Omelia Solennità Maria Santissima Madre di Dio

Omelia di S.E. Mons. Andrea Turazzi

Santuario Beata Vergine delle Grazie (Pennabilli), 1 gennaio 2014

Giornata Mondiale della pace 1 gennaio 2015
“Non più schiavi ma fratelli”: con queste parole Papa Francesco si rivolge a tutti i cristiani e a tutti gli uomini di buona volontà. Da 46 anni, il primo giorno dell’anno, la Chiesa celebra la giornata mondiale della pace perché il nuovo anno inizi per tutti con il proposito di promuovere la non violenza e la riconciliazione: fare la pace ossia essere operatori della pace (gli operatori di pace sono detti “beati” da Gesù); essere in pace ossia superare ogni tensione e vivere bene gli inevitabili conflitti; essere pace, avere la pace nel cuore ed essere portatori di gioia e unità.
A nome di tutti ho inviato questa mattina un telegramma a Papa Francesco. “Padre Santo, a nome di tutta la Chiesa di San Marino-Montefeltro invio filiale augurio per nuovo anno. Siamo impegnati a fare nostro il suo messaggio “Non più schiavi, ma fratelli”. Singolarmente e insieme aderiamo al suo appello per una globalizzazione della fraternità. Abbiamo possibilità nel quotidiano per annunciare e vivere il progetto di Dio: essere una sola famiglia. Ci benedica”.
Fare la pace, essere in pace, essere pace è un compito non facile. I conflitti e le guerre non sono un ricordo del passato. Tutt’altro. Se il novecento è stato il secolo delle contrapposizioni frontali e delle ideologie, oggi si moltiplicano i combattimenti locali. A scontrarsi sono soprattutto fazioni interne ad una stessa nazione. Secondo l’espressione efficace pronunciata dal Papa nella sua visita e Redipuglia, nella scorsa primavera, stiamo vivendo una “terza guerra mondiale a pezzi”. I dati gli danno ragione. Ci sono almeno 50 fronti aperti nei vari continenti: dal Messico all’Iraq, per arrivare all’Europa dove si consuma la crisi ucraina. I mezzi di comunicazione italiani non parlano mai delle guerre che si combattono in Africa (vedi, ad esempio, le recenti stragi avvenute nel nord Kivu, nella Repubblica Democratica del Congo). A farne le spese sono soprattutto i civile e le categorie più fragili: bambini, anziani, future mamme. Secondo le stime dell’Unicef – Organismo Internazione per la difesa dell’infanzia – ci sono 230 milioni di bambini intrappolati in zone di guerra. 15 milioni nelle aree più violente: Siria, Iraq, Palestina, Repubblica Centrafricana, Sud Sudan, Ucraina. Chi può cerca di scappare: per questo l’anno 2014 ha toccato il record di profughi – oltre 51 milioni – mai così tanti dalla seconda guerra mondiale.
Eppure, ci ricorda il Papa, i conflitti non sono un male necessario: la pace è un traguardo possibile, a patto di saper “globalizzare la fraternità”, riconoscendoci come unica famiglia. La dignità umana si esprime nella forma della fraternità, intesa come non vago sentimento, ma come ontologia. La persona, aperta alla relazione gode di dignità, libertà, autonomia. Nessuno può disporre dell’altro come oggetto.
L’abolizione della schiavitù è un passo importante compiuto dalla coscienza dell’umanità. Eppure oggi vi sono milioni di schiavi, di essere umani a cui viene negata libertà, autonomia, dignità: lavoratori trattati da schiavi, migranti e clandestini in condizioni disperate, persone costrette con violenza a prestazioni sessuali, bambini e ragazzi obbligati alla guerra, esposti al traffico degli organi, e poi le vittime della droga, le detenzioni inique… E tante altre forme di moderne schiavitù che smentiscono di fatto la famiglia umana come tale.
Le cause sono riconducibili al rifiuto dell’umanità dell’altro, l’altro diventa “oggetto” di sistemi socio-economici che sconvolgono i valori in nome del “dio denaro”. Dalla corruzione alla criminalità, dal terrorismo ai conflitti armati…
Fin qui il mio discorrere assomiglia a una pagina di telegiornale… Ma quale è il nostro impegno? Primo: sconfiggere l’indifferenza. Guardiamo alla testimonianza di tante persone che credono alla fraternità. Il Papa ricorda soprattutto le suore che silenziosamente operano per gli altri, facendosi madri e sorelle. C’è poi un impegno che spetta agli Stati, alle Istituzioni, alle Organizzazioni: far sì che si prevengano gli abusi, la criminalità e la corruzione; mettere ogni impegno per proteggere le vittime; agire, quando è necessario, giudiziariamente.
Ma c’è un impegno di tutti, non solo degli Stati, che consiste nella maturazione della coscienza: “ogni uomo è mio fratello”… “Io, con gli altri, formo una sola famiglia”.
E qui viene in rilievo la visione cristiana del progetto di Dio sull’umanità. Il Papa dopo aver ricordato la lettera di san Paolo a Filemone nella quale è abrogata la schiavitù, ripercorre le tappe del progetto di Dio sull’umanità: dalla creazione alle prime tragedie, al primo fratricidio (Caino-Abele). Poi c’è da registrare il superamento dell’amarezza che proviene dalla constatazione dell’incapacità dell’uomo, con le sue sole forze, alla conversione: “Cambia forse un Etiope la sua pelle o un leopardo la sua picchiettatura?” (cfr Ger 13,23). Il Signore per mezzo del profeta annuncia il dono di una legge non scritta su pietra ma nei cuori (cfr Ger 31,33), nei cuori di carne al posto dei cuori di pietra (cfr Ez 36,26). È il dono del vangelo. La bella notizia che la conversione è possibile perché opera della grazia in chi l’accoglie. Col battesimo si diventa figli di Dio e partecipi della natura divina (cfr 2 Pt 1,4) e realmente fratelli viventi della stessa vita. Non ci educa così la liturgia che continua a chiamarci “fratelli e sorelle”?
In conclusione: la prima esigenza, improrogabile, per gli artigiani della pace è la conversione. Vivere poi da figli di Dio e quindi da fratelli. Un compito quotidiano per ciascuno. Il Signore domanda: “Che hai fatto del tuo fratello?” (Gen 4,9). E Gesù che ci ripete: “L’hai fatto a miei fratelli più piccoli… l’hai fatto a me” (Mt 25,40).
Auguri. Sia un anno di pace per tutti. Preghiamo così: Signore, che sappiamo accettare il rischio di spalancare le braccia: così creeremo spazio in noi, ma per l’altro. Le nostre braccia aperte, Signore, dicono il nostro desiderio di non restare soli e il nostro invito perché l’altro si senta a casa sua in casa nostra. Nello scambievole abbraccio nessuno resterà intatto perché ognuno arricchirà l’altro e ambedue resteremo noi stessi.

Omelia Santo Stefano

Omelia di S.E. Mons. Andrea Turazzi

Pieve di Ponte Messa, 26 dicembre 2014

«Quando vi consegneranno nelle loro mani, non preoccupatevi di come e di che cosa dovrete dire» (Mt 10, 19).
Sentendo queste parole, il cuore ci riporta ad altre parole di Gesù: «Non affannatevi di quello che mangerete o berrete, e neanche per il vostro corpo, di quello che indosserete: guardate gli uccelli del cielo (…). Osservate come crescono i gigli del campo» (cfr Mt 6, 25-34).
Tutto quello che abbiamo imparato da Gesù sulla paternità di Dio e l’abbandono alla sua Provvidenza trova, nella prospettiva della persecuzione, la sua applicazione più paradossale e nello stesso tempo più perfetta. «Il Padre sa di che cosa abbiamo bisogno» (cfr Mt 6, 32). Non ci volterà le spalle quando saremo nel momento della prova. Al contrario, di noi si prenderà cura. La prova, la persecuzione specialmente, genera in noi, che ascoltiamo le parole di Gesù, non la preoccupazione ma la confidenza totale. Faccio notare la pregnanza del verbo “essere consegnati” (essere traditi), con tutto lo spavento che suscita l’essere in balia dell’arbitrio di chi non ci vuole bene e si accinge a farci del male. In quel preciso momento noi siamo consegnati nelle braccia del Padre che di noi si prende cura.
«Getta nel Signore la tua preoccupazione perché egli ha cura di te» (cfr 1Pt 5, 7). «Perfino i capelli del vostro capo sono contati» (cfr Lc 10, 30). «E se anche doveste soffrire – dice l’apostolo Pietro – per la giustizia, beati voi! Non vi sgomentate per paura (…) pronti sempre a dare ragione della speranza che è in voi» (1Pt 3, 13-15). Ma la promessa di Gesù va oltre: ci assicura che il Paraclito verrà in soccorso. Nel momento di prendere la parola sarà lui, non noi, a parlare. Fu così con Stefano, è stato così per i martiri davanti ai loro persecutori.
Sembra ci sia contrasto fra il Natale e il martirio, fra la nascita di Gesù e la persecuzione mortale che si abbatte su Stefano. Ma ambedue i fatti sono incentrati sull’amore. Il primo è amore di condiscendenza, il secondo un amore corrisposto. Il martire, Stefano, esprime la relazione intima che ha con Gesù, un amore che si spinge “sino alla fine” (cfr. Gv 13, 1) come l’amore di Gesù.
La nostra unione col Signore sarà la garanzia che lo Spirito del Padre parla in noi. Attenzione, non al posto nostro, ma in noi. Prima o poi nella vita cristiana viene il momento dell’eroismo: il momento della totale fedeltà.
Oggi vogliamo ricordare i cristiani che soffrono persecuzioni nel mondo, in particolare nel Medio Oriente. In questi giorni papa Francesco ha indirizzato loro un messaggio. “A nome mio – scrive papa Francesco – e di tutta la Chiesa vi esprimo vicinanza e solidarietà”. È un messaggio carico di affetto e partecipazione. Una terra tormentata da conflitti per opera di una “organizzazione terroristica che commette ogni sorta di abusi e pratiche indegne dell’uomo”. Gratitudine per la testimonianza resa dai credenti, che il Papa invita ad essere “lievito” puntando al dialogo con ebrei e musulmani.
Forte l’invito alla comunità internazionale “perché promuova la pace mediante il negoziato e il lavoro diplomatico”. Infine il Papa esprime l’auspicio di “poter venire di persona a visitarvi e confortarvi”.
Preghiamo per tutti i perseguitati. Preghiamo per la nostra fedeltà nei momenti di prova.

Omelia Natale del Signore: Messa del Giorno

Omelia di S.E. Mons. Andrea Turazzi
Cattedrale di San Leo, 25 dicembre 2014

È Natale. Sul mio tavolo di studio, dove solitamente la signora mette i giornali, ho trovato il più bel regalo di Natale… un regalo piccolo, dentro una carta dorata. Lo apro e vedo che dentro c’è un rotolo di pergamena. Lo svolgo delicatamente. Leggo e rileggo la scritta: «Il Verbo si è fatto Carne». Mi metto in meditazione…
Il Verbo eterno, “colui per il quale tutto è stato fatto e nel quale tutto sussiste” si è fatto davvero uno di noi. È introdotto e portato al mondo nella carne, attraverso la carne di Maria, la nostra: questa carne che ci appare talvolta così fragile, così dolorosa quando è ferita, così straziata quando soffre, così ribelle quando è provata. Una carne che, a volte, condiziona e porta al peccato. Non è forse – si dice – destinata alla perdizione, alla morte? Come può essere il luogo nel quale abita il Verbo?
Che mistero! Eppure: «Il Verbo si è fatto carne». Custodisco questa parola nello stupore e nella gratitudine.
Anche il nostro corpo è chiamato a mostrare tutta la bellezza dell’anima redenta, per il dono di nuova creazione. Nella risurrezione verrà glorificato quel corpo, troppo presto screditato come sorgente di peccato e tristemente opaco. E pensare che – ribadiamo – il Figlio di Dio l’ha voluto per amare da uomo in carne e ossa e per fare del corpo lo strumento della redenzione, la via della comunicazione d’amore. Certo, il corpo può essere asservito al peccato… e allora sono guai! L’anima è santa, ma il Creatore non spreca le sue meraviglie: anche la corporeità è santa e avrà, trasfigurata, lo stesso destino dell’anima. Perché l’uomo è uno. Molti cristiani – lo diciamo per inciso – si fermano alla considerazione dell’immortalità dell’anima (convinzione comune alle grandi religioni e data per certa anche dalla filosofia classica occidentale) e non osano spingersi nella prospettiva dischiusa dalla Parola di Dio; anche se, ogni domenica nella professione di fede, proclamano di credere nella risurrezione della carne.
L’incarnazione del Verbo è festa dell’amore di Dio per noi ed è festa per la nostra carne assunta dal Verbo. Nell’unità dell’unica persona del Cristo si dà uno scambio: O admirabile commercium! canta un’antifona del Natale. Il Verbo partecipa all’uomo la natura divina; l’uomo dà al Verbo la natura umana. L’esistenza di Gesù sarà per sempre un’esistenza corporea, non angelica!
 
Col Natale celebriamo l’anniversario della nascita di Gesù Cristo, ma celebriamo anche l’anniversario della nostra nascita soprannaturale. “Quando il Verbo viene al mondo, comincia il popolo cristiano; l’anniversario del capo è anniversario di tutto il popolo” (cfr. Leone Magno, Sermone per il Natale VI).
Questo corpo mistico è la Chiesa, in esso noi rinasciamo in virtù del Battesimo e continuiamo a rimanervi «non per volontà di carne, né per volontà di uomo», ma per una volontà divina. Mistico non vuol dire irreale. Dato che oggi è il nostro anniversario come membro del Corpo di Cristo, offriamoci  il dono dell’amore scambievole.
Non è il Natale la festa dei doni?

Omelia Messa di Natale: Messa di Mezzanotte

Omelia di S.E. Mons. Andrea Turazzi

Cattedrale di Pennabilli, 24 dicembre 2014 ore 23.30

Porto l’augurio del vostro parroco, Don Maurizio, impossibilitato ad essere presente fra noi per motivi di salute. Vi ricorda uno ad uno e prega per le vostre famiglie.
Oggi pomeriggio ho telefonato a mio fratello missionario che tra poche settimane ritorna in Congo per chiedergli che cosa dirà in questa notte di Natale: “Qual è il tuo messaggio?” – gli ho chiesto. Non gli ho nascosto, infatti, la mia preoccupazione per l’omelia da tenere in Cattedrale. La notte di Natale, infatti, è una notte speciale, ricca di contenuti: sento il dovere di riprenderli, commentarli, ricavarne suggestioni per la vita della Diocesi.
È una notte nella quale la Cattedrale è particolarmente affollata: voglio che ognuno si senta accolto. È la notte del censimento. Come Maria e Giuseppe si va al luogo delle proprie origini. Vorrei esplicitare per tutti, per chi è avvezzo a frequentare la Chiesa e per chi non lo è, la vitalità delle nostre comuni radici.
È una notte “da grande occasione”: desidero che ognuno senta una parola di luce per la sua vita. Presuppone una analisi della situazione…
È la mia prima volta, da vescovo, che celebro la notte di Natale.
Mio fratello, dopo avermi ascoltato, mi ricorda con soavità e decisione che nell’oggi della liturgia contempliamo il Cielo che si apre su di noi. Viviamo una “discesa”, la discesa di Dio verso noi. La “salita” di noi verso di Lui è in secondo piano.
Capisco allora che non mi devo preoccupare. Protagonista è il Signore che parlerà a ciascuno. Invito a contemplare la Natività.
Permettete che vi racconti  un episodio, allude al salto nella fede. Un giorno scoppiò un incendio in una palazzina. Gli inquilini, con grande scompiglio e fra le grida, scendono in strada. Portano con sè quel poco che hanno potuto recuperare. Ad un certo punto, si odono le grida di un bambino: “Aiuto”!
Mamma e papà sono in strada: è il loro bambino. Nel parapiglia generale il papà ha pensato che il bambino fosse con la mamma; la mamma che fosse con il papà. Il bambino spalanca la finestra, il fumo si è fatto irrespirabile. Il papà corre, vorrebbe entrare, ma un muro di fuoco gli preclude la salita. Restando in strada, allora, grida: “Buttati giù!”. Il bambino replica disperatamente: “Non posso. Non vedo nulla”. E il papà: “ Buttati, ti prendo!”. Il bambino protesta ancora la sua paura. Il papà insiste. Alla fine il bambino si fida, si getta senza vedere. Ed è tra le braccia del suo papà”.
Questa notte insieme con tutti voi mi getto fra le braccia di Dio. Mi fido, anche se non vedo. Fate anche voi così. È il mio messaggio di Natale.
Auguri!

Omelia Natale del Signore: Messa della notte

Omelia di S.E. Mons. Andrea Turazzi

Casteldelci, 24 dicembre 2014 ore 22

«Tutti andarono a farsi registrare, ciascuno nella propria città» (Lc 2,2).
Come 2000 anni fa in Palestina, anche qui a Casteldelci, è la notte del censimento. Si va al luogo delle proprie origini. Siamo nati qui. Qui le radici calde e familiari, radici della nostra cultura, della nostra appartenenza ad un popolo che ha espresso frutti di bellezza, di fedeltà alla vita, di virtù. In questa chiesa, al centro dell’antico e suggestivo borgo, abbiamo ricevuto il Battesimo, il sacramento che ci fa cristiani e gli altri sacramenti dell’Iniziazione cristiana. Qui abbiamo imparato le preghiere insieme alla prime nozioni della fede.
Si torna sempre con gioia – è una festa! – alle radici, perché ci si riconosce parte viva di una storia, perché si è protesi al futuro. La nostra è una storia  profondamente segnata dalla fede cattolica (siamo qui per questo riconoscimento).
Si tratta di una fede che non vogliamo assolutamente rinnegare, nonostante le distrazioni dovute ad uno stile di vita che spesso condiziona e ci schiaccia sul presente: lavoro, impegni, frenesia, preoccupazioni e vanità.
Coerenza vuole che prendiamo sul serio le nostre responsabilità. È necessario sapere chi siamo, per far tesoro del patrimonio di valori che abbiamo ricevuto e per far rifiorire sotto i cieli della modernità la giovinezza del Vangelo. Un albero dalle radici recise si secca e muore. Come rendere efficace il nostro collegamento vitale con le radici? Le nostre radici “pescano” direttamente nel Vangelo di Gesù. Dovrei dire “pescano” in Gesù stesso, perché il Vangelo è Lui. Ecco la buona novella: «È apparsa la grazia di Dio apportatrice di salvezza a tutti gli uomini» (Tt 2,11). La grazia che è apparsa brilla in modo speciale in questa notte; e questa grazia è Lui, il Signore Gesù. Dio si interessa di noi, e – questa è la novità e la bellezza – si fa uno di noi, per farsi amare e lasciarsi coprire di baci, tanto è piccino; e non tanto per Lui, ma per noi, perché sa che siamo capaci di amare e vuol cavar fuori il meglio di noi. Questa risorsa – la capacità di amare – ci apre al mistero.
In concreto: riprendere la buona pratica della preghiera. Alzarsi la mattina sapendosi svegliati dal bacio di Dio. Chiudere la giornata con la lode e, se necessario, con la richiesta di perdono. E che dire poi della grande preghiera pasquale della Messa della domenica, nella quale Gesù prega il Padre con noi e per noi?
C’è poi da migliorare la conoscenza di Gesù. Se lo amiamo poco è perché lo conosciamo poco. Occasioni e strumenti non mancano. La presenza del Diacono nelle vostre parrocchie è per facilitare tutto questo. Lo ringraziamo.
Vorrei che ognuno, presente qui questa sera, si sentisse accolto, sentisse di essere in casa sua. Come Maria e Giuseppe a Betlemme. Chi frequenta abitualmente la Chiesa fa posto con gioia. Un far posto nel cuore prima di tutto: accoglienza cordiale! E, tutti insieme, sperimentiamo di appartenerci l’uni l’altro, come fili di un unico ricamo. Ci auguriamo che questo diventi sempre più realtà vissuta: tolleranza, perdono, amicizia, collaborazione, edificazione reciproca.
Innalzo con voi al Signore questa preghiera: “Signore, che sappiamo accettare il rischio di spalancare le braccia: così creeremo spazi in noi, ma per l’altro. Le nostre braccia aperte, Signore, dicono il nostro desiderio di non restare soli e il nostro invito perché l’altro si senta a casa sua in casa nostra. Nello scambievole abbraccio nessuno resterà intatto, perché ognuno arricchirà l’altro e ambedue resteranno se stessi”.
Auguri, di vero cuore a tutti!

Omelia Quarta Domenica d’Avvento

Omelia di S.E. Mons. Andrea Turazzi

Maciano, 21 dicembre 2014

Entriamo in punta di piedi nella casa di Nazaret. Impariamo alla scuola di Maria il raccoglimento, condizione prima e indispensabile per andare in profondità. L’angelo entrò da lei: anche la mia Nazaret, pur fra tante voci che l’attraversano, può essere casa del raccoglimento, spazio formativo, atmosfera spirituale. Un luogo forse qualunque, eppure è lì che Dio mi sfiora. Mi sfiora non solo nelle liturgie solenni della Cattedrale, ma soprattutto nel quotidiano; come nella Messa il sublime confina concretamente con una tovaglia, un calice ed un pane. Nazaret è la mia casa ed è anche il mio cuore, quando lo custodisco e lo difendo dal chiacchiericcio, dalla impertinenza dei giudizi, dall’invadenza dell’ immaginazione. La prima parola che esce dalla bocca dell’angelo è una parola di gioia: Rallegrati, Maria. Troppo riduttivo tradurre la prima parola dell’evangelo con Ave. Le parole del saluto angelico appartengono più alle promesse messianiche che al galateo. Invitano Maria alla gioia prima ancora che si apra il dialogo con le sue conseguenze. Non si tratta di una gioia individuale ed effimera. È una gioia divina che viene a toccare la sostanza del suo essere e quella di tutti noi. Gioia, dunque, per un amore che ci precede e ci supera; per una presenza che ci raggiunge e ci colma. Dio vuole entrare nella nostra vita, vuole abitare la nostra povertà e fecondare la nostra sterilità. Noi moderni abbiamo qualche difficoltà a situarci di fronte ad un racconto come questo. L’evento non è certo di quelli di cui si occupa la storiografia scientifica: evoca l’incarnazione del Verbo di Dio nella condizione umana. Non ci interessano le modalità, ma la sostanza del messaggio. La parlata dell’angelo a Maria è costituita da un rammendo di citazioni bibliche. Ed è ciò che fa prendere coscienza a Maria del suo destino eccezionale e a noi dell’identità vera del nascituro. Colui che la fanciulla di Nazaret sta per concepire è il compimento delle promesse, è il Messia! Non sapremo mai come è avvenuto il concepimento, ma questo non è essenziale: dobbiamo rispettare l’intimità di una donna. Anche nella nostra vita è accaduta un’annunciazione. Proponiamoci, in questi giorni di preparazione prossima al Natale, di contemplarla, di goderne ancora la sonorità e di custodirne il frutto.

Omelia della Terza Domenica d’Avvento

Omelia di S.E. Mons. Andrea Turazzi

Santuario di Valdragone, 14 dicembre 2014

Gv 1,6-8.19-28
«In mezzo a voi sta uno che voi non conoscete»

Racconto un’esperienza. Quella volta sono rimasto senza parole e, alla fine, con una profonda gioia nel cuore. Tra amici sacerdoti si dialogava su questa stupenda pagina di Vangelo. Dopo opportune considerazioni sul ruolo del Battista nella vicenda di Gesù, l’attenzione si è concentrata sulle parole da lui pronunciate; parole che ci sono parse particolarmente severe: «In mezzo a voi sta uno che voi non conoscete». Parole severe perché colpiscono nel segno della nostra disattenzione. E’ vero: tante volte crediamo di credere. Ma conosciamo davvero Gesù Cristo? Scorgiamo i segni del suo passaggio accanto a noi? Riconosciamo il suo volto nei mille volti che si affacciano sul nostro presente?
Viene spontaneo collegare la provocazione del Battista alle parole di quanti, nella parabola del giudizio finale, fanno i conti davanti al Re: «Quando ti abbiamo visto affamato? Quando mai t’abbiamo visto assetato, nudo o malato?…».
Non rimane che confessare la disattenzione verso Gesù nel fratello. Racconto agli amici delle tante persone in difficoltà, degli ammalati, degli educatori perplessi, dei passanti (così numerosi) che bussano alla porta per un aiuto… Poi dichiaro candidamente il mio disagio perché incapace di sovvenire. Protesto poi per il peso delle mie difficoltà economiche, posso ben a ragione definirmi “povero” a mia volta. Non è male per un prete essere povero e partecipe delle sorti e delle preoccupazioni di tanti, ma, nel mio dire c’è amarezza ed un po’ di sfiducia. A questo punto uno degli amici riparte dalla Parola: «In mezzo a voi sta uno che voi non conoscete» e spiega come certamente il Signore ci fa visita nel fratello che chiede solidarietà, ma si fa vicino anche nella generosità di chi dona, di chi ti sorprende con la sua bontà e ti sta accanto, di chi sa perdonarti, di chi ti incoraggia. Sono parole dette in modo tale da dare forza, consolazione e gioia: davvero in mezzo a noi sta uno che ci sorprende amandoci immensamente e con discrezione. Il cuore si riempie di fiducia. Ora capisco anche le prime parole del brano: «Venne un uomo mandato da Dio: il suo nome era…». Ed elenco i nomi dei tanti che mi sono vicini…
Chiedo – è una sfida – a tutti quelli che mi ascoltano: pronunciate nel cuore il nome di coloro che Dio ha mandato per voi: “Venne un uomo, venne una donna mandata da Dio: il suo nome è…”.

Omelia Veglia per la vita nascente

Omelia di S.E. Mons. Andrea Turazzi

Santuario di Valdragone, 14 dicembre 2014

Gv 1,6-8.19-28
«In mezzo a voi sta uno che voi non conoscete»

Racconto un’esperienza. Quella volta sono rimasto senza parole e, alla fine, con una profonda gioia nel cuore. Tra amici sacerdoti si dialogava su questa stupenda pagina di Vangelo. Dopo opportune considerazioni sul ruolo del Battista nella vicenda di Gesù, l’attenzione si è concentrata sulle parole da lui pronunciate; parole che ci sono parse particolarmente severe: «In mezzo a voi sta uno che voi non conoscete». Parole severe perché colpiscono nel segno della nostra disattenzione. E’ vero: tante volte crediamo di credere. Ma conosciamo davvero Gesù Cristo? Scorgiamo i segni del suo passaggio accanto a noi? Riconosciamo il suo volto nei mille volti che si affacciano sul nostro presente?
Viene spontaneo collegare la provocazione del Battista alle parole di quanti, nella parabola del giudizio finale, fanno i conti davanti al Re: «Quando ti abbiamo visto affamato? Quando mai t’abbiamo visto assetato, nudo o malato?…».
Non rimane che confessare la disattenzione verso Gesù nel fratello. Racconto agli amici delle tante persone in difficoltà, degli ammalati, degli educatori perplessi, dei passanti (così numerosi) che bussano alla porta per un aiuto… Poi dichiaro candidamente il mio disagio perché incapace di sovvenire. Protesto poi per il peso delle mie difficoltà economiche, posso ben a ragione definirmi “povero” a mia volta. Non è male per un prete essere povero e partecipe delle sorti e delle preoccupazioni di tanti, ma, nel mio dire c’è amarezza ed un po’ di sfiducia. A questo punto uno degli amici riparte dalla Parola: «In mezzo a voi sta uno che voi non conoscete» e spiega come certamente il Signore ci fa visita nel fratello che chiede solidarietà, ma si fa vicino anche nella generosità di chi dona, di chi ti sorprende con la sua bontà e ti sta accanto, di chi sa perdonarti, di chi ti incoraggia. Sono parole dette in modo tale da dare forza, consolazione e gioia: davvero in mezzo a noi sta uno che ci sorprende amandoci immensamente e con discrezione. Il cuore si riempie di fiducia. Ora capisco anche le prime parole del brano: «Venne un uomo mandato da Dio: il suo nome era…». Ed elenco i nomi dei tanti che mi sono vicini…
Chiedo – è una sfida – a tutti quelli che mi ascoltano: pronunciate nel cuore il nome di coloro che Dio ha mandato per voi: “Venne un uomo, venne una donna mandata da Dio: il suo nome è…”.

Omelia Solennità Immacolata Concezione

Omelia S.E. Mons. Andrea Turazzi

Santuario Madonna delle Grazie in Pennabilli, 8 dicembre 2014

«Cantate al Signore un canto nuovo perché ha compiuto meraviglie» (Sal 97).
Siamo pieni di gioia.
Celebriamo una tappa importante dell’Avvento: la solennità della Immacolata Ancella.
L’Avvento è un tempo liturgico che ci è particolarmente caro, perché segnato dalla impaziente preparazione del Natale, perché carico di risonanze, di armoniche famigliari e intime e particolarmente caro perché interpreta un sentimento universale di attesa: attesa di un nuovo inizio, di una rigenerazione, di una speranza. Quale attesa, dunque, se non di un Salvatore? Di lui, il Messia?
Sì, il nuovo inizio, la rigenerazione, la speranza è Gesù. Proseguiamo nella preparazione al Natale col ricordo della sua prima venuta a Betlemme nel Presepio, con l’attesa del suo ritorno perchè ci trovi come alberi pieni di frutti e con la premurosa vigilanza per accoglierlo ora.
Noi per disporci al Natale prepariamo cose. Dio ha preparato persone. Noi concentriamo l’attesa in quattro settimane, Dio ha preparato dall’Eternità il grembo di Maria. Infatti ha disposto la sua venuta tra noi per mezzo di una creatura umana, Maria.
«L’angelo Gabriele fu mandato da Dio… ad una vergine», una creatura umana che l’avrebbe reso partecipe della propria natura e gli consentiva di farsi uomo, uomo vero e reale, come tutti noi, eccetto il peccato.
Egli viene a noi, l’abbiamo sentito dal Vangelo dell’Annunciazione, dopo il saluto commosso dell’Angelo al mistero di Maria, colma di grazia; egli viene a noi tramite una creatura cosciente di sé, responsabile di un suo progetto di vita: «Come è possibile? Non conosco uomo», libera quindi, ma pronta nella sua maturità a rivedersi e a ridimensionarsi.
Egli viene a noi mediante una creatura consapevole di non bastare a se stessa, umile, aperta a disegni superiori, capace di abbandonarvisi con la persuasione di nulla perdere e di tutto ritrovare, immensamente migliorata e trasfigurata: «Eccomi, sono la serva del Signore, l’Ancella».
La strada seguita da Gesù per venire a noi, anche oggi è sempre la stessa. Dio viene all’uomo per mezzo dell’uomo e vuole, pertanto, una preparazione fatta dall’uomo, fatta da un essere umano.
Ma egli viene a noi ad opera di uomini che rispondono con slancio all’invito della sua vocazione e alla sublimità della sua missione; con slancio di uomini spiritualmente adulti, cristianamente formati. Penso agli amici che hanno fatto la scelta di impegnarsi nell’AC e che oggi rinnovano la loro adesione. Il Signore viene a noi con uomini che hanno appreso come non possono bastare a se stessi, come non possono essere felici e fecondi da soli, aperti ad abbracciare un Altro e a dirgli, rinunciando a sé: «Eccomi, sono la serva, l’Ancella».
Ognuno di noi prepari la propria anima all’incontro con Gesù nel suo nuovo Natale; anzi sia una preparazione condivisa in famiglia, nei gruppi, con amici e amiche nei luoghi di vita perché diventino come altrettanti “grembi” che mettono al mondo Gesù per l’amore reciproco. Fosse pure una stalla quel luogo – cioè il nostro cuore nel suo disordine o la nostra comunità nella sua confusione – ma con Gesù sarà presepio!

Seconda Domenica d’Avvento: Discorso per l’insediamento di don Gabriele Mangiarotti

Omelia di S.E. Mons. Andrea Turazzi

Pietrarubbia, 7 dicembre 2014

«Convertitevi e credete al Vangelo» (Mc 1,14)

Il primo saluto, questa sera – una sera importante per le nostre comunità – lo dobbiamo ai bambini che sono qui attorno all’altare. Con la loro presenza ci ricordano la misura e la gioia della nostra conversione «Se non diventerete come bambini…» (cfr. Mc 10,15; Lc 18,17; Gv 3,3).
La conversione consiste in una nuova nascita resa possibile dalla potenza del Signore che viene. Come tale, la conversione non è anzitutto uno sforzo dell’uomo, ma opera dello Spirito, pertanto non ha nulla di lugubre e di triste, ma è una esperienza gioiosa del Regno finalmente presente attraverso Gesù di Nazaret.
La conversione è il messaggio centrale della predicazione di Gesù. Gesù dice: «Convertitevi e credete al Vangelo», cioè credete alla bella notizia che la conversione è possibile! Il gesto di purificazione con l’acqua è comune a molte esperienze religiose; Giovanni Battista non si è limitato ad una semplice abluzione, ma immerse completamente i penitenti nell’acqua. Mediante questo bagno dichiarava la necessità di un cambiamento radicale di vita. Ne proclamò l’urgenza e la necessità. Riguardo alla conversione dobbiamo registrare lo scetticismo dei profeti che esclamavano: «Potrà mai un leopardo cambiare la picchiettatura del suo pelo? E un moro il colore della sua pelle?» (cfr. Ger 13, 23). Ma la missione di Giovanni è di preannunciare un battesimo di radicale trasformazione, quello di Gesù. Qui è l’inizio del Vangelo, la prima pagina! Ma è anche vangelo di un nuovo inizio: «Cieli nuovi e terra nuova» (cfr. 2Pt 3,13); tempo di una nuova nascita (cfr. Gv 3, 5).
Questa sera le nostre comunità che cantano per l’attesa del Natale, sono in festa anche per l’insediamento ufficiale del loro parroco, don Gabriele.
Cari fedeli, sono in dovere – e sento il bisogno – di esprimere il mio grazie e il mio augurio a don Gabriele. Egli sta in mezzo a voi in spirito di sacerdotale obbedienza, di obbedienza nel senso etimologico e teologico del termine. Viene con tutto se stesso, con fiducia nell’aiuto immancabile di Dio e con certezza dell’accoglienza, della fraterna carità e della collaborazione di tutti. Sono le premesse indispensabili per il compimento della volontà di Dio ed avere il conveniente sostegno in ogni attività da condurre per il consolidamento della comunità.
Varie volte nei Vangeli viene riportato l’imperativo di Gesù a quanti aveva risanato: «Presentatevi al sacerdote» (cfr. Lc 17,14; Mt 8,4). Il sacerdote, secondo Gesù, è persona necessaria. Nell’Antico Testamento il sacerdote accertava, ad esempio, la malattia della lebbra in vista dell’igiene pubblica ed eventualmente in vista della guarigione. Nel Nuovo Testamento il sacerdote non si limita ad una verifica, a un controllo: è incaricato in Gesù, a ridare quella salute che Dio solo può dare. «Presentatevi al sacerdote»… allora…
Accompagnerò, tra poco, don Gabriele al confessionale davanti a tutti: lo indicherò come ministro del perdono e della guarigione spirituale. Il sacerdote è necessario per la purificazione dalla lebbra dell’anima: il peccato. È cosa sorprendente, inaudita, ma è certa. Il peccato è rimesso da Gesù nella persona del sacerdote. «Dio ha dato tale potere agli uomini» (cfr. Mt 9,8). Per questo il sacerdote è necessario. «Presentatevi al sacerdote»…
Il sacerdote è necessario per avere, dopo la salute, la pienezza della vita. Egli, ed egli solo, può trasformare il pane nel corpo e il vino nel sangue, e donare così agli uomini, alla loro fame e alla loro sete, la vita stessa di Gesù. Lui solo, il sacerdote. Lui solo può dare l’Eucaristia, il pane della vita, la vita dell’anima e dell’eternità (cfr. Gv 6). Per questo il sacerdote è necessario.
Consegnerò a don Gabriele le chiavi del tabernacolo dove si custodisce l’Eucaristia, il tesoro più prezioso della Chiesa: Gesù stesso prigioniero d’amore!
«Presentatevi al sacerdote»… È necessario presentarsi a lui, mettersi a sua disposizione, cooperare con lui per edificare la Chiesa, in sé e negli altri, lavorare al più grande e al più affascinante degli ideali; venire incontro alle esigenze più profonde dei cuori: unirsi a Dio, unirsi tra noi, unirsi a Dio unendoci tra noi.
Lui, il sacerdote, è stato scelto e mandato a presiedere una impresa straordinaria: costruire la Chiesa, segno e strumento di questa divina e umana comunione (cfr. LG 1). Affiderò a don Gabriele le chiavi della chiesa parrocchiale, a significare la sua dedicazione alla comunità.
«Presentatevi al sacerdote»… Ripeto: il sacerdote è necessario; si tratta della salvezza degli uomini e della salvezza del mondo.
A don Gabriele e a tutti noi ministri vorrei ricordare la missione affidataci, «di piacere a tutti in tutto» (1Cor 10,33), frase equivalente all’altra: «Farsi tutto a tutti» (cfr. 1Cor 9,20ss), di non cercare l’utile proprio ma quello degli altri, e di farsi imitatore di Cristo per offrirsi modello ai fratelli: «Fatevi miei imitatori – scriveva San Paolo – come io lo sono di Cristo» (1Cor 11,1).
«Piacere a tutti in tutto»… «Farsi tutto a tutti»… ossia spendersi per ciascuno.
“Spetta ai sacerdoti – ci ricorda il Concilio – nella loro qualità di educatori nella fede di curare che ciascuno dei fedeli sia condotto dallo Spirito Santo a sviluppare la propria vocazione secondo il Vangelo, a praticare la carità, ad esercitare quella libertà con cui Cristo ci ha liberati (…) Di ben poca utilità saranno le cerimonie più belle e le associazioni più fiorenti, se non volte ad educare gli uomini alla maturità cristiana» (PO, 6).
A don Gabriele e ai ministri del Signore dico: «Piacete a tutti in tutto»… «Fatevi tutto a tutti»…
E a voi fedeli ripeto: «Presentatevi al sacerdote»… Così sia!