Omelia V Domenica del Tempo Ordinario

Omelia di S.E. Mons. Andrea Turazzi

Cappella dell’episcopio, 7 febbraio 2015  

Lo scenario non è più la sinagoga, ma una casa normale, come le nostre. È bello vedere con quale disinvoltura Gesù passa da un luogo all’altro, con la stessa sacralità. Nel primo ascolta la Parola e canta le lodi di Dio, nel secondo dà spazio e tempo all’amicizia, al riposo ed alla convivialità. Come nelle nostre case, in quella di Simone non c’è profumo d’incenso, ma rumore di pentole, odore di vivande sul fuoco e preoccupazioni. E, in un luogo e nell’altro, compie prodigi, segni del Regno di Dio presente che, come lievito, fermenta e, come luce, dà vita al quotidiano.
Gesù dunque entra nella casa di Simone forse per mangiare e stare un po’ in pace. Ma non fa in tempo a varcare la soglia che subito gli presentano il caso della suocera di Simone che è a letto con la febbre. La prima lettura, riferendoci le parole di Giobbe, descrive con efficacia la nostra fragile condizione di uomini: Notti di dolore mi sono state assegnate. Se mi corico dico: quando mi alzerò? I miei giorni sono stati più veloci di una spola, sono finiti senza speranza.
Dal racconto di Marco sembra che Gesù, senza indugiare, rinunci al meritato riposo per andare immediatamente al capezzale della suocera di Simone a guarirla. È un miracolo piuttosto povero di spettacolarità, dove Gesù neppure parla. Ma parlano i suoi gesti. Gesù si avvicinò: va verso il dolore, non lo evita, si immerge negli occhi di quella donna. Le prese la mano: gesto di confidenza e di affetto, forza per chi è stanco. La sollevò: la riconsegna alla propria andatura eretta, alla fierezza del servire. La mano di Gesù viene ogni giorno, come una buona notizia (forse inattesa), quando una parola, un incontro, una telefonata riaccendono la speranza e incoraggiano. La mano che solleva incoraggia a fare altrettanto e dice: prendi anche tu qualcuno per mano, solleva e guarisci, mettiti a servire. Il servizio è segno di una esistenza sanata. Un apologo famoso dice: un uomo passa per la strada, vede un bambino che muore di fame, e grida al cielo: “Dio, che cosa fai per lui?” E una voce risponde: “Io, per lui, ho fatto te…”.
Gli apostoli dicono a Gesù: Maestro, tutti ti cercano, resta! Gesù taglia corto: Andiamocene altrove. Non è un guaritore, né un luminare che fonda cliniche per pochi. Mi sono fatto tutto a tutti – scriverà un giorno l’apostolo Paolo – per salvare ad ogni costo qualcuno. Gesù se ne va per altri villaggi, in cerca di altre mani da sollevare. Prego: «Maestro della vita, mano che solleva, è difficile essere cristiano, ho in me febbri e demoni, non so se ce la faccio. Ma cercherò di rimettere in piedi quei fiori calpestati che sai. Però tu avvicina quella mano che non hai mai smesso di tendere, avvicinala ancora un po’, prendi la mia, sollevami. E con te andrò incontro all’uomo e a Dio» (E. M. Ronchi).
 

Omelia Giornata della vita consacrata

Omelia di S.E. Mons. Andrea Turazzi

Cattedrale di Pennabilli, 2 febbraio 2015

Ml 3,1-4
Sal 23
Lc 2,22-40

Lumen Gentium dunc sit Christus! (LG, 1)
1. Oggi è la festa di Gesù, luce delle genti!
La festa della luce, di Cristo luce, di Cristo tutto luce, è festa per tutti! La festa dell’incontro – cioè della Presentazione di Gesù al Tempio – festa della comunione con la luce, delle nozze, della sponsalità con la luce, è per tutti! La festa della Pasqua, della Passione e della Risurrezione per la quale e nella quale si diventa luce, è per tutti! Anche la festa della radicalità del Vangelo, dei suoi consigli e della loro realizzazione sulla terra, è per tutti!
I religiosi e le religiose continuano, in qualche modo, la missione incominciata da Anna e Simeone. Essi hanno visto la salvezza e hanno avuto la vocazione ad annunciarla. Sono stati chiamati dal Signore e sono stati consacrati dal Signore per svelare la vita che ci aspetta dopo questa vita. Sono stati chiamati e consacrati ad operare nella Chiesa, con una vita improntata alla vita futura, quella del Regno.
Un grazie a loro per il lavoro che compiono accanto a noi e che compiono per noi e per tutti gli uomini. E, col grazie, una preghiera, perché siano quello che devono essere: segno, anzitutto, del Regno.

2.Nella storia del cristianesimo la vita consacrata ha sempre avuto un ruolo unico e indispensabile. Lo Spirito Santo ha suscitato lungo i secoli uomini e donne sempre nuovi che vivessero in modo originale lo spirito del Vangelo e imitassero Gesù Cristo in qualche aspetto particolare della sua vita, anche come risposta ai problemi di un preciso momento storico.
Con il Concilio Vaticano II non solo si sono rinnovate le antiche famiglie religiose, ma lo Spirito Santo, che fa ringiovanire la Chiesa, ha suscitato tante forme nuove. Conosciamo tutti Benedetto, Francesco, Domenico, Teresa d’Avila, ecc., ma anche San Giovanni Bosco, la Beata M. Elisabetta Renzi, la Beata M. Maddalena dell’Incarnazione e, più vicini a noi, Madre Teresa di Calcutta, i Servi di Dio Luisa Piccarreta, don Oreste Benzi, don Giussani, Chiara Lubich, per citarne solo alcuni.
In un momento delicato e bello della vita della Chiesa come quello che stiamo vivendo, torna alla ribalta, con tutta la sua attualità e profezia, la vita consacrata.

3.Una precisazione: di per sé non ci si consacra al Signore, ma è il Signore che consacra il chiamato. Consacrazione pertanto è da intendersi come l’atto col quale il Signore riserva per sé, in vista dei suoi disegni, una persona (o un gruppo), stabilendola in una relazione nuova con lui. Cristo (parola greca che significa consacrato con l’unzione) è il consacrato per eccellenza: colui che il Padre ha consacrato e mandato (Gv 10,36) per noi.
La Chiesa è il popolo consacrato, famiglia di Dio in Cristo e ogni suo membro diventa, col Battesimo, Figlio di Dio, fratello di Cristo, dimora dello Spirito Santo. Consacrazione è sì la parola che connota la vita dei religiosi, ma prima ancora è parola che riguarda tutti i battezzati: designa la comune vocazione alla santità e alla missione. Per questo, oggi vogliamo mettere in rilievo il battistero da dove, come una sorgente, scaturiscono un fiume e i suoi ruscelli che rallegrano la città di Dio (Sal 45,5). Altra precisazione: è necessario correggere idee inesatte e superare pregiudizi che riducono la vocazione religiosa ai servizi che la esprimono, senza coglierne l’essere. I religiosi aiutano e servono la diocesi, prima di tutto, col vivere pienamente il loro carisma, facendolo conoscere e partecipandone i frutti. La fedeltà alla loro identità non li distoglie dalla partecipazione alla vita della Chiesa locale. Essi non sono presenti in diocesi a motivo di una supplenza, ma per essere vitalmente inseriti nella vita e nella missione della nostra Chiesa di cui sono parte integrante. Essi si pongono non accanto, ma dentro la comunità diocesana. Con la loro presenza, con i loro carismi e competenze, animano ambiti particolari e specializzati della pastorale, ad esempio la predicazione, la cura degli infermi e dei piccoli, l’animazione spirituale, l’istruzione e la cultura, l’accoglienza dei poveri, la promozione della donna…
Normalmente i religiosi vivono in comunità. Con la vita comune e l’impegno nella carità fraterna costituiscono una forte provocazione e una consolazione per i nostri gruppi e le nostre comunità.
I monasteri di clausura poi, sono un segno di speciale predilezione del Signore per la nostra terra: ci ricordano il primato della fede sulle opere, della contemplazione sull’efficientismo. I monasteri e le case dei consacrati diventino per tutti case di preghiera, luoghi di formazione e direzione spirituale, fari di spiritualità, non in concorrenza con le parrocchie – non oso immaginare in antagonismo – ma a servizio di tutti.
La Vergine Maria che ha portato Gesù al tempio per offrirlo al Padre presenti tutti noi, piccoli e grandi, laici, presbiteri e diaconi, consacrati e sposi al Signore. Sorregga le braccia del vescovo che, come quelle di Simeone, accolgono l’offerta.
Concludo con le parole di una splendida antifona. Adorna il tuo talamo, o Sion, e accogli Cristo il re: abbraccia Maria, che è la porta celeste: essa infatti sorregge il re di gloria della nuova luce. Sta ritta la Vergine portando con le mani il Figlio generato prima dell’aurora. Simeone accogliendolo nelle sue braccia annuncia ai popoli che è il Signore della vita e della morte, il Salvatore del mondo.

Omelia Festa di San Giovanni Bosco

Omelia di S.E. Mons. Andrea Turazzi

Chiesa di Murata, 1 febbraio 2015
Mt 18,1-5.10; 12-14

1. «Chi dunque è il più grande nel Regno dei Cieli?» (Mt 18,1). Una domanda ingenua: c’è ancora chi pensa il Regno come una grandezza mondana, dove contano le gerarchie, le carriere, il potere.
Nella sua risposta Gesù, con grande acume didattico, chiama a sé un bambino, lo pone in mezzo a loro, e insegna ai discepoli che, certo la comunità dovrà essere strutturata, ma conta chi diventerà piccolo come un bambino (v. 3).
Il bambino è spontaneo, sincero, non ha ambizioni. Così una comunità che vuole essere un segno del Regno non può tollerare che si dia posto al carrierismo; e chi ha delle responsabilità dovrà stare insieme agli altri in modo semplice, discreto, accogliente. Dovrà guardarsi dal disprezzare uno solo di questi piccoli che a volte infastidiscono con le loro domande e vogliono sempre giocare. Non li trascuri e non li scacci via, perché i loro angeli nel cielo vedono sempre la faccia del Padre. I loro angeli fanno parte del consiglio ristretto di Dio e quindi saranno giudici accusatori o difensori a seconda di come si sono trattati i bambini!

2. Don Bosco ha accolto i bambini e “questa cara gioventù”; è stato un prete così! E chi non vorrebbe averlo come amico, maestro, guida? Ed a chi – tra i giovani – non piacerebbe diventare un prete come lui? Amico dei ragazzi, interprete dei loro sentimenti più profondi e veri, animatore del loro cammino e del loro stare insieme… Adulto e, nello stesso tempo, più giovane di loro!
Prima dei talenti che hanno resa così singolare la sua vita, prima delle sue geniali intuizioni pedagogiche e delle sue qualità umane (che ce lo fanno sentire ancora tanto vicino a 200 anni dalla nascita), dobbiamo considerare il segreto racchiuso nell’anima di quest’uomo. Era un uomo di Dio. Ha creduto all’amore di Cristo e si è lasciato fare da lui: ha camminato alla sua presenza. Da qui la sorgente della sua gioia, l’inesauribile dedizione nel dono di sé. Non solo è stato accogliente con i piccoli, ma ha fatto proprio lo “spirito d’infanzia”: Essere come i bambini; un programma esigente e semplice.
Per don Bosco significava quello “spirito dell’infanzia” che ti fa sentire amato dal Padre preventivamente e incondizionatamente. Non per meriti acquisiti. Dio ama, come un papà e una mamma amano il loro bambino; semplicemente perché è “loro”!
3. Perdonate questo riferimento personale: il mio primo incontro con don Bosco è accaduto quando ero bambino. Nel sussidiario della terza elementare c’era una pagina dedicata a lui. L’illustrazione lo ritraeva ai bordi di una giostra con tanti ragazzi attorno. Da allora ho sempre collegato la sua persona alla gioia; anzi, ad una delle sue espressioni più eloquenti: il gioco.
Don Bosco si è fatto “giocoliere” tra i ragazzi. Ha avuto una grande intuizione: nel gioco si liberano e si fanno circolare talenti. Il gioco è una dimensione importante della vita (chi lavora volentieri, vive il lavoro stesso come gioco e tanti giochi simulano i lavori!).
Il gioco non è solo relax, una sosta dalla fatica, ma muove creatività, fantasia, libertà, impegno… Per don Bosco il gioco era una cosa seria: scuola di vita, palestra dove ognuno si misura con se stesso. Il gioco è gratuità.
Nelle memorie di don Bosco si narra del suo incontro con uno dei primi ragazzi dell’Oratorio. Un altro prete stava scacciando in malo modo quel monello. Don Bosco ferma il ragazzo e gli dice con garbo e con una certa solennità: “Ho una cosa importante da dirti. Aspettami dopo la Messa”. Il ragazzo non se ne va. È incuriosito: nessuno mai si è rivolto a lui con la promessa di una cosa importante… Finalmente, dopo la Messa, don Bosco chiede al ragazzo: “Sai leggere?”. “No”, risponde. “Sai scrivere?”. “No”. “Sai fare un mestiere?”. “No”. “Sai cantare?”. “Neppure”, replica il ragazzo. “Sai fischiare?”. “Sì!”, risponde finalmente il ragazzo. Con un ragazzo che sapeva fischiare don Bosco ha iniziato un capolavoro di pedagogia: l’Oratorio. C’è una grande idea dietro: andare ostinatamente alla ricerca del positivo che è nell’altro. In ogni persona c’è qualcosa, presente in germe, che può sbocciare. Ha solo bisogno del clima necessario per venir fuori. Mi hai fatto come un prodigio, canta il Salmo 138. E ancora: la tua bontà mi fa crescere (Sal 17).
È l’essenza del metodo educativo salesiano. “L’educazione è cosa del cuore”, scriveva don Bosco. Da qui il “prevenire” piuttosto che il “reprimere”.
“Farsi bambino”: una parola che può trarre in inganno. “Farsi piccolo”, “credersi piccolo” può nascondere infantilismo o falsa umiltà. È proprio del bambino non restare piccolo. Il bambino cresce, e non può che essere così; riceve la vita dai genitori e l’aiuto dai grandi e questo gli consente di svilupparsi fisicamente, intellettualmente e spiritualmente. Se Gesù ci esorta a diventare come bambini è perché vuol ricordarci che non abbiamo mai finito di crescere!
4. Nella biografia di don Bosco troviamo il riferimento ai suoi sogni. Come interpretare questo? Don Bosco non era un “sognatore”, ma una persona assolutamente concreta, attenta alla realtà, coinvolta nelle vicende del tempo. Eppure ha ricavato dai suoi sogni progetti e scelte. Gli è stato riconosciuto in questo un carisma speciale. Che rapporto c’è tra sogno e realtà? C’è chi vede nel sogno l’emergere del proprio vissuto e dell’inconscio: nel sonno si allenta la vigilanza e viene fuori il passato. Don Bosco sembra dirci che nel sogno è adombrato l’ideale. Nel sogno c’è futuro e orizzonte! Per lui è stato così. Il sogno è stato vocazione! Vale per i ragazzi e vale per noi adulti: “Quando eravate ragazzi – diceva don Bosco – vi ho voluto bene, adesso che siete grandi ancora di più”.
A San Domenico Savio ha insegnato il segreto della santità e del sogno: “Fare la volontà di Dio sempre, subito e con gioia”.

Omelia IV Domenica del Tempo Ordinario

Omelia di S.E. Mons. Andrea Turazzi
Cappella vescovile, 1 febbraio 2015

Dt 18,15-20
Sal 94
1Cor 7,32-35
Mc 1,21-28

È singolare che l’evangelista Marco faccia incontrare Gesù e l’indemoniato proprio in sinagoga. La sinagoga è il luogo della riunione per il culto, per la lettura della Parola di Dio, per il canto e per la preghiera. Per me, uomo di Chiesa, sarebbe stato preferibile uno scenario diverso per questo racconto; magari il porto di Cafarnao, una bettola di Galilea o una piazza qualsiasi. Sembra invece che il diavolo, in sinagoga, ci stia a suo agio e inosservato, almeno fino all’arrivo di Gesù. Forse Marco vuol dire che la voce “dei demoni oscuri si alza non da fuori, ma dentro, nella sinagoga, nella comunità, nell’intimo dei cuori”. Trovo la cosa abbastanza inquietante.
Stiamo leggendo una pagina fortemente cristologica che qualifica l’identità di Gesù, lo spessore della sua personalità e missione. Gesù è il Messia, il Cristo, che insegna con potenza! Persino il diavolo lo riconosce. Sorprendono le sue domande: Che vuoi da noi, Gesù Nazareno? Domanda sciocca e viscida. Sa benissimo quel che Gesù vuole. Lo sappiamo anche noi. E il diavolo aggiunge: Sei venuto a rovinarci? Non si smentisce: come nel paradiso terrestre, insinua che Dio è nemico e rivale dell’uomo. Ci fa immaginare Dio come colui che toglie, mortifica, tarpa le ali, rinchiude nei recinti. Un giorno Gesù domanderà ai suoi: Vi è forse mancato qualcosa da quando siete con me e vi ho mandati? «Nulla», risponderanno (cfr. Lc 22,35). Per quanto mi riguarda vorrei che Gesù… mi rovinasse!
Il diavolo parla al plurale. Qualcuno interpreta che poteva aver occupato quella creatura con la complicità e la compagnia d’altri spiriti o, meglio ancora, che parlava anche in nome della sua preda. Gesù si rivolge a lui al singolare. Distingue bene l’ingiusto aggressore dalla vittima. A Gesù basta una parola: Taci! Zittisce il demonio perché l’uomo ritrovi libertà e gioia di vivere. È soltanto il primo round, ma già si capisce che il tempo messianico è giunto: Cristo vince Satana e inaugura la Signoria di Dio. Non c’è alcuna catena che Gesù non può spezzare. “Non aver paura delle tue oscurità”!

Omelia III Domenica del Tempo Ordinario

Omelia di S.E. Mons. Andrea Turazzi

25 gennaio 2015, Monastero Agostiniane di Pennabilli

 

Gesù si recò nella Galilea predicando il “buona notizia” di Dio.

Gesù è presentato come araldo di una notizia straordinaria, di importanza decisiva e portatrice di una gioia smisurata (notizia su Dio o da parte di Dio?). Sta per accadere qualcosa di paragonabile alla creazione: Il tempo è compiuto e il Regno di Dio è vicino. Dio sta portando a maturazione la storia (iniziata con la creazione) conducendola al suo momento decisivo. Quando accadrà?, si domandavano gli antichi. Se lo chiedevano i contemporanei di Gesù (cfr Lc 21,28) e ce lo chiediamo anche noi: Fra quanto tempo, fra quanti anni? L’evangelista sembra rispondere: Uno, nessuno, centomila! La manifestazione della Signoria di Dio (il Regno) non è una realtà remota né sganciata dal presente. Chi incontra Gesù si pone già da ora sotto il segno di quella sovranità. Ogni momento è buono per la decisione. La lancetta della bussola che ti guida nel cammino della vita è arrivata al suo zenit. Sei di fronte a Gesù, decidi! Da questo annuncio nasce l’imperativo: Convertitevi e credete al Vangelo. L’appello alla conversione qui non è da intendersi in senso morale (non è un invito a troncare una condotta malvagia). Si tratta di un cambiamento di rotta: concentrarsi su Gesù. Convertitevi, cioè, credete a questa buona notizia. E’ in questo clima di gioioso incontro con Gesù che va collocata la storia di vocazione dei primi apostoli. Quella mattina sul lago, dentro il loro quotidiano che aveva l’odore del pesce, fa irruzione Gesù. Gesù guarda Pietro, Andrea, Giacomo, Giovanni e dice a ciascuno: Seguimi! E loro vanno. D’un colpo tutto diventa relativo e secondario. Il testo evangelico non dice perché seguono Gesù. La ragione è nel pronome personale: segui me. Non hanno fatto ragionamenti. Semplicemente hanno trovato Gesù affidabile, ed hanno fatto l’affare! Adesso tocca a te.

 

Omelia II Domenica del Tempo Ordinario

Omelia S.E. Mons. Andrea Turazzi

Lunano, 18 gennaio 2015

 1Sam 3,3-10.19
Sal 39
1Cor 6,13-15.17-20
Gv 1,35-42

Ecco, io vengo, Signore… Mio Dio, questo io desidero (cfr. Sal 39,8).
Il racconto giovanneo della chiamata dei primi discepoli ci aiuta a “tanare” il modo balordo che talvolta abbiamo di gestire il rapporto con Gesù.
Cominciamo dalla domanda dei primi due discepoli: Maestro dove abiti? Non è semplice curiosità. La domanda riferisce il desiderio di poter stare a lungo con lui. Gesù li accontenta. Vogliono che Gesù parli delle Scritture? No, vogliono capire chi è lui.
Andarono. Quella giornata col Maestro fu decisiva. L’evangelista Giovanni lo evidenzia annotando due cose: era circa l’ora decima (le quattro del pomeriggio) e la gioia con cui Andrea annunciava la scoperta a suo fratello Pietro. A proposito: le quattro del pomeriggio sono scoccate nel quadrante della nostra vita? L’incontro con Gesù è tracimato in gioiosa testimonianza?
Abbiamo trovato il Messia: è il grido di chi ha scoperto un volto che dà senso all’esistenza. La fede è nata dal restare con Gesù. Venite e vedrete: eppure Gesù non ha una tana come le lepri, non ha una pietra dove posare il capo (cfr. Mt 8,20). Non promette altro che intimità: Rimanete in me e io in voi (Gv 15,4). Un giorno aggiungerà: dimoro nel seno del Padre; là vi desidero con me (cfr. Gv 17,5). Ma perché i discepoli capiscano propone una cosa concreta, una cosa da fare: venite e vedrete. E loro vanno, vedono, dimorano.
Nei racconti di chiamata in Marco, Luca e Matteo viene messo in rilievo il lasciare tutto per seguire Gesù; in Giovanni seguire è cominciare ad entrare nel mistero della persona di Gesù. Con-vivere con lui. E ciò cambia radicalmente la vita.
È detto che Andrea era uno dei due discepoli. Ma chi era l’altro? Il Vangelo non lo dice. Forse perché, dopo aver visto, non ha preso la decisione di seguire Gesù.
Due hanno seguito l’Agnello di Dio indicato dal Battista, il loro maestro. Due hanno cercato di scoprire dove dimorava Gesù. Due hanno passato la notte con lui. Ma uno solo ha testimoniato d’aver conosciuto il Messia e lui solo s’è messo realmente a seguirlo. L’altro, forse, è ciascuno di noi alle prese con la domanda “chi è Gesù?”. Gesù si mostra, ma ci lascia liberi di accoglierlo. Facciamo buon uso di questa libertà.

Omelia Festa del Battesimo di Gesù

Omelia di S.E. Mons. Andrea Turazzi

Cattedrale di San Leo, 11 gennaio 2015

1. “Venite all’acqua”(Is 55,1).
Gesù ha un rapporto particolare con l’acqua! Scende al fiume per farsi battezzare da Giovanni. Sulle rive del lago inizia il suo ministero, sceglie i primi discepoli e pronuncia indimenticabili parabole. Quattro tra gli apostoli sono pescatori. Gesù cammina sulle acque e invita Pietro a fare altrettanto. Va alla piscina di Betzaeta. Promette ricompensa per un bicchier d’acqua fresca offerto ad un fratello. Sulla croce grida: «Ho sete» (Gv 19,28). É vero: ha cambiato l’acqua in vino, ma per significare l’unità dei segni che testimoniano di lui: l’acqua e il sangue. Al pozzo di Giacobbe dice alla samaritana: «Io sono acqua viva» e durante la festa delle Capanne grida: «Chi ha sete venga a me e beva!» (Gv 7,37).
Certamente Gesù aveva presenti i testi di Isaia: «Venite all’acqua e chi non ha denaro venga lo stesso; venite bevete» (Is 55,1-2). E ancora: «Come la pioggia e la neve scendono dal cielo e non vi ritornano senza avere irrigato la terra, senza averla fatta germogliare perché dia il seme a chi semina e il pane a chi mangia, così sarà della mia parola» (Is 55,10-11). Le acque nel loro movimento, effettivamente, assomigliano alle parole: scendono, penetrano, vivificano. Gesù voleva le sue parole come acque correnti: dette, ascoltate, vissute, distribuite. Non le ha scritte. Non ha avuto né segretari, né stenografi. Il discepolo veniva invitato a trattenerle col cuore e la mente. Non ha pensato di rinchiuderle in un rotolo di pergamena… Sapeva che vale di più la parola detta che scritta, con voce pacata o impetuosa che sia, ma sempre coinvolgente. Ignoriamo il timbro della voce di Gesù (non c’è registrazione!). Persino le lingue parlate da lui sono scomparse (l’ebraico e l’aramaico). Che dire del lieto messaggio, l’«Evangelo»? Annunciato coi fatti prima che con parole: una cascata! Ma fu necessario raccogliere l’«Evangelo» nei vangeli scritti: acque conservate per noi. I vangeli sono stati scritti per noi, per non dimenticare le parole di colui che ha promesso che dal seno di chi crede scaturiranno fiumi d’acqua viva (cfr Gv 7,38). «Un fiume e i suoi ruscelli rallegrano la città di Dio» (Sal 46,5).

2. Torniamo alle acque del Giordano, mentre Gesù compie il gesto profetico che anticipa la sua morte e risurrezione: la discesa nelle acque del fiume Giordano, l’alba del patto d’amore che ci mette sulla via della Pasqua.
«O se tu squarciassi i cieli e scendessi» (Is 63,19): oggi, festa del Battesimo del Signore, riecheggia quel grido. C’è una discesa. Che cos’è il Battesimo di Gesù se non una discesa nelle acque, una totale immersione?
Ma ci fu una prima discesa del Figlio di Dio nell’umanità. Fu al momento dell’incarnazione: Gesù è messo al mondo, per il mondo. E poi scende tra i peccatori per farsi battezzare. Si immerge nel più profondo della condizione umana quando, benché innocente e senza peccato, assume la responsabilità del nostro peccato.
Non metterà alcun limite alla sua missione di Salvatore discendendo negli inferi, là dove l’uomo viene trascinato dal peccato e dalla morte. Così diciamo nella professione di fede: «Per noi uomini e per la nostra salvezza discese dal cielo», e più avanti: «discese agli inferi».
I cieli si aprono: è la conferma che si sta compiendo il mistero e la promessa. Dio dal suo cielo entra nella terra, scende per innalzare: è la sua “catabasi” – come dicevano i padri antichi – e all’uomo è dato di risalire a Dio attraverso Gesù (anabasi). Alla grazia di Dio noi rispondiamo con il rendimento di grazie.
La scena del battesimo ci parla di Dio più di quanto immaginiamo. C’è la voce del Padre che dichiara; c’è il Figlio che viene presentato; c’è la colomba, figura dello Spirito che scende su Gesù. Così Dio si rivela apertamente, più di quanto ha fatto con i pastori di Betlemme, più di quanto ha detto ai Magi con la stella. Anche se in questo brano non viene nominato il termine “Trinità” – verrà usato più tardi nella riflessione teologica – qui abbiamo la piena rivelazione del Dio cristiano: amore del Padre, missione del Figlio, consacrazione dello Spirito.

3. Realtà stupende! Ma noi siamo in cammino. Veniamo da una settimana tremenda.
La strage jihadista al giornale satirico Charlie Hebdo, a Parigi, ha causato 12 vittime e tanto smarrimento e insicurezza. Il tutto è accaduto in una modalità e con una efferatezza da farci sentire in una trincea. Ma non possiamo permetterci di perdere la speranza. L’Islam inautentico dei terroristi vuole lo scontro tra “in-civiltà”. L’assassinio si accompagna non alla presenza ma all’assenza di Dio, anzi alla sua negazione. L’intenzione è evidente: porre nel cuore dell’Europa la violenza senza legge. Ma l’Europa ha da mostrare che la speranza del mondo è l’integrazione. La sua missione è ricomporre i pezzi in un quadro di pace per tutti i popoli e tra tutti i popoli; nel rispetto reciproco tra religioni, culture, civilizzazioni.
È questa l’Europa che vogliamo. Il mondo che vogliamo.
Ci uniamo a quanti chiedono una esplicita e convincente condanna del terrorismo da parte del mondo islamico, ma chiediamo anche rispetto per la fede di tutti e il rifiuto di ogni derisione.
Ma il sole sorge ancora sull’umanità.

Eucaristia in suffragio di Padre Giuseppe Blasi

Omelia di S.E. Mons. Andrea Turazzi

Chiesa di Valdragone, 7 gennaio 2015

Baruc 3, 31-35
Sal 22
Gv 14, 1-3

«Tu, autem, homo Dei» (1Tim 6,11).
Padre Giuseppe, un uomo di Dio, perché proprietà di Dio.
Su di lui il Signore ha fatto progetti. L’ha usato! Per 92 anni! (era nato a Rocca di Papa il 23.12.1922). Non dimentichiamo che «Servire Dio è regnare!».
Il Signore l’ha chiamato per averlo tutto per sé, per adoperarlo come strumento della sua grazia: è nello stile di Dio salvare l’uomo attraverso l’uomo. Quante coscienze padre Giuseppe ha orientato, quanta misericordia di Dio ha dispensato, quanta fiducia ha ridato alle anime: 68 anni di ministero, 10 dei quali qui, a servizio della nostra Chiesa di San Marino-Montefeltro (ordinato sacerdote a Nepi (VT) il 23.03.1947). Uomo di Dio e Dio se lo è ripreso.
Padre Giuseppe, uomo di Dio, perché ha voluto appartenere a Lui come al suo tutto, centro della sua vita, slancio della sua umanità. «Ti proclamo unico re e signore del mio cuore: tu lo vuoi e io te lo dono» (Sant’Alfonso Maria de’ Liguori, Visite al Santissimo Sacramento, 9).
Bellezza della vita sacerdotale – bellezza che pochi oggi sembrano apprezzare – incanto della vita consacrata (realtà per tutta la Chiesa che quest’anno vi dedica la sua attenzione) che si compie nel raccoglimento, nell’umiltà del convento, nel nascondimento del confessionale, nella fragilità della propria umanità. Ma tutto nella tensione di essere di Dio: «Io sono tuo» (Sal 118, 94).
Dice il profeta Baruc nella lettura che abbiamo fatto poc’anzi: «È lui – il Signore – che invia la luce ed essa va, che la richiama ed essa obbedisce con tremore. Le stelle brillano dalle loro vedette e gioiscono; egli le chiama e rispondono: “Eccoci!” e brillano di gioia per colui che le ha create» (Bar 3, 32-35). In queste parole è racchiuso il mistero della vocazione, anzitutto la vocazione alla vita. È il Signore che manda nel mondo: e non può che inviare luce. Ogni persona che viene in questo mondo aumenta lo splendore della luce di Dio sulla terra. Ogni vita è responsabilità, cioè risposta a colui che manda, è obbedienza dacompiere con timore e tremore. Ognuno di quanti vengono al mondo viene con una missione da compiere: la vocazione come servizio.
La stella evoca il Natale e il cammino dei Magi che questo tempo liturgico ci ripresenta.
Il nostro natale nel Natale di Gesù e, nel Natale di Gesù, il “dies natalis” di padre Giuseppe.
Il Signore l’ha richiamato su nel firmamento (missione compiuta!) ed ora brilla di gioia per colui che lo ha creato. La gioia del Cielo, del dies natalis, è gioia che caratterizza e colora ogni giorno la vita del consacrato che già da quaggiù è segno della vita futura, un anticipatore, una avanguardia…
Da chi ha imparato a dire “Eccomi”?
Ha imparato dalla Madonna, la Signora di cui padre Giuseppe è servo; egli è stato un “servo di Maria”!
“Eccomi”: padre Giuseppe è al suo “posto”. Un posto su nel Cielo: là dove Gesù ci precede. «Nella casa del Padre mio vi sono molti posti, se no ve lo avrei detto. Vado a prepararvi un posto…» (Gv 14, 1-3).
Un ricordo personale… spero non sia inopportuno.
Nella casa di formazione – il Seminario – veniva assegnato un posto preciso: a scuola, in studio, in cappella, in refettorio, in fila… poteva succedere che, in qualche circostanza, il posto fosse “libero” e che un compagno lo “tenesse” occupato vicino a lui. Se qualcuno si avvicinava sentivi dire: “No, questo posto è riservato per il mio amico…”. Amo immaginare che Gesù abbia tenuto il posto per padre Giuseppe: un posto proprio per lui!
Domenica 4 gennaio, Seconda del Natale a San Marino (Valdragone).

Omelia Solennità Epifania del Signore

Omelia di S.E. Mons. Andrea Turazzi

Cattedrale di Pennabilli, 6 gennaio 2015

 
Dio disse ad Abramo: «Guarda in cielo e conta le stelle, se riesci» (Gn 15,5). Un amico astronomo mi ha detto che se ne contano 400 miliardi solo nella Via Lattea. Ma si tratta di un numero approssimativo. Incanto davanti al cielo stellato in queste serene notti d’inverno e incanto davanti al Bambino su cui si è posata la stella a Betlemme… Un’estasi vissuta dagli antichi astronomi, dai poveri pastori e dai poeti d’innanzi allo stesso cielo stellato. Baruc, un profeta dell’esilio, vede le stelle danzare di gioia: Le stelle brillano dalle loro vedette e gioiscono; il Signore le chiama e rispondono: «Eccoci!» e brillano di gioia per colui che le ha create (3,34-35). Isaia precisa che il Signore le chiama tutte per nome e nessuna manca all’appello (cfr. Is 40,26). Come si chiama la stella dei Magi? Troviamole un nome.
Io la chiamo Stella dei cercatori. Possono vederla quelli che, senza restare impigliati nel fare, sanno alzare gli occhi al cielo. É una stella fatale, che mette in cammino. Irresistibilmente. Assomiglia tanto al desiderio che ti lascia inquieto finché non trova riposo.
Per i Magi il cammino fu reale non metaforico. Hanno macinato molta strada; hanno fotografati, nella mente, tanti paesaggi. Dall’Oriente a Betlemme. Andata e ritorno. Hanno messo in moto non solo piedi e gambe, ma anche la mente e il cuore. É probabile non sia mancato chi s’è preso gioco di loro e della loro improbabile “storia di stelle”. Tanta strada per cosa? Non porteranno a casa né oro, né avorio, né marmi preziosi; troveranno solo terra sabbiosa e riarsa.
E poi non è l’Oriente la culla della luce? Perché cercare in Occidente?
Ma chi cerca trova, anche se può succedere di sbagliare. Ai Magi è capitato. All’inizio hanno mancato il bersaglio: credevano d’essere arrivati alla città del Messia, ma Betlemme era oltre, nella campagna. A Gerusalemme sono saliti a Palazzo, dove stanno quanti vestono in morbide vesti (cfr Mt 11,8) mentre il Bambino che li attende è adagiato sulla paglia. Incautamente interpellano Erode, la corte e i sacerdoti del tempio anziché interrogare i pastori. Errare humanum est! Hanno l’infinita pazienza del ricominciare. Interrogano di nuovo le Scritture e la Stella. Confermo: chi cerca trova e chi trova non smette di cercare; per chi trova, infatti, è molto importante anche il ritorno: è strada nuova, perché l’incontro li ha fatti nuovi. «Per un’altra strada fecero ritorno al loro paese». E noi? Come torniamo dal presepio?
 

Omelia II Domenica Dopo Natale

Omelia di S.E. Mons. Andrea Turazzi

Basilica San Marino, 4 gennaio 2015
In questi giorni natalizi, abbiamo letto più volte, di Maria, la madre di Gesù, che conservava tutte queste cose, meditandole nel suo cuore.
Maria ha raggiunto, con la sua fede, un punto d’osservazione privilegiato sull’abisso del mistero di Gesù. La liturgia conduce anche noi alla contemplazione di infiniti orizzonti. Chi è il bambino adagiato nella mangiatoia? Perché è venuto tra noi?
Troviamo risposta nelle quattro parole scolpite nel cuore del Prologo di Giovanni: Ed il Verbo si è fatto carne (Gv 1,14).

Ed”: è la particella di congiunzione alla quale di solito non si fa caso. Questa congiunzione arriva dopo un crescendo di proposizioni: In principio era il Verbo… E Il Verbo era Dio… E Venne tra i suoi… Infine: Ed il Verbo si è fatto carne. Come a dire: nessuno più può pensare: qui finisce Dio e comincia l’uomo”, perchè creatore e creatura si sono abbracciati. In quel neonato, Dio e uomo sono una sola cosa.

Il Verbo”: termine misterioso per molti, ma significativo della realtà più semplice e vitale che ci sia: la parola, ossia, la comunicazione. Dio è totale comunicazione di sé e dono. Il Verbo è la Parola di Dio, lo splendore del Padre “lanciato” nel cielo tersissimo della Trinità, l’irradiazione della sua gloria e impronta della sua sostanza (Ebrei 1,3). Tutto ciò che esiste è stato creato per mezzo di lui e in vista di lui (cfr Colossesi 1,16).

Si è fatto”: è accaduto qualcosa di definitivo e irrevocabile: il Verbo, prima invisibile, ormai è visibilmente “messo al mondo”. È accaduto il più grande dei miracoli: Dio che ha plasmato l’uomo con polvere, dall’esterno, come fu in principio quando creò cielo e terra, si fa lui stesso polvere plasmata, cioè bambino.

Carne”: è detto in senso biblico, per indicare l’intera persona umana e per sottolineare fino a che punto è arrivata la condiscendenza divina. Da allora c’è una scintilla del Verbo in ogni carne, “qualcosa” di Dio in ogni uomo e in ogni realtà creata. C’è santità, almeno incipiente, in ogni vita.

“E il Verbo si è fatto carne”: quattro parole che possiamo tradurre così: parola, cioè comunicazione; luce che rischiara la nostra oscurità; carne, concretezza della salvezza; gloria, grazia trasformante, pienezza del nostro destino.
Non è questo l’itinerario del cristiano?