Omelia della XXV Domenica del Tempo Ordinario

Omelia di S.E. Mons. Andrea Turazzi

Falciano (RSM), 20 settembre 2015

Sap 2,12.17-20
Sal 53
Giac 3,16-4,3
Mc 9,30-37

Gesù sta annunciando sommessamente, ma con schiettezza, il suo destino agli amici più cari, ma l’annuncio rimbalza come su un muro di gomma. Quegli amici, infatti, sono alle prese con le loro beghe: precedenze, carriera, classifiche: Chi è il più grande tra noi? Si aspettano allora che Gesù li sgridi. E invece Gesù non solo non proibisce né demonizza il desiderio di voler essere “il primo”, ma lo incoraggia. Solo rivela una via nuova e diversa per realizzarlo: non a spese degli altri, ma a favore degli altri: Se uno vuole essere il primo, sia l’ultimo e il servo di tutti. E Gesù dà un esempio: compie un gesto di sorprendente tenerezza e di delicata pedagogia. Mette un bambino nel mezzo, lo abbraccia e – possiamo immaginare – gioca con lui: “tutto il Vangelo racchiuso in un abbraccio” (E. Ronchi).
Pagina provvidenziale per l’inizio della vita pastorale in diocesi, nelle parrocchie, nei gruppi, dopo l’estate. In altra pagina del Vangelo – l’abbiamo letta nella settimana scorsa – troviamo Gesù, ancora una volta, alle prese con i bambini: li osserva attentamente mentre giocano sulla piazza e paragona i suoi ascoltatori a quei ragazzi che non si lasciano coinvolgere nel gioco dei coetanei. Mancano di accoglienza e disponibilità.
E noi siamo accoglienti? Partecipiamo al “gioco” che impegna la comunità o preferiamo starcene neghittosamente ai “bordi del campo” a guardare e, Dio non voglia, a criticare? La diocesi ogni anno aggiorna il suo programma, collega le iniziative ad un tema, ripropone cose di sempre e cose nuove. Anche se non è possibile prendere parte ad ogni proposta, portiamo tutto nel cuore e nella preghiera. Intanto facciamo il punto sulla nostra disponibilità all’accoglienza. Sono ormai trascorse un paio di settimane dopo l’invito di papa Francesco alle nostre comunità per farsi carico dei profughi: un movimento che di giorno in giorno si fa più travolgente, una questione che mette in crisi l’Europa. L’appello del papa ci ha scosso; ci si sta interrogando concretamente; si attendono linee d’orientamento.
Gesù ci chiama a “giocare” con lui, con lo slancio dei ragazzi. Giovanni, nel Prologo, annuncia che Dio: A quanti l’hanno accolto, ha dato il potere di diventare figli. E di loro, in un altro passo, viene detto che accogliendo i fratelli, hanno accolto degli angeli senza saperlo (cfr Eb 13,2).
L’accoglienza è un atteggiamento concreto fatto di ascolto attento a chi parla, di disponibilità a comprendere e, soprattutto, di servizio gratuito: «il tuo problema è il mio problema; mia la tua gioia, mio il tuo dolore; sono con te…». Un programma irraggiungibile? Ci aiutiamo. Una persona mi confidava la sua delusione per non essersi sentita accolta e capita, proprio in parrocchia, nella sua parrocchia. Ho provato a minimizzare quelle disattenzioni come “scivolate”, semplici cadute di stile. Ma nel cuore ho esclamato: «Mio Dio, che la parrocchia non diventi una pista di pattinaggio!!!».

Omelia della XXIV Domenica del Tempo Ordinario

Omelia di S.E. Mons. Andrea Turazzi

Borgo Maggiore (RSM), 13 settembre 2015

Is 50,5-9
Sal 114
Giac 2,14-18
Mc 8,27-35

La vostra parrocchia oggi festeggia san Giovanni Bosco. Nel preparare il commento al Vangelo mi sono messo nei suoi panni: come aggancerebbe l’attenzione dei presenti? Credo partirebbe dall’esperienza per condurre tutti, giovani e adulti, ad un rapporto sempre più personale con Gesù. Ci provo.
M’è capitato di sfiorare una coppia in un momento di alta tensione. Ad un certo punto, tra i due, è partita, come una schioppettata, una domanda: «Ma allora… chi sono io per te?». Ammetto che questa esperienza ha condizionato la mia meditazione su questo passo del Vangelo.
Con Gesù, solitamente, ho un rapporto confidenziale. Ma improvvisamente è sceso nell’anima un velo di imbarazzante soggezione. Mi sono sentito messo alle corde nuovamente da lui: «Chi sono io per te?».
Come interpretare la domanda? Minaccia? Protesta? Denuncia di un rapporto troppo abitudinario? Richiesta di un serio esame di coscienza? Ho trovato verità in ciascuna di queste possibili interpretazioni. Poi ho riletto con più umiltà. Dal contesto ho realizzato che Gesù non si accontenta delle frasi fatte o dei “si dice”. Figuriamoci poi dei sondaggi d’opinione! Che cosa dice la gente di me? Gesù pone, in realtà, una domanda molto personale che fa vivere la fede scuotendola dal suo torpore, una domanda che risveglia l’amore: Ma voi chi dite che io sia? Come se dicesse: «Io sono importante per te?». Constato e rispondo a mia volta: «Allora anch’io conto per te, Signore!».
Torno alla domanda di Gesù. Una domanda – ha scritto un commentatore – da custodire e da amare, perché il Signore (è una costante nei Vangeli) educa alla fede attraverso domande: tu, con il tuo cuore, la tua storia, il tuo peccato e la tua gioia, tu cosa dici di Gesù? (Faccio notare come Gesù risponde a chi gli chiede quale sia il comandamento più importante: ama – dice – con tutto il tuo cuore, con tutte le tue forze, etc., dove l’enfasi è sul possessivo “tuo”, “tue”, etc.). Mi passano davanti i volti di Zaccheo, Nicodemo, Maria di Magdala, del discepolo sordomuto, i volti dei Dodici…. Talvolta aiuto i partecipanti alla messa – soprattutto se ragazzi – nel fare il ringraziamento dopo la Comunione: suggerisco parole che chiamo la preghiera del nome. Consiste nell’immaginare che Gesù mi chiami personalmente per nome; qualche minuto dopo, immaginare che io chiami Gesù per nome. La Bibbia è piena dei nomi del Signore: pastore, sorgente, acqua viva, luce, via, verità, fuoco, amante, amico… La teologia ne ha esplorati tanti altri; meno metaforici e più astratti. Ma Gesù è curioso di sapere come io lo chiamo, adesso e quale sia il nome che viene dal profondo del mio vivere e del mio cercare.

Omelia della XXIII Domenica del Tempo Ordinario

Omelia di S.E. Mons. Andrea Turazzi
Santa Maria d’Antico, 6 settembre 2015

Is 35,4-7
Sal 145
Gc 2,1-5
Mc 7,31-37

Chiedo venia per il tono un po’ autobiografico e simbolico di questo commento al vangelo (un tono del genere lo si ritrova in alcuni commenti patristici ben più autorevoli). Tuttavia più di un ascoltatore si ritroverà nella mia esperienza…
Ho trovato in questa pagina di vangelo l’antidoto per la mia povertà di parola: consiste nell’avere un cuore che sa ascoltare: lo chiedo al Signore. A volte, infatti, faccio l’esperienza di non sapere che cosa dire. Non solo al microfono, ma anche nei colloqui confidenziali. Sono un po’ come il sordomuto: non parlo perché non “sento”, non ascolto col cuore. C’è silenzio e silenzio… Qui alludo al silenzio imbarazzato e troppo presto riempito da “parole di circostanza” allorché non so fare “il vuoto” e non so entrare nel mondo dell’altro. “Non c’è tempo”, “ho in testa altro”… scuse! Gesù guarisce il sordomuto. Fa così: lo porta fuori dalla folla e dalla confusione. Stabilisce un rapporto personale, a tu per tu. Gli accarezza orecchi e bocca. Tutto avviene con un contatto corporeo: il Vangelo parla di saliva, dita della mano, orecchi, bocca… C’è un coinvolgimento empatico: sospiro, sguardo verso l’alto, grido. «Effatà!»: non è una formula magica come fa pensare il suono misterioso della parola, ma trascrizione dell’imperativo aramaico: «apriti!». L’effetto è immediato. Quell’uomo si mette a parlare correttamente. E’ stato restituito alla relazione. Gesù ha debellato una patologia, ma soprattutto ha abilitato un discepolo alla comunicazione, insegnandogli i passaggi necessari per il cammino più importante della vita. Di quel sordomuto guarito non si è saputo più nulla: non il nome, non la professione, non le frequentazioni. L’immagino, dopo quel fortunato incontro, uomo di rapporti profondi: Gesù gli ha insegnato ad ascoltare. Ad ascoltare col cuore. Lo penso desideroso di trattare gli altri come Gesù ha trattato lui. L’immagino missionario: capace di prendere la parola nella quotidiana trama dei rapporti e incapace di tacere davanti all’ingiustizia che colpisce i compagni di viaggio. L’immagino aperto: «Parla, sento!»… aperto verso il suo prossimo. Aperto verso il mistero di Dio che si è fatto visibile e corporeo in Gesù di Nazaret. Oso una domanda all’anonimo discepolo guarito: «Chissà com’era il sapore della saliva di Gesù…». Mi risponde sorridendo: «Quel sapore non l’ho più dimenticato, ma lo ritrovo ogni volta che mi accosto ai sacramenti. Soprattutto nel dolce sapore del Pane eucaristico».

 

Omelia XIX Domenica del Tempo Ordinario

Omelia di S.E. Mons. Andrea Turazzi

Dovadola (FO), 9 agosto 2015
Celebrazione in ricordo della Venerabile Benedetta Bianchi Porro

1Re 19,4-8
Sal 33
Ef 4,30-5,2
Gv 6,41-51

Stiamo leggendo un’altra pericope del lungo discorso sul pane della vita tenuto da Gesù nella sinagoga di Cafarnao (cfr. Gv 6). Gesù afferma chiaramente di essere il pane adatto e indispensabile per la fame dell’uomo. Una pretesa? Il pane che ha saziato i cinquemila è solo un segno della risposta alla nostra fame di senso, di futuro, di autenticità. Persino i vuoti di Dio (dubbi, inconsistenze, fragilità, peccati), se offerti umilmente come “ceste di fame” diventano vuoti per Dio che Gesù colma con sovrabbondanza (sono rimaste dodici ceste di pani avanzati!).
Ma gli ascoltatori sono scettici. Vedono Gesù come uno di loro, profeta – senza dubbio – dotato di poteri particolari (hanno assistito alla moltiplicazione dei pani), ma pur sempre un uomo. Ne conoscono le umili origini, il padre e la madre. Come può dire: Sono disceso dal cielo? Gesù tana il mormorio sommesso dei suoi ascoltatori: non mormorate, dice. La prima forma della mormorazione è il chiacchiericcio alle spalle di qualcuno come indisponibilità a fidarsi. Mormorazione (ed è quella cui fa riferimento l’evangelista) fu quella degli Ebrei nell’Esodo, scontenti persino del dono quotidiano della manna. Mormorazione è l’incredulità dei contemporanei di Gesù di fronte alla sua pretesa di venire dall’alto: una pretesa “eccessiva” a riscontro della sua così umile e normale condizione.
La manna è il dono di Dio che fa seguito alle proteste di un popolo dalla dura cervice; eppure questo dono ha permesso agli Ebrei di sopravvivere per quarant’anni nel deserto. Ma la manna non era che un’immagine del vero pane che viene dal cielo: dono totalmente gratuito di Dio. Questo pane è Gesù. Nutrirsi di questo pane vuol dire credere in lui, nutrirsi della sua Parola e della sua Eucaristia. Come la manna doveva essere raccolta e consumata in giornata, così ci è chiesto di nutrirci del pane di vita ogni giorno… anche nei giorni della vacanza!
Gesù sta parlando anche a noi ed alla nostra scarsa fiducia nel credere che lui veda, venga e possa cambiare le cose… Gesù invita alla fede: Credete in Dio e credete anche in me. Così dicendo, si colloca nell’ambito concreto della relazione e dell’amicizia, come facciamo anche noi quando, amando una persona, gli diciamo: io ti amo e so di amarti. Non ci sono prove “scientifiche”. Tutto si gioca sulla fiducia. La risposta di chi si fida è la gratitudine. Il salmo 32, che preghiamo nella liturgia di questa domenica, è uno stupendo rendimento di grazie sulle labbra di chi non è stato deluso. E’ la preghiera di un cuore colmo di Dio: Benedirò il Signore in ogni tempo, la sua lode per sempre sulle mie labbra… Gustate e vedete – continua – come è buono il Signore. È un invito a sperimentare il sapore di Dio attraverso la dolce energia che ci comunica, la pace che ci infonde. Affamati, siamo stati saziati. Saziati, gustiamo. Il Signore è buono! Buono come un pane fresco. Buono come un sorso d’acqua pulita. Buono come un’amicizia schietta e sicura.

Omelia XVIII Domenica del Tempo Ordinario

Omelia di S.E. Mons. Andrea Turazzi

Cattedrale di Pennabilli, 3 agosto 2015

Es 16,2-4.12-15
Sal 77
Ef 4,17.20-24
Gv 6,24-35

Sulle tracce di Gesù

Il Vangelo di questa domenica risponde in pieno alla nostra situazione di cercatori. Il racconto si apre con la descrizione della gente che va alla ricerca di Gesù. Si tratta di una vera e propria spedizione organizzata: una piccola flotta di barche affronta la traversata del lago.
La ricerca è l’atteggiamento tipico del discepolo.
Così fu per i primi. Gesù domandò: Cosa cercate? Maestro, dove abiti?, fu la loro risposta (Gv 1,30). Così a Maria di Magdala il mattino di Pasqua, davanti alla tomba vuota: Chi cerchi? (Gv 20,15). Al desiderio profondo che alberga in ogni cuore fanno riscontro le struggenti invocazioni bibliche: O Dio, tu sei il mio Dio, all’aurora ti cerco, di te ha sete l’anima mia (Sal 63,1). Con tutto il cuore io ti cerco (Sal 119,10). Cercate il Signore e la sua potenza, cercate sempre il suo volto (Sal 105,4). Alcuni anni fa i vescovi italiani hanno diffuso una nota molto bella sull’argomento. Una nota da rileggere: Lettera ai cercatori di Dio (13.5.2009).
Lo dico da cercatore: mettersi sulle tracce di Dio è, innanzitutto, una risposta al suo amore, che sempre precede. E’ lui che, per primo, s’è messo alla ricerca di noi. Dove sei? chiede ad ogni Adamo nascosto nel giardino (Cfr Gn 3,9). E Gesù per qual motivo è venuto sulla terra se non per cercare le pecore perdute? Donaci Signore di cercarti come tu hai cercato noi: Tu ci hai fatti per te, e il nostro cuore è inquieto finché non riposa in te (s. Agostino, Confessioni, I,1).
Non sorvoliamo su un dettaglio. Per trovare Gesù bisogna passare all’altra riva. Tra noi e lui c’è di mezzo il lago. Ci vuole coraggio e un po’ di azzardo. Gesù ha svelato la presenza di Dio ma anche la distanza di Dio. La folla ha compiuto la traversata, ma ha fatto il vero passaggio, il passaggio della fede? Voi mi cercate perché avete mangiato di quei pani e vi siete saziati. Ma il vero pane – continua Gesù – non è quello di ieri, né la manna. Il vero pane sono io! Gesù ci interpella sulla qualità della nostra ricerca: cerchiamo lui o i suoi doni? Amiamo lui o i suoi favori? Il libro “Imitazione di Cristo” dice: Gesù trova molti che amano il suo regno di gloria, ma pochissimi che vogliono portare la sua croce; molti che bramano le sue consolazioni, pochi che amano le tribolazioni; trova molti che partecipano al suo banchetto, ma pochi al suo digiuno; tutti bramano godere con lui, pochi vogliono per lui offrire qualcosa…

Omelia per la solennità di San Leo

Omelia di S.E. Mons. Andrea Turazzi

Cattedrale di San Leo, 1 agosto 2015

Prima caratteristica di San Leo, messa in luce dalla liturgia, è la provenienza lontana: Leo è un esule, un migrante a causa del Vangelo. Il Signore l’ha fatto uscire dalla sua patria (Arbe in Dalmazia, l’attuale Croazia) e dalla casa di suo padre. Il Vescovo di Rimini, Gaudenzio, lo invia sui monti dell’entroterra per portarvi l’annuncio di Gesù Risorto. Non facciamo fatica a vedere nella sua vicenda l’avventura spirituale di Abramo: «Vattene dal tuo paese, dalla tua patria, e dalla casa di tuo padre, verso il paese che io ti indicherò. Farò di te un grande popolo e ti benedirò, diventerai una benedizione». Allora Abramo partì come gli aveva ordinato il Signore (Gn 12,1-4).
Noi, raggiunti dalla sua predicazione, siamo innestati nel popolo della benedizione che ha ricevuto da messaggeri del Vangelo la raccomandazione dell’affabilità verso tutti, della letizia che proviene dalla confidenza nel Signore, della preghiera di supplica e di ringraziamento, della ricerca di ciò che è vero, nobile, puro, amabile, onorato (cfr. Fil 4,4-9).
Chiediamo a San Leo di ottenerci tanti ministri, annunciatori miti e forti del Vangelo. Annuncio solennemente da questa Cattedrale l’ordinazione presbiterale di un nostro seminarista, il diacono don Pier Luigi Bondioni. Sarà ordinato sabato 3 ottobre alle ore 16 a Pennabilli.
A voi chiedo di pregare per lui e di fargli già posto nel vostro cuore (cfr. 2Cor 7,2). A lui ribadisco: qui non si ricercano posti in vista, carriera e, men che meno, sistemazione e ricchezza. Sarà un apostolato spesso itinerante, data la situazione. Caro don Pier Luigi, proponiti una vita apostolica, semplice, tra la gente, con preferenza per gli ammalati, per i ragazzi e per i giovani. Contribuisci a fare del presbiterio una sola famiglia col vescovo e a sentire gli altri preti non come colleghi ma come fratelli.
Il Vangelo di oggi tratteggia la figura del saggio architetto che costruisce la casa sulla roccia. Chi ha scelto questa pagina evangelica ha pensato certamente alla collocazione ardita di questa Cattedrale sulla pietra e all’opera di San Leo che fonda la comunità sulla solida roccia dell’amore di Dio.
Attualizzando, vorrei sottolineare l’urgenza di costruire la famiglia sulle solide basi degli insegnamenti del Signore, così corrispondenti, del resto, al sentire di una serena ragionevolezza. Vento e tempesta non sono risparmiate a nessuna casa, a nessuna famiglia. Fa la differenza su che cosa è fondata. È l’esperienza stessa di famiglia che va rilanciata. È il grande dono sacramentale del “principio” che va annunciato in tutta la sua bellezza: «Da principio il creatore li fece maschio e femmina e disse: per questo l’uomo lascerà il padre e la madre e si unirà a sua moglie e i due diventeranno una sola carne» (Mt 19, 4-5). Questo è il compito del prossimo Sinodo dei vescovi. Anche dalla nostra diocesi è stata significata la volontà di partecipazione. Sul mensile diocesano Montefeltro abbiamo lanciato lo slogan: “entriamo anche noi in sinodo”. Con il nostro interessamento, con il nostro contributo scritto, con la preghiera, siamo effettivamente presenti. Annuncio un’iniziativa: un segnale forte. Nel mese di ottobre chiedo ad ogni famiglia di pregare ogni giorno il Rosario o parte di esso. Il parroco individuerà un drappello di messaggeri che consegneranno ad ogni famiglia, con un breve saluto, il dono della corona del Rosario. Tutti in preghiera per la famiglia.
E tu, San Leo, prega per noi.

Omelia alle esequie di p. Adriano Somma

Omelia di S.E. Mons. Andrea Turazzi

Valdragone, 31 luglio 2015

Somma p. Maria Adriano dei Servi di Maria a Valdragone
Nato a Arta Terme (Udine) il 15 gennaio 1931
Ordinato sacerdote a Saluzzo (Cuneo) il 29 giugno 1956
Superiore del Convento Santa Maria dei Servi (Valdragone) dal 2005
Servizio pastorale domenicale a San Giovanni sotto le Penne

Is 25, 6-9
Sal 22
Gv 14, 1-6

«Vado a prepararvi un posto».

Permettete che apra questa meditazione con un racconto autobiografico.
Negli anni del Seminario, a ciascuno di noi studenti, veniva affidato un posto: un posto in cappella, in refettorio, a scuola, in fila, nello studio, ecc.
Gli educatori, di tanto in tanto dettavano “posti” nuovi (il cambio del posto era sempre un avvenimento).
L’unica eccezione era ammessa il sabato sera quando, nel teatro del Seminario, si assisteva alla proiezione di un film. Qui non c’erano “posti obbligati”. Erano liberi. Ricordo la gioia quando uno dei miei compagni “mi teneva il posto”. Mi capitava di sentire: “È occupato per Turazzi” (ci si chiamava, per lo più, per cognome). È un lontano ricordo, ma ne faccio uso per dire l’effetto che provo nel leggere le parole forti di Gesù: «Nella casa del Padre mio vi sono molti posti… vado a prepararvi un posto». C’è un posto che Gesù riserva per me; per ciascuno. C’è il posto che Gesù ha riservato a padre Adriano. Il “posto” di cui parla Gesù non è un luogo come noi intendiamo in senso spaziale. Noi veniamo collocati – per così dire – nella “cubatura” dell’amore ricco di misericordia del Padre. Un luogo di cui Paolo scrive nella Lettera agli Efesini e di cui vorrebbe dire «la lunghezza, l’altezza e la profondità…» (cfr. Ef 3,18).
Nel colloquio intimo della preghiera e nelle situazioni più svariate della vita, come di fronte a questa bara, lasciamoci toccare dalle parole di Gesù: «Non sia turbato il vostro cuore. Abbiate fede in Dio e abbiate fede in me».
Parole necessarie, per colmare le nostre solitudini… ma non è vero che siamo soli, perfino i capelli del nostro capo sono contati (cfr. Mt 10,30). «Io sono ancora con te» (cfr. Sal 138,18) – dice il Signore, e come ci assicura nel Salmo: «Se dovessi camminare per una valle oscura, tu sei con me» (cfr. Sal 22).
Parole utili, per curare le nostre fragilità; mi distolgono dall’inconcludente ripiegamento su di me, mi aiutano ad andare oltre le mie piaghe.
Parole belle, per il tempo della nostra Pasqua, del nostro passaggio: il giorno sconosciuto, ma non lontano, della nostre morte.
Gesù ha indirizzato queste parole ai discepoli per prepararli al distacco da lui. Sono parole pronunciate per ciascuno di noi, lette chissà quante volte da p. Adriano, come da noi sacerdoti per ogni commiato.
Permettete una sottolineatura, un dettaglio di straordinaria tenerezza e misericordia: Gesù sale al Padre, ma non prenota stanze all’Inferno, perché non sa immaginarsi senza di me, senza di noi…
Ognuno riascoltando quelle parole può dire: Gesù è andato a preparare un posto per me; mi aspetta nella sua casa; mi vuole con lui. Non gli basta l’esercito di angeli che sono nel cielo, l’assemblea candida dei martiri e delle vergini. Non gli basta! Sentite le parole che pronuncia il Signore per ciascuna delle sue creature: «Se dovrai attraversare le acque, sarò con te… se dovrai passare in mezzo al fuoco, non ti scotterai […], perché tu sei prezioso ai miei occhi, perché sei degno di stima ed io ti amo» (cfr. Is 43,2.4).
Non dubitiamo certo della possibilità reale dell’Inferno, ma anche la Chiesa nel suo millenario cammino di verità non ha mai canonizzato la discesa di qualcuno all’inferno, mentre mi chiede di credere che migliaia di santi e beati popolano il Cielo.
È una casa vera quella nella quale siamo attesi, luogo di intense relazioni, non un regno di ombre. Una casa bella, non meno di quella dove è tornato il figlio prodigo, tra buona musica e danze (cfr. Lc 15,24-25). La casa nella quale il Signore stesso prepara «un banchetto di grasse vivande, un banchetto di vini eccellenti, di cibi succulenti, di vini raffinati […]. Eliminerà la morte per sempre. Il Signore Dio asciugherà le lacrime su ogni volto» (cfr. Is 25, 6.8).
Ho aperto una conoscenza confidenziale con padre Adriano, in modo piuttosto singolare. Ero venuto qui al convento per chiedergli perdono: avevo dimenticato di citare la famiglia dei “Servi di Maria” nell’elenco delle comunità di vita consacrata presenti in diocesi. Fu molto sorpreso e poi benevolo, per nulla indispettito. Incoraggiato dal suo modo di relazionarsi aperto e ironico, sono tornato più volte, anche per rinnovare l’invito a partecipare agli appuntamenti diocesani. Non è mai venuto… ma mi offriva il convento come luogo per i nostri incontri presbiterali. La confidenza mi ha incoraggiato a stringere un patto con lui, ormai morente. Questo il patto: il primo di noi due che morirà porterà il saluto dell’altro alla Madonna. Penso che padre Adriano abbia portato il mio e il nostro saluto alla Madre di Dio!

Omelia XVII Domenica del Tempo Ordinario

Omelia di S.E. Mons. Andrea Turazzi

GESU’ SI PRENDE CURA DI NOI, COMPLETAMENTE

Santuario Madonna del Faggio (Eremo di Carpegna), 26 luglio 2015
2Re 4,42-44
Sal 144
Ef 4,1-6
Gv 6,1-15

Permettetemi di iniziare il commento al Vangelo con un racconto. In una città del Brasile un ragazzo andava di chiesa in chiesa partecipando a tutte le messe e, ad ognuna, faceva la comunione. Il missionario gli dice: “Tu vuoi molto bene a Gesù”. “No – risponde – ho soltanto fame”. Nella sua povertà aveva trovato uno stratagemma: mangiare più ostie possibili, piccolo soccorso alla sua fame. Al Signore non credo dispiacesse l’intraprendenza del ragazzo. Certo, non si deve confondere il pane ordinario col Pane eucaristico, il cibo corporale col cibo spirituale. Gesù nel racconto della moltiplicazione invece si scandalizza della fame di tanta gente… Mette in moto la sua potenza creatrice per saziare quelle pance vuote.
E’ venuto per esseri fatti di carne e di sangue, non per angeli. Egli viene a salvare uomini e donne in tutte le dimensioni della loro esistenza: c’è dunque una fame del corpo, una fame del cuore, una fame dello spirito. Gesù si propone come colui che sfama interamente: l’una e l’altra e l’altra ancora.
Il racconto giovanneo della distribuzione dei pani (possiamo anche chiamarlo così) è, prima di tutto, – a differenza dei racconti sinottici – una pagina di rivelazione: insieme alla compassione di Gesù, e molto di più, vien proclamata la sua identità (per questo non sono dettagli secondari quelli riferiti da Giovanni: il salire di Gesù sulla montagna, la prossimità della festa di Pasqua, la molta erba di quel luogo, il rendimento di grazie, il distribuire di persona…).
Davanti a Gesù c’è l’uomo, la creatura che ha bisogno: bisogno di Dio e di assoluto, di cure e di pane. Alla perplessità degli apostoli, Gesù non reagisce congedando la folla (nei sinottici il suggerimento è esplicito: Mandali via…). Gesù non ha mai mandato via nessuno. Replica con l’invito al più piccolo dei presenti a condividere i cinque pani e i due pesci portati da casa, nessuno può essere semplice spettatore. Quel ragazzo è ognuno di noi, invitato a ritrovare la giovinezza che è in lui.
Ad ogni Eucaristia il Signore ci cerca e ci chiama: «Beati gli invitati alla cena del Signore…». Mentre ci dà il suo Corpo e il suo Sangue vuole anche farci attenti al corpo e al sangue dei fratelli. Infatti il corpo è offerto, il sangue è versato: la legge dell’esistenza è il dono di sé. A noi, ora, la responsabilità di “moltiplicare pani”, di condividere i nostri cinque pani e i due pesci…

Omelia Solennità del Corpus Domini

Omelia di S.E. Mons. Andrea Turazzi

Castello di Montemaggio, 7 giugno 2015

 

Carissimi,
chissà perché solo a sentir parlare di messa proviamo un senso di noia. Capisco i ragazzi; ma noi adulti…
Dobbiamo ammettere che talvolta il modo di celebrare, il tono delle omelie, le ripetizioni, la pressione delle preoccupazioni personali posso­no condizionare negativamente. Ma al fondo del­la nostra difficoltà forse sta un’idea sbagliata della messa. Si pensa alla messa come ad un pesante contenitore di preghiere, lungo un’ora (quando va bene!). Un obbligo da assolvere in compagnia di sconosciuti, in un ambiente torrido d’estate e geli­do d’inverno. Un contenitore di preghiere com­plesse, estranee al linguaggio corrente, accompa­gnate da una gestualità lontana e ieratica. Preghiere che altri ci mettono sulle labbra (noi avrem­mo in cuore ben altro da dire al Signore) e a cui dobbiamo rispondere con formule stilizzate: “e con il tuo spirito”, “amen”, “Deo gratias”.
No! la messa non è un contenitore di pre­ghiere.
Se vogliamo “entrarci” consideriamola un avvenimento.
Durante la messa succede qualcosa.
Andiamo subito al centro del­l’avvenimento. La messa si apre con i “riti d’inizio”, servono alla pre­parazione dei partecipanti con umile riconosci­mento della comune condizione di peccatori.
Per prima incontriamo la liturgia della Parola, così viene chiamata la lettura ed il commento ai brani biblici, immancabili in ogni celebrazione. La messa ha – per così dire – una duplice mensa: quella in cui si spezza il pane della Parola e quella in cui si spezza il pane eucaristico (cfr. Sacrosanctum Concilium).
La messa ha una sua logica, un suo sviluppo ed una sua dinamica. Ho conosciuto persone che andavano a “prendere messa” (come dicono loro impropriamente) nel Duomo dove le messe si susseguono una dopo l’altra. Ne prendono metà dalla celebrazione precedente e proseguono con la successiva, come fa chi va al cinema a partire dal secondo tempo. Ma nella messa non siamo spettatori. Partecipiamo. Preoccupiamoci delle “cose da fare”. Incominciamo col mettere sull’altare il nostro vis­suto, le nostre giornate, la cesta colma delle fatiche e delle gioie: il pane ed il vino che il sacerdote sta per offrire ne sono il simbolo. Perché quest’operazione non sia generica diamo un nome preciso a quello che offriamo. Questo è il momento dell’offertorio.
Dopo il canto dell’ “Osanna a Colui che vie­ne” (o “Santo”) siamo coinvolti in un racconto che da duemila anni i cristiani ripetono con assolu­ta fedeltà. È incredibile come, nell’era degli spot, della tele-comunicazione, il racconto non abbia perso la sua forza. Ce ne accorgiamo (lo sentiamo e lo vediamo) guardandoci attorno: un’assemblea s’ingi­nocchia, si raccoglie in un profondo silenzio (non lo guasta neppure lo strillo improvviso di un bimbo!); il sacerdote si china e sussurra: “La notte in cui Gesù fu tradito, prese il pane, lo spezzò, lo diede ai suoi discepoli e disse: pren­dete e mangiate questo è il mio corpo dato per voi…”. Il racconto prosegue. Il pane ed il vino vengono presentati all’assemblea. Anche un amico non cristiano sospetterebbe che è accaduto qualcosa di grande. Il cristiano ha la fortuna di sapere che Gesù si è fatto presente nel dono di quel pane spezzato. È il momento della consacrazione.
Un miracolo? Di più. In quel gesto è ripresen­tata, resa attuale e sintetizzata tutta la vicenda di Gesù Figlio di Dio incarnato, che condivide la nostra vita e ci fa dono della sua (solo un sacra­mento può realizzare efficacemente questo miste­ro e renderci contemporanei ad esso).
Il racconto suscita, ogni volta, stupore. Coinvolge: ecco, veniamo rapiti in un movimento ascensionale che ci trasporta nel seno del Padre. Siamo collocati nel “sì” che Gesù ha detto al Padre. Non è il momento di abbassare gli occhi sulle nostre infedeltà e sui nostri peccati. Fissiamo l’ostia e il calice che il celebrante innalza sull’altare più che può. Consideriamo con quanta forza lo Spirito Santo – “Amore effuso nei cuori” (cfr. Rm 5,5), così i primi cristia­ni chiamavano la terza Divina Persona) – ci fon­da con Gesù e ci sospinga come fa il vento che gonfia una vela. Dobbiamo solo dire – anzi, cantare – “amen!”. La nostra adesione intercetta e si unisce a quella di un popolo intero: “Per Cristo, con Cristo e in Cristo, a te Dio Padre onnipotente, nell’unità dello Spirito Santo, ogni onore e glo­ria per tutti i secoli dei secoli”.
Il fiato che esce dai nostri polmoni e si fa can­to è risonanza dello Spirito. E siamo voce di ogni creatura. Questo è un momento centrale della messa, a volte scivola via e ci sfugge: è il momento della dossologia.
Ho visto in una chiesa un pregevole bassorilievo in marmo bianco. Vi è scolpito un pellicano che si squarcia il petto per nutrire di sé i suoi piccoli.
Fin dall’antichità il pellicano è simbolo euca­ristico. Un inno medievale (autore Tommaso d’Acquino) canta così: “Pie pellicane, Jesu Domine”. Gesù ci nutre di sé; disponibile per saziare la nostra fame. Fame di che cosa se non di lui, pane vivo disceso dal cielo (cfr. Gv 6,51)?
Siamo al momento tanto atteso e desiderato della comunione. Ci si preparare pensando e considerando a chi si va a ricevere (a questo serve anche l’ora di digiuno richiesta prima della comunione) ed essendo in comunione autentica con il Signore (nella sua grazia). Dovremmo stimare tanto la Comunione da detestare il peccato e le sue false promesse. Conosciamo la fatica di sbarazzarsi del peccato. Ci hanno insegnato, tuttavia, che non è il peccato a tenerci lontano da Gesù, ma il non volerci riconciliare con lui. Il perdono di Gesù ogni volta sor­prende, turba, disarma, converte, conquista, abbraccia, fa crescere…
A Dio importa molto anche di chi, in que­sto momento della vita, forse, non può accostarsi al sacramento, ma, intanto, può fare comunione con la parola di Gesù e con lui nel fratello. E questo non è davvero poco.
Ci pare poco?
 

Omelia e Processione per il Corpus Domini a San Marino

Basilica di San Marino, 4 giugno 2015

Omelia

Domenica scorsa una ragazza “ha preso il velo”, cioè si è consacrata al Signore nel monastero delle Adoratrici, Adoratrici del SS. Sacramento perennemente esposto nella loro chiesa. Ho partecipato al rito con una profonda commozione. Ho preso la parola concludendo più o meno così: “Suor Annunziata con la dedicazione della sua vita all’Eucaristia testimonia come sia grande questo sacramento. Per esso vale la pena spendere tutta una vita. L’Eucaristia è il bene più prezioso che abbiamo e per il quale non basta una vita intera per capirlo, adorarlo, amarlo…”.
Suor Annunziata è una provocazione per noi: siamo chiamati a fare dell’Eucaristia il centro della nostra vita, la fonte e il culmine della vita delle nostre comunità, l’abisso senza fondo della corrispondenza amorosa tra noi e il Signore.
Sull’altare, in quel pane e in quel vino, Gesù non è presente in un qualche modo, ma come corpo spezzato e sangue versato. Quando leviamo i nostri occhi verso l’ostia contempliamo il corpo di un uomo “spezzato e versato”, che cioè si dona per gli amici e che non risparmia nulla per sé.
E poiché l’Eucaristia ci fa un solo corpo con Gesù, quando diciamo le parole: “Questo è il mio corpo dato per voi… Questo è il mio sangue versato per tutti…” le diciamo di Cristo, ma le diciamo anche di noi stessi.
L’Eucaristia è pericolosa, perché ci rimette in discussione: il Corpo di Cristo contesta il nostro modo gretto di vivere, le attenzioni meticolose per il nostro corpo, il nostro istinto al risparmio della fatica, la nostra abitudine a spenderci col bilancino.
L’Eucaristia è un rischio, perché ci fa promettere di vivere un’esistenza donata: “Mangiatemi pure, consumatemi, usatemi. Il mio Corpo – dice il discepolo come il suo maestro Gesù – non è mio, è per voi. Le mie energie, il mio tempo, è a vostra disposizione”.
Con la Comunione riceviamo il Signore, la sua mentalità e la sua forza per vivere come lui. In lui il nuovo umanesimo!

Monizione per la processione

Perché una città interrompe la sua routine – come fa San Marino – per celebrare il Corpus Domini? Perché è un’antica tradizione? Ancora oggi suscita curiosità e viene osservata dai turisti come folclore. Questo ci indispettisce, ma saremmo dispiaciuti se la città rifiutasse questo segno esterno. Noi diciamo: non una fede senza festa.
Confrontando col passato, oggi la città ci appare piuttosto spopolata. Essa è il luogo del lavoro, dello stress, della fatica e nel “dì di festa” c’è chi esce per qualche ora di vacanza.
La nostra città di San Marino conosce però anche l’abbandono – soprattutto nel centro storico – dei tanti che cercano altrove lavoro e sistemazione. Tuttavia la città saluta la festa del Corpus Domini anche come occasione di una pausa a metà settimana, quando l’estate fa sentire le prime vampe di calore. Ci viene da osservare: ma è festa senza fede?
C’è un popolo che esce festante per le vie della città. Porta con solennità un Pane. Per la fede in Colui che in quel pane è presente canta la sua gioia al “Dio con noi”, come Davide che dice: “Davanti a Jahvè io danzo”!
Qualcuno potrebbe paragonare la processione al cammino delle tribù di Israele attorno alle mura di Gerico: fu per conquistare quella città.
In verità, questo popolo che esce con il Santissimo Sacramento dell’Eucaristia è mosso da una sincera e profonda “cortesia”: vuole col suo passaggio benedire la città, le sue istituzioni, le sue attività. Portare il Corpo di Cristo tra le case è un “dire bene” della vita, della famiglia, del lavoro, della scuola, della relazione, ecc.
Non è di questo popolo la strategia della fuga dalla città e tanto meno la strategia dell’aggressione. Semmai, la sua strategia è quella della presenza per collaborare, costruire, migliorare, ricominciare, se è necessario.
È festa della Visitazione: Dio visita il suo popolo.
Sì, percorriamo la città per aiutarci a cogliere tutta la dimensione pubblica e sociale della nostra fede e per aiutarci a stabilire rapporti tra la nostra fede ed i problemi dei fratelli e del mondo. Ciò esige per noi di rivedere il nostro rapporto col mondo, che oggi non può che essere missionario: di una missionarietà soave e forte insieme, soave nella bontà del dialogo, rispettosa e amante delle persone; forte nella consapevolezza dell’identità del dono a noi fatto e della coerenza necessaria per custodirlo, difenderlo e diffonderlo.
Dio ci benedica.