Omelia III Domenica di Quaresima

Omelia di S.E. Mons. Andrea Turazzi

Carpegna, 28 febbraio 2016

Una valanga traditrice, un attentato, un incidente stradale, un’inondazione, un terremoto… pongono inevitabilmente domande: perché? Perché proprio a loro?  Chi è responsabile? C’è chi pensa subito ad un castigo; c’è chi punta il dito contro Dio.
Due fatti di cronaca nera hanno sconvolto Gerusalemme: c’è stata una sommossa di Galilei in zona tempio finita nel sangue; una torre è crollata uccidendo 18 persone. I fatti vengono riportati a Gesù con la richiesta di una spiegazione, anzi con la pretesa di una presa di posizione circa il dogma giudaico della retribuzione; un dogma che legava inscindibilmente delitto e castigo, colpa e punizione. In realtà la domanda è un trabocchetto e denota, in chi la pone, la chiacchera sugli altri. Ma Gesù invita ciascuno a guardarsi dentro. «Dio li ha puniti», sussurra la gente. Gesù replica: «Non pensate che quelle persone siano più peccatori di voi. Guardate a voi stessi. Pensate a convertirvi!».
Gli avvenimenti sono avvertimenti, occasione di discernimento. San Paolo rimproverava le false sicurezze: Chi crede di stare bene in piedi, veda di non cadere.
E noi come reagiamo alle notizie che i media ci somministrano quotidianamente nelle nostre case?  Siamo di quelli che pensano immediatamente ad un castigo di Dio, magari dando giudizi azzardati? Ricordo un commento che venne scritto l’indomani dell’attentato alle Torri Gemelle; ci si chiedeva dov’era Dio in quel giorno… Questa la risposta che veniva data: e l’uomo dov’era quel giorno? Dio non ha bisogno di difensori d’ufficio. Importante, per ognuno, è guardarsi dentro: Se suona una campana a morto, non chiederti per chi suona; perché suona per te! I suoi rintocchi sono altrettanti inviti alla conversione.
Gesù raccontò poi una parabola. Protagonista è un agricoltore che fa di tutto per salvare un fico che non da frutti. E’ sterile: perché deve occupare spazio inutilmente? Attraverso la parabola Gesù rivela ancora una volta un tratto del volto di Dio e il suo nome: Misericordia. Egli non si perde d’animo per i nostri errori e dei nostri ritardi. Non ci abbandona alla nostra mediocrità. Gli ascoltatori di Gesù conoscevano bene i rimproveri dei profeti contro il loro popolo quando non c’era volontà di conversione. Ma ora è il tempo di Gesù. Egli mette sul nostro cammino segni discreti, ma immancabili, come altrettanti inviti alla conversione. Inviti che ci fanno capire la gravità della nostra sterilità, ma nello stesso tempo sono inviti gioiosi perché davvero la conversione è possibile. Questa quaresima è una chance, come l’anno di straordinario Giubileo che stiamo vivendo. Non abusiamo della pazienza del Signore. Accogliamo la chance che egli ci offre. E, a nostra volta, diamo agli altri – ai nostri debitori – ancora una chance!

Omelia II Domenica di Quaresima

Omelia di S.E. Mons. Andrea Turazzi
Pieve di san Leo, nella messa in ricordo di don Giussani

Una notte Dio appare ad Abramo e gli promette: farò di te un popolo numeroso che abiterà questa regione. Come non pensare alla vocazione di don Giussani?
Abramo nel profondo del cuore ha sorriso: «Io, un nomade senza figli?»…
Allora il Signore compie un rito arcaico: passa in mezzo agli animali squartati e gli giura che sarà fedele alla parola che ha pronunciata. Non gli da altra garanzia: «fidati di me». E Abramo crede a Dio. E’ con totale fiducia nel Signore che don Giussani intraprende un’opera che non è sua, anche se ci mettere del suo, anzi metterà tutto se stesso, con ardore e intelligenza.
L’itinerario della quaresima ci vuole portare a questa fiducia nel Signore. Il Signore rinnova la sua promessa: farò di voi un popolo numeroso, che non si riesce a contare; e farò della terra che talvolta sentite estranea, una terra buona e abitabile. Chi, per disegno di Dio, accoglie un carisma ne diviene responsabile; e diventa, in qualche modo, confondatore dell’opera sbocciata da quella prima scintilla ispiratrice.
Nella trasfigurazione c’è un incontro col Padre.
Andiamo al Tabor dove il Vangelo ci invita a salire; ci hanno preceduto Pietro, Giovanni e Giacomo. Pietro, il pescatore di Galilea, davanti allo spettacolo della trasfigurazione vuole innalzare tre tende per prolungare quella visione luminosa. L’evangelista Luca precisa che Gesù era in preghiera: è nella preghiera infatti che Gesù incontra il Padre. E’ così anche per i tre testimoni avvolti nella nube della non conoscenza e che tuttavia svela loro la presenza di Dio confermata poi dalla sua voce. Non credo sarebbe nata una realtà come Comunione e Liberazione a prescindere da questo mistero e da questo incontro.
Anche per noi la preghiera è l’incontro col Dio vivente; un dialogo, talvolta, senza parole, nella semplicità. Nello stile di Dio con gli umili. Pregare è allora sorgente di forza, di pace, di amore. Luogo di Alleanza come fu per  Abramo. Notate: la luce della trasfigurazione fa brillare quel volto che dovrà essere sfigurato. La gloria si manifesta nel momento in cui Gesù ha risolutamente intrapreso il cammino verso Gerusalemme (è l’ora del suo esodo). E’ appunto in “quel mentre” che umanamente si vorrebbe sfuggire nel quale accade l’evento della trasfigurazione.
Nella trasfigurazione c’è un incontro con gli altri.
Nella trasfigurazione c’è una conversazione a più voci: Uomini si intrattenevano con lui: Mosè che aveva ricevuto la rivelazione del nome di Dio durante la conversazione davanti al roveto ardente, Elia il profeta rude che tra le rocce dell’Oreb è inseguito e poi raggiunto da Dio. Un vero orante non è mai solo! La preghiera mette sempre in comunicazione con altri. La preghiera trasfigura lo sguardo sul prossimo e, se necessario, aiuta ad andare oltre le difficoltà nei rapporti. Nella preghiera “entrano” i presenti e gli assenti e chi prega diventa un “avvocato” che intercede per gli altri. Nella preghiera risuonano le parole del Salmo Ti darò in eredità le genti (Sal 2,).
Nella trasfigurazione c’ è un incontro con se stessi.
Chi prega veramente entra in un rapporto di verità con se stesso. Mette a nudo la sua vita davanti a Dio. Non è più possibile tenere la maschera. Allora nello spogliamento di sé e del proprio orgoglio l’orante si vede come Dio lo vede. E quello di Dio è sempre uno sguardo di tenerezza. Chi prega si sente accolto come il pubblicano al tempio, come la donna silenziosa, come il figlio prodigo della parabola… Chi coltiva la preghiera prepara la trasfigurazione del vivere quotidiano: vede con occhi diversi le prove, le fatiche, gli insuccessi, le fragilità. Egli trasfigurerà il nostro corpo mortale e lo renderà conforme al suo corpo glorioso. Quel corpo glorioso che gli apostoli contemplano sul monte noi lo contempliamo nell’Eucaristia. E’ il segno e la garanzia della trasfigurazione della nostra terra e del nostro popolo. Come una anticipazione. Viviamo la Messa così e, come Pietro, poter dire: E’ bello per noi stare qui ascoltando Mosè ed Elia, guardando Gesù nella sua gloria. Allora non ci metteremo a ridere della promessa di Dio. Ed anche se la visione del mondo trasfigurato e riconciliato dura solo un’ora saremo capaci di scendere alla valle della nostra responsabilità con più fede e più coraggio, costruendo tende di incontro, di accoglienza, di compagnia e di fiducia tra la gente.

Omelia I Domenica di Quaresima

Omelia di S.E. Mons. Andrea Turazzi

Parrocchia della Riconciliazione (Rimini), 14 febbraio 2016

Mio babbo di tanto in tanto, rigorosamente in dialetto ferrarese, tornava con questa domanda: «Perché il Signore non è sceso dalla croce davanti agli occhi di tutti? Sarebbe stato uno spettacolo convincente per tutti!». Non sapeva di usare – lo faceva senza malizia – le stesse parole del tentatore.
Il diavolo, con la grande tentazione nel deserto, mette alla prova Gesù in un momento delicato e di debolezza: sta per iniziare la sua vita pubblica (come si svilupperà? Come finirà?) ed è stremato da quaranta giorni di deserto e di digiuno. Sta per incominciare il cammino verso Gerusalemme e il combattimento. Il diavolo sferra l’attacco, ma non riesce a piegare Gesù. Tornerà al tempo stabilito (l’evangelista adopera un verbo che allude all’azione di chi dopo averla arrotolata, srotola la sua tela o la sua rete). In altre parole, il diavolo metterà alla prova Gesù in un altro momento di estrema debolezza, nel momento della croce. Lo farà per interposta persona. Sono i capi del popolo, i soldati e uno dei ladroni a riprendere, quasi alla lettera, le parole delle tre tentazioni: Se sei il Figlio di Dio, scendi dalla croce.
Il contenuto delle tentazioni, nel deserto come sotto la croce, è il medesimo. Si tratta di una tentazione “vocazionale”, riguarda il modo di interpretare la vocazione di messia. Gesù potrebbe fare il messia con un “pieno” di successi ottenuti con show spettacolari, ma rimane fedele al cammino che il Padre gli ha assegnato. Diavolo, significa divisore. Il tentatore si propone di dividere Gesù dal Padre: «Sei solo; se non pensi tu a te stesso, chi ci pensa?». Gesù vince perché si fida del Padre: farà il messia secondo il suo disegno. Sarà un messia umile e povero. Alla fine sbaraglierà del tutto il nemico restando sulla croce.
E’ molto opportuno, all’inizio di ogni Quaresima, tornare sulle tentazioni di Gesù, pagine drammatiche utili e necessarie per il nostro cammino di fede (stupenda e intrigante la lettura che ne fa F. M. Dostoevskij nella Leggenda del Grande Inquisitore dal romanzo I fratelli Karamazov).
La prova è data per crescere, per rafforzarci e per… vincere! La vita sta davanti a noi come un rigo musicale: dobbiamo scriverci le note del nostro spartito. Se non ci fossero tentazioni, probabilmente, non espanderemo a pieno la nostra personalità, la nostra libertà, le nostre potenzialità. Gli imperatori romani, come tanti altri tiranni della storia, hanno usato il criterio del “panem et circenses” per dominare e narcotizzare i sudditi. Ci sono giovani che finiscono male perché hanno avuto tutto dai loro genitori e gli è stata risparmiata ogni frustrazione.
La tentazione non è peccato: è un’occasione di progresso spirituale. Né il Signore permette che siamo tentati al di sopra delle nostre forze. In ogni caso sentire la tentazione non è ancora acconsentire. Ai santi non sono state risparmiate: talvolta il loro combattimento è stato un durissimo, un corpo a corpo col diavolo.
Ci sono armi per vincere? Sì, e molto efficaci. La prima è il ricorso alle parole di Gesù, da richiamare alla mente mentre siamo tentati. Preghiamo come Gesù ha insegnato nel Padre Nostro: Padre, non farci cadere nella tentazione.

Omelia Mercoledì delle Ceneri

Omelia di S.E. Mons. Andrea Turazzi

Cattedrale di Pennabilli, 10 febbraio 2016
 
Gl 2,12-18
Sal 50
2Cor 5,20-6,2
Mt 6,1-6.16-18

In questo anno speciale, Anno Santo, Giubileo della Misericordia, la Chiesa, a nome di Cristo, torna ad invitarci alla conversione.
Abbiamo sentito riecheggiare parole forti della Sacra Scrittura:
«Ritornate a me con tutto il cuore» (Gl 2,12-18);
«Con l’elemosina, il digiuno, la preghiera» (cfr. Mt 6,2-4.5.16-18);
«Lasciatevi riconciliare con Dio» (2Cor 5,20).
Tra poco, durante l’imposizione delle Ceneri, ritornano i motivi e la finalità della conversione:
«Ricordati, uomo, che sei polvere e in polvere ritornerai» (Gen 3,19).
«Convertitevi e credete al Vangelo» (Mc 1,15).
Ma perché? Ci chiediamo. Perché l’incessante, il martellante ritornello alla conversione? Perché?
Le motivazioni di fondo fanno capo al mistero di Cristo e al mistero dell’uomo.
Il mistero di Cristo, nella sublimità della sua vetta e nella profondità del suo abisso, è inesauribile; impossibile da prosciugare, eccedenza di luce, di amore, di santità… il Vangelo!
Il mistero dell’uomo (che pure solo in Cristo trova il suo compimento) è di natura tale da rinchiudersi sempre in se stesso e da ricadere nelle proprie oscurità; inquieto e, tuttavia, bisognoso di essere liberato da sé e risollevato dalla stanchezza, dal torpore, dalla mediocrità, dal suo peccato. Polvere!
C’è bisogno di fare Pasqua, ossia di fare il passaggio ad una vita nuova.
Guardandoci attorno – lontano e vicino – constatiamo drammi, tragedie, indifferenza, incomprensioni, ostilità, delinquenze e corruzioni che si potevano ritenere scomparsi dalla scena della nostra società.
Come uomini – non possiamo farci estranei a quanto accade ai nostri simili – portiamo anche noi la responsabilità di quanto andiamo scoprendo giorno per giorno in questo nostro mondo.
Non possiamo offrirci alla penitenza in favore degli altri presumendo di essere personalmente innocenti. Né vale la scusa di ignorare quanto accade perché attenti ai nostri interessi… e così diventiamo complici.
Se la questione morale è la prima e sta a monte di ogni vera riforma, se è una e indivisibile, tutti siamo coinvolti; nessuno è senza peccato (peccati personali e comunitari) e tutti abbiamo da pentirci e da convertirci. La sete del denaro, la ricerca dei propri interessi, la mentalità mondana non sono penetrati anche nella nostra coscienza e nella nostra condotta?
In questi casi la conversione e la penitenza è quanto fa per noi.
C’è una solidarietà nel bene a cui occorre richiamarci; ma c’è una solidarietà anche nel male. Il peccato di uno è a svantaggio di tutti, depaupera tutto il corpo, lo corrompe, innestandovi germi di morte.
Invece, la conversione di uno genera benessere e avvia processi di salvezza per tutti. Un’anima che si eleva, eleva il mondo!
Convertiamoci e lasciamoci convertire. «Ecco il tempo favorevole! Ecco ora il giorno della salvezza!» (2Cor 6,2).
Come canta il Salmo raggiungeremo «la sincerità del cuore», ricreato da Dio. Ci verrà creato «un cuore puro», «uno spirito saldo». «Uno spirito contrito è sacrificio a Dio, un cuore affranto e umiliato, tu o Dio, non disprezzi» (Sal 50,8-20).
Il pressante invito alla conversione, che risuona in questo giorno, parte dal grido del profeta Gioele che personalizza e umanizza la conversione: «Ritornate a me» – a me! – «con tutto il cuore» – con tutto il cuore! Un rapporto personale, nuovo, tra lui e noi.
Al termine del cammino pasquale ritorneremo a sentire il profeta Gioele che ci farà constatare il risultato della nostra collaborazione alla iniziativa di Dio: «Effonderò il mio spirito sopra ogni uomo… i vostri figli e le vostre figlie avranno visioni, i vostri anziani sogni» (Gl 3,1-2).
Per il frutto della conversione quaresimale, il dono pasquale dello Spirito opererà una nuova creazione nella nostra società, e «rinnoverà la faccia della terra» (cfr. Sal 103,30).
Allora: «Ritornate a lui con tutto il cuore»! Così sia.

Omelia per le esequie di Padre Egel Morilla Reinaldo

Omelia di S.E. Mons. Andrea Turazzi

Dogana, 10 febbraio 2016

Gen 12, 1-3
2Tm 4,6-8
Sal 50
Gv 14,1-6
Leggo la vicenda umana e spirituale di padre Egel alla luce dell’esperienza vocazionale di Abramo. «Parti dal tuo paese, dalla tua patria e dalla casa di tuo padre, verso il paese che io ti indicherò. Ti benedirò… e diventerai una benedizione» (Gen 12, 1-2).
Dunque c’è:
– una partenza,
– un paese in cui abitare,
– una benedizione.
Don Egel è partito da un paese lontano da noi (l’Argentina), è arrivato in una terra lontana da lui (l’Italia e la Repubblica di San Marino). La sua vita, come quella di Abramo, è stata un lungo viaggio: un altro emisfero, un’altra cultura, un’altra lingua; distacchi non metaforici e incontri altrettanto reali…
Entriamo nel cuore di chi parte per un lungo viaggio: che cosa prova?
«Beato chi decide nel suo cuore il santo viaggio» (Sal 84,6). E che altro è il viaggio se non il preludio di un incontro e di tanti incontri? Il viaggio è metafora della vita. Meditiamo sul viaggio compiuto da padre Egel – un prete raffinato, affidabile, colto – e sul nostro quotidiano cammino.
Mi aiuta un apologo orientale. C’è chi procede con i piedi: i suoi passi si impolverano su strade assolate e si attardano, talvolta, in oasi e locande. Costoro sono i mercanti, i cui percorsi sono governati da fini precisi e il cui viaggio è sempre e solo un transito.
C’è chi avanza per le strade con gli occhi: avido di scoprire e di sapere, di fermarsi ad ammirare le creazioni di quelle civiltà o l’orizzonte luminoso di un panorama. Costoro sono i sapienti.  Infine, c’è chi viaggia col cuore: egli non s’accontenta di camminare, visitare, sapere, ma vuole vivere con gli uomini e le donne delle regioni attraversate, vuole ascoltarli e parlar loro e “mettere in luce la perla segreta di Dio” che dappertutto è riposta. E costui è il pellegrino.
Non bastano il desiderio delle cose e i progetti da realizzare, occorre scegliere di partire. Non basta una mèta per camminare, occorre concretamente saper aprire le vele.
C’è un altro rischio che può vanificare il viaggio: muoversi chiusi in una sorta di bolla di sapone o campana di vetro. Accade quando si cede alla tentazione di assicurarsi un guscio, una valigia capace di contenere il mondo che si lascia. Quando ci si mette in viaggio si deve mettere in conto l’incontro con ciò che è “diverso”: ambienti, culture, persone.
L’incontro sarà pieno se chi cammina con noi non resterà solo un ingombrante compagno di viaggio, ma un amico, uno di cui si impara a conoscere il mondo interiore.
Quando si viaggia e si cammina si va avanti. Il viaggio è procedere, proseguire, andare verso una tappa ulteriore. Si scopre pian piano, però, che il viaggio, in verità, è una… discesa. O meglio, l’andare avanti trascina in profondità perché, in realtà, la strada e la mèta del nostro viaggiare sono interiori.
Il paese nuovo incontrato da padre Egel è stato la Repubblica di San Marino, la diocesi sammarinese-feretrana, la parrocchia di Borgo prima, la parrocchia di Falciano poi; infine, la collaborazione con parrocchie, gruppi e quella rete di cuori che ha saputo tessere e coltivare.
L’ho conosciuto in una casa famiglia della Papa Giovanni: amato e ascoltato. Ho ricevuto spesso i suoi messaggi di adesione alle proposte diocesane, pur non potendo parteciparvi per le difficoltà di salute che sono andate crescendo. Avrei voluto frequentarlo più spesso in questi ultimi mesi di ripetuti ricoveri in ospedale e, definitivamente, al “Casale La Fiorina”. Gli incontri con lui sono stati sempre caratterizzati da una profonda comunione. La comunione del vescovo col suo presbitero e del presbitero col suo vescovo è essenziale; va ben oltre la cortesia, la stessa disciplina, l’intesa pastorale, pur necessaria. È una comunione generativa. Per questa comunione gli ho chiesto di offrire la sua vita per la nostra Chiesa e per i suoi preti in particolare. Ci siamo dichiarati, ad ogni incontro, la disponibilità a far sì che Gesù fosse presente tra noi per la carità reciproca: «Dove due o più sono uniti nel mio nome – assicura Gesù – io sono in mezzo a loro» (Mt 18,20). Nell’ultimo incontro – la scorsa settimana – gli ho chiesto: “Il primo di noi che incontra la Madonna le porterà un saluto speciale per l’altro”. Mi ha detto: “Sì”. Ho aggiunto: “Potrei essere io il primo a partire per il Cielo”. Ha inarcato le sopracciglia è ha sorriso…
Ho accennato al mio rapporto con lui, ma tanti potrebbero raccontare… Perché padre Egel ha abitato veramente questa terra e questa diocesi. “Abitare, voce del Verbo”. Ringrazio chi l’ha accompagnato, chi gli è stato vicino, chi l’ha assistito all’ospedale e al “Casale La Fiorina”.
Ci sono dieci verbi al futuro nel racconto di Abramo: «Parti verso il paese che ti indicherò. Farò di te un grande popolo. Ti benedirò. Renderò grande il tuo nome. Diventerai una benedizione. Benedirò coloro che ti benediranno. Maledirò coloro che ti malediranno. In te si diranno benedette tutte le famiglie della terra».
Il futuro di padre Egel diventato presente è la dimora definitiva, anzi, il «posto» preparato per lui, terra promessa. «Nella casa del Padre mio vi sono molti posti. Se no, ve l’avrei detto. Io vado a prepararvi un posto» (cfr. Gv 14,2). Meta raggiunta. Promessa compiuta. Fedeltà di Dio, nella fede di chi ha terminato il viaggio ed ora riposa nella luce.
L’esistenza di un prete è una benedizione: egli benedice in nome di Dio, è ministro della grazia sacramentale di Cristo, proclama la Parola, riunisce e guida la comunità, è un segno nella società, anche nella nostra secolarizzata. «Lasciate un paese senza prete – diceva il curato d’Ars – e vedrete in quali condizioni lo ritroverete».
La ragione più profonda del prete-benedizione sta nel mistero della sua vocazione, precisamente nell’essere una esistenza offerta. La sua vita è chiamata ad essere conforme al sacrificio che celebra sull’altare. Ci sovviene, allora, un’altra pagina della vicenda di Abramo. Dio gli chiede il sacrificio del figlio. Abramo intraprende il viaggio più drammatico della sua vita. «Prese la legna dell’olocausto e la caricò sul figlio Isacco, prese in mano il fuoco e il coltello, poi proseguirono tutti e due insieme» (Gen 22, 6). Isacco, che reca la legna per il proprio sacrificio, è figura di Cristo che porta la sua croce. Tuttavia, portare la legna dell’olocausto è ufficio del sacerdote. Così egli diventa vittima e sacerdote. Dice Isacco ad Abramo: «Padre mio!» (Gen 22,7). Questa voce del figlio, in un momento simile, è la voce della tentazione. La voce di Isacco sconvolge il cuore del padre. Abramo risponde con una voce che tradisce l’affetto paterno: «Che vuoi, figlio?».
E lui: «Ecco qui il fuoco e la legna, ma dov’è l’agnello per l’olocausto?». Abramo risponde: «Dio provvederà l’agnello per l’olocausto, figlio mio» (Gen 22, 7-8). Commuove la risposta di Abramo, così delicata, prudente e profetica.
L’agnello immolato è Cristo. Il sacerdote, consacrato per l’imposizione delle mani, diviene partecipe del sacerdozio di Cristo. Le sue membra diventano le membra della redenzione: con l’offerta del quotidiano servizio alla propria gente, con la corrispondenza al dono del celibato, con il fedele rimanere aggrappato alla croce di Cristo, con la sublimazione della sofferenza.
Siamo partiti dal viaggio misurato con i chilometri, siamo arrivati a considerare il viaggio dell’anima che sale con Gesù sul monte «per la vita del mondo» (Gv 6,51).
Preghiamo. Accetta, o Signore, l’offerta della sofferenza e della vita di padre Egel. Uniscila al tuo sacrificio. Signore, concedi a noi sacerdoti di continuare a spenderci e a donarci senza riserva per la nostra gente. Fa’ che la nostra vita insieme a quella del nostro popolo diventi una liturgia per la tua gloria. Così sia.

Omelia V Domenica del Tempo Ordinario

Omelia di S.E. Mons. Andrea Turazzi

Basilica di San Marino (RSM), 7 febbraio 2016

Giornata della vita

Is 6,1-2.3-8
Sal 137
1Cor 15,1-11
Lc 5,1-11
Il lago, la folla, Gesù. Entusiasmo e voglia di ascoltare il Maestro: quasi un assalto. Non lontano due barche dondolano, ormeggiate alla riva, dopo un ennesimo fallimento. Barche vuote e pescatori che fan su le canne – come suol dirsi –  intrappolati nelle loro reti vuote, indifferenti a quanto sta succedendo a pochi passi da loro. Eppure è proprio di quelle barche che il Maestro ha bisogno: ne vuol fare il pulpito dal quale risuonerà la Parola di Dio. E’ il primo miracolo che vediamo in questa giornata di prodigi. Gesù cerca la mia povera barca. Anzi, cerca me. Anche la barca della mia vita può diventare un punto di partenza, ma devo cederla a Gesù come ha fatto Simone: «Ecco quel poco che ho e quel poco che so fare». E’ interessante notare come Gesù parli stando su una barca dondolante sull’acqua, mentre la gente preferisce stare coi piedi ben piantati a terra… Chi ha fede è sicuro, non teme stare con Gesù su una piattaforma che appare insicura e non teme la navigazione al largo.
Segue un prodigio ancora più grande allorché viene ceduta non una barca, ma la propria volontà: sulla tua parola getterò le reti. Farò quello che vuoi tu, anche se mi vien da pensare che tu, Signore, di pesca non te ne intendi (non si va a pescare in pieno mezzogiorno!). Faccio quello che mi chiedi anche se, come vedi, non sono un gran pescatore e i pesci non han voglia di abboccare… Ci provo ancora.
Chi non si sente provocato da questo racconto così lontano eppure così vicino? Affiorano alla coscienza i fallimenti, le delusioni, le inconsistenze: una barca vuota. Vuota perché piena dei «secondo me», piena della mia volontà. Eppure è successo e succederà ancora, se lo voglio: ceduta al Signore quella barca tracimerà di pesci. Il pescatore di Galilea, salpato per altri mari, ben più profondi e vasti, diventerà pescatore di uomini. Quella Parola risuona anche per me: Non temere. «Segui Gesù a costo di lasciare tutto (o meglio: quel poco che sei e quel poco che hai). A te che, a mala pena, hai messo fuori il naso dal tuo cortile, darà in eredità le genti (cfr. Sal 2)»! Gesù non si lascia impressionare dai miei difetti e dai miei limiti e neppure da quello che a me pesa di più: la mediocrità. La mediocrità è riscattata quando si fa per amore.
Gesù mi affida persino il suo vangelo: anch’io posso fare qualcosa per gli altri e per Dio. Dalle mie parti, sulle rive del Po, c’è un vecchio barcone ben ancorato all’argine. L’hanno trasformato in un ristorante galleggiante; lo chiamano “Il mulino sul Po”. Gesù non pensa la sua Chiesa come un barcone ancorato, ma come un’agile barca che risale le acque del mondo.

Omelia per la Festa della Presentazione del Signore

Omelia di S.E. Mons. Andrea Turazzi

Chiusura dell’Anno dedicato alla vita consacrata

Cattedrale di Pennabilli, 2 febbraio 2016
Ml 3,1-4
Sal 23
Lc 2,22-40

Celebriamo di cuore, con tutto il cuore, questa festa: la presentazione del Signore al tempio, Giubileo dei consacrati, nel giorno che conclude un anno intero dedicato a loro, alla loro vita e alla loro missione nella Chiesa e nel mondo.
Indico tre parole che ritornano nella liturgia; tre parole da portarci a casa: presentazione, purificazione, sacrificio.

  1. Celebriamo con la nostra luce (quella che portiamo nelle nostre mani), quella della fede e dell’amore, la rivelazione del Signore-luce, tutto luce, gloria di Israele, «luce delle genti»! Egli viene presentato dalla Vergine Madre. E si presenta nel tempio in sacrificio, sostituito, allora, dal sacrificio di una coppia di tortore o di giovani colombi. Si presenta al sacrificio e, sulle labbra di bambino, possiamo raccogliere le parole (senza parole!) del Salmo ripreso dalla Lettera agli Ebrei: «Tu non hai voluto né sacrificio, né offerta, un corpo invece mi hai preparato. Non hai gradito né olocausti, né sacrifici per il peccato. Allora ho detto: “Ecco, io vengo… per fare, o Dio, la tua volontà”» (Ebr 10, 5ss).
  1. Egli viene per purificare. La purificazione è azione di misericordia, perché di noi si prende cura. «Purificherà i figli di Levi, li affinerà come oro e argento, perché possono offrire al Signore un’oblazione secondo giustizia» (Mal 3,3). Egli è fuoco purificante, fuoco che brucia le scorie perché l’oro risplenda. Prima, però, vuole assimilarsi a noi che dobbiamo essere purificati e – pur non avendo peccato – accosta noi peccatori, mangia e beve con noi. «Gesù sorprende i suoi ascoltatori. Turba e disarma il peccatore. Converte, conquista, fa crescere e abbraccia. È un crescendo. Così è stato con Levi Matteo, intento al suo compromettente lavoro di esattore di tasse; con la donna silenziosa che non smette, riconoscente, di baciargli i piedi, di bagnarli con le lacrime e di asciugarli coi capelli. Così è stato con Zaccheo, scovato, tra le foglie della sua curiosità, al passaggio del Maestro, poi suo ospite; così con Maria di Magdala, la discepola dalla quale erano usciti sette demoni; così con l’adultera, rimasta sola con Gesù; così col ladrone canonizzato all’istante: «Oggi sarai con me in Paradiso»! (dalla Lettera pastorale del Vescovo Andrea per l’Anno Giubilare 2016, p.10).
  1. Come si compie la sua purificazione? Può essere sintetizzata così: dalla “condiscendenza”, cioè dal suo “abbassamento” (cfr. Fil 2,6ss), al dono di sé, al sacrificio! Il sacrificio di Gesù è il dono che fa di sé. «Poiché dunque i figli hanno in comune il sangue e la carne, anche Cristo allo stesso modo ne è divenuto partecipe, per ridurre all’impotenza mediante la morte colui che della morte ha il potere, cioè il diavolo, (…). Egli infatti non si prende cura degli angeli, ma della stirpe di Abramo si prende cura. Perciò doveva rendersi in tutto simile ai fratelli, per diventare un sommo sacerdote misericordioso e degno di fede nelle cose che riguardano Dio, allo scopo di espiare i peccati del popolo. Infatti, proprio per essere stato messo alla prova e avere sofferto personalmente, egli è in grado di venire in aiuto a quelli che subiscono la prova» (Ebr 2,14-18). In tal modo, egli, che è puro, purifica: purifica perché fuoco d’amore; purifica perché purificato dal dolore. Egli, che è luce, illumina e trasforma in luce. Quella luce che il vecchio Simeone vide e da cui fu avvolto e invaso al termine della sua vita: «I miei occhi han visto… » la luce! (Lc 2, 32).
  1. Questa è la presentazione di Gesù, quella che Gesù fece di sé; quella che Maria fece di Gesù, quella che, nel giorno della sua purificazione legale, la Madre fece nuovamente di sé (secondo un’antica tradizione, era già stata presentata al tempio). Questa presentazione di Gesù e di Maria, oggi si attualizza ancora tra noi, in forme diverse ma con sostanza unica. I religiosi e le religiose, tutti i consacrati, che vivono e operano tra noi, nella nostra diocesi, rinnovano insieme il dono della loro professione e vengono ripresentati al Signore, a Cristo, Cristo sposo, come Chiesa, come “vergine casta” (2Cor 11,2). E noi tutti, fedeli e battezzati, siamo chiamati a offrirci in coerenza con la dignità del sacerdozio regale e della missione affidataci. Ricordate San Pietro? «Quali pietre vive siete costruiti anche voi come edificio spirituale, per un sacerdozio santo e per offrire sacrifici spirituali graditi a Dio, mediante Gesù Cristo» (1Pt 2,5). E San Paolo: «Vi esorto dunque, fratelli, per la misericordia di Dio, a offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio; è questo il vostro culto spirituale» (Rom 12,1). Cogliamo la grazia che ci viene offerta di rivivere la nostra presentazione al tempio: «Signore, siamo qui alla tua presenza. La tua misericordia ci avvolge come una marea di luce e di grazia». A nostra volta ci dichiariamo disponibili, con le opere della misericordia, ad andare verso i fratelli. Dio voglia che tanti giovani sappiano ascoltare la voce del Signore e impegnarsi con colui, servire il quale è regnare e consumarsi così per la vita del mondo (cfr. Gv 6,51). Una vita eucaristica. Dio voglia che tante ragazze abbiano il coraggio, in risposta agli appelli dello Spirito, di consacrarsi con la pienezza delle loro doti ed energie alle aspirazioni più profonde del loro cuore, alle più vere esigenze della nostra società e del nostro tempo. Per essere tutti insieme carezza di Dio per la nostra gente. Così sia!

Omelia per la IV Domenica del Tempo Ordinario

Omelia di S.E. Mons. Andrea Turazzi

Parrocchia dei Santi Marino e Leone (Murata, RSM), 31 gennaio 2016

Ger 1,4-5.17-19
Sal 70
1Cor 12,31-13,13
Lc 4,21-30

Oggi sono qui a Murata, nella vostra parrocchia, per sciogliere un desiderio: fare un pellegrinaggio nella chiesa dove San Giovanni Bosco è spiritualmente presente. Sono qui per chiedere a don Bosco una grazia: la grazia delle vocazioni. Si dice che don Bosco ritenesse che un ragazzo su tre avesse la vocazione!
Con don Bosco provo a commentare il Vangelo di oggi: la seconda parte del racconto del “discorso inaugurale”. Gesù si presenta, finalmente e apertamente, come Messia. Colui che chiama non è uno qualsiasi; colma il cuore e la mente di chi si innamora di lui. Seguiamo il Vangelo.
Quel sabato i Nazaretani erano andati in sinagoga come al solito, ma “inciampano” su Gesù, cioè si scandalizzano di lui (scandalo significa, appunto, inciampo). Gesù infatti propone un Dio dal volto inatteso. Lui stesso sorprende e sorprenderà sempre più, man mano che avanzerà nella sua missione. Per noi che rischiamo di fare l’abitudine al Vangelo, non è una cosa negativa essere stupiti da Gesù. È una grazia superare cliché e frasi fatte…
Vediamo i motivi che rendono sorprendente Gesù ai suoi compaesani.
Primo motivo: che un profeta sia un uomo straordinario, dotato di carismi eccezionali, è comprensibile, ma che la profezia sia “scesa” nella persona della porta accanto (così doveva apparire loro Gesù), nel quotidiano, questo pare troppo e i compaesani non se lo aspettano. Questa la reazione dei concittadini di Gesù al termine del suo discorso in sinagoga e l’epilogo finisce per essere tragico. Tutto era cominciato nel migliore dei modi: «accomodati», «leggi tu», «dicci una tua parola: ti ascoltiamo volentieri»… Poi, dopo i convenevoli ed il battimani, ecco la critica, il malumore e il pregiudizio: Costui non è il figlio di Giuseppe? I compaesani protestano. Gesù in effetti è il figlio del falegname e di Maria e ogni nazaretano lo conosce bene, sa come pensa, vede come lavora e con chi va… In cuor loro sembrano pensare: Che cosa ha più di me? Che cosa ha più di mio figlio?  E invece lo Spirito è sceso proprio su di lui. È accaduto non solo nella sacralità del battesimo ricevuto dal Battista sulle rive del fiume Giordano, ma pure dove la vita celebra la sua liturgia e fa delle case – della casa di Nazaret – il suo tempio. «Lo Spirito del Signore è sceso su di me…». «Oggi si è adempiuta questa scrittura». I nazaretani sono passati troppo in fretta dalla fierezza per quel loro compaesano, alla irritazione ed al rifiuto. Gelosia? Probabilmente; a volte succede che non si ha stima di chi, vivendo fianco a fianco a noi, ci sorpassa e viene fuori con tutto il suo valore e la sua classe. È il clou del discorso che inaugura la vita pubblica di Gesù: è lui il Messia!
C’è un secondo motivo di scandalo: i nazaretani pretendono miracoli; vogliono dirottare la grazia fra i vicoli del loro paese (i miracoli non bastano mai). Lo provocano: fai anche da noi i miracoli di Cafarnao! Si sbagliano proprio sull’idea di Dio; vorrebbero rinchiudere i suoi progetti nella grettezza della loro visuale. Invece Gesù parla di un Dio Padre anche per la vedova di Sidone e per i lebbrosi di Siria. Attenzione ai profeti che sono tra noi e alla profezia accesa dentro e fuori la Chiesa.

Omelia III Domenica del Tempo Ordinario

Omelia di S.E. Mons. Andrea Turazzi

Cappella del vescovado, Pennabilli, 24 gennaio 2016
Ne 8,2-4.5-6.8-10
Sal 18
1Cor 12,12-30
Lc 1,1-4; 4,14-21
Quasi non riusciamo a staccarci da Cana… Ma dobbiamo passare dalla festa di nozze alla sinagoga di Nazaret: altro scenario, altra atmosfera, altra gente. Protagonista è ancora Gesù alle prese con quelli del suo villaggio e con la loro vita. Di che cosa è fatta la vita se non di rapporti, di lavoro e di famiglia? Ciò che si vive concretamente può essere raffigurato dall’acqua nelle anfore di Cana, cioè il quotidiano fatto di amore, di fatiche e di attese, ma che può essere trasformato se offerto al Signore, cioè se è vissuto con lui.
Entriamo dunque in sinagoga al seguito di Gesù.
Gesù ci va ogni sabato “secondo il suo solito”. Partecipa con puntualità alla preghiera comune, ascolta le parole che Dio ha rivolto al suo popolo. Ha imparato che nelle cose di Dio non vale il fai da te. E poi è felice di appartenere al suo popolo, di partecipare ai suoi riti e alle sue tradizioni. Gesù come un fiore sboccia e si apre sul grande albero della storia di Israele.
Quel sabato dopo la preghiera iniziale, è invitato a prendere la parola per offrire una spiegazione al testo previsto dalla liturgia sinagogale per quel sabato: Isaia, capitolo 61: «Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l’unzione e mi ha mandato a portare ai poveri il lieto annuncio, a proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista; a rimettere in libertà gli oppressi e proclamare l’anno di grazia del Signore». Forse non è la prima volta che Gesù viene invitato a leggere. Ma l’evangelista dà grande rilievo a questo momento. Con fine arte letteraria e sensibilità psicologica, evidenzia l’atmosfera di suspense dell’uditorio di fronte al nuovo Maestro e in tal modo sottolinea il carattere programmatico dell’omelia di Nazaret: quello che Gesù sta per dire è della massima importanza, costituisce il suo manifesto. E’ sorprendente la solennità con cui si compie quel rito: viene consegnato il rotolo, lo apre, trova il passo, si alza, legge, chiude il libro, lo restituisce al cerimoniere, siede, gli occhi di tutti sono puntati su di lui, silenzio…
Cominciamo a capire anche noi chi è Gesù. A differenza dei predicatori del tempo, non si perde nei labirinti dell’esegesi o della retorica, ma punta dritto su ciò per cui quel testo è stato scritto: oggi si compie questa scrittura davanti a voi che ascoltate. Con quell’oggi Gesù lega la sua persona all’avvento del Regno: il Regno di Dio sta per comparire tra gli uomini. L’umanità che sfila davanti ad Isaia risulta povera, prigioniera, cieca, oppressa. Gesù non mette come scopo della storia se stesso, ma i destinatari di quell’annuncio: i poveri, gli oppressi, i prigionieri, i ciechi… A loro è annunciato il Regno di Dio. Questi destinatari siamo noi, oggetto della misericordia di Dio. Siamo chiamati a compiere anche noi le opere del Messia: «Voi farete cose più grandi di me», dirà un giorno Gesù. In questo Anno Santo ci stiamo proponendo di praticare le opere di misericordia; non sia tanto la pratica di una “buona azione” ma la maturazione di uno stile di vita, di un giudizio serio sulla realtà che ci circonda. Mettiamoci nei panni del Messia: “Che cosa faresti, Gesù, al mio posto?”.

Omelia II Domenica del Tempo Ordinario

Omelia di S.E. Mons. Andrea Turazzi

San Giovanni Sotto Le Penne, 17 gennaio 2016
Is 62,1-5
Sal 95
1Cor 12,4-11
Gv 2,1-11
Perdonate il candore: che ci fa Gesù ad una festa di nozze? Schiavi e lebbrosi gridavano la loro disperazione e, prima, generazioni e generazioni di oranti avevano implorato che il Cielo si aprisse in loro soccorso, e Gesù non comincia da loro ma da una festa di nozze!
A Cana compie il primo dei suoi miracoli. Cambia acqua in vino: la potenza taumaturgica del Messia “sprecata” per uno scopo così modesto, quasi un numero da giocoliere… Forse per cavar fuori due sposini da una situazione imbarazzante? Tutto qui? Il Vangelo fa capire che c’è sotto qualcosa di importante e carico di mistero, ben al di là d’un episodio di cronaca paesana! Sì, c’è acqua cambiata in vino, ma in filigrana, c’è l’annuncio di un vino che prelude al tempo del Messia e, più delicatamente, si allude ad un vino che si cambierà in sangue, sarà nell’ultima cena. Il contesto nuziale del racconto è essenziale: dalle nozze di Cana alle nozze sul Golgota, nozze di un Dio che ci sposa e prende in dote quel che è più nostro, la debolezza e il dolore. Non fa sparire magicamente debolezza e dolore, ma se ne fa carico e li porta insieme a noi.
Il racconto di Cana sorprende: è un matrimonio in cui viene a mancare il vino (metafora di quel che succede talvolta nella nostra vita). La traduzione del testo in uso fino a qualche tempo fa – forse per attenuare l’incongruenza – recitava: Non hanno più vino (sottinteso: il vino è finito). In realtà la madre di Gesù dice: Non hanno vino. L’evangelista poi, parla di un’acqua che di per sé aveva tutt’altra destinazione, era nelle sei anfore per le abluzioni rituali; simbolo, in oltre, di sovrabbondanza (colme sino all’orlo, capaci di centoventi litri!) e, alla fine, simbolo di un vino migliore!
Un sogno? No; è chiesto di comprendere, attraverso questi simboli e paradossi, la manifestazione di Dio in Gesù lo sposo e di credere in lui come hanno fatto i primi discepoli. “Gesù disse: riempite d’acqua le giare. E le riempirono fino all’orlo”. Che cosa possiamo portare al Signore? Solo acqua, nient’altro che acqua. Abbiamo un amore, forse povero, o senza luce, ma non importa: mettiamolo davanti al Signore.
Le nozze di Cana dicono che l’amore umano è luogo di miracoli. Chissà quali prodigi saprà compiere il Signore nel nostro quotidiano vivere e con quale alchimia renderà dolci i passaggi amari della nostra vita? Dio ha a cuore la felicità dei suoi figli prima ancora della loro fedeltà: infatti nulla hanno fatto gli sposi per meritare il miracolo, ma Gesù è intervenuto. Stupefacente: col suggerimento di sua madre ad attirare il sguardo di Gesù è il loro essere senza vino, cioè la loro povertà!