XIX Domenica del Tempo Ordinario

Parrocchia di S. Pietro della Pieve in Ponte Messa

Omelia di S.E. Mons. Andrea Turazzi

Il Vangelo riporta due preghiere di Pietro pronunciate a qualche minuto l’una dall’altra. Ma fra la prima e la seconda c’è un abisso. Pietro chiede di andare a Gesù camminando sull’acqua: «Signore, se sei tu, comandami di venire a te sulle acque». Pietro qui assomiglia ai bambini che imparano a camminare: vedono mamma e papà davanti a loro che allargano le braccia, allora si lanciano nella confidenza nonostante la paura e l’esitazione iniziale. Così Pietro verso Gesù. Il suo slancio è sincero. Fa, ad un tempo, l’esperienza della fede e della fragilità. Siamo al centro del racconto. Ma è nella fragilità che formula la preghiera più bella, più vera e più necessaria: «Signore, salvami!». Con la prima preghiera – «Signore, se sei tu, comandami di venire a te sulle acque» – chiede, in fondo, una cosa spettacolare. La seconda è il semplice grido di uomo che riconosce di non bastare a se stesso: affonda! La mano di Gesù afferra quella di Pietro e ambedue salgono sulla barca che d’ora in poi navigherà su onde di quiete. A confronto col miracolo a cui il Vangelo ci ha fatto assistere domenica scorsa – il miracolo della moltiplicazione dei pani e dei pesci – questo sembra inutile, fine a se stesso. Sulle rive del lago Gesù aveva sfamato migliaia di persone, qui sulla barca, nell’oscurità, un prodigio per cose di cuore (il rapporto di un discepolo col suo maestro)… Prendiamoci il tempo per gustare interiormente questa pagina di Vangelo. Dichiaro tutta la mia ammirazione per questo miracolo “inutile”: mi accompagna nella dinamica del cammino di fede. Dalla paura alla fiducia. Dal dubbio alla fede. Dalla perplessità alla dossologia (piena confessione di fede). Rinnovo anche l’espressione della mia simpatia a Pietro, il pescatore, “uomo d’acqua e poi di roccia”. L’invito di Gesù rivolto a Pietro, alla Chiesa e a me – Vieni! Cammina dietro a me sull’acqua… – sembra una provocazione, la stessa che Gesù ha lanciato prima della moltiplicazione dei pani: «Date loro voi stessi da mangiare» (Mt 14,16). Non sapremmo e potremmo fare né l’una né l’altra cosa. Da soli è impossibile. Con lui si può!

XVIII Domenica del Tempo Ordinario

S.E. Mons. Andrea Turazzi

Is 55,1-3
Sal 144
Rm 8,35.37-39
Mt 14,13-21

Appena qualche domenica fa il Vangelo raccontava di Gesù che parlava da una barca, sull’acqua, mentre la folla stava sulla terra ferma. Del fatto ho proposto una lettura simbolica: la gente preferisce stare coi piedi ben piantati nelle proprie sicurezze piuttosto che affidarsi alla fede! In questa pagina di Vangelo invece ci vien detto di Gesù che scende dalla barca, sulla terra ferma, per incontrare la fame e il bisogno della folla: concretezza della vera prossimità. Ci risuona forte l’invito di papa Francesco “ad uscire fuori” verso le periferie. Di per sé non ci chiede di immaginare chissà quali scenari. Andare alle periferie è prima di tutto un moto del cuore al quale occorre educarsi, per “vivere l’altro”. L’altro da capire, ascoltare, amare, servire, è chi mi vive accanto, nella mia stessa casa, nel mio paese o nella mia città, chi sta lontano, ma che i media mi rendono vicino e partecipe della sua sorte. Andare alla periferia significa – prima di tutto – de-centramento da sé. C’è anche l’invito ad allargare lo sguardo ed a prendere coscienza dei problemi della società. Se c’è una preferenza, per chi va alla scuola di Gesù, sarà quella di andare verso il fratello o la sorella che è nella prova. Ed ai giovani presenti dico: ascoltate ciò che il Signore vi propone nel profondo del cuore: «prestami le tue mani, i tuoi piedi, la tua intelligenza, il tuo cuore per essere una mia presenza». Moltiplica il pane chi lo spezza e lo condivide: Gli occhi di tutti a te sono rivolti in attesa… Tu apri la tua mano e sazi il desiderio di ogni vivente (Sal 144).

Gli apostoli chiedono a Gesù di congedare la folla, perché si dia da fare e vada a comprarsi il pane (suppongono che la folla non andrà spontaneamente). Gesù non la manda via, ma insiste: voi stessi date loro da mangiare. Bello il preoccuparsi dei discepoli. Più bella ancora la provocazione di Gesù: dare senza calcolo, mettere in circolazione i cinque pani e i due pesci. Due mentalità a confronto: quella di Gesù e quella degli apostoli e… la nostra. “A noi, che preghiamo: «Dacci oggi il nostro pane quotidiano», il Signore risponde: «Voi date il vostro pane». «Dacci», noi invochiamo. «Donate», ribatte lui” (E. Ronchi). In questi giorni continuiamo ad assistere ad ondate di sbarchi di persone in fuga provenienti da paesi africani ed asiatici. Il problema è complesso ed ha tanti risvolti, ma ognuna di quelle persone è sorella e fratello. Mi piace ricordare come a Macerata Feltria la popolazione ha saputo vivere l’arrivo di quaranta migranti e come la nostra Caritas diocesana ne ha ospitato un gruppo nella casa di accoglienza a Secchiano.

Il prodigio che l’evangelista ci ha tramandato ha dei tratti e dei particolari che rinviano al Pane trasformato e che trasforma: l’Eucaristia. A chi non piacerebbe essere stato tra i cinquemila in quella sera, sulla riva del lago? Lo siamo ogni domenica, quando nella nostra parrocchia, o in una chiesetta di montagna o di mare, ci presentiamo al Signore con le nostre fragilità e i nostri mali, con la nostra fame e i nostri desideri: ceste piene di vuoto, unico credito che possiamo esibire. E Gesù viene in mezzo a noi. O voi tutti assetati, venite all’acqua, voi che non avete denaro, comprate senza denaro, senza pagare, vino e latte. E il testo della prima lettura continua con la denuncia della nostra poca accortezza: Perché spendete denaro per ciò che non è pane, il vostro guadagno per ciò che non sazia? Allora possiamo ripetere come Paolo: Di nulla mi vanterò se non della mia debolezza, e fare così, ogni domenica, la seducente esperienza di essere con Gesù, come i cinquemila, sperimentando la stessa gioia come quella provata dai discepoli di Emmaus. A stupire non è il numero dei presenti, ma quella prossimità di Gesù. Il Pane moltiplicato dell’Eucaristia è spesso prigioniero dei nostri tabernacoli dorati. Il Signore dice: Non si accende una lucerna per metterla sotto il moggio, ma sopra il lucerniere perché faccia luce a tutti quelli che sono nella casa. Perché non dare all’adorazione eucaristica spazio e tempo? Perché non rileggere e reinterpretare la nostra vita in chiave eucaristica? Allora anche le mani si apriranno.

XVIII Domenica del Tempo Ordinario

Omelia di S.E. Mons. Andrea Turazzi

 

Is 55,1-3

Sal 144

Rm 8,35.37-39

Mt 14,13-21

 

Appena qualche domenica fa il Vangelo raccontava di Gesù che parlava da una barca, sull’acqua, mentre la folla stava sulla terra ferma. Del fatto ho proposto una lettura simbolica: la gente preferisce stare coi piedi ben piantati nelle proprie sicurezze piuttosto che affidarsi alla fede! In questa pagina di Vangelo invece ci vien detto di Gesù che scende dalla barca, sulla terra ferma, per incontrare la fame e il bisogno della folla: concretezza della vera prossimità. Ci risuona forte l’invito di papa Francesco “ad uscire fuori” verso le periferie. Di per sé non ci chiede di immaginare chissà quali scenari. Andare alle periferie è prima di tutto un moto del cuore al quale occorre educarsi, per “vivere l’altro”. L’altro da capire, ascoltare, amare, servire, è chi mi vive accanto, nella mia stessa casa, nel mio paese o nella mia città, chi sta lontano, ma che i media mi rendono vicino e partecipe della sua sorte. Andare alla periferia significa – prima di tutto – de-centramento da sé. C’è anche l’invito ad allargare lo sguardo ed a prendere coscienza dei problemi della società. Se c’è una preferenza, per chi va alla scuola di Gesù, sarà quella di andare verso il fratello o la sorella che è nella prova. Ed ai giovani presenti dico: ascoltate ciò che il Signore vi propone nel profondo del cuore: «prestami le tue mani, i tuoi piedi, la tua intelligenza, il tuo cuore per essere una mia presenza». Moltiplica il pane chi lo spezza e lo condivide: Gli occhi di tutti a te sono rivolti in attesa… Tu apri la tua mano e sazi il desiderio di ogni vivente (Sal 144).

Gli apostoli chiedono a Gesù di congedare la folla, perché si dia da fare e vada a comprarsi il pane (suppongono che la folla non andrà spontaneamente). Gesù non la manda via, ma insiste: voi stessi date loro da mangiare. Bello il preoccuparsi dei discepoli. Più bella ancora la provocazione di Gesù: dare senza calcolo, mettere in circolazione i cinque pani e i due pesci. Due mentalità a confronto: quella di Gesù e quella degli apostoli e… la nostra. “A noi, che preghiamo: «Dacci oggi il nostro pane quotidiano», il Signore risponde: «Voi date il vostro pane». «Dacci», noi invochiamo. «Donate», ribatte lui” (E. Ronchi). In questi giorni continuiamo ad assistere ad ondate di sbarchi di persone in fuga provenienti da paesi africani ed asiatici. Il problema è complesso ed ha tanti risvolti, ma ognuna di quelle persone è sorella e fratello. Mi piace ricordare come a Macerata Feltria la popolazione ha saputo vivere l’arrivo di quaranta migranti e come la nostra Caritas diocesana ne ha ospitato un gruppo nella casa di accoglienza a Secchiano.

Il prodigio che l’evangelista ci ha tramandato ha dei tratti e dei particolari che rinviano al Pane trasformato e che trasforma: l’Eucaristia. A chi non piacerebbe essere stato tra i cinquemila in quella sera, sulla riva del lago? Lo siamo ogni domenica, quando nella nostra parrocchia, o in una chiesetta di montagna o di mare, ci presentiamo al Signore con le nostre fragilità e i nostri mali, con la nostra fame e i nostri desideri: ceste piene di vuoto, unico credito che possiamo esibire. E Gesù viene in mezzo a noi. O voi tutti assetati, venite all’acqua, voi che non avete denaro, comprate senza denaro, senza pagare, vino e latte. E il testo della prima lettura continua con la denuncia della nostra poca accortezza: Perché spendete denaro per ciò che non è pane, il vostro guadagno per ciò che non sazia? Allora possiamo ripetere come Paolo: Di nulla mi vanterò se non della mia debolezza, e fare così, ogni domenica, la seducente esperienza di essere con Gesù, come i cinquemila, sperimentando la stessa gioia come quella provata dai discepoli di Emmaus. A stupire non è il numero dei presenti, ma quella prossimità di Gesù. Il Pane moltiplicato dell’Eucaristia è spesso prigioniero dei nostri tabernacoli dorati. Il Signore dice: Non si accende una lucerna per metterla sotto il moggio, ma sopra il lucerniere perché faccia luce a tutti quelli che sono nella casa. Perché non dare all’adorazione eucaristica spazio e tempo? Perché non rileggere e reinterpretare la nostra vita in chiave eucaristica? Allora anche le mani si apriranno.

Festa di San Leone

S.E. Mons. Andrea Turazzi
Cattedrale di San Leo, 1 agosto 2014

 

Mt 7, 21-27
Festeggiamo San Leo, scalpellino e missionario, insieme a San Marino architetto di una società costruita sul Vangelo. E la pagina di Vangelo che abbiamo ascoltato ci ripropone la parabola dei due architetti: uno costruisce la casa sulla roccia, l’altro sulla sabbia. Piogge, bufere, esondazioni non sono risparmiate né all’una, né all’altra casa. Ciò che fa la differenza – fuori di metafora – è se sono fondate sulla Parola di Gesù.
Penso alle nostre famiglie: case da costruire solidamente. E Gesù ha parole importanti sulla famiglia. Le conosciamo. Le accogliamo. Scommettiamo su di esse.
Gesù è entrato povero nel mondo e povero ha voluto rimanere fino a dire che non aveva una pietra dove posare il capo e una tana in cui rifugiarsi (cfr. Lc 9, 58). Ma ha voluto una famiglia! A questa non ha rinunciato.
La tradizione del nostro popolo ha sempre onorato la famiglia. Si dice che la famiglia oggi è in crisi. In crisi è la società; e, perché in crisi, condiziona, scoraggia, destruttura quella che è il suo primo elemento fondante.
Non abbiamo paura ad affrontare l’argomento, a prendere in considerazione le idee che mettono in discussione certezze assodate e le tendenze che sconvolgono equilibri che sembravano raggiunti una volta per tutte.
Non siamo paladini del “si è sempre pensato così” o del “si è sempre fatto così”. Non ci sottraiamo alla riflessione sulla famiglia: riflessione pacata, aperta al nuovo, condotta in tutta franchezza. Cogliamo questa opportunità. Mettiamo in campo – prima ancora della nostra fede – una visione di famiglia che si basa su un umanesimo integrale, sulla ragione e su quello che riteniamo il meglio per la nostra società. Non è detto che il meglio sia il più facile. Stolto sarebbe chi, per conquistare una montagna, pensasse di abbassarla anziché trovare sentieri.
Sulla scia dei Padri fondatori abbiamo sentieri praticabili. Mettiamo in rete testimonianze sulla bellezza della vita in famiglia, sulla ricchezza che apporta alla società, sul di più per la crescita dei bimbi, sull’aiuto indispensabile agli anziani e ai disabili, sulla pienezza di vita e di amore degli sposi.
La bellezza della famiglia salverà il mondo! Un progetto non solo bello… ma realizzabile!
Così intesa la famiglia non è solo una inevitabile istituzione o una consuetudine, ma è un’avventura aperta al dono di sé, al futuro di umanità più matura.
Le difficoltà che le famiglie incontrano (compresi i fallimenti) non smentiscono il progetto. Semmai, rappresentano una sfida che impegna tutti a trovare nuovi stili, a preparare all’amore e a pensare adeguate politiche famigliari. Non intendiamo mancare di rispetto a nessuno quando riconosciamo “famiglia” solo quella fondata sull’amore fra uomo e donna. Le persone che si uniscono diversamente da questa troveranno eventualmente altri riconoscimenti e altre tutele. Vivere è rispondere: effettivamente alla vita siamo stati chiamati. E siamo stati chiamati ad essere uomo e ad essere donna, impegnati a rispondere nella libertà a questa prima e originaria vocazione.
Il futuro dell’umanità dipende dal futuro della famiglia e il destino della famiglia è nelle nostre mani. Non sentite la vertigine di questa responsabilità?
Non siamo contro nessuno, né ci interessa lo scontro, vogliamo solo partecipare alla comune ricerca, offrire un servizio obiettivo e proporre itinerari educativi all’amore basati sulla dignità della persona. Perché il mondo sarà di chi lo ama di più!
«Cadde la pioggia, strariparono i fiumi, soffiarono i venti e si abbatterono su quella casa, ma essa non cadde, perché era fondata sulla roccia» (Mt 7, 26).

Permettete che dica una parola anche sulla “casa”, la famiglia che noi sacerdoti e religiosi abitiamo e vogliamo abitare con gioia: il nostro presbiterio. Il Signore che abbiamo scelto come il tutto della nostra vita è il fondamento roccioso della nostra casa. Ma ci aiuta pure quel sentimento bello e prezioso, conosciuto e coltivato da Gesù: l’amicizia. L’amicizia è una simpatia reciproca e una intesa profonda fra persone a volte molto diverse, ma non è basata sull’attrazione uomo-donna sesso come è l’amore coniugale. E’ unione di anime, non di corpi. In questo senso gli antichi dicevano che l’amicizia è “un’anima sola che vive in due corpi” (Aristotele).
L’amicizia può costituire un vincolo più forte della stessa parentela. E’ essenziale per l’amicizia che essa sia fondata su una comune ricerca del bene e dell’onesto. Quella tra persone che si uniscono per fare il male, non è amicizia ma complicità.
L’amicizia è diversa anche dall’amore del prossimo; questo deve abbracciare tutti, anche chi non riama, anche il nemico, mentre l’amicizia esige la reciprocità, la corrispondenza.
La Bibbia è piena di elogi dell’amicizia. «Un amico fedele è sostegno potente; chi lo trova ha trovato un tesoro» (Sir 6, 14). Ma anche la storia della santità cristiana conosce esempi di amicizie famose.
Certo, con Gesù la realtà dell’amicizia compie un salto di qualità, perciò Gesù ha potuto dire: «Non vi chiamo più servi, ma amici, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone» (Gv 15,15). Fondata su questo, la nostra amicizia è solida e non teme il soffiare dei venti, ossia le inevitabili cadute, il cadere delle piogge che minacciano di sgretolare gli ideali che tutti abbiamo scelto, lo straripare dei fiumi che sono le prove della vita e del ministero (andiamo a rileggere il n. 43 della Novo Millennio Ineunte sulla spiritualità di comunione). Amici inseparabili per l’amicizia all’Amico comune: Gesù!

La casa della famiglia, la casa del nostro presbiterio: un’unica casa, la casa più grande della Chiesa, fatta di pietre vive, basata sulla Pietra angolare che è Cristo, che ha per legge la legge della carità, per fine il Regno di Dio (cfr. LG 9). Anche alla Chiesa non saranno risparmiati soffio di venti, cadere di piogge, esondazione di fiumi. Ma «le porte dell’inferno non prevarranno contro di essa» (Mt 16, 17). Anzi, «sarà veduta scendere dal cielo, da Dio, pronta come una sposa adorna per il suo sposo. […] Non ha bisogno della luce del sole, né della luce della luna: la gloria di Dio la illumina e la sua lampada è l’Agnello. Le nazioni cammineranno alla sua luce e i re della terra le porteranno il loro splendore» (cfr. Ap 21). Questa la nostra fede; questa la nostra speranza; da qui la nostra carità!

XVII Domenica del Tempo Ordinario

Piandimeleto, 27 luglio 2014

 

XVII Domenica del Tempo Ordinario

Omelia di S.E. Mons. Andrea Turazzi

 

1Re 3,5.7-12

Sal 118

Rm 8,28-30

Mt 13,44-52

 

Tra i fatti di cronaca di questa settimana – l’inasprimento della guerra israelo-palestinese, l’esplosione di un altro aereo in volo, la sorprendente navigazione dell’ingombrante relitto della Costa Concordia, le schermaglie politiche in Parlamento per le riforme – ha rilievo la notizia di Meriam, la madre sudanese che, condannata a morte per apostasia da un tribunale islamico e costretta a partorire in carcere (incatenata) nell’attesa dell’esecuzione, ora è finalmente libera. Abbiamo conosciuto la sua fede semplice e forte. Una fede che l’ha sorretta durante il processo e la detenzione in piena gravidanza. Una fede alla quale non ha rinunciato neanche sotto l’antico e feroce aut aut: “Convertiti o muori”. Una fede che la fa sorella di sangue di tanti, troppi, perseguitati e, in particolare, di donne che nessuno penserebbe come “eroine”, ma che sono capaci, proprio come lei e come la cattolica pakistana Asia Bibi da più di cinque anni in prigione per la sua fede, di non cedere a minacce e a lusinghe, restando fedeli a se stesse e a Gesù Cristo.

Un esempio per tutti noi. Ma anche un appello a non restare inermi di fronte alle persecuzioni: mai come adesso così violente. Dovremo pensare ad una mobilitazione, cominciando dalla preghiera.

Il Vangelo che oggi viene letto in ogni comunità risponde in pieno alle domande che ci facciamo sul Regno di Dio. Tre brevi parabole. Gesù non le spiega; preferisce, questa volta, la provocazione alla didattica. I nazaretani, ad esempio, gli risposero picche. E noi? Come ci poniamo di fronte all’annuncio del Regno? E’ sufficiente la preghiera: «Venga il tuo Regno»? Gesù aveva esordito così: “A che cosa paragoneremo il Regno di Dio? Ad un tesoro nascosto? Ad un mercante di perle? Ad una rete piena di pesci?”. “Sì” – risponde. Ma, se pretendiamo una definizione, restiamo delusi. Gesù, parlando in parabole, propone un enigma da decifrare: il Regno è un tesoro che mette in cammino, un segreto di cui ci sfugge la chiave, un giudizio tra cose buone e cose cattive. Per questo bisogna darsi da fare come fa chi ha scoperto un tesoro, o come fa il cercatore di perle. Esplora il campo delle Scritture, il terreno della solidarietà e dell’amicizia. Non dobbiamo andare troppo lontano: perle e tesori, benché nascosti, sono già presenti nella nostra esperienza di fede (Parola e Sacramenti), nella nostra vocazione (famiglia, lavoro, responsabilità) e nella vita di chi ci vive accanto. Il tesoro, la perla, la rete piena di pesci dicono la grandezza assoluta del Regno, un valore che relativizza ogni altro valore. Chi riconosce questo è disposto a tutto: cede tutte le altre perle. Nella parabola del tesoro viene sottolineata l’astuzia richiesta al cercatore. Apparentemente il bracciante della parabola è ingenuo (vende tutto per comprare quel campo) e – immaginiamo – avrà dovuto mettersi al riparo dal sarcasmo dei compaesani per quello strano investimento. Il discepolo non deve lasciarsi sviare dall’ironia di coloro che si credono furbi: il Regno di Dio, sì, è un vero affare! Il mercante di perle lancia una sfida: per “trovare” mettiti in un lungo e faticoso sforzo di ricerca, in un metodico itinerario di conversione. Se con la parabola della zizzania si proponeva una paziente attesa, con quella della rete piena di pesci si esige di rompere con gli indugi e di decidersi per Gesù!

Come fanno i martiri di oggi.

Giornata sacerdotale al Pellegrinaggio dell’ Ustal – Unitalsi Omelia di S.E. Mons. Andrea Turazzi

Santuario della Santa Casa di Loreto, 24 luglio 2014

(da registrazione)

Davanti ai nostri occhi abbiamo la Santa Casa di Nazareth: mistero di prossimità e nascondimento che ha visto l’incarnazione del Figlio di Dio.
Nella sua vita terrena il Signore Gesù ha rinunciato a tutto, ma non ad avere una famiglia. In famiglia ha imparato ad amare e ad aver cura dei rapporti. Il Signore fa vedere che la nostra vita di tutti i giorni è vita di Dio, redenta, significativa. E’ una vita in cui anche un bicchier d’acqua offerto per amore non perde la sua ricompensa. Nella casa di Nazareth si vivono le virtù soprannaturali: la fede, la speranza, la carità. Si potrebbe vedere come ognuna di queste virtù viene interpretata da coloro che la abitano: Giuseppe, Maria e Gesù. Ma si praticano anche le virtù morali. Anche le virtù morali sono, in qualche modo, dono di Dio, perché, anche se prendono forma con l’esercizio del nostro impegno, si possono vivere meglio con l’aiuto della grazia. Allora, più tardi, quando potrete accarezzare le pareti della casa di Nazareth, vi propongo di lasciarvi andare alla contemplazione, ad immaginare come Maria si aggirava tra quelle pareti impegnata nei lavori di casa, come Giuseppe vi lavorava, con la presenza di Gesù in mezzo a loro.
Nella casa di Nazareth si vive la franchezza. Ricordate quando Giuseppe va sulle tracce del fanciullo Gesù, dodicenne, e gli dice: «Figlio, perché ci hai fatto questo?». Anche nella loro famiglia c’è il momento del rimprovero, il momento della verità. E Gesù replica al padre in modo sorprendente. In essa si vive la purezza, perché c’è il rispetto delle relazioni. Nella casa di Nazareth c’è anche l’obbedienza; Giuseppe è il capofamiglia, Maria è la sua sposa e Gesù, che è il figlio di Dio, è sottomesso a Giuseppe e a Maria. In realtà questa triade di persone si potrebbe capovolgere; in cima ci sarebbe Gesù e poi Giuseppe e Maria, ma Gesù accetta con amore e per amore questo capovolgimento. Un giorno i cristiani diranno: «Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono di Cristo Gesù, il quale pur essendo di natura divina spogliò se stesso facendosi obbediente». Nella casa di Nazareth si vive la povertà, la povertà concreta e la povertà spirituale, quella dei poveri di Jahvè, di coloro che tutto si aspettano da Dio. Mi viene da pensare, cari amici sacerdoti, alle nostre canoniche. Sono luoghi aperti, accoglienti, luoghi nei quali c’è armonia? Noi ci siamo riuniti questa mattina nel segno della croce. Non potremmo parlare delle relazioni che si svolgono nella casa di Nazareth senza contemplare il mistero fondamentale della nostra fede, il mistero della Trinità, perché, in fondo, nella casa di Nazareth si vivono rapporti trinitari. Adoriamo un solo Dio in tre persone. Un dogma che ci assicura che Dio non è in se stesso solitudine, ma movimento d’amore verso il “tu”, circolarità d’amore in cui ognuna delle tre divine persone è per l’altra, vive l’essere per. Il dogma della Trinità sta a dirci che l’essenziale in Dio è comunione, è relazione. Da questo noi capiamo l’importanza e la bellezza delle relazioni. Gesù nella sua vita pubblica ci apparirà come un cultore delle relazioni, in particolare dell’amicizia. E questo è molto importante soprattutto per noi sacerdoti, perché con la scelta del celibato, non abbiamo rinunciato all’amore, alla casa. Gesù si prende tutto il tempo necessario per far visita agli amici, frequenta le loro case, si ferma a cena, stabilisce un rapporto personale, “a tu per tu”, da cuore a cuore; spesso porta fuori dalla confusione i suoi interlocutori proprio per poter stabilire un rapporto più profondo. Per Gesù nessuno è anonimo e senza volto. Un giorno Gesù laverà i piedi ai discepoli, a Giuda si rivolgerà chiamandolo amico, pregherà per chi lo uccide, piangerà per l’amico sepolto da giorni, gioirà per il nardo profumato dell’amica, si chinerà su chi soffre; Gesù non cercherà servitori, ma andrà in cerca di amici e durante l’ultima cena potrà dire «non vi chiamo più servi, ma amici». Nell’orto del Getsemani, in preda all’agonia, cercherà sostegno dagli amici, si farà mendicante di amicizia; non solo la offre, la domanda. Noi siamo nell’era delle comunicazioni, ma ci sono anche tante barriere nel nostro tempo: culturali, etniche, religiose, politiche; si vivono pregiudizi e chiusure, ma il nostro DNA rivela che siamo fatti per la relazione, per amare così come ama Dio. Amare tutti, senza alcuna aggettivazione, simpatici o antipatici, giusti o ingiusti, ricchi o poveri, prossimi o lontani. E’ sorprendente come Gesù dica, durante l’ultima cena, «come io ho amato voi – e noi ci aspetteremo grammaticalmente «voi amate me», e invece: «così amatevi gli uni gli altri». E’ da questo che sapranno che siete miei discepoli». Certo, l’amore esige un superamento di sé per fare spazio all’altro, proprio come accade nel rapporto tra le tre divine persone, dove una si perde nell’altra. Non sono tre dei, non sono tre essenze. Se noi chiedessimo al Padre “chi sei?”, lui direbbe “io non sono”. Se chiedessimo al Figlio, e poi allo Spirito Santo “e tu chi sei?”, direbbero “io non sono; mi ritrovo nell’altro”. Una sola essenza, una sola natura in tre persone. Occorre andare di fronte all’altro e fare silenzio, un silenzio profondo di ascolto per mettersi nei panni dell’altro. Il Signore ci chiede questa ascesi della relazione.
La chiave per vivere la comunione è la croce. Il Vangelo ci ha condotti nella via della croce. E’ “l’ora”. Questa dizione, “ora”, non ha niente a che fare con l’orologio, ma ha un significato altamente teologico. In quell’ora Gesù introduce ancora una volta la tensione alla relazione. Ai piedi della croce – il momento solenne della redenzione del mondo, il momento in cui nasce la Chiesa, in cui Gesù effonde il suo Spirito – egli stabilisce un campo di profonde, autentiche, umane relazioni. Gesù, nel momento in cui offre se stesso al Padre, guarda dalla croce e vede sua madre, tre discepole e il discepolo amato, Giovanni. Un campo di intense relazioni. Certo, non ci si può fermare al sentimento, men che meno al sentimentalismo, ma la vita spirituale è una vita vera, dove talvolta ti batte il cuore, ti scende una lacrima, dove senti il buio, la lontananza del Signore (che poi non è lontano, semmai instaura con te un gioco d’amore). La vita spirituale è intensa vita affettiva.
Ebbene, Gesù dalla croce guarda sua madre e gli dice «ti affido Giovanni, il discepolo più piccolo», e a Giovanni dice «ecco tua madre» e lui «la prende nella sua casa». Possiamo sentire rivolte a noi quelle parole. Allora prendiamo Maria nella nostra casa, perché abbiamo tutti bisogno di una madre che si prenda cura di noi e lei ha bisogno di noi. Noi sacerdoti abbiamo bisogno ancor di più di imparare da lei, perché, anche se non fu “sacerdote”, ella compì un gesto sacerdotale: mise al mondo Gesù. Tra poco, noi insieme, metteremo al mondo Gesù nell’Eucaristia.
Maria, vieni nella nostra casa!

XVI Domenica del Tempo Ordinario

Molino di Bascio

Omelia del Vescovo S.E. Mons. Andrea Turazzi

Sap 12, 13.16-19

Sal 85

Rm 8, 26-27

Mt 13, 24-43

 

 

Buon grano tra erbe cattive, minuscoli granelli di senape perduti tra zolle, pizzico di lievito in un mucchio di farina: immagini per curare la nostra impaziente sfiducia. Ognuno provi a pensare quando e in quali situazioni è sfiduciato o impaziente: il Vangelo gli darà risposte. Gesù, attraverso la parabola del buon grano e della zizzania, ha voluto anzitutto confidarci come lui sa stare nella complessità e nella “complessità più complessa” che è quella dei rapporti. Può darsi che Gesù abbia tratto l’ispirazione da un banale episodio di gelosia fra contadini. O, più verosimilmente, dall’insoddisfazione di qualcuno dei discepoli. Da sempre gli uomini sono tra bontà e cattiveria, gioia e lacrime, riuscita e fallimento, giustizia e iniquità, bellezza e sporcizia, amore e odio, pace e guerra. Quella realtà piccola, nascosta, sproporzionata – come una goccia d’acqua nel deserto o una barchetta nel Pacifico – ma carica di forza e di amore, è Gesù stesso, radicatosi nella storia e incarnato tra noi; un uomo fra miliardi di uomini. Gesù non teme la storia e le sue contraddizioni. Non ha paura di sedere a mensa con i peccatori. Non si defila dai cammini di croce. Così vuole i suoi discepoli. Siamo nel punto focale della parabola: il contrasto fra il modo di reagire dei servi e quello del padrone di fronte a grano e zizzania. I servi propongono di sradicare subito il male; il padrone lascia che il bene ed il male crescano insieme. Solo alla fine il bene trionferà, ma dovrà farsi strada nella libertà. Il metodo dei servi esprime – come scrivono gli esegeti – l’impazienza messianica dei giusti. Essi pretendono che subito, già ora nella sua fase terrestre, il Regno di Dio sia una comunità di perfetti, separata dai peccatori, ben arroccata nella cittadella dei buoni (F. Forini). Costoro non vedendo sfolgoranti e rapidi trionfi del Regno, ma solo i suoi umili inizi e le sue modeste performance, sono tentati di gridare al fallimento. Gesù replica con le miniparabole del granello di senape e del pizzico di lievito: il Regno di Dio diventerà albero e fermento per tutta la pasta. Insegna loro che un chicco di frumento è più forte di un intero campo di zizzania. Ma questo non dipenderà dagli sforzi umani. A Dio bastano mezzi minimi, compresa la nostra pochezza, per realizzare i suoi grandi disegni. Impariamo la lezione: non lasciamoci paralizzare dalla inapparenza della presenza cristiana nella storia e nella società, non perdiamo la mentalità del lievito e del granello di senape, confidando troppo sui nostri numeri! Vietato ripiegarsi su di sé coi soliti lamenti. Vietato contrabbandare per esigenze del Regno le astuzie e i criteri mondani di giudizio.

Se la parabola della zizzania spiega il perché Gesù tollera i peccatori, la rilettura che ci offre Matteo, dandocene una spiegazione, stimola noi peccatori a darci da fare e ad uscire dalla nostra ignavia.

 

XV Domenica del Tempo Ordinario

Monteboaggine, Chiesa di San Giovanni Battista,
Omelia S.E. Mons. Andrea Turazzi

Is 55,10-11
Sal 64
Rm 8,18-23
Mt 13,1-23

C’è chi mi ricorda che il Signore è giusto giudice e mi precisa che il Signore sfodererà la sua falce per mietere nel suo campo. Lo so. Ma resto folgorato, piuttosto, da questo versetto di Vangelo: Il seminatore uscì a seminare. Un’immagine di Dio che precede tutte le altre, che sta all’inizio di ogni inizio “che vibra di gioia e di profezia, colma di promesse, di buon pane e di fame saziata” (E. Ronchi). Ancora adesso Dio esce a seminare e a diffondere i suoi germi di vita. A piene mani. Dio è seminatore; la sua mano dona largamente; la sua forza incoraggia (cfr. Sal 112, 9); è aurora di ogni giorno, il «la» di ogni canto. Il mondo è gravido di lui. Qualcosa di Dio palpita in ogni fibra della creazione. I semi del Verbo sono presenti in ogni cultura.
Vedo, in questo, il primo tratto che descrive la Regalità di Dio come seminagione straripante, generosa, senza calcoli. Per la nostra logica angusta questo strano modo di fare può apparire come spreco, imprudente assenza di pianificazione. Egli semina su strade, pietraie, siepi e terra buona. Quale agricoltore si permetterebbe di sciupare così i tre quarti della sua semente? Ma Gesù non sta tenendo un corso di agronomia. Parla in parabole – questa è la prima di sette che leggeremo in queste domeniche di luglio – per svelare i segreti del Regno.
Io sono strada, pietra, siepe e terra buona. La mia città è strada, pietra, siepe e terra buona. Il mio tempo è strada, pietra, siepe e terra buona.
Il Seminatore non si arrende. Non s’attarda a considerare le zone refrattarie. Semina ancora con fiducia: offre altre chance.
Qualche pagina più sopra (cfr. Mt 9, 35-38), Matteo racconta la commozione di Gesù davanti alla sofferenza dell’umanità e il suo invito a chiedere al Padre rinforzi per l’impresa salvatrice: «operai per la sua messe». Per descrivere la situazione, che potrebbe essere avvilente, Gesù adopera per ben tre volte l’immagine della messe, immagine gioiosa, piena di canti e di sole. E’ una lezione importante per noi che non sappiamo alzare lo sguardo oltre le difficoltà del momento e l’arditezza delle sfide che ci attendono.
Non dimentichiamo la promessa di Gesù: «Io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo» (Mt 28, 20) e «vi manderò il mio Spirito per stare con voi sempre… lui parlerà in voi» (cfr. Gv 14, 15-18).
Allora pregherò così: Padre, venga il tuo Regno, ossia, fa che sappia farti spazio. Apri, Signore, i miei occhi perché possa vedere le tue impronte lungo le nostre strade sassose. Apri, Signore, le mie orecchie perché i tuoi appelli non siano soffocati dalle mille voci della foresta che mi cresce attorno. Apri, Signore, il mio cuore perché, come terra buona il tuo seme porti frutto. Un’ultima preghiera, Signore: che la tua Chiesa sia una Chiesa di seminatori. Seminatori pieni di fiducia e di coraggio, con questa parola d’ordine: «Ne vale la pena»!

 

Omelia di S.E. Mons. Andrea Turazzi XIV domenica del tempo ordinario

Chiesa Parrocchiale di Mercatale – Celebrazione Eucaristica 

6 giugno 2014

 I vangeli non ci riferiscono risate di Gesù, ma ci fanno comunque partecipi della sua gioia; così è nella pagina evangelica che ci accompagna questa settimana. L’evangelista Luca è ancora più esplicito di Matteo nel riferirci l’allegria di Gesù e nello svelarci, insieme al motivo, l’ispiratore segreto, lo Spirito Santo: In quell’istante Gesù esultò nello Spirito Santo e disse: Io ti rendo lode, o Padre, Signore del Cielo e della Terra … Questa non è l’unica circostanza: la gioia di  Gesù trapela nella sua presenza ai banchetti (ricordate a Cana? Non fece mancare il vino migliore), nell’abbraccio commosso riservato ai bambini contrastante la severità degli apostoli,  nei momenti di serena intimità con gli amici (a Betania gradirà il profumo di Maria). In questa pagina il motivo di gioia sta nel vedere come l’annuncio del Regno di Dio fa presa sui piccoli. Il Padre rivela loro cose belle ed inaudite. Egli dischiude un “sapere”  precluso alla superba presunzione degli pseudo intellettuali, un “sapere”di cui sono assetati i saggi di tutti i tempi, cose nelle quali i profeti hanno desiderato fissare lo sguardo. La scienza che il Padre dona a “questi piccoli” non è dunque frutto di una ricerca intellettualistica. Sboccia nell’anima che si pone dentro la relazione stessa che il Figlio Gesù ha con il Padre. Si usa talvolta nel linguaggio liturgico l’espressione «figli nel Figlio» che esprime in forma sintetica l’intima comunione con Cristo che il Battesimo produce in chi lo riceve. Per il dono della grazia battesimale il cristiano vive della stessa vita di Gesù; è divenuto infatti figlio del Padre, fratello di Cristo, tempio dello Spirito Santo e dunque – come scriveva Pietro ai primi cristiani – “partecipi della natura divina”. Dovremmo più spesso considerare la grandezza e sublimità della nostra vocazione e della nostra dignità e gioire dello splendore della grazia! Gioia indicibile che nessuno può toglierci, eccetto il peccato.

Se accetti di entrare e di diventare un “bambino evangelico”, cioè figlio, troverai il sapore di quel sapere; un sapore che condisce ogni cosa che fai.Gesù propone di entrare in una relazione viva, dinamica (qualcuno l’ha paragonata ad una danza!) la stessa che lui ha col Padre; una relazione a cui non sono estranee neppure le emozioni, il coinvolgimento affettivo e i passaggi tra oscurità e luce. Vita: vita filiale, vita umano-divina. Relazione con il Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe; col Dio di Gesù, non il Dio dei filosofi (B. Pascal). Condizione unica e necessaria: accettare dunque di essere figlio, fino in fondo. In questi giorni di sole e di mare mi sovviene l’immagine di colui, che abbandonandosi quieto, sta a galla sulle onde, mentre chi si agita scomposto va a picco! Gesù non disprezza l’intelligenza, l’inquietudine della ricerca, il tumulto del desiderio, chiede, con l’intelligenza della fede, l’apertura del cuore. L’intelligenza, dunque, non resta fuori. Al contrario: quanti sentono il peso di una esistenza difficile, troveranno risposte e riposo. Troveranno il sapere che dà sapore!

Festa dei Santi Pietro e Paolo

Domenica 29.6.2014
Omelia di S. E. Mons. Andrea Turazzi
Chiesa parrocchiale di Pietracuta,

E’ festa grande per la vostra comunità. Auguri! Nel giorno dei santi apostoli Pietro e Paolo do’ l’annuncio ufficiale del pellegrinaggio che faremo a Roma, “ad Petri sedem” insieme a tutte le diocesi della Romagna. Sarà nel prossimo ottobre. Andremo insieme per dire a papa Francesco il nostro grazie; per consegnarli la nostra “confessio fidei”; per assicurargli la nostra adesione al grande progetto di “una Chiesa in uscita”.
Pietro e Paolo costituiscono le colonne visibili della Chiesa! Festeggiarli (sono molto contento che quest’anno la loro memoria cada di domenica) ci permette di prendere sempre più coscienza delle radici della fede della Chiesa. Dalla giorno della confessione messianica Simone – il “pescatore di Galilea” – fu chiamato da Gesù: “Pietro”. Rinnegherà il Maestro nel momento cruciale, ma sarà il primo nel pentimento fino alle lacrime e sarà intrepido nella triplice dichiarazione d’amore. Gesù lo confermerà nella sua missione: “pasci le mie pecore”.
San Paolo ha aperto le frontiere della Chiesa ed è andato verso i lontani, verso le periferie di allora, attualizzando il progetto di Gesù che voleva fare dei giudei e dei pagani un solo popolo “abbattendo il muro di separazione” (Ef 2,14).
In che modo sono diventati apostoli? Né l’uno, né l’altro per propria iniziativa. Paolo, sulla via di Damasco, ha ricevuto una rivelazione che gli fa dire: Il Vangelo che io proclamo non è invenzione umana. Da persecutore dei cristiani diviene apostolo!
Pietro, senza l’azione dello Spirito Santo, non avrebbe mai potuto pronunciare una così bella professione di fede: Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente.

La Chiesa è sacramento di salvezza, ma il Regno di Dio è infinitamente più grande di lei; e il potere di legare e di sciogliere, che Gesù ha dato agli apostoli, oltrepassa la loro stessa persona: portano un tesoro in vasi di creta. Con questa debolezza la Chiesa e gli apostoli annunciano il Cristo vincitore del peccato e della morte. Essi portano un messaggio che li supera. Il Signore non ha affidato ad una comunità di “puri” il compito di portare al mondo il suo Vangelo, ma a fragili strumenti, quali siamo anche noi, peccatori riconciliati.

Il Vangelo appena letto ci interpella: “E voi chi dite che io sia?”
Le risposte per sentito dire non valgono. Quelle frutto di una sommaria istruzione dottrinale lasciano il tempo che trovano. Gesù vuole la risposta del cuore: Chi sono io per te? Pietro un giorno – stava camminando sulle acque del lago – aveva già dato una sua risposta, gridando sotto la spinta della paura e della fiducia: Signore salvami!(cfr Mt 14,30). Un giorno dirà a nome di tutti: Signore, da chi andremo? Tu solo hai parole di vita eterna (cfr Gv 6,68). A Cesarea di Filippo, tappa centrale nel Vangelo di Matteo, risponde: Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente. E Gesù, di rincalzo: Non la carne, né il sangue te lo hanno rivelato, ma il Padre mio… come a dire: non ci sei arrivato da solo! E tuttavia a Pietro che riconosce in Gesù il Messia viene conferita la dignità di suo rappresentante e cambiato il nome: da Simone a Pietro. La tradizione biblica collega sempre il cambio del nome ad una missione speciale (così è accaduto ad Abramo, Sara, Giacobbe, Paolo…). Pietro vuol dire Roccia: la stabilità e la compattezza della futura comunità messianica poggerà su Cristo e visibilmente su Pietro. La Chiesa appartiene a Cristo (la mia Chiesa); Pietro non l’ha fondata, non è a disposizione del suo arbitrio e non ne è il capo per doti particolari. Tuttavia, dopo la risurrezione, Gesù associa Pietro a sé come garante della unità e stabilità della Chiesa. Questa investitura vale anche per chi succede a Pietro. Come potrebbe la comunità messianica godere di un servizio di unità se la roccia non sarebbe tale per tutto il tempo? La dimensione petrina è esercitata in modo proprio dal vescovo di Roma, il papa, successore di Pietro. Ma ogni cristiano che risponde a Gesù: Tu sei il Cristo, il Figlio di Dio vivente, è, in qualche modo, roccia viva, e pietra dell’edificio santo.
Durante un’udienza pubblica Giovanni Paolo II, con grande stupore del seguito e con l’imbarazzo della sicurezza, oltrepassò le transenne e, raggiungendo un ragazzo invalido seduto in carrozzina, mise le sue mani grandi e vigorose sulla sua testa e stringendola forte ripeté: Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa. Il ragazzo stupefatto per quelle parole, pianse di commozione.
E noi siamo pronti, in forza del nostro battesimo, ad essere pietre vive per edificare la Chiesa? Concretamente che cosa possiamo “fare” per “essere”?