Omelia per la Solenne Apertura della Porta Santa

Omelia di S.E. Mons. Andrea Turazzi

Cattedrale di Pennabilli, 13 dicembre 2015

Sof 3,14-18
Fil 4,4-7
Lc 3,10-18
Ci siamo messi anche noi in coda come i frequentatori del Battista per varcare la Porta Santa della nostra Cattedrale. Ci troviamo, misticamente, sulle rive del fiume Giordano che, dai tempi di Giovanni ad oggi, non finisce di lambire la nostra indifferenza. Giovanni grida: il Messia è alle porte, cambiate vita! Sì, il Signore è alle porte della nostra vita indaffarata, tiranneggiata da false esigenze, dal modo di pensare mondano e da egoismi più o meno velati. In che condizioni ci trova il Messia? Un giorno Gesù rimprovererà gli indifferenti, imperturbabili sia all’annuncio di un severo giudizio, sia di fronte all’offerta di misericordia (indifferenza, indolenza ed accidia sono il nostro problema). Eppure l’appello è esplicito ed urgente: A chi paragonerò questa generazione? Essa è simile a quei fanciulli seduti sulle piazze che si rivolgono agli altri compagni e dicono: «Vi abbiamo suonato il flauto e non avete ballato, abbiamo cantato un lamento e non avete pianto» (Mt 11,16-17). Se restiamo insensibili alla voce austera di Giovanni, come potremo accogliere Colui che soavemente sta alla porta e bussa? (Ap 3,20).
Il Vangelo ci racconta di gente che si è lasciata sorprendere dalla testimonianza del Battista e che è scesa al fiume per chiedere come rendere concreta la conversione nella realtà dell’esistenza quotidiana: Che cosa dobbiamo fare? (È una lezione per noi!).
La domanda è posta dalle folle, da doganieri, da soldati mercenari. Un campionario assai vario di umanità. Luca, che spesso nel suo Vangelo presenta Gesù amico dei pubblicani e dei peccatori, ha particolare simpatia verso queste categorie di persone, le più disprezzate e le più bisognose di misericordia: le folle considerate ignoranti e fluttuanti; i doganieri ritenuti peccatori per eccellenza perché il loro mestiere li porta a compromessi con le forze romane di occupazione; i mercenari perché al soldo del tiranno di turno. Ma davanti a Dio nessuna situazione umana è pregiudizialmente esclusa (cfr. le catechesi di papa Francesco). Anzi, proprio costoro, a differenza di quanti presumono di essere “puri”, trovano misericordia e incoraggiamento. Il Battista indica per loro alcune risoluzioni: generosità fraterna, specie verso i poveri; rettitudine nel proprio ruolo professionale; mitezza, sincerità, moderazione.
Avete notato: non invita alla fuga nel deserto, né a vivere, come lui, da anacoreti, né a cambiare mestiere, né ad un’osservanza bigotta dei precetti. La conversione è qualcosa che si attua all’interno delle proprie situazioni umane e sociali. Dunque non chiede di salvarsi dalla storia (storia che possiamo ben immaginare), ma nella storia (siamo nella logica del lievito, non in quella della pasta alternativa).
La stessa domanda delle folle, dei doganieri e dei soldati la poniamo anche noi che abbiamo appena varcato la Porta Santa: «Che cosa devo fare, in questo anno giubilare?». Papa Francesco non dice che questo momento è buono, opportuno, ma che la Chiesa “ha bisogno di questo anno di misericordia” (Udienza del mercoledì, 9 dicembre 2015). E noi? E la nostra Chiesa ha bisogno di misericordia? Ha bisogno di essere illuminata circa la gravità del peccato, prendendone coscienza. Ha da farsi perdonare le disunità. Ha bisogno del perdono perché noi, suoi membri, talvolta viviamo la fede come folclore, esteriorità, tradizione senza profondo coinvolgimento del cuore (sede delle decisioni). Dalla Cattedrale alle chiese giubilari, dalle parrocchie a tutti i luoghi di preghiera vedo una “reazione a catena” di rinnovamento, vedo porte e finestre spalancate all’onda fresca e vivificante della misericordia. Misericordia accolta e poi offerta. Ma la “reazione a catena” non può che partire da me! Ognuno pensi così.
Permettete ancora una parola. La rivolgo ai miei fratelli sacerdoti. Mi succede spesso di pensare a loro viaggiando per il Montefeltro: saranno in buona salute? Avranno qualche consolazione? La casa canonica sarà ben riscaldata? Cari sacerdoti, non so se i parrocchiani vi esprimono la loro gratitudine, se vi mostrano affetto, se hanno verso di voi espressioni di riconoscenza per quello che siete e per quello che fate. So che vi siete messi a servizio per il Signore, in risposta alla vostra vocazione; non per altro. Tuttavia io vi dico il mio grazie, la mia gratitudine e la mia ammirazione. Voi siete i dispensatori della misericordia e del perdono di Dio. Quante volte, nel passato come nel presente, ho goduto per la Provvidenza di un prete che ha assolto i miei peccati e mi ha fatto sentire l’abbraccio della misericordia e la gioia del perdono. Nella Bolla di indizione del Giubileo – al paragrafo 17 – papa Francesco parla di voi. Rileggete quelle parole, vi aiuteranno ad essere «un vero segno della misericordia del Padre».
Nella domenica “Gaudete”, tutta intonata alla gioia, voglio proclamare davanti alla comunità diocesana come il vostro sia ministero di gioia per noi e per tutti (cfr. 2Cor 1,24). E come sia gioia per il Signore che fa festa in cielo per un solo peccatore che si converte (cfr. Lc 15,7)!

Omelia per la III Domenica di Avvento

Omelia di S.E. Mons. Andrea Turazzi

Maciano, 13 dicembre 2015

Sof 3,14-18
Fil4,4-7
Lc 3,10-18
La liturgia ci propone giorni di attesa, giorni segnati dall’invito alla gioia. È solo augurio? Contentino per il nostro cuore assetato? Sono giorni d’auguri e di canti natalizi… tanti applausi e buoni sentimenti. Grandi alberi di Natale nelle piazze… La gioia del Natale è solo atmosfera?
Siate sempre lieti nel Signore, ve lo ripeto: siate lieti. La vostra amabilità sia nota a tutti. Il Signore è vicino! (Fil 4, 4-5). Si può precettare la gioia? Non è forse un sentimento spontaneo? Oggi, in tempo di crisi, i motivi di gioia scarseggiano, ma non mancano del tutto, anche se appaiono fragili come giocattoli che si rompono subito o come profumi che svaporano in fretta. Gioisca chi può! I motivi di tristezza sembrano prevalere. La tentazione ricorrente è di lasciarsi cadere le braccia, un gesto istintivo che tradisce un pensiero nascosto, ma che si fa palese: non c’è speranza, non ne vale la pena… Basta aprire il giornale: la persistente minaccia alla pace, l’angoscia del terrorismo in agguato, i risultati piuttosto modesti, secondo alcuni, deludenti della conferenza di Parigi sul clima e, in casa nostra, la crisi di importanti istituti bancari che mette in crisi i piccoli risparmiatori.
La disperazione fu la tentazione che mise alla prova gli ebrei in cammino verso la terra promessa. Accadde quando l’acqua e il pane vennero a mancare: Il Signore è con noi, – protestavano – sì o no? Nella Parola di Dio non mancano gli avvertimenti e persino le minacce per provocare la conversione, ma più frequenti sono gli inviti alla gioia. Al di là della parola stessa, che ricorre 225 volte nell’Antico Testamento e 72 nel Nuovo, la gioia attraversa come in filigrana tutta la Scrittura. Il motivo della gioia è il Signore, la sua prossimità, la sua alleanza, il suo amore sponsale… Per questo si canta: Io gioisco pienamente nel Signore, la mia anima esulta nel mio Dio (Is 61,10). Hai messo più gioia nel mio cuore di quando abbondano vino e frumento (Sal 4,8). Esulto di gioia all’ombra delle tue ali (Sal 63,68). Nel Nuovo Testamento la gioia si manifesta incontenibile. Tutta la vicenda di Gesù è Vangelo: buona notizia! La religione cristiana è la religione della gioia e ogni persona che segue Cristo ne è messaggero. Qualche settimana fa un giovane professore di filosofia mi parlava del rapporto scienza–fede e, incalzato dalle mie domande, mi confidava il rapporto che, all’interno dell’università, ha con i colleghi non credenti: «C’è chi fa onestamente la sua ricerca, non crede e resta serio. Io – concludeva l’amico professore – al termine della mia ricerca dico: Dio esiste. E sorrido»! La gioia è il dono che il Cristianesimo fa al mondo.

Omelia Veglia per la vita nascente

Omelia di S.E. Mons. Andrea Turazzi
2 dicembre 2015

Is 49, 1-6.13-16
Lc 1,39-55

Si affollano i pensieri mentre già si accendono le prime luci del Natale e intasano la mente e la penna. Quante cose vorrei scrivere e dire… e con quanto calore! Cose dell’anima naturalmente, come la vertigine davanti a un Dio che si fa cucciolo di uomo e la considerazione dei carissimi destinatari di questi miei pensieri, specialmente delle mamme in dolce attesa.
La pista più sicura è tracciata dalla Parola di Dio (e da dove, se non da qui, prendere l’avvio?). Questa sera la Parola di Dio racconta la vocazione del profeta Isaia chiamato, plasmato e inviato fin dal seno materno…  e, come ogni bambino, disegnato in modo indelebile sul palmo delle mani del suo Creatore. Ci potrebbe essere chi lascia cadere nell’oblio il frutto del grembo, ma non certo il Signore: «Io, invece, – assicura –  non ti dimenticherò mai».
Il Vangelo narra l’incontro fra due donne in attesa d’essere madri: Maria ed Elisabetta. Due santuari; due grembi carichi di terra, di cielo e di futuro. Come il grembo di ogni mamma.
«Benedetto il frutto del tuo grembo», cioè, «benefico agli uomini sia il frutto del tuo ventre», esclama Elisabetta a Maria. È il saluto per ogni donna che sta per diventare mamma. Gesù è un frutto unico, eppure tutti i nati da donna sono, come lui, benedizione. Per questo festeggiamo i bimbi che vengono al mondo, le loro mamme e i loro papà.
Il Vangelo dice che Giovanni, concepito da Elisabetta, danza nel grembo materno pieno della gioia di vivere, per una vita che gli dà, sin d’ora, d’incontrare il Signore. È stato chiamato dal nulla all’essere, ad una pienezza di essere.
Torno al racconto evangelico, anzi alla corsa veloce con la quale Maria va, attraverso i monti di Giudea, ad incontrare la cugina Elisabetta: «In quei giorni Maria si mise in viaggio verso la montagna e raggiunse in fretta una città di Giuda». Il tema della sollecitudine e della corsa ricorre più volte nella Scrittura. I pastori andarono in fretta a Betlemme «e trovarono Maria, Giuseppe e il bambino, che giaceva nella mangiatoia» (Lc 2,16). Così i primi discepoli, chiamati da Gesù, «subito presero a seguirlo» (Mt 4,20). A Zaccheo il Signore grida: «Scendi subito» (Lc 19,5). «In gran fretta» Pietro e Giovanni corrono al sepolcro il mattino di Pasqua, quasi una gara (cfr Gv 20,4). Per essere discepoli è necessaria la sollecitudine. Viene chiesto di correre. Il salmo ci fa cantare: «Corro per la via dei tuoi comandamenti, perché hai dilatato il mio cuore» (Sal 119, 32). Non è certo per la fretta imposta dai ritmi di questo mondo sempre più stressanti. La fretta evangelica non ha altro agente che l’amore. È l’amore che tiene desti ed è essenzialmente movimento. L’amore attira con forza e soavità e, parimenti, lancia in avanti!
Il nostro riunirci, questa sera, ha il carattere della gioia e dello slancio: gridiamo al mondo il vangelo della vita. Giusto vent’anni fa, Giovanni Paolo II consegnava a noi e a tutti gli uomini di buona volontà, una delle sue più belle encicliche, l’Evangelium vitae. All’inizio di questa veglia abbiamo chiesto la grazia della conversione dei cuori, riconoscendo i peccati contro la vita nascente. La chiudiamo facendo nostro il canto del Magnificat, il canto sbocciato sulle labbra della fanciulla di Nazaret, che loda il Signore per le grandi cose che ha fatto in lei, con uno sguardo sulla vita e sulla storia che sorprende, perché assolutamente aperto e per nulla intimista.
Ci proponiamo di parlare bene della vita e, soprattutto, di proclamare «fortiter et suaviter» la prima delle pagine del Vangelo: la Natività!

 

Omelia della XXX Domenica del Tempo Ordinario

Omelia di S.E. Mons. Andrea Turazzi

Fiorentino (RSM), 25 Ottobre 2015
Ger 31,7-9
Sal 125
Eb 5,1-6
Mc 10,46-52

Da Gerico Gesù sta per partire per Gerusalemme. E’ la città che un tempo Giosuè prese facendo suonare le trombe e lanciando il grido di battaglia. A Gerico, fuori porta, seduto fra gli altri questuanti, c’è il cieco Bartimeo. Ha sentito parlare del giovane profeta e taumaturgo, perciò vuole incontrarlo, perché considera quella la sua ultima occasione per essere guarito. Ma a Gerico c’è sempre un “muro”, in questo caso i discepoli che, come guardie del corpo, circondano Gesù e la folla dei pellegrini che avanza vociante e a spintoni. Ed anche il “muro” della sua condizione: non può vederlo, è confinato ai margini della strada a mendicare, e non possiede che un logoro mantello che gli serve per coprirsi la notte e per raccogliere gli spiccioli. Bartimeo non ha che un arma, alzare la voce. E allora, come Giosuè, dà fiato alle trombe e lancia un urlo: Figlio di Davide, Gesù, abbi pietà di me! La folla lo ignora, i discepoli lo sgridano – tutti vogliono che la miseria resti nascosta, non si mostri, non disturbi la vista e i sonni di chi sta bene – ma lui continua ad invocare e il suo grido raggiunge il cuore di Cristo. Ecco la vera preghiera. E’ un grido: Signore salvami! Guariscimi dalla cecità che mi impedisce di incontrarti e di trovare la strada del bene e della vita! Non è importante che la preghiera sia formalmente perfetta – Bartimeo lancia un urlo rauco e scomposto… – ma che scaturisca dalla fede in Cristo. Allora tante “mura di Gerico” crolleranno.
Gesù si ferma e lo chiama. Bartimeo, stupito e confuso esita, tanto che lo devono spingere: Coraggio! Alzati, ti chiama! Esita perché Gesù gli sta chiedendo di abbandonare la sua postazione strategica e lasciare lì la sua coperta. Ma poi si decide: balza in piedi e, gettato via il mantello, si presenta a Gesù. Solo allora può essere guarito. Anzi, non avendo più nulla, dice il vangelo: prese a seguirlo; diventa suo discepolo. Certamente la preghiera fatta con fede penetra nel cuore di Cristo. Ma ci richiede un atto di coraggio: abbandonare la nostra cuccia di indolenza e seguire Cristo liberi e leggeri.

Omelia della XXIX Domenica del Tempo Ordinario

Omelia di S.E. Mons. Andrea Turazzi

Fratte, 18 ottobre 2015

Is 53,10-11
Sal 32
Ebr 4,14-16
Mc 10, 35-45

«Non come voglio io, ma come vuoi tu »! Gesù accondiscende alla preghiera di Giacomo e Giovanni: Che cosa volete che io faccia per voi? I due apostoli fratelli ci fanno sorridere per il loro candore: Vogliamo sedere nella tua gloria uno a destra e uno a sinistra. Nella Bibbia la Gloria di Dio non è la fama o la celebrità, ma la presenza luminosa, attiva e potente di Dio. La Gloria si è manifestata nello splendore del Sinai, nella nube lungo i sentieri dell’Esodo. I Salmi dicono che i cieli cantano la Gloria di Dio. La Gloria è l’essenza stessa di Dio nel suo manifestarsi come presenza amorosa accanto al suo popolo e, quando è necessario, contro i suoi nemici. Giovanni un giorno – dopo la lezione impartitagli dal Maestro – scriverà che la Gloria di Dio ha preso forma nell’umanità di Gesù, sacramento dell’incontro con Dio. Mistero, presenza, prossimità…I discepoli, ancora in cammino, hanno equivocato; pensano la Gloria alla maniera umana. Ma la lezione è chiara: Chi vuole essere il primo tra voi sarà il servo di tutti. Nonostante la gelosia scatenata nel gruppo, i due fratelli ci riescono simpatici. Con fierezza giurano d’essere pronti a tutto. Fierezza nel proponimento e insistenza fiduciosa nella preghiera! Non aveva detto Gesù «Chiedete e otterrete»? Ma pregare non è pretendere che Dio faccia quello che vogliamo noi, ma disporsi a fare quello che vuole lui. Come insegna la preghiera del Padre Nostro: Sia fatta la tua volontà come in cielo così in terra. Così ha pregato Gesù nel Getzemani: Abbà, Padre, tutto è possibile a te, allontana da me questo calice! Però non come voglio io, ma ciò che vuoi tu.
E’ una lezione importante anche per noi che facciamo della Volontà di Dio il motivo guida del nostro cammino di fede. Gesù parla ancora di un calice, immagine attorno cui si svilupperà la sua implorazione nella tremenda notte del Getzemani. Allude al calice della passione, amaro di tutto il fiele che è nel mondo.
La Gloria di Gesù è il dono della sua vita. Una vita “rapita” per chi lo uccide; una vita “donata” nell’interpretazione data da Gesù. Il calice di Gesù è nostro programma di vita: Eucaristia, ne beviamo ogni volta che moriamo a noi stessi, risurrezione perché chi ama passa da morte a vita (cfr 1Gv 3,14).

Omelia XXVIII Domenica del Tempo Ordinario

Omelia di S.E. Mons. Andrea Turazzi

Sartiano, 11 Ottobre 2015
 

Sap 7,7-11
Sal 89
Eb 4,12-13
Mc 10,17-30
 

È più facile che un cammello passi per la cruna di un ago…
Quest’ immagine sorprende ogni volta. Circolava già al tempo di Gesù, poi trascritta nel Talmud con un dettaglio diverso: l’animale alle prese con la cruna dell’ago era un elefante; un detto per affermare una quasi impossibilità. E’ un’espressione di una grande radicalità che non dobbiamo in nessun modo annacquare: davvero la ricchezza può essere un ostacolo decisivo sulla strada del regno di Dio. Ma è un ostacolo anche l’ansia per la ricchezza che non c’è. A volte diviene pessima consigliera, fino a suggerire ciò che è male. Quasi sempre fa sprofondare nella paura o nella sfiducia o nell’invidia.
Ma tutto è possibile a Dio: è la bella notizia contenuta in questa pagina. E possibile perfino – incredibile! – il cambiamento dei nostri cuori di pietra in cuori di carne. Non consiste in questo l’essere salvati? Cioè, diventare capaci di vivere liberi, in pace con Dio e con gli altri; capaci di utilizzare le ricchezze (che di per sé non sono cattive) come mezzo per il bene e non come unico scopo dell’esistenza; capaci di vincere le tentazioni che portano fuori dalla strada tracciata da Gesù.
Che cosa mi manca? È la domanda del giovane ricco che si presenta a Gesù come uno che invece pensa di avere tutto. E’ un giovane virtuoso, ed è sincero nella sua domanda: Che cosa mi manca? Chi di noi si sente di chiedere a se stesso, con schiettezza, «che cosa mi manca»? A quel giovane mancava una cosa, una sola: la libertà. E’ un rappresentante di quanti sono posseduti da quanto possiedono.
Gesù gli dice: Va’ vendi tutto quello che hai, dallo ai poveri e seguimi… A queste parole, annota il vangelo, se ne andò triste, perché aveva molti beni. Pietro e gli altri discepoli erano probabilmente meno ricchi di quel giovane, ma sicuramente più liberi: Ecco, abbiamo lasciato tutto per seguirti… Una proposta: teniamoci cara la domanda «che cosa mi manca?». E poi aiutarci a fare quanto propone Gesù!

Omelia XXVII Domenica del Tempo Ordinario

Omelia di S.E. Mons. Andrea Turazzi

Chiesa dei Cappuccini (RSM), 4 ottobre 2015

Tengo sul comò un’unica fotografia. Mi è particolarmente cara. Talvolta mi sorprendo a contemplarla in silenzio. Raffigura mamma e papà, ancora piuttosto giovani, con noi cinque fratelli. Io sono il più piccolo, seduto sulle ginocchia di Armando. Istintivamente sento unica, solida e affettuosa la nostra famiglia, come se esistesse da sempre (fatico ad immaginare mamma e papà nella loro famiglia d’origine) e sento me, inimmaginabile fuori da quello spazio. Eppure la mia famiglia ha avuto un’origine, ha conosciuto l’incertezza dei primi passi, ha scricchiolato sotto i colpi delle prove che non sono mancate. Mi sono fatto raccontare tante volte da mamma e papà il loro primo incontro, la prima dichiarazione d’amore, il giorno delle nozze… Il vangelo di questa domenica, riletto insieme alla meravigliosa pagina della Genesi che l’accompagna, illumina la storia della mia e di ogni famiglia. Tutto parte da una parola di Dio: Non è bene che l’uomo sia solo. Il male originale, dunque, il primo che appare sulla terra prima ancora del peccato, è la solitudine. Perché non c’è nessuno che basti a se stesso, nessuno che possa essere felice da solo. Neppure il paradiso è sufficiente e basta! Per questo Dio dice: farò un aiuto… E questo aiuto è Eva per Adamo, data nel sonno perché è un dono, tratta dal fianco perché pari nella dignità e ineffabilmente attraente. Insieme sono chiamati ad un amore per sempre. All’inizio, prima della durezza del cuore, era così. Poi, con la durezza del cuore, sono venuti i distinguo, le concessioni legali, i ripudi legittimati… Ma Gesù fa agli sposi il dono del matrimonio, sacramento di salvezza. L’amore umano viene consacrato da Gesù e riconsegnato con un valore aggiunto per essere segno dell’amore tenero, fedele, indissolubile di Dio. All’inizio è detto che i due sono una carne sola, perché l’amore porta ad assumere la vita dell’altro come propria. L’amore non è solo perdersi per l’altro, ma è anche pienezza, fino a dilatarsi e a vivere come propri la vita, i sogni, la creatività dell’altro: fedeltà e fecondità che non tarpano le ali e non permettono di appassire, al contrario della rosa recisa e troppo serrata in grembo!

Omelia per l’ordinazione di don Pier Luigi Bondioni

Omelia di S.E. Mons. Andrea Turazzi

Cattedrale di Pennabilli, 3 ottobre 2015
1. «Certo, se vi sono delle buone pecore vi saranno anche buoni pastori, perché dalle pecore si formano i buoni pastori». Sant’Agostino ci riporta al cuore della questione vocazionale. Signore, come possiamo essere buone pecore? Cosa ti attendi da noi? Ce lo chiediamo con schiettezza: qual è il punto critico nel rapporto della nostra comunità, e di ciascuno di noi, con la proposta cristiana? Il nodo centrale è la fede: incontro, adesione, consegna di sé alla persona di Gesù Cristo; conoscenza del suo mistero e slancio nella sequela: da chi andremo Signore, tu solo hai parole di vita eterna. Facciamo abbastanza per conoscerlo e farlo conoscere?
Una comunità di cuori credenti ha grande considerazione per le cose di Dio, anzi per l’unica cosa necessaria (ricordate Gesù a Marta…). Un gregge così tiene in grande stima il prete, l’uomo che si mette a servizio del Vangelo, gioca la sua vita per essere strumento della grazia e si mette a disposizione come animatore e guida dei suoi fratelli. E noi, coltiviamo il germe della fede? Ragioniamo col pensiero di Cristo? Cerchiamo le cose di lassù? Da un gregge che si dà questi criteri di vita vengono buoni pastori. La messe è grande, ormai biondeggia. Il Signore chiama operai. Preghiamo perché vi siano risposte generose: per la nostra Chiesa e per il mondo. Si lavora per la pace ed è necessario, ci si impegna nel volontariato ed è bello, ci si interessa di cittadinanza ed è doveroso, ma chi pensa alla salvezza delle anime?

2. «Ma tutti i buoni pastori – continua Sant’Agostino – si identificano con la persona di uno solo, sono una sola cosa. In essi che pascolano è Cristo che pascola». Tra poco don Pier Luigi sarà pastore, ma alla maniera di Cristo.
Permettete una breve meditazione sul sacerdozio di Cristo, sacerdote nuovo. Nell’Antico Testamento c’è un popolo scelto fra tutti i popoli, particolare proprietà del Signore, separato per una destinazione sacerdotale. Dalle dodici tribù di Israele viene separata la tribù di Levi, incaricata del culto del Signore. Dalla tribù di Levi viene presa una famiglia per il Santuario: una volta all’anno il sommo sacerdote vi immola l’agnello (non può il sommo sacerdote candidare se stesso per l’offerta), e l’agnello, mediante la consumazione col fuoco, viene sacrificato. Dall’altare sale una tenue nube tra i profumi dell’incenso. Notate questo procedere per successive separazioni e distacchi; una struttura liturgica piramidale che si slancia verso l’alto arrivando ad offrire nient’altro che la propria inadeguatezza. Dio rimane oltre, al di là nella sua trascendenza: la liturgia dell’Antico Testamento celebra questo. Il sacerdozio antico rimane rituale, formale, esteriore. Confrontiamolo col sacerdozio di Gesù. È su una linea opposta, discendente, inclusiva; procede dall’alto verso il basso per successivi abbracci verso una unità sempre più forte. Il Verbo si incarna: nell’unica persona di Gesù Cristo, natura divina e natura umana sono inseparabilmente unite. Gesù, Verbo incarnato, vive la vicenda umana fino in fondo nella quotidianità di Nazaret condividendo con noi lavoro, fatiche, incontri, amicizie… Poi viene il tempo del suo cammino verso Gerusalemme fino a fare suo il dolore innocente, assumendo la sofferenza e ciò che c’è di più umano, il peccato. Sulla croce sembra toccare il vertice del suo sacerdozio; nel totale svuotamento di sé e nella radicale obbedienza al disegno del Padre si fa dono per l’umanità. «Tutto è compiuto»: sacerdote, altare e vittima; una liturgia in spirito e verità, esistenziale, personale.

3. La risurrezione stessa è un abbraccio. Un abbraccio totale. Nell’Uomo Gesù è iniziata la divinizzazione di tutta la realtà mediante l’effusione dello Spirito. Cose da capogiro, eppure così vicine, cose grandi, ma fatte proprio per noi. Nell’Eucaristia egli continua a donarsi e farsi uno con noi: un pugno di farina impastata nell’acqua, una coppa di vino, diventano sua presenza: «Prendimi, mangiami, bevimi».
C’è dichiarazione d’amore che può spingersi oltre?
Ma non siamo ancora al capolinea. Al fondo di questo abbassamento del Figlio di Dio per unire a sé il mondo ed offrirlo al Padre c’è un ultimo passo: il Signore Gesù dona il suo stesso donarsi.
Caro don Pier Luigi, si colloca qui il tuo sacerdozio, il Signore ti prende perché tu sii una sua presenza, ti cede la sua volontà di donarsi, consegna il suo “io” alle tue labbra. Potrai dire “io ti assolvo…”, “questo è il mio corpo”… Credilo ogni volta che sali sull’altare, vivilo nel quotidiano dono di te. Vita che si fa liturgia. Prestagli le tue mani, i tuoi piedi, il tuo cuore, la tua intelligenza, la tua umanità.
Altissima dignità, ma il prete è sempre un uomo. Un angelo non può essere sacerdote. Azzardo: è stato forse limitato il ministero di Gesù per il fatto che era uomo? Il prete è della stessa creta di cui è fatta l’umanità. Anche dopo la sacra ordinazione continuerai, come tutti, a sentirti fragile, inadeguato, peccatore. Dio non ha orrore degli uomini, al contrario, fa passare la sua grazia attraverso loro. Il prete balbetta appena; eppure Dio gli ordina di parlare. Rimane sempre un apprendista. Il prete è la persona più potente sulla terra perché pronuncia parole creatrici: “Io ti battezzo”; “Io ti assolvo”; “Questo è il mio corpo”… Eppure è l’uomo più povero perché queste non sono parole sue. È Gesù il buon pastore: guardalo don Pier Luigi. Considera lo Spirito Santo che effonde su di te consacrandoti con l’unzione e abilitandoti a compiere le opere del Messia e a proclamare l’anno di misericordia.

Omelia nella liturgia eucaristica per l’investitura dei Capitani Reggenti

Omelia di S.E. Mons. Andrea Turazzi
Basilica di San Marino (RSM), 1 ottobre 2015
 
Ne 8,1-4.5-6.7-12
Sal 18
Lc 10,1-12

Fratelli e sorelle,
un ringraziamento ed un augurio: buon lavoro ai Reggenti eletti; grazie ai Reggenti che passano il testimone. Nei sei mesi nei quali sono stati in carica hanno vissuto, con tutti noi, momenti particolarmente significativi come l’intervento all’ONU del 26 settembre scorso, la visita alla città di Arbe in Croazia a cui ci lega l’origine del nostro santo patrono e tanti altri incontri istituzionali (al principato di Monaco, all’Expo di Milano, ecc.). Ma non meno importanti gli incontri con la gente, con i ragazzi, con i giovani, con le persone ammalate e disabili, come nello scorso luglio a Loreto.
La prima Lettura ci riferisce di una solenne liturgia di popolo. Si rinnova l’alleanza Dio-Israele. Neemia, il brillante governatore, convoca in assemblea tutto il popolo e, insieme al sacerdote Esdra e ai leviti, dà lettura del Libro della Legge o del patto. E il popolo ascolta, partecipa e si commuove. Rinnova il suo “sì”. Le mura, ricostruite dopo l’esilio, non solo difendono la città, ma fondono insieme gli abitanti di Gerusalemme e ne fanno una cosa sola: «La nostra carne è come la carne dei nostri fratelli, i nostri figli sono come i loro figli» (Ne 5,5). Non è questa nostra assemblea simile a quella convocata da Neemia? Non siamo anche noi riuniti per una rinnovazione?
Mi prende questa mattina il desiderio di accompagnarvi, virtualmente, per le pendici del Titano. Poi vorrei sostassimo un attimo sui sagrati e nelle chiese sammarinesi che, come altrettante stelle di una costellazione, trapuntano il nostro territorio. Balza con evidenza quanto la fede cristiana abbia segnato la nostra storia, il nostro popolo, le nostre istituzioni. Sullo sfondo del tempo che corre inesorabile, le chiese rimangono come secolari sorgenti ancora fresche e zampillanti a cui tanti (adulti e giovani) attingono. Alcune chiese sono particolarmente vistose, altre umili e quasi nascoste nel groviglio urbanistico dell’antica Repubblica. In ognuna palpita il mistero che ci avvolge. Il cristiano vi ritrova i segni eloquenti della sua fede. Chi è di altra convinzione o cultura può godervi il silenzio e la pace necessari come il pane. La fede cristiana, con le sue radici e la sua chioma ancor verde e carica di frutti, si propone a tutti come un dono di amicizia. Dispiace quando una malintesa laicità non apprezza, o addirittura contrasta. In ogni chiesa ci si sente avvolti da pareti che abbracciano come pareti domestiche. E, in questi giorni difficili, qui ci si ritrova nei sentieri della preghiera, alla ricerca d’essere amati. Ci sarà qualcuno che ci vuole bene? Con le braccia spalancate esprimiamo il desiderio di non restare soli e nel contempo rivolgiamo l’invito ad ogni prossimo di sentirsi a casa sua in casa nostra. Perché figli dell’unico Padre. Si apre qui il grande tema dell’accoglienza che interpella coscienze e scuote la politica.
E c’è una casa più grande della quale siamo tutti inquilini, o meglio, nella quale siamo tutti fratelli, la creazione. Papa Francesco ha indirizzato la sua ultima lettera “Laudato si’” per rilanciare un appello: «Cosa sta succedendo nella nostra casa comune?». «In quali condizioni la vogliamo lasciare ai nostri figli?». Il Papa ci ricorda la centralità dell’uomo, la sua responsabilità e la sua dignità e, con molta schiettezza, ci segnala come spesso tocchi ai poveri pagare il conto – e un conto salato – di un dissennato uso della natura.
Per chiudere condivido con voi due affermazioni dell’Enciclica che mi hanno colpito: «trasformare in sofferenza personale quello che sta accadendo al mondo» (LS 19) e che «la sfida urgente di proteggere la nostra casa comune comprende la preoccupazione di unire tutta la famiglia umana nella ricerca di uno sviluppo sostenibile e integrale, poiché sappiamo che le cose possono cambiare» (LS 13).
Possono cambiare a partire dalla forza della preghiera. Preghiamo.

Omelia della XXVI Domenica del Tempo Ordinario

Omelia di S.E. Mons. Andrea Turazzi

Santuario B.V. Grazie Pennabilli, 27 settembre 2015 

Giornata unitaria dell’Azione Cattolica diocesana

Num 11,25-29
Sal 18
Giac 5,1-6
Mc 9,38-43.45.47-48

Ci sono strumenti che suonano anche fuori dall’orchestra. E suonano pure bene… Lo Spirito Santo, gran compositore, affida ad ogni persona che viene in questo mondo una partitura di cielo (ogni persona ha, anzi, è una parola originale da dire). Giovanni, l’apostolo prediletto, soprannominato «l’aquila», chiamato da Gesù «il figlio del tuono», è ancora figlio di un piccolo cuore: protesta perché c’è uno che fa miracoli pur non essendo dei nostri. Si sbaglia. Il suo errore, anche oggi e forse pure nella nostra comunità, è in agguato: si tratta dello spirito di gelosia, di intransigenza e di settarismo. “Non è dei nostri”, “non è iscritto”, “non la pensa come noi”…
Ci è stato ricordato (Concilio Vaticano II) che la Chiesa non esiste per se stessa, ma per servire l’uomo; e una delle forme  più squisite di servizio consiste nel far emergere l’azione dello Spirito anche oltre le istituzioni: il Regno di Dio è più grande dei nostri recinti. E’ un nostro compito mettere in evidenza “il Vangelo che c’è” nell’impegno di tanti fratelli della porta accanto.
Da quale azione viene diffidato lo sconosciuto capace di miracoli? Ha liberato un uomo dal suo demonio. Anche a Gesù è stata fatta una critica analoga: Non ti è lecito guarire di sabato. «Niente miracoli di sabato! Avete sei giorni per farvi curare…». E’ proprio vero che la legge è più importante della guarigione di un fratello? E’ così pericoloso creare un precedente? E’ cosa da poco che un malato ritrovi il sorriso? Gesù insegna che la persona vale più di qualsiasi valutazione. Chiunque dà un sorriso, un sorso d’acqua e fa del bene, è dei nostri! C’è chi è di Cristo e non lo sa; c’è chi accoglie angeli senza saperlo (Ebr 13,1); c’è chi lotta contro i demoni di oggi e dà vita, libertà, futuro alla propria gente, alla propria famiglia. Forse, ad uno soltanto… (la ricompensa non è proporzionata alla prestazione). Ci sono profeti anche fuori dall’accampamento (cfr Num 11,29)!
Ci può essere il caso di un occhio o di una mano che scandalizza. Gesù adopera un linguaggio estremo per ricordare la serietà della posta in gioco: è davvero possibile fallire la propria vita. La soluzione non è la mano tagliata, ma la mano convertita (E. Ronchi). Ad esempio la mano che porge un bicchiere d’acqua fresca a chi non è dei nostri! C’è chi non riesce a vedere nella nostra comunità una famiglia… San Giovanni della Croce risponderebbe: Non c’è amore? Metti amore.
Potremmo pensare, con un certo disappunto, che non serve essere cristiani, se basta amare. Rallegriamoci invece della infinita generosità di Dio che dona a tutti il suo Spirito, come auspicava Mosé (cfr la prima lettura).
Dobbiamo con questo lasciare ognuno tranquillo nella sua convinzione e smettere di promuovere la fede in Cristo, dal momento che ci si può salvare anche in altri modi? No, perché la missione non è riscattare un mondo interamente dominato da Satana, ma riconoscere le scintille di bene da chiunque compiute, incoraggiarle e soprattutto far loro scoprire la sorgente di ogni bene, del coraggio, della donazione.