, composto di persone “trapiantate”. Durante l’occupazione assira della Palestina – siamo nell’800 a.C. – furono portati via da Gerusalemme il re, i ministri, le persone di cultura e vi furono importati degli stranieri, quasi una colonia. I samaritani erano “meticci”, essendosi uniti con i pochi ebrei rimasti nelle campagne, poi non praticavano il culto a Dio secondo la liturgia del tempio. I samaritani erano ritenuti eretici, pertanto erano disprezzati, odiati…
Seconda premessa. Nel Vangelo di Luca tutti i racconti, le parabole, i miracoli compiuti da Gesù si trovano nei primi otto capitoli; dal capitolo 9 in poi viene raccontato il viaggio che Gesù fa verso Gerusalemme. Gesù non va a Gerusalemme da turista o da pellegrino; è consapevole che là devono compiersi i giorni della sua morte e risurrezione. Alla fine del capitolo 8 si dice che Gesù «indurì la sua faccia» e si incamminò decisamente verso Gerusalemme. Lungo la strada, Gesù ci fa capire, e ha fatto capire ai Dodici e ai discepoli che lo seguivano, che la sua è una strategia di ingresso (anche Gesù aveva una strategia pastorale!). Gesù va per le strade, si ferma nei villaggi e nei piccoli borghi. Non fa come alcuni gruppi spirituali del suo tempo che si ritiravano dalla città e avevano preso dimora nel deserto di Giuda: abitavano nelle grotte, avevano costruito dei monasteri, avevano in programma di fuggire il mondo e aspettavano la Gerusalemme celeste. Si chiamavano Esseni. Al tempo di Gesù c’erano anche gruppi di fervorosi che, in nome di Dio, si armavano per contrastare i pagani, perché l’origine dei mali – dicevano – era la presenza in Palestina dell’Impero Romano. Gesù non apprezza la loro strategia di aggressione.
Il programma di Gesù è un programma di incontro, di vicinanza, di prossimità, dunque di ingresso. Nella pagina evangelica appena proclamata, Gesù, prima di entrare nel villaggio, passa accanto ad un lazzaretto dove vivono dei lebbrosi, emarginati ed esclusi per motivi igienici e religiosi. Da lontano gridano: «Gesù, Maestro, abbi pietà di noi», così come noi preghiamo all’inizio della Messa: «Kyrie, eleison» (sono stati loro i primi a cantare così!). La lebbra era ritenuta una malattia “maledetta”. Un lebbroso è un morto che cammina; la necrosi avanza in tutto il corpo, il volto si sfigura… Gesù li ascolta e si avvicina. Dobbiamo immaginare che quei lebbrosi siamo noi e la nostra umanità di oggi, bisognosi di purificazione. Gesù si ferma, li guarda, li accoglie; fa loro una proposta quasi incomprensibile: «Andate in città e presentatevi ai sacerdoti». Si fidano. Sono ancora ammalati e si mettono in cammino; mentre camminano, succede a loro come ai discepoli di Emmaus: guariscono. Immaginate la loro gioia! Corrono. Cantano. Finalmente possono riabbracciare (un lebbroso non poteva toccare nessuno). Abbiamo provato qualcosa di simile con il Covid… Molti di noi non hanno potuto abbracciare i loro cari ammalati.
Uno dei lebbrosi torna indietro per ringraziare Gesù. Lui che aveva cantato l’atto penitenziale, kyrie eleison, ora intona il Gloria. Il lebbroso interrompe il viaggio verso la città per andare dove lo porta il cuore: da Gesù. Torna sui suoi passi: è il dietrofront dell’amore. Canta per la strada, si butta ai piedi di Gesù, dice grazie per il dono non meritato della guarigione. L’evangelista Luca sottolinea che l’unico che è tornato indietro è un samaritano: emarginato perché lebbroso ed emarginato perché samaritano, però è l’unico che prende questa iniziativa e vuole guardare Gesù negli occhi. Quei nove hanno fede in Gesù – sono guariti! –  ma il decimo ha qualcosa di più: il desiderio di guardare Gesù, di essere in intimità con lui, vuole amarlo.
Dico a ciascuno: «Il Signore aspetta proprio te, perché ti ama immensamente». Vorrei fiorisse nel cuore la preghiera di riconoscenza, anche con parole nostre, anche solo con uno sguardo.
Mettendo in evidenza il samaritano, Luca voleva incoraggiare la missione. Dopo la risurrezione, gli apostoli e i discepoli sono andati in tutto il mondo ad annunciare il Vangelo di Gesù. Anche ai pagani. Luca dice che i pagani possono dare risposte inimmaginabili. È, dunque, uno sguardo ottimista sulla missione. A volte, in parrocchia, capita di perdersi d’animo e di non voler seminare temendo di non raccogliere. Luca incoraggia a spargere la semente dappertutto. A questo racconto darei questo titolo: «Storia di un samaritano riconoscente». Questa settimana invito a ricordare la parola “grazie”, da rivolgere al Signore e alle persone che vivono accanto a noi. Così sia.