Omelia IV Domenica di Pasqua

Omelia di S.E. Mons. Andrea Turazzi
Cattedrale di Pennabilli, 26 aprile 2015
 
At 4,8-12
Sal 117
1Gv 3,1-2
Gv 10,11-18

La Chiesa è tutta inondata di gioia e di luce: splendore del tempo pasquale! Le nostre assemblee ripetono “Alleluia!” a non finire.
La liturgia ci ha consegnato simboli ricchi di allusioni: il cero pasquale (Gesù risorto che apre un nuovo esodo), la colomba che stende le sue ali su di noi (la risurrezione è potenza di Spirito Santo che sconfigge la morte), il pellicano che sfama e disseta di sé i suoi piccoli (Gesù che ci fa vivere della sua stessa vita attraverso i sacramenti).
Siamo accompagnati per un cammino di fede attraverso tappe suggestive: la tomba vuota (Gesù non è qui!), la locanda di Emmaus dove viene benedetto e spezzato un pane (presenza di Gesù risorto nell’Eucaristia), il Cenacolo dove Gesù si fa toccare, rimette i peccati, dona lo Spirito e invia i discepoli nel mondo.
Di domenica in domenica andiamo sempre più in profondità nella comprensione del mistero pasquale. Questa domenica – la quarta – segna una svolta: dalle apparizioni del Risorto alla sua presenza nella Chiesa.
Non possiamo dirci cristiani senza appartenenza alla Chiesa. L’equivoco nasce talvolta quando si pensa e si parla della Chiesa unicamente con criteri sociologici. In realtà la Chiesa è il corpo stesso di Gesù: un corpo mistico, ma reale, del quale Gesù è il capo e noi le membra, stretti insieme da una profonda comunione, inaugurata nel battesimo. La legge di questo corpo consiste nel vivere l’uno dell’altro e l’uno per l’altro. Per insegnarci questa legge Gesù si è servito della metafora del pastore, assai eloquente per i suoi contemporanei. Gesù è pastore e ciascuno di noi è, in certo modo, pastore per qualcuno. E’ il titolo più disarmante e disarmato che ci sia. Il testo greco aggiunge per Gesù l’aggettivo “bello”, il “bel pastore” (solitamente noi diciamo buon pastore). Preferisco attenermi alla traduzione letterale. Con che cosa affascina il bel pastore? Con un verbo ripetuto cinque volte nello stesso brano: io offro la mia vita; la mia vita per la tua! Questo è il comando – aggiunge Gesù – che ho ricevuto dal Padre mio, il comando che fa bella la mia vita! Vuoi che anche la tua sia bella? Sai cosa devi fare: continua a donarti e a spenderti. Ricorda il progetto di vita che ha entusiasmato l’apostolo Paolo: Mi sono fatto tutto a tutti, per guadagnare ad ogni costo qualcuno (1Cor 9,22). E’ il tema Giornata Mondiale di preghiera per le vocazioni di quest’anno: “E’ bello con te”, aggiungerei: «E’ bello… per te»!
Questa la bella notizia (Vangelo), questo l’asso nella manica per la nuova evangelizzazione. Il mondo sarà di chi lo ama di più: e chi l’ha amato e l’ama più di Gesù? Vorrei sentissimo, forte e calorosa, la premura di Gesù buon pastore verso tutti. E, a nostra volta, prenderci a cuore gli uni gli altri, disposti ad offrire la vita: genitori e figli, fratelli e amici, consacrati e laici. Questo è il senso dei giorni speciali che stiamo vivendo.

Veglia di preghiera per le Vocazioni

Santuario B. Vergine delle Grazie di Pennabilli, 25 aprile 2015

Celebriamo una “Giornata” ma è tutto il tempo, tutta una vita, tutta una comunità, tutta la Chiesa che proclama e vive lo splendore della chiamata; la chiamata è una esperienza fondamentale che sta all’inizio di tutto: la chiamata all’esistenza, la chiamata alla comunione, alla relazione ed al servizio, chiamata ad essere insieme sacramento per il mondo (cfr. LG 1).
Si celebra una “Giornata” per essere più consapevoli ogni giorno e sempre. Una “Giornata” per focalizzare un aspetto della vocazione, un contenuto o una sua articolazione, tanto è ampio il significato della parola vocazione e forte la sua esperienza.
È una “Giornata” che si ripropone ogni anno (così dal 1964 per volontà di Paolo VI) alla IV Domenica di Pasqua, quando tutta la Chiesa, sposa del Signore, ha gli occhi puntati sul “Pastore bello” e ne gode.
La sposa-Chiesa sente che il Pastore è vivo ed è presente, che si prende cura di lei, la nutre, la guida, la difende… Il Pastore continua a farsi presente attraverso pastori e suggerendo a tutti, secondo modalità diverse, di prendersi cura di qualcuno: «Farsi tutto a tutti, per guadagnare ad ogni costo qualcuno» (1Cor 9,22). Ecco un aspetto della vocazione, precisamente alla vocazione come responsabilità, cioè risposta all’esistenza, agli altri, a Dio. Vivere è rispondere!
Chi non risponde non vive o vive senza orizzonte. La logica della vita ha un nome: vocazione. Questo è il progetto fondamentale che Dio ha posto nel cuore di ogni uomo.
La difficoltà ad intendere oggi la vita come vocazione oggi sta nel fatto che siamo portati a ritenerci unici artefici e gestori del nostro destino e quindi “senza vocazione” e, individualisticamente ci viene da pensare che non “dobbiamo” nulla a nessuno, se non a chi decidiamo noi volta per volta.
Ma la vita è dono e va accolta nel disegno di amore di Dio (cfr. CEI, Educare alla vita buona del Vangelo, 23).

Qual è il primo impegno per la promozione delle vocazioni?
La preghiera. La preghiera è il cardine della pastorale vocazionale ed è una pastorale che, per sua natura, è trasversale a tutti gli ambiti. Di fronte al gregge senza pastore e alla messe abbondante, Gesù invita alla preghiera.
La preghiera fatta con fede ottiene.
La preghiera educa e fa bene anzitutto all’orante che, in coerenza con la sua invocazione, dice la sua disponibilità, si mette in ricerca, o rinnova la risposta: “Signore, cosa vuoi che io faccia? Come servirti?”.
La preghiera per le vocazioni formulata da Gesù in Mt 9, 35-38 mette in un atteggiamento di fede contro ogni forma di avvilimento o rassegnazione. «La messe è abbondante…, pregate il padrone della messe perché mandi operai». Parole che sorprendono “perché tutti sappiamo che occorre prima arare, seminare, coltivare, per poter poi, a tempo debito, mietere una messe abbondante. Gesù afferma invece che «la messe è abbondante». Ma chi ha lavorato perché il risultato fosse tale? La risposta è una sola: Dio” (Papa Francesco, Messaggio GMPV, 11-05-2014).
Spesso, guardando la realtà con le sue sfide si viene presi da negatività e depressione.  Di fronte al testo evangelico “la messe è abbondante, gli operai sono pochi”, l’attenzione è subito catturata dalla seconda parte della frase, trascurando la prima. Si è dominati, così, da sentimenti di preoccupazione, di tristezza e sconforto. Orientiamo il nostro sguardo invece sull’abbondanza della messe, cioè sul “lavoro” che fa Dio, per aiutarci a cogliere le meraviglie che Dio opera, a coltivare speranza, a vedere bellezza.

Siamo al tema che è stato suggerito per questa Giornata Mondiale delle Vocazioni: “È bello con te!”; la vocazione come scoperta ed esperienza di bellezza.
Una definizione di bellezza? La bellezza è lo splendore del vero: la verità di un Dio che amandomi mi desidera, desiderandomi mi vuole, volendomi mi chiama. La verità della mia piccola vita con il suo destino, la responsabilità e il servizio. La verità dell’altro che ha bisogno anche di me per aprirsi e sbocciare, come io ho bisogno di lui.
“È bello con te!”. Sono parole che posso immaginare pronunciate da Dio nei miei confronti, oppure pronunciate da me nei confronti di Dio. E reciprocamente l’uno nei confronti dell’altro.
C’è una pagina che vorrei evocare. L’ha scritta un innamorato, Sant’Agostino.
“Tardi ti ho amato, bellezza così antica e così nuova, tardi ti ho amato. Tu eri dentro di me, e io fuori. E là ti cercavo. Deforme, mi gettavo sulle belle forme delle tue creature. Tu eri con me, ma io non ero con te. Mi tenevano lontano da te quelle creature che non esisterebbero se non esistessero in te. Mi hai chiamato, e il tuo grido ha squarciato la mia sordità. Hai mandato un baleno, e il tuo splendore ha dissipato la mia cecità. Hai effuso il tuo profumo; l’ho aspirato e ora anelo a te. Ti ho gustato, e ora ho fame e sete di te. Mi hai toccato, e ora ardo dal desiderio della tua pace” (S. Agostino, Confessioni, 10.27.38).
Per grazia di Dio non è mai troppo tardi per ritrovare lo slancio di questa scoperta. A noi il compito di riscoprire e far riscoprire il lato bello di Dio, della vita con lui.
“È bello per noi essere qui!”, fu l’incontenibile incanto di Pietro sul monte della trasfigurazione.
Questa sera celebriamo la bellezza di sentirci voluti, desiderati, amati e chiamati.
Come Maria: «Il Signore ha guardato l’umiltà della sua serva e tutte le generazioni mi chiameranno beata» (Lc 1,48).

Permettete che saluti e ringrazi gli operatori della Pastorale Vocazionale, in particolare il Centro Diocesano Vocazioni. Ritengo opportuno definire l’attività ed il servizio del CDV come presenza di provocazione e di accompagnamento.
Tale indicazione esige, però, una precisazione. La vocazione, dono di Dio, sboccia dove c’è vita e vita cristiana: la vita nasce dalla vita. Pertanto, nessuna attività può supplire il necessario humus da cui sbocciano le vocazioni; insostituibile allora la testimonianza gioiosa dei chiamati e una significativa e bella vita parrocchiale e di comunità. Decisiva la cura pastorale dei parroci e dei direttori spirituali.
La provocazione è il servizio che il CDV rende alle comunità per tenere vivo l’annuncio vocazionale e consiste nell’incontro, anche se – per forza di cose – non potrà essere frequentissimo, con ragazzi, giovani e adulti: tutti hanno il diritto di sentire la proposta vocazionale.
L’accompagnamento è il servizio che il CDV si propone di offrire a quanti desiderano applicare un tempo del loro cammino di fede al discernimento vocazionale ed alla coltivazione degli eventuali germi di vocazione. Poi toccherà a luoghi specializzati curare ulteriormente il discernimento e la successiva preparazione.
Il CDV tiene viva la “tensione” vocazionale attraverso la collaborazione di animatori. Ogni parrocchia dovrebbe esprimere qualche persona che tiene presente questo servizio: sostiene la preghiera personale e comunitaria per le vocazioni (adorazione eucaristica per le vocazioni, “monastero invisibile”), segnala le iniziative del CDV, prepara la Giornata Mondiale di Preghiera per le Vocazioni e “l’avvento vocazionale”, si tiene informato sulla vita del seminario diocesano e delle famiglie religiose in diocesi. Il CDV avrà cura della formazione permanente degli animatori e li convoca alcune volte nel corso dell’anno pastorale. In diocesi c’è già una realtà di questo tipo da sostenere e rivitalizzare: l’OVE (Opera Vocazioni Ecclesiastiche).

Un appuntamento speciale per i giovani: la GMG diocesana del 16 maggio. Avremo la gioia di avere con noi anche i giovani che si preparano al ministero sacerdotale o alla consacrazione religiosa, e con loro quanti hanno appena fatto questo passo importante nella loro vita.

Omelia Domenica in Albis – Ordinazione diaconale di Pier Luigi Bondioni

Omelia di S.E. Mons. Andrea Turazzi
Cattedrale di Pennabilli, 12 aprile 2015
 

At 4,32-35
Sal 117
1Gv 5,1-6
Gv 20,19-31

Abbiamo iniziato con una preghiera sublime che interpreta una molteplicità di sentimenti. Una preghiera che abbiamo innalzata “al Dio di eterna misericordia” accompagnata dai nostri canti (oggi è la Domenica della Divina Misericordia).
“Signore, ravviva la fede”, perché diventiamo consapevoli di come tu sei all’opera nella nostra vita.
“Accresci la grazia”, cioè l’esperienza della tua prossimità in ogni circostanza della nostra esistenza, avvolgendola di sacralità.
“Donaci di comprendere”:
l’inestimabile ricchezza del Battesimo, perché non resti confinato nel ricordo dell’infanzia e le sue acque gorgoglino costantemente le Parole che il Padre ha pronunciato su di noi: “Tu sei mio figlio, l’amato, sorgente della mia gioia (oggi è la Domenica in Albis);
lo Spirito che ci rigenera, effuso nei nostri cuori dal Signore Risorto, lo stesso Spirito che aleggiava sulle acque primordiali, che ha reso divino l’uomo fatto di creta.
il Signore che ci ha redenti con un atto d’amore costato il suo sangue, sangue che ci fa popolo regale, profetico e sacerdotale, assemblea santa!
Ma questa sera non possiamo non cantare anche la grazia e la gioia dell’ordinazione diaconale di un fratello: Pier Luigi.
Ma chi è il diacono? Propriamente uno al quale il Signore fa il dono di diventare come lui, servo. È una grazia essere servo? Preciso. Non un servo stipendiato; non un servo a ore o a cottimo. Il ministero non viene conferito in vista di una carriera (qui non è ammessa altra carriera che la scalata alla santità!), né in vista di vantaggi particolari e – fuori di metafora – non per autorealizzazione (anche se il diacono sperimenta quanto è bello servire il Signore e come allarghi il cuore dedicarsi agli altri più che a sé). Il diaconato non è un contratto a tempo: “Prima mi sbrigo e prima sono libero; poi mi dedico a me stesso e ai miei hobby”. Non è una professione da svolgere, magari nel migliore dei modi, nel posto che mi piace di più (Caro Pier Luigi ricorda il testo della Imitazione di Cristo, oggetto delle nostre meditazioni: “Immaginatio locorum, multos fefellit”!). Ma allora, che cosa è il diaconato? Perché è una fortuna?
Il diaconato è una dimensione nuova che configura il candidato a Gesù Cristo servo mediante il sacramento dell’Ordine, con tutte le grazie proprie, e che rimane come segno indelebile in chi lo riceve con l’imposizione delle mani del Vescovo.
“Tutto ciò che fu visibile del nostro Redentore è passato nei segni sacramentali”. Il nostro Redentore fu essenzialmente servo, servo della nostra Redenzione. E tu, Pier Luigi, diventi a tua volta servo della Redenzione, metti a disposizione le tue membra perché siano a servizio della Redenzione.
Il Signore viene in mezzo a noi. È qui! Dice nuovamente “Shalom”. Alita su questa assemblea e su di te. Dice: «Come il Padre ha mandato me, io mando voi». Caro Pier Luigi, il Signore manda te! Come il Padre ha mandato lui! L’ha mandato umano, piccolo, inerme, servo. Quante volte Gesù ci ha lasciato intravvedere la sua coscienza di essere servo, citando i Carmi di Isaia che tratteggiano l’identikit del servo di Jahvè, servo sofferente. Parola chiave dei Carmi è la preposizione “per”: “per voi” e “per tutti”.
L’esistenza del diacono è una pro-esistenza.

Indicazioni precise per il tuo diaconato vengono dalle letture di oggi.
La prima lettura (il celebre “quadretto” degli Atti degli Apostoli) ti ricorda che esprimerai il tuo servizio in una logica di comunione, dentro una comunità precisa (incardinazione), con le sue ricchezze e le sue povertà. Questo testo ti aiuterà nell’approfondire ancora di più la spiritualità di comunione. Troverai in questa Chiesa di San Marino-Montefeltro fraternità, amicizia e aiuto spirituale, culturale ed economico.
La seconda lettura ti infonde coraggio, ti immette nel servizio con una mentalità vincente: “La nostra fede vince il mondo”.
Sostiamo un attimo nella meditazione del testo evangelico.
Gesù appare ai discepoli barricati nel Cenacolo per la paura dei Giudei e, ancor più, prigionieri della loro viltà e dei rimorsi per la notte del tradimento.
Gesù viene delicatamente, a porte chiuse, sensibile e attento alla crisi e ai dubbi dei suoi amici. E il gruppo riparte. È una comunità creata di nuovo col soffio dello Spirito. Il gesto di Gesù ripropone, infatti, l’atto creativo.
La comunità “nuova” che ha lo Spirito di Gesù pone da subito segni che la caratterizzano. Il primo: ospita l’incredulità di uno del gruppo, l’incredulità di uno dei migliori, Tommaso, l’apostolo che propose di seguire il maestro che si era incamminato per Betania per incontrare Lazzaro; e lo fece con queste parole: «Andiamo anche noi a morire con lui» (Gv 11,16). È l’apostolo che dopo la cena osa chiedere a Gesù: «Non sappiamo dove vai e come possiamo conoscere la via?» (Gv 14,5), dando l’opportunità a Gesù di affermare: «Io sono la via, la verità e la vita» (Gv 14,6). Tommaso è l’ospite del Cenacolo che entra ed esce con libertà.
Però Tommaso non crede. Il gruppo, da parte sua, non lo esclude e non lo emargina. E Tommaso rimane. La comunità cristiana è sempre luogo della fede. Quando la fede di un fratello è debole o addirittura spenta, attorno a lui si mobilita: “Resta – dice – non te ne andare. Altri ti porteranno”. La comunità rifondata da Gesù è una comunità accogliente! Il diacono – si dice – è ministro della soglia. Ricorda: l’accoglienza è la prima e fondamentale forma di missione.
Otto giorni dopo, Gesù è di nuovo nel Cenacolo. Entra e non si ferma coi dieci che credono, ma va verso Tommaso: «Metti qui il tuo dito e guarda le mie mani; tendi la tua mano».
Il Vangelo non ci dice se Tommaso ha toccato le mani e il costato trafitto di Gesù. A Tommaso è bastato sentirsi incoraggiato e non giudicato; è bastato vedere negli occhi colui che si è concesso ai suoi dubbi prima che alle sue mani. E a noi, insieme a Tommaso, viene da esclamare: “Sei proprio tu, Gesù. Inconfondibile nel tuo modo di proporti e nel tuo stile. Non ci sbagliamo su di te”! Così Tommaso passa dall’incredulità all’estasi: «Mio Signore e mio Dio!». E noi con lui!

Omelia per professione religiosa di Suor Francesca Serreli

Omelia di S.E. Mons. Andrea Turazzi
Santuario della Beata Vergine delle Grazie di Pennabilli, 11 Aprile 2015
 
At 4,32-35
Sal 117
1Gv 5,1-6
Gv 20,19-31
 
È per cantare il “per sempre” dell’amore del Signore che ci troviamo insieme qui, questa sera, avvolti ancora dal fulgore della Pasqua. E per quale altro motivo Francesca celebra insieme a noi la sua professione religiosa, se non per l’attrazione fatale di un “per sempre” sussurrato nel suo cuore da chi promette di esserle sposo? Uno sposo come nessun altro!
Un progetto chimerico quello di Francesca di sposare il Signore? Ma è il Signore, veramente risorto e vivo, palpitante e disponibile, che ha preso l’iniziativa!
Un progetto ambizioso? Francesca conta sulla fedeltà dello sposo che l’ha sedotta e che non tradisce.
Un progetto di fuga dalla realtà? Al contrario, Francesca vuole andare in profondità dove affondano le radici dell’umano: verità, bellezza, bontà.
Un progetto da navigatrice solitaria? No, Francesca non si avventura sola. Si incammina sostenuta da sapienti guide, in compagnia di una vera e nuova famiglia, incoraggiata da tutta una Chiesa (la nostra!) che, a sua volta, riprende fiato e si mette in gioco per la forza di quel “per sempre” testimoniato da Francesca.
È significativo che celebriamo la professione religiosa ai Primi Vespri della Domenica di Tommaso (Domenica in Albis, oggi – ci piace sottolineare – e della Divina Misericordia). Un incontro – quello con Tommaso – che aspettiamo ogni volta con meraviglia e curiosità, che ritorna nella sequenza dei Vangeli festivi nella Seconda Domenica di Pasqua.
Tommaso è incredulo: c’è bisogno della mano forte di Gesù, perché il suo dito penetri nella profonda fessura sul petto squarciato. A Tommaso è chiesto di sperimentarne la realtà, il calore, l’umidità e di vincere il naturale ribrezzo per una piaga aperta, sia pure la più santa.
Ma non sono in sofferenza anche gli altri dieci apostoli?
Gli eventi succedutisi nella tremenda settimana della Passione hanno scioccato i discepoli, al punto da prendere la risoluzione di chiudersi a doppia mandata nel Cenacolo. Per paura, non per devozione! Comprensibile paura: avevano riposto fiducia in Gesù. Eccolo, il loro maestro, ucciso come il peggiore degli impostori. Non avevano motivi sufficienti per dubitare? Sulla tomba i loro cuori avevano già scritto la parola “fine”. Ma poi arriveranno ad arrendersi al Risorto.
Ciò che li schioda dai loro dubbi non sono tanto le prove; le prove non bastano mai. Ciò che fa superare il dubbio è l’esperienza dell’incontro con Gesù. L’incontro, più che “verificarlo”, lo “vivi”. Ti coinvolge. L’incontro appartiene all’esperienza: sono coinvolti pensieri, sentimenti, sguardi, passi concreti, parole, silenzi… Quando Gesù – otto giorni dopo – invita Tommaso a non essere incredulo, non pretende l’assenza completa del travaglio. Gli chiede solo di lasciarsi andare, di sciogliere gli ormeggi, di “abbandonarsi”.
A volte – permettete la confidenza – sussurro a me stesso: allorché ho creduto, mi è forse mancato qualcosa? Nulla! E voi, che ne dite?
Mi rivolgo a voi giovani presenti, a voi che avete di fronte le grandi scelte della vita: che cosa vi trattiene dal pronunciare il vostro “sì” al Signore che dolcemente vi invita?
Il restare senza amore? “Senza amore non si può vivere”. Avete ragione, ma qui c’è l’Amore stesso che si concede, con la promessa di una comunità dove si sperimenta d’essere «un cuor solo ed un’anima sola, dove nessuno considera suo quello che gli appartiene, ma tutto è comune» (cfr. At 4,32). Chi è con Dio vince il mondo; e questa è la vittoria che vince il mondo: la nostra fede.
A Francesca viene consegnato il velo, segno di consacrazione e di esclusiva appartenenza al Signore; il Signore non ammette altri pretendenti.
Il significato del velo è evidente. Santa Gertrude si preparava a riceverlo con queste parole: “O mio diletto, fammi riposare all’ombra della tua carità… lì riceverò dalle tue mani il velo della purezza…”. Sublime vocazione. La consacrata nella verginità vuole essere tutta di Cristo, si sottrae allo sguardo di altri possibili pretendenti e amanti. Vive nel chiostro – sulla rupe – per essere sempre sotto lo sguardo del suo sposo e piacere a lui solo. Il velo è una specie di clausura nella clausura. Non ha nulla di opprimente. È molto amato dalle nostre sorelle e devotamente portato. Lo baciano quando l’indossano e quando lo tolgono.
Il velo è anche il segno del pudore che la protegge per il suo sposo: «Quanto sei bella, amata mia, quanto sei bella! Gli occhi tuoi sono colombe, dietro il tuo velo… Giardino chiuso tu sei, sorella mia, mia sposa, sorgente chiusa, fontana sigillata» (Cant 4,1.12): ammirazione e commosso stupore dello sposo davanti alla promessa sposa tutta raccolta e rivestita di umile e delicato riserbo.
Alla sensibilità del nostro tempo non è facile comprendere questa consuetudine monastica. Il velo appare piuttosto come segno della sottomissione. Ma la monaca vive in modo sublime un mistero nuziale e materno sul piano soprannaturale. Il velo indica la generosità e l’intensità con cui fa dono di se stessa a Dio per tutti, rimanendo nascosta – sì – per essere di tutti. È come se il Cielo si curvasse su di lei per avvolgerla nell’intimità del cuore di Cristo. A somiglianza della Vergine e Madre di Dio vive le parole dell’angelo: «Lo Spirito Santo scenderà su di te, su te stenderà la sua ombra» (Lc 1,35).
Il velo è testimonianza (martirio), perché segno di una vita interamente donata, ma anche segno regale perché la Vergine è sposa del Re, da lui coronata, avvolta nel suo manto.
Nella tradizione Maria è sempre raffigurata col velo, spesso un velo che scende lungo tutta la sua persona e avvolge il Figlio e tutti noi suoi figli.
Suor Francesca portaci nella tua preghiera.

Omelia S. Messa in suffragio delle vittime della strage del 1944

Omelia di S.E. Mons. Andrea Turazzi
Fragheto, 11 aprile 2015
 
Mc 16, 9-15
 

Secondo molti esegeti la pericope del Vangelo che abbiamo appena ascoltata con i 5 versetti seguenti sarebbe un riassunto che chiude il Vangelo di Marco. Senza questa finale aggiunta redazionalmente, il Vangelo si chiuderebbe al versetto 8 che suona così: «Ed esse (le donne), uscite, fuggirono via dal sepolcro perché erano piene di timore e di spavento. E non dissero niente a nessuno, perché avevano paura». Modo un po’ strano di chiudere! Chi avrebbe l’ardire di proclamare una buona novella così?
Che contraddizione! Ma è attraverso queste contraddizioni del testo biblico che ci è dato toccare con mano il vissuto dei primi discepoli. L’esperienza di Dio si trasmette attraverso il mezzo umano del nostro linguaggio: questo ci fa coraggio. Quante volte, anche noi, facciamo fatica a testimoniare la nostra fede, a proclamare i nostri valori… Ma il comando di Gesù è chiaro: «Andate in tutto il mondo e predicate il Vangelo ad ogni creatura».
Gesù non insiste sul fatto che dubitano. Parte direttamente con la controffensiva e li manda a proclamare la Buona Novella. Resta vero – come già annotato – che questo finale di Marco è un riassunto redazionale ultracondensato che salta a piè pari cose importanti. Ma è assai istruttivo: suggerisce di non indugiare troppo sui dubbi e che il modo migliore per uscirne è “passare all’azione”. L’azione viene in soccorso al dubbio.
Permettete un’applicazione a quanto stiamo vivendo e commemorando qui a Fragheto: la strage di 71 anni fa. Guai dimenticare. Ma è necessario anche buttarsi nel presente per rilanciare valori positivi. Passare all’azione. Il Vangelo, come i valori che vogliamo trasmettere, sono esigenti. Ci chiedono di essere coerenti.
Passo all’azione. Cerco notizie sulla strage di Fragheto. Trovo una testimonianza che mi risulta essere un inedito scritto nel registro dei battesimi di questa parrocchia dal parroco di allora, don Adolfo Bernardi.
Ve lo leggo: “Il 7 aprile 1944 (Venerdì Santo) la parrocchia di Fragheto ebbe il suo calvario. Durante la notte precedente, un reparto di partigiani, avuto sentore di un rastrellamento della zona da parte di truppe tedesche e neo-fasciste che avevano già bloccate le principali arterie di comunicazione, si era spostato dalle Balze a Fragheto, allo scopo di meglio occultarsi o difendersi. Il loro numero si sarà aggirato dai duecento ai trecento. Stettero tutta la notte e la mattina nascosti nelle case e mandarono pattuglie a perlustrare la zona. Verso le 10 del mattino, una pattuglia riferì di aver avvistato una sessantina di armati tedeschi o fascisti nella zona della chiesa “Madonna del Piano”. I comandanti, dopo breve consultazione fra loro, decisero di attaccarli e partirono immediatamente e si trincerarono lungo la cresta di Valbona fra Calanco e Fragheto, fino a Monte Castello. Cominciò subito la sparatoria, e i tedeschi, in numero di circa un migliaio, reagirono vivamente dalla Zonga e da Calanco. I partigiani esaurirono presto le munizioni, e si ritirarono, nascondendosi nei boschi. I tedeschi avanzarono su Fragheto e compirono feroce rappresaglia sulla borgata, uccidendo tutti i civili che vi trovarono (30) e bruciando le case. Anche l’archivio parrocchiale andò tutto distrutto. Il sottoscritto Parroco fu catturato a Calanco e portato a Meldola, e rilasciato solo dopo 15 giorni, colla severa proibizione di tornare a Fragheto. Potè tornarvi solo in Settembre (1944), quando si ritirarono le truppe tedesche verso nord. Nel frattempo prestò servizio religioso a Fragheto il fratello del Parroco, d. Gaetano Bernardi che era allora parroco di Montefotogno, mentre il sottoscritto sostituiva lui prestando servizio a Montefotogno e a Tausano. In quel periodo a Fragheto vi furono due nascite, e cioè Longhi Rosanna di Domenico (Alipio) e Mastini Maffalda (Zonga) nata il 10 aprile 1944 e battezzata alle Capanne di Verghereto, e Gabrielli Ulda battezzata a Fragheto, di cui si riporta l’atto di Battesimo in fondo a questa pagina, ed è il primo atto di questo nuovo registro. Fragheto, 2 ottobre 1944”.
È la testimonianza di un prete cattolico. In nome suo e in nome della comunità cristiana sento che è tempo di “passare all’azione” e al perdono. Perdonare non significa chiudere gli occhi di fronte al male quasi non esistesse o dare il “colpo di spugna”. Perdonare è passare all’azione! Andare avanti. Praticare ascesi per migliorare noi stessi, per migliorare la società. Dio ci aiuti.

Omelia Venerdì Santo

Omelia di S.E. Mons. Andrea Turazzi
Cattedrale di Pennabilli, 3 aprile 2015

Is 52,13- 53,12
Sal 30
Eb 4,14-16; 5,7-9
Gv 18,1- 19,42

È la croce che stasera ci parla. Ascoltiamola. «Difficilmente un artigiano o un orafo antico riuscirebbe a dominare la repulsione di fronte al vostro uso di riprodurmi come ornamento da appendere al collo, da piantare in cima ai monti, da fissare alle pareti di casa… Ero uno strumento di supplizio orribile e raccapricciante. San Paolo non ha esagerato nel qualificare Cristo crocifisso scandalo per i Giudei, follia per i pagani (1Cor 1,23).
Un inciso, probabilmente utile… questa era la prassi della crocifissione. Giunto sul luogo del supplizio, vicino al palo già piantato in terra, il condannato veniva spogliato delle sue vesti e poi disteso a terra supinamente in modo che sotto di sé, lungo le spalle e le braccia aperte, avesse il palo orizzontale, da lui portato. In tale posizione le mani venivano inchiodate al palo. Per mezzo di una fune che lo recingeva al petto, il condannato veniva elevato sul palo verticale. Infine si inchiodavano i piedi. Ridotto in tale stato il crocifisso aspettava la morte. Questa la prassi ordinaria seguita per tutte le crocifissioni. E così fu crocifisso Gesù.
Ma il supplizio accettato da Gesù ha subìto una straordinaria trasfigurazione. A salvarvi non fu il dolore, né lo strazio delle membra. A salvarvi fu l’amore. E io – dice la croce – ne sono testimone. La fede pasquale ha saputo suggerire metafore tali da mutare il mio aspetto. Chiunque di voi è impegnato a trasformare il dolore con l’amore, comprenderà.
Sono diventata – continua la croce – un trofeo di vittoria e trono regale. Su di me si è consumato un duello all’ultimo sangue: l’autore della vita ha sfidato la morte. «Avvenne allora che la morte si avvicinasse a Gesù per divorarlo… Non si accorse però che nel frutto mortale che mangiava, era nascosta la vita. Fu questa che causò la fine dell’incauta divoratrice» (Sant’Efrem, Discorso sul Signore, 3-4.9). Sono trofeo di vittoria non perché destinata ai vessilli di guerra, ma perché su di me s’è celebrata la vittoria: “Chi dall’albero traeva vittoria, cioè l’antico tentatore e nemico dell’uomo, dall’albero veniva sconfitto (cfr. Messale Romano, Prefazio per la Festa dell’Esaltazione della croce). Il primo albero coi suoi frutti ingannevoli portò alla ribellione, io – secondo albero, la croce –  ti mostro l’umiltà di Dio che si fa samaritano dell’uomo. Prima veniste uccisi dal legno, ora attraverso le mie braccia recuperate la vita. Vi invito a salire su di me come i figli di Noè sull’Arca. Ho il potere di galleggiare e condurvi in salvo verso il porto sospirato. Al mio passaggio le acqua mare diventano dolci.
Sono trono. Su questo legno Gesù è salito come un re sul carro trionfale, come un valoroso combattente. Venne ferito in battaglia, alle mani, ai piedi e al costato, ma con quel sangue risana. L’onnipotenza divina si è data nella forma della debolezza. Regnavit a ligno Deus: canta un antico inno.
Avvicinatevi senza paura, sono altare. Su di me si immola la vittima, l’Agnello del vostro riscatto. Gesù inchiodato su di me muore per voi, cioè a causa di voi, al posto di voi, a vostro vantaggio. Il dramma che si consuma su di me è una liturgia. Ironia: gli attrezzi che servono alla crocifissione, alla cui vista si inorridisce, sono gli strumenti di una divina liturgia. Il sangue è l’acqua che escono dal corpo del Signore e mi bagnano, scorrono come il torrente che il profeta Ezechiele vide sgorgare dal lato destro del tempio per portare vita a tutti coloro che l’onda lambisce (cfr. Ez 47, 1; Ap 22, 1-2).
Inaudito. Sono letto nuziale sul quale il Signore, spogliato delle sue vesti, si distende per darsi alla sua sposa. Un antico inno mi descrive: “Morbido tronco che accoglie le membra del Cristo Signore” (cfr. Inno Vexilla regis). Trasmetto a voi – dice la croce – il sublime invito del Signore: «Vedete, vedete in me il vostro corpo, le vostre membra, il vostro cuore, le vostre ossa, il vostro sangue. E se temete ciò che è di Dio, perché non amate almeno ciò che è vostro? Ma forse vi copre di confusione la gravità ciò che mi avete inflitto. Non abbiate timore. Questa croce non è un pungiglione per me, ma per la morte. Questi chiodi non mi procurano tanto dolore, quanto imprimono più profondamente in me l’amore verso di voi. Queste ferite non mi fanno gemere, ma piuttosto introducono voi nel mio interno IL mio corpo disteso anziché accrescere la pena allarga gli spazi del cuore per accogliervi. Il mio sangue non è perduto per me, ma è donato in riscatto per voi. Venite dunque». (Dal Discorso 108 di San Pier Crisologo). “Ecco il legno della Croce, venite adoriamo”.

Omelia del Giovedì Santo

Omelia di S.E. Mons. Andrea Turazzi
Cattedrale di Pennabilli, 2 aprile 2015
 
Es 12,1-8.11-14
Sal 115
1Cor 11,23-26
Gv 13,1-15
I nostri sguardi questa sera sono puntati sull’altare. Cediamo la parola all’altare. Ascoltiamone le suggestioni. Parli lui. L’altare sta al centro dell’aula sacra, la Cattedrale, leggermente sopraelevato, ma non troppo per non apparire inaccessibile. Un sussurro. Sentite: Togliti i sandali dai piedi perché il luogo sul quale tu stai è terra santa! (Es 3,5).
Ti trovi all’imboccatura della cavità di una rupe dove lo splendore della gloria del Signore passa mentre tu sei protetto dalla sua mano perché non puoi vedere il suo volto e restare vivo. Ecco un luogo a me vicino… (Es 33,21). Passando – dice il Signore – proclamerò il mio nome: Signore, davanti a te. Farò grazia a chi vorrò fare grazia (Es 33,19).
L’altare è la fenditura della roccia dalla quale scaturiscono torrenti di acqua viva per noi popolo incamminato nel deserto di questo mondo (cfr. Es 17, 6), prefigurazione del cuore squarciato che effonde lo Spirito (cfr. Gv 19,34). La fenditura nella roccia, nella trasfigurazione innamorata del Cantico dei Cantici, è il luogo nel quale la colomba è invitata ad uscire per l’incontro con l’amante (cfr. Cant 2,14).
Quante luci, quante voci, quante suggestioni attorno a questo altare. Ma siamo anche avvertiti da Gesù: Se dunque porti la tua offerta all’altare e lì ti ricordi che tuo fratello ha qualche cosa contro di te, lascia lì il tuo dono davanti all’altare e va prima a riconciliarti… (Mt 5, 23-24). Sarebbe mistica vana e ingannatrice quella che distogliesse dalle responsabilità.
Davanti all’altare timore e tremore… (cfr. Fil 2,12)

L’altare è il luogo della nostra fraterna riunione. Qui Gesù ci dà immancabilmente appuntamento: Venite, vedrete (Gv 1, 39). Chi ha sete venga a me e beva (Gv 7,37). O voi tutti assetati, venite all’acqua, chi non ha denaro venga ugualmente (Is 55,1), cioè senza il vanto dei meriti. In tante occasioni Gesù ha voluto significare con la convivialità il segno del Regno di Dio che viene. Convivialità da cui non esclude i peccatori per festeggiare il loro ritorno o per favorirlo. E’ il caso di Levi Matteo passato in un istante dal banco dei suoi traffici alla tavola con Gesù (cfr. Mc 2,13-15). Così Zaccheo e tanti altri.
Gesù si mise a tavola con i suoi…
C’è prossimità in questo flash, c’è intimità, c’è amicizia. Ci sono parole sussurrate, inaudite dichiarazioni d’amore: Prendete e mangiate… prendete e bevete. Attorno alla tavola quella sera ci fu trasalimento, si incrociarono sguardi stupefatti, poi pieni d’amore, come i nostri di questa sera. Il prediletto – è celato il nome: potrebbe essere ciascuno di noi venuto alla santa cena – adagia il suo capo sul petto di Gesù (cfr. Gv 13,25). Dall’altare di marmo all’altare incandescente d’amore, altare di carne, vivo e palpitante.
Attorno all’altare con audacia.

L’altare è dunque un’ara dove Gesù si dà, si fa pasto, agnello immolato. Nel marmo, incastonate, sono conservate le reliquie dei martiri: i cristiani che hanno corrisposto a tanto amore con il loro amore, hanno dato la vita per Gesù. Chi sta alla tavola di Gesù, impara a fare della sua vita un dono.
L’altare è una tavola. Verrà apparecchiata. C’è chi dispone fiori e luci, chi distende tovaglie, chi sparge profumi e incenso. Ci sono ministri e c’è il sacerdote che agisce “in persona Christi”. Ahimè ci sono anche da noi altari senza tovaglie, senza fiori, disadorni e coperti di polvere. Altari attorno ai quali non ci sono più chierichetti, né canti, né luci. Altari sui quali da anni non sale più il sacerdote. Senza Eucaristia non c’è Chiesa. Ma più della scarsità dei sacerdoti vorrei parlare della bellezza dell’essere sacerdote, di avere un chiamato al sacerdozio nella nostra famiglia.
Attorno alla tavola c’è il futuro: il nostro riunirci è prefigurazione dell’unità dei figli di Dio. In forma stilizzata è anticipato il nostro destino: diventare famiglia dei figli di Dio.
L’altare, uno squarcio sul futuro.

Siamo qui attorno all’altare come peccatori, ma in via di conversione. Con il fardello delle nostre fatiche e delle nostre relazioni non sempre facili, ma qui siamo da riconciliati. Ecco il segno commovente della lavanda dei piedi. Il Signore desidera che saliamo l’altare purificati. Non sentiamoci umiliati dall’invito alla confessione delle nostre colpe. Più umiliante sarebbe dichiararci irresponsabili del peccato.
Altare, luogo della gelosia del Signore: ci vuole fedeli ogni domenica all’appuntamento. Non per precetto, ma per amore. Ci vuole con l’animo aperto e disponibile al comandamento nuovo. Così sia.

Omelia S. Messa Crismale

Omelia S.E. Mons. Andrea Turazzi

Cattedrale di Pennabilli, 2 aprile 2015
 
Is 61,1-3.6.8-9
Sal 88
Ap 1,5-8
Lc 4,16-21

Fratelli carissimi, eccoci a celebrare la comunione del nostro sacerdozio, la comunione tra noi, la comunione con Cristo! È una liturgia speciale che ci vede tutti riuniti per la rinnovazione degli oli dei Sacramenti di salvezza – per la rinnovazione delle promesse sacerdotali – per la rinnovazione della nostra alleanza con Cristo.

Il Vangelo – quel brano di Luca che abbiamo tante volte meditato – ci vuole a confronto con Cristo.
Consideriamo un attimo la centralità del Vangelo (cfr. la mia Lettera pasquale).
Il tempio gli riserva una vera e propria mensa (l’ambone) accanto a quella eucaristica: la duplice mensa della Parola e del Pane! (cfr. SC 7)
La liturgia poi ci educa alla venerazione e adorazione del Vangelo: l’incensazione, il bacio, le acclamazioni del popolo che sembrano scavalcare gli inviti del ministro e lo salutano come Cristo stesso: «Gloria a te, o Signore… lode a te, o Cristo».
Lo sappiamo bene: il Vangelo è luogo, come tutta la Scrittura, di una presenza di Cristo.
Egli: «È presente nella sua parola, poiché è lui che parla quando nella Chiesa si legge la Sacra Scrittura» (cfr. DV 18).
Dunque, nel Vangelo cerchi e trovi Cristo.

Il Vangelo di oggi ci offre Cristo come modello del sacerdote, modello dell’opera sacerdotale, modello della vita sacerdotale.
Guardiamo a lui, confrontiamoci con lui, esaminiamo la nostra condotta se assomiglia alla sua e rinnoviamo con slancio – come la prima volta – le promesse sacerdotali, promessa di lasciarlo agire in noi liberamente e totalmente.
È il ministero stesso (responsabilità che abbiamo assunto davanti a Dio e al suo popolo) che esige consonanza perfetta della nostra mente, del nostro cuore, dei nostri sentimenti e dei nostri atti, della nostra persona con la sua.
È San Paolo che ha “inventato” e fatta sua la bella formula: «In persona Christi» (2Cor 2,10). Noi operiamo “in persona Christi”, immersi in lui, dotati della sua potestà, colmati dei doni della sua verità, del suo amore, della sua misericordia e noi viviamo – sarebbe bello esserne sempre consapevoli – “in persona Christi”.
Noi non finiremo di approfondire questa pagine, di imparare questo Cristo!

Sottolineo anzitutto l’importanza del brano di Luca che abbiamo sentito proclamare. L’importanza è data dalla sua posizione nella struttura del Vangelo. Dopo il Vangelo dell’infanzia e dopo il trittico (comune ai sinottici) della predicazione del Battista, del Battesimo di Gesù e delle tentazioni del Signore nel deserto, Luca ci presenta, all’inizio dell’attività di Gesù, l’episodio della sinagoga di Nazaret. Gesù entra in scena sotto l’azione dello Spirito Santo. Notare poi la conclusione che fa vedere tutto un susseguirsi di atteggiamenti entusiastici, provocatori, ostili, minacciosi nella folla, e in Gesù un temperamento e un carattere calmi, sicuri, vittoriosi. Forse Luca raccoglie qui insieme diversi episodi accaduti nella sinagoga di Nazaret. Ma l’importanza del brano è che è posto all’inizio dell’attività di Gesù come un fatto paradigmatico, esemplificativo a tutta la missione di Gesù.
Una missione che comincia con gli applausi, che poi si incrina con le contestazioni dei nazaretani e termina con il tentativo di omicidio. Ma Gesù se ne andrà libero, passando in mezzo a tutti (cfr. Lc 4,30).

Principali ricchezze del brano. Anzitutto scrive il testo: «Si recò a Nazaret dove era stato allevato» (Lc 4, 16). Gesù ritorna ai luoghi dell’infanzia, della giovinezza, della formazione ricevuta in famiglia, da Maria, da Giuseppe. Un invito per noi a tornare alle sorgenti della nostra formazione: famiglia, parrocchia, seminario. A tante e dolci immagini paterne; ai primi puri, gioiosi, segreti e comunitari incontri con il Signore, la sua dottrina, la sua bontà, la sua amicizia.

E poi: «Entrò secondo il suo solito, di sabato, nella sinagoga e si alzò a leggere… » (Lc 4,16). Un Gesù che entra decisamente nella comunità, che prende l’iniziativa, che mostra i risultati umani della sua formazione: umanamente maturo, completo, perfetto. Un invito per noi a considerarci uomini pubblici, a farci avanti, a muoverci, come più volte dicono degli apostoli gli Atti e le Lettere di San Paolo, con coraggio, parresia, senza paura… a proclamare il Vangelo.

Ed ancora: «Si alzò a leggere. Gli fu dato il rotolo del profeta Isaia; apertolo trovò il passo dove era scritto… Poi arrotolò il volume, lo consegnò all’inserviente e sedette» (Lc 4, 16.17.20). Possiamo ammirare in tutto questo la ritualità, la signorilità, lo stile, il rispetto, la devozione di Gesù: «Si alzògli fu datoarrotolòconsegnòsedette». Cinque verbi! Tutto quello che fa di Gesù ciò che oggi si direbbe un maestro nella celebrazione, nell’arte del celebrare. Invito per noi al senso del sacro, all’osservanza delle norme, ad insegnare con le nostre celebrazioni.

Gesù legge la Scrittura, legge la pericope fissata per quel giorno: «Lo Spirito del Signore è su di me…». Sottolineo l’amore alla Sacra Scrittura, l’amore alla Parola di Dio. La prima predica di Gesù in Luca non è fatta con parole proprie, ma con la Parola di Dio. Gesù la proclama. La esalta. La premette ad ogni sua considerazione.
Invito, anche questo, per noi, a predicare la Parola, ad essere come i primi apostoli, servitori della Parola, a leggervi tutto, a trovarvi tutto. Ad amarla, a farla amare. Poi faremo sorgere in essa Gesù. Perché Gesù è la Parola, il Verbo.

E la pagina continua: «E gli occhi di tutti erano su di lui…». È un particolare stupendo. Può significare la trepidazione dei paesani, la loro ansia, il loro orgoglio, la curiosità forse… Ma dice certamente l’attesa. Quanta attesa e quante attese nei confronti di Gesù che già iniziava a fare miracoli. Pensiamo noi pure alla nostra prima Messa, alle primizie del nostro servizio ecclesiale. Quante attese anche per noi. Come per Giovanni Battista, tanti si saranno domandati: “Che sarà di questo ragazzo? Di questo nuovo sacerdote?”(cfr. Lc 1,66). Con la nostra vita abbiamo risposto? Abbiamo deluso?

E il Vangelo di oggi conclude: «Allora cominciò a dire: “Oggi si è adempiuta questa Scrittura che voi avete udito con i vostri orecchi…”».
Ecco il tema, ecco il riassunto della spiegazione data da Gesù. Egli si mostra compimento delle Scritture e delle profezie. È il Messia, uomo dello Spirito e dei tempi ultimi, i tempi nuovi. E noi? Possiamo almeno balbettare qualcosa di simile? Siamo un Vangelo vivente? Rendiamo testimonianza con la nostra esistenza? Col nostro stile di vita? Chi ci guarda cosa legge nella nostra condotta?
Impariamo da Gesù: modello del sacerdote, modello dell’opera sacerdotale, modello della vita sacerdotale.

Omelia per l’Insediamento dei nuovi Capitani Reggenti

Omelia di S.E. Mons. Andrea Turazzi

Basilica del Santo Marino, 1 aprile 2015

Eccellenze,
Signore, Signori, fratelli e sorelle,
Gesù ha dichiarato il suo ardente desiderio di fare Pasqua. Nel parallelo di Luca il desiderio viene espresso con una forma particolare: «Desiderio desideravi» (Lc 22,15). E di rincalzo gli apostoli, amici intimi: «Dove vuoi che ti prepariamo?» (Mt 26,17). Quanta attenzione per il Maestro, quanta premura, quanta sollecitudine. Ad un desiderio, subito una disponibilità… Normalmente nei rapporti funziona così, quando le relazioni sono autentiche e nella verità. Ci si fida.
Ci può essere – e c’è – l’imprevisto, l’incidente. Nel caso di Gesù e del gruppo degli apostoli c’è Giuda! Egli tradisce la fiducia. Tra gli intimi è uno dei più intimi: attinge la mano nel piatto stesso di Gesù. Con lui siamo al primo atto della tragedia. «Colui che mangia il pane con me alza il suo calcagno contro di me» (Sal 41,10 – citato in Gv 13,18). Per spiegare meglio lo sconcerto provato da Gesù ricorro ad un fatto di cronaca che, in questi giorni, ci ha lasciato attoniti. La tragedia del volo Germawings ha prodotto qualcosa di simile all’incrinatura sul pavimento o nel terreno sul quale camminiamo e che siamo abituati a considerare solido e stabile. Fuori di metafora, quel terreno è la fiducia collettiva che, fin da bambini, siamo chiamati ad avere nel prossimo. E non solo in chi ci vuole bene. Ogni gesto, dal più elementare che compiamo ogni mattina, è possibile solo dentro questa fiducia nell’altro. Sì, la nostra vita è fondata su una profonda fiducia: che tutti, benché diversi o magari divisi e avversari, si tenda ad un bene comune.
Non possiamo smettere di fidarci.
È proprio del nostro DNA il mettere la vita nelle mani del prossimo e, a nostra volta, di essere custodi della loro. Smettere di fidarsi, è come smettere di respirare.
Abbiamo questa legge scritta dentro: è già nel riflesso spontaneo, naturale, con cui il neonato stringe forte il dito che gli offriamo. Eppure nessuno può garantirci che sia sempre così.
E allora c’è chi non ci pensa. C’è chi trova modo di distrarsi. C’è chi confida nella fortuna. C’è – persino – chi si affida all’oroscopo!
I cristiani sanno che occorre fidarsi nonostante tutto e – aggiungo – affidarsi. Affidarsi a chi?
Sanno bene che nemmeno la prossima mattina è garantita e che è stato scritto: «Nessuno conosce il giorno e l’ora». E tuttavia i cristiani non vivono nella paura: certi di non essere atomi smarriti nell’universo, certi di non essere cose da nulla. Sanno di essere figli. Questo è il fondamento dell’antropologia cristiana. Così Gesù sta sulla scena di quell’ultima cena, quando sopraggiunge la sera (cfr. Mt 26,20). Gli eventi precipitano, ma lui li signoreggia. Si affida al padre. È lui che ha insegnato la preghiera del Padre Nostro, preghiera dell’abbandono fiducioso: sia fatta la tua volontà. Certezza di un Dio buono che conosce tutti, per nome, uno ad uno.
Gesù, gli apostoli, Giuda…
Signore, dacci il coraggio di fidarci dell’altro, nonostante tutto; di correre il rischio di vivere in pienezza.
Signore, veglia su ciascuno di noi perché non tradiamo la fiducia riposta in noi.
Come ci ricorda con la sua testimonianza il santo fondatore di questa antica e nobile Repubblica: l’autorità è servizio e il buon esempio il suo primo corollario.
Santo Marino prega per noi!

Omelia Domenica delle Palme

Omelia di S.E.Mons. Andrea Turazzi
Cattedrale di Pennabilli, 29 Marzo 2015

Is 50,4-7
Sal 21
Fil 2,6-11
Mc 14,1-15,47

Siamo di fronte al “libro aperto” nel quale Dio ha detto e dice tutto di sé. Quel libro scritto a caratteri di sangue è il Crocifisso. San Giovanni della Croce nella sua opera: “La salita al monte Carmelo” risponde a chi chiede perché mai Dio non si manifesti più come nell’antichità con sogni e visioni: “Perché nel suo Figlio crocifisso ha detto tutto. Non ha più nulla da aggiungere” (cfr. Salita al monte Carmelo  1, 21). Abbiamo letto la Passione secondo Marco. Gesù, in tutto il Vangelo di Marco, viene presentato come un mistero, un enigma. Tutti si chiedono: «Chi è mai costui?». Lo stesso Gesù chiede: «La gente chi dice che io sia?» (cfr. Mc 8, 27). Per i famigliari è un pazzo, «fuori di sé» (Mc 3,21). Per le autorità un indemoniato (cfr. Mc 3,22). Per il popolo un guaritore. Risposte false o insufficienti. I discepoli intuiscono qualcosa di più: «Tu sei il Messia» (Mc 8,29), ma lo fraintendono in senso politico. Solo alla Passione il velo si squarcia (cfr. Mc 15,38). Alla domanda del sommo sacerdote: «Sei tu il Cristo, il figlio di Dio benedetto?» (Mc 14,61). Gesù risponde: «Io lo sono!». Quest’uomo sofferente, abbandonato dai suoi, processato dalle autorità come un criminale, irriso dalla folla per la sua impotenza a salvarsi, che grida a Dio la sua angoscia, quest’uomo è il Figlio di Dio!
In quest’ora in cui Gesù non può più fare miracoli, né predicare, né mostrarsi autorevole, Gesù è davvero il Messia. Con l’intero vangelo e, in particolare, con il racconto della Passione. Marco ci avverte che finché vediamo in Gesù il Messia terreno da cui attendersi salute, fortuna, successo, ne saremo delusi, finiremo per voltargli le spalle come i discepoli. Ma se, al contrario, sapremo accettare lo scandalo della croce, allora incontreremo il Salvatore anche nella esperienza ripugnante della malattia, dell’abbandono, del fallimento. Se ascoltiamo la Passione solo con un sentimento umano proveremo un senso di disgusto per una morte così ingiusta, ma se contempliamo il Crocifisso con fede scopriremo in lui la suprema rivelazione dell’amore, fino a confessare, come il centurione romano: «Veramente quest’uomo era Figlio di Dio!» (Mc 15,39). In quella morte ha visto Dio. «Scendi dalla croce» (Mt 27,40), gridavano gli altri. Ma se scende non è Dio, è ancora logica umana che vince, è quella del più forte. Solo un Dio è capace di non scendere dalla croce. Gesù si consegna con sentimenti di infinito amore. È la meditazione credente della Passione. Non capiremo mai sino in fondo…“È troppo!”.
Ma Gesù è venuto perché ci aggrappassimo alla sua croce, lasciandoci sollevare da lui.
Ogni grido, ogni abbandono può sembrare una sconfitta, ma se messo nelle sue mani ha il potere di far tremare la pietra di ogni nostro sepolcro.