Omelia III Domenica di Pasqua

Omelia di S.E. Mons. Andrea Turazzi

Uffogliano, 9 aprile 2016 – Faetano RSM, 10 aprile 2016

Un gruppo di apostoli, dopo tre anni con Gesù, è tornato alla propria casa, alle barche e alle reti. Quelli che erano del gruppo di Gesù, sono tornati sulle rive del lago a pescare. Pietro non si è riavuto completamente dal triplice rinnegamento, dal suo venerdì santo. Sta nudo sulla barca come Adamo davanti al suo peccato. Gli apostoli non riconoscono Gesù sulla riva; non è una questione di distanza o di nebbia mattutina. Semmai di lontananza del cuore “lento a credere”.
Anche a noi, come a Pietro e agli altri, succede di restare bloccati sotto il peso di un fallimento, di un errore o di penare, senza vedere risultati tangibili, per il nostro impegno ecclesiale o sociale, per il nostro impegno famigliare (può succedere, ad esempio, di vedere lo svaporare della tenerezza, il progressivo allontanarsi di un figlio, ecc.). E’ notte. La barca è vuota. Il racconto evangelico ci riferisce di Giovanni che sa vedere con gli occhi della fede il prodigio della rete piena di pesci, è lo stesso apostolo che “vide la tomba vuota e credette”. Giovanni riconosce Gesù e lo fa riconoscere agli altri: «E’ il Signore!». Allora tutto cambia. Cambia il cuore degli apostoli. La luce succede alla notte. La presenza all’assenza.
Questa settimana ci proponiamo una più intensa vita sacramentale: considerare l’importanza dei sacramenti, riceverli, creare le condizioni per una fruttuosa recezione, conservarne la grazia. E’ il modo più concreto di vivere la Pasqua. I sacramenti sono segni efficaci della presenza di Gesù risorto: nel Battesimo ci fa suoi; nella Cresima dona lo Spirito “senza misura”; nella Confessione il perdono; nell’Eucaristia se stesso come nutrimento; nel Matrimonio e nell’Ordine la chiamata al dono di sé; nella santa Unzione la guarigione. Tutto ciò che fu visibile del nostro Redentore è passato nei segni sacramentali. Nelle domeniche del tempo pasquale la parrocchia vive con gioia le tappe dell’iniziazione cristiana dei più piccoli: un cammino che riguarda tutti. Tutta la comunità è coinvolta: la generazione di nuovi cristiani è affare di tutti!

Propongo la meditazione dei versetti finali dell’apparizione del Risorto sul lago di Galilea che riportano il dialogo fra Gesù e Pietro (tra le pagine più belle del quarto vangelo). Suggerisco due piste. La prima. Gesù è risorto; ha attraversato l’oscura valle della morte che tanto inquieta ed incuriosisce. E’ risalito dagli inferi, misterioso tunnel dell’altro mondo. E’ entrato nella gloria. Ormai la sua umanità è trasfigurata nella beatitudine, ma viene nuovamente tra i suoi. E lui che fa? Potrebbe comparire tra i filosofi che amano disquisire sull’immortalità dell’anima (ha precise informazioni!). Potrebbe manifestarsi ai potenti che l’hanno condannato e prendersi la rivincita per l’onta subita… E lui che fa? Va in cerca degli amici. E li raggiunge sulle rive di un lago in tenuta da pesca. Gli sta a cuore la relazione, la relazione interpersonale. Domanda all’amico: Mi ami? La relazione resta anche oltre la morte. Sarà così anche per noi. Vorrei dirlo ancora allo sposo che in questi giorni piange la sua sposa ancora giovane. In Dio la ritroverà. Quel legame così speciale sarà ritrovato, seppure in nuova modalità. Seconda pista di meditazione. Sono andato a verificare, direttamente sul testo greco (la lingua dei Vangeli) la sequenza dei verbi adoperati nel dialogo Gesù – Pietro. Tre volte Gesù reclama amore. E si mette in ascolto del discepolo: Mi ami più di tutti? «Amare» qui è detto con un verbo forte (il verbo dell’agape), il verbo dell’amore assoluto ed è rafforzato da quel più di tutti che aggiunge una pretesa di esclusività. Pietro, consapevole del triplice tradimento, vola basso e risponde con un altro verbo che significa più amicizia che amore, un verbo meno impegnativo: Certo, Signore, ti voglio bene. Gesù per la seconda volta formula la domanda, ma tace il più di tutti. Al ti voglio bene ribadito da Pietro, Gesù si adegua alla timidezza dell’amico e per la terza volta chiede: Mi vuoi bene? Si avvicina al cuore incerto del discepolo, ne accetta il limite, abbassa le esigenze dell’amore per amore. Umiltà di Dio!
Nel vangelo di Matteo il primato è conferito a Pietro in un contesto solenne di professione di fede (cfr Mt 16,13-20), in Luca nella notte pasquale (cfr Lc 22,31-34), in Giovanni in questo momento di confidenza e di amore: “Mi ami tu?”.

Omelia II Domenica di Pasqua

Omelia S.E. Mons. Andrea Turazzi

Mercato Vecchio – 3 aprile 2016

At 5,12-16
Sal 117
Ap 1,9-11.12-13.17-19
Gv 20,19-31

Nel vangelo della seconda domenica di Pasqua (detta la domenica di Tommaso), si racconta l’apparizione di Gesù ai discepoli barricati nel Cenacolo per la paura dei giudei. Gesù viene delicatamente, anche se le porte sono chiuse, sensibile ed attento alle paure e ai dubbi dei suoi amici. Saluta: Pace a voi.
Si ricomincia con il soffio di Gesù che alita sulla comunità che riparte, è il gesto compiuto dal Creatore che da vita all’uomo. La comunità “ricreata” da Gesù è una comunità nuova che riesce perfino ad ospitare l’incredulità di uno del gruppo, uno dei migliori… Tommaso, infatti, non crede, ma non se ne va, rimane. Il gruppo non lo esclude e non lo emargina. La comunità cristiana è luogo della fede: quando la fede di un fratello è debole, attorno a lui ci si mobilita: «Resta. Non te ne andare. Altri ti porteranno, altri saranno testimoni». Otto giorni dopo Gesù è ancora li. Entra e non si ferma coi dieci che credono, ma va dritto verso Tommaso: Metti qua il tuo dito, tendi la tua mano. Di per sé il vangelo non dice che Tommaso ha toccato le mani ed il costato trafitto di Gesù. A Tommaso è bastato sentirsi incoraggiato e non giudicato; è bastato vedere negli occhi colui che si è concesso ai suoi dubbi prima che alle sue mani: «Sei proprio tu, Gesù. Inconfondibile nel tuo modo di proporti e nel tuo stile. Non mi sbaglio»!
Così Tommaso passa dall’incredulità all’estasi: Mio Signore e mio Dio! «Mio»: un aggettivo che cambia tutto, non evoca il Dio dei libri, il Dio degli altri, ma il Dio che si è intrecciato con la sua vita e i suoi dubbi. Ecco gli aggettivi di un cuore ricreato: «tu sei mio» – «io sono tuo».
Aspetto ogni volta con curiosità e meraviglia, l’incontro con l’apostolo Tommaso. Accade ogni anno, la seconda domenica di Pasqua. E’ sempre una sorpresa.
Mi piace l’interpretazione dell’episodio evangelico che ne offre il Caravaggio nel suo celebre dipinto. Tomaso è incredulo: c’è bisogno della mano forte di Gesù, perché il suo dito penetri nella profonda fessura sul petto squarciato. A Tomaso è chiesto di sperimentarne la realtà, il calore e l’umidità e di vincere il naturale ribrezzo che desta una piaga, sia pure la più santa. Ma non sono forse increduli anche gli altri dieci? Due apostoli sono raffigurati dal Caravaggio, attenti osservatori e garanti della effettiva penetrazione. Gli eventi succedutisi nella tremenda settimana della passione hanno profondamente shoccato i discepoli, al punto da prendere la risoluzione di chiudersi a doppia mandata nel Cenacolo. Per paura, non per devozione! Comprensibile paura: avevano riposto la loro fiducia in Gesù. Eccolo il loro Gesù, ucciso come il peggiore degli impostori. Non avevano dunque motivi sufficienti per dubitare? Sulla tomba i loro cuori avevano già scritto la parola «fine». Ma poi si sono arresi al Risorto. Ciò che li schioda dai loro dubbi non sono le prove (benedetta apologetica!), le prove non bastano mai. Ciò che fa superare radicalmente il dubbio è l’esperienza dell’incontro con Gesù. L’incontro appartiene all’esperienza: sono coinvolti pensieri, sentimenti, passi concreti… Quando Gesù, otto giorni dopo, invita Tomaso a non essere incredulo, non pretende l’assenza completa del dubbio. Gli chiede solo di lasciarsi andare, di sciogliere gli ormeggi. A volte sussurro a me stesso: allorché ho creduto, mi è forse mancato qualcosa? E voi, che ne dite?

Omelia Domenica di Pasqua

Omelia di S.E. Andrea Turazzi

Cattedrale di San Leo, 27 marzo 2016

At 10,34.37-43
Sal 117
Col 3,1-4
Gv 20, 1-10

1.
Si può ben immaginare, dopo la fine ingloriosa del loro Messia, con quale tristezza i discepoli abbiano celebrato la grande festa di Pasqua, la Pasqua ebraica. «Noi speravamo…», ma le cose sono andate diversamente. Si trattava di ricominciare non solo una nuova settimana, ma una nuova vita: una vita da sconfitti, da disillusi, all’oscuro di ciò che poteva accadere loro. Parliamo dei fedelissimi della prima ora, che però se la sono svignata in quel tragico venerdì.
Il buio che l’evangelista annota nella narrazione riguardante Maria di Magdala che, di buon mattino va al sepolcro, non è una semplice annotazione temporale, ma fotografa il suo cuore e quello dei discepoli. Maria va a piangere la fine delle speranze sue e del gruppo. Va a piangere sulla tomba del caro estinto. Ma ecco improvvisamente l’incredibile: la pietra è stata ribaltata e la tomba è vuota. Le emozioni traspaiono appena: il racconto giovanneo è forse il più laconico bollettino di vittoria che sia mai stato scritto.

2.
L’evangelista Giovanni è tutto intento al senso degli avvenimenti che sta narrando, dobbiamo coglierne le sfumature.
Notiamo anzitutto la progressione dei verbi che esprimono l’esperienza di quel mattino vissuta da Maria, dal Prediletto (Giovanni) e da Pietro. Nella traduzione italiana non si colgono le sfumature. Bisogna riferirsi alla lingua in cui è stato scritto il Vangelo: il greco. Maria vede (il verbo adoperato è blépo), si tratta della semplice percezione oculare di un oggetto; è un vedere ancora distante dalla fede (successivamente Maria si aprirà alla fede completa). Pietro scruta (verbo theoréo), guarda con fascino ed interesse, ma non è ancora fede anche se l’animo è ben disposto. Giovanni contempla (verbo orào): è la visione profonda della realtà, la comprensione totale e risolutiva: la visione di fede. Per questo l’evangelista aggiunge al verbo vedere (contemplare), il verbo credere, infatti nel suo Vangelo vedere e credere sono sinonimi.
Queste non sono sottigliezze per pochi esperti… semplicemente ci viene detto come il Signore risorto guida progressivamente la sua comunità alla comprensione profonda del suo mistero: da uno sguardo soltanto esterno ad uno sguardo profondo, dall’incredulità e dal dubbio alla piena adesione di fede, dalle tenebre alla luce.
Questo è anche il senso della corsa dei due apostoli al sepolcro, quasi una gara. Varie le interpretazioni su questa corsa: per alcuni rappresenta il dubbio contro l’amore; per altri la competizione giovani-adulti; per altri ancora il primato delle Chiese greche (Giovanni) su quelle palestinesi (Pietro), o, addirittura, il primato della Chiesa carismatica su quella istituzionale… È più normale pensare ad un ricordo personale dell’evangelista testimone-autore. Se Giovanni aspetta Pietro, è per il primato che già gli apostoli gli riconoscono. E se Pietro ha solo constatato, non è detto che poi non abbia, a sua volta, creduto.
Giovanni, Pietro e poi Maria di Magdala e a seguire tutto il gruppo dei discepoli crederanno pur senza vedere. Sarà quello che Gesù chiederà a Tommaso otto giorni dopo. I discepoli hanno visto tanti segni che accreditano Gesù come Messia, hanno potuto toccare con mano la verità delle Scritture. Perché mai tanta ansia di volere altri segni, altre prove, altri miracoli… Non basta la testimonianza delle Scritture? E’ il delicato rimprovero che il Vangelo rivolge ai lettori. Conosciamo le Scritture? Le amiamo? Ce ne nutriamo?

3.
Un’ultima notazione: ricorre nel brano, diverse volte, il verbo correre: Maria di Magdala corre per dire ai discepoli che è stata ribaltata la pietra davanti alla tomba; corrono Giovanni e Pietro; Giovanni però corre più forte; poi tornano immediatamente a casa per avvertire gli altri. Al crescere della fede corrisponde una crescita della testimonianza. Un tema che sarà centrale nei versetti successivi, ma qui abbiamo l’inizio, la prima scintilla! È interessante vedere come l’evangelista – e la Chiesa primitiva con lui – pone una donna come “prima testimone” del fatto fondamentale della fede cristiana. In questo dimostrano coraggio: nel contesto culturale giudaico la testimonianza di una donna non veniva considerata. Ironia giovannea: l’annuncio di Maria è solo apparentemente il trafelato resoconto di una donna impaurita, ma in realtà essa è vera e propria testimone cristiana: colui che hanno portato via (allusione alla morte in croce) ed ora risorto, è il Signore! La Chiesa non farà che continuare ininterrottamente, specialmente con la propria condotta di vita, la testimonianza di Maria di Magdala. Il coraggio della Pasqua! Quanto è necessario in questi giorni di sangue e di paura.

Omelia Veglia di Pasqua

Omelia di S.E. Mons. Andrea Turazzi

Cattedrale di Pennabilli, 26 marzo 2016

Lc 24,1-12

Notti di passione e di amore. Notte di luce, questa! I misteri che stiamo celebrando non possono che strapparci l’acclamazione con tono sempre più alto che, annunciato poco fa al vescovo, dal vescovo è stato innalzato con tutti voi: Alleluia!
Una parola sui riti così eloquenti e splendidi. La benedizione del fuoco, la cui scintilla balza dal sasso come il Risorto dal sepolcro e si fa fiamma, una fiamma che procede col cero pasquale che si fa fiume di luce attraverso voi tutti, seguaci di Cristo, illuminando la Chiesa e il mondo.
Poi, il canto dell’Exultet, o annunzio o Vangelo pasquale, cantato con stupita, attonita e incontenibile gioia. Il riascolto della storia della salvezza attraverso le pagine della Sacra Scrittura, una storia che arriva sino a noi, e oltre, e che ci coinvolge con i riti che seguiranno: quello dell’acqua del Battesimo e quello dell’Eucaristia che ci unirà tutti al Signore tra noi. Da questa notte, da questa Veglia, la Chiesa e il mondo risuonano di questo Alleluia carico di meraviglia, di riconoscenza, di gratitudine, di fede ed amore. Allelu, lodate; Ia, Dio. «Alleluia. Lodate Dio nel suo santuario, lodatelo nel suo maestoso firmamento. Lodatelo per le sue imprese, lodatelo per la sua immensa grandezza. Lodatelo con il suono del corno, lodatelo con l’arpa e la cetra. Lodatelo con tamburelli e danze, lodatelo sulle corde e con i flauti. Lodatelo con cimbali sonori, lodatelo con cimbali squillanti. Ogni vivente dia lode al Signore. Alleluia» (Sal 150).
Questa semplice e densissima parola ebraica – Alleluia – è stata la preghiera di Gesù nella sua Pasqua. I Vangeli notano che uscì dal Cenacolo, compiuta l’istituzione dell’Eucaristia, dopo aver cantato l’inno, ossia il gruppo dei salmi alleluiatici della Pasqua. Gesù, quella sera, cantò il grande Hallel, l’Hallel egiziano, a ricordo dell’uscita del popolo di Israele dall’Egitto.
Gesù cantò se stesso perché, tra poco, sarebbe andato incontro alla morte e sarebbe sfuggito al suo dominio con la risurrezione. Egli cantò la sua vittoria sul peccato e cantò l’inaugurazione della vita nuova.
Gesù aveva detto nella sua preghiera sacerdotale, indugiando nel Cenacolo: «Padre, è giunta l’ora. Glorifica il figlio tuo, perché il figlio tuo glorifichi te. Poiché tu gli hai dato il potere su ogni essere umano perché egli dia la vita eterna a tutti coloro che gli hai dato. Questa è la vita eterna: che conoscano te, l’unico vero Dio, e colui che hai mandato, Gesù Cristo» (Gv 17,1-3).
Gesù conosceva il Padre e ne possedeva la vita. Nella risurrezione, questa vita egli ha conquistata nella gloria con la facoltà di comunicarla a quanti credono in lui e lo amano. Egli, nella risurrezione, è il donatore della vita.
Alleluia, per noi che dal Battesimo, mistica sepoltura, siamo emersi alla sua vita. Alleluia, per quanti accolgono in sé il sigillo dello Spirito Santo e il corpo e sangue del nostro Redentore.
Alleluia, nessuna parola è più adeguata ad esprimere i nostri sentimenti di questa notte, sentimenti che riecheggiano nel libro dell’Apocalisse. La Chiesa ne ha fatto un cantico, colmo, straripante di Alleluia, per tutte le domeniche che sono la Pasqua settimanale.
«Alleluia. Salvezza, gloria e potenza sono del nostro Dio; veri e giusti sono i suoi giudizi. Alleluia. Lodate il nostro Dio, voi tutti, suoi servi, voi che lo temete, piccoli e grandi. Alleluia. Ha preso possesso del suo regno il Signore, il nostro Dio, l’Onnipotente. Alleluia. Rallegriamoci ed esultiamo, rendiamo a lui gloria. Alleluia. Sono giunte le nozze dell’Agnello; la sua sposa è pronta» (Ap 19, 1-7).
Una esplosione di Alleluia. Ma questo Alleluia non basta lanciarlo al cielo con la voce, occorre testimoniarlo con la totalità della nostra vita. Bisogna essere un “Alleluia vivente”. Non siamo forse chiamati ad essere come dice San Paolo, «ad laudem gloriae»? (cfr. Ef 1,6.12.14).
Un filosofo celebre ha scritto: «Bisognerebbe – dice parlando dei cristiani – che mi cantassero qualche canto migliore, perché io potessi credere al loro salvatore. Bisognerebbe che i suoi discepoli avessero un’aria più da salvati» (F. Nietzsche, Così parlò Zaratustra, Dei preti). Vorrei che questa sera Nietzsche fosse qui a constatare la gioia dei nostri Alleluia. E – perché no? – a cantare, insieme a noi e a tutti quelli che la pensano come lui, l’Alleluia di Pasqua.

Omelia Venerdì Santo

Omelia di S.E. Mons. Andrea Turazzi

Cattedrale di Pennabilli, 25 marzo 2016
 
Is 52,13- 53,12
Sal 30
Eb 4,14-16; 5,7-9
Gv 18,1- 19,42

Il celebrante si è steso a terra sul pavimento aprendo così la Solenne Azione liturgica del Venerdì Santo.
Ha espresso i sentimenti della Chiesa sposa verso Gesù, lo Sposo. Stare distesa con lui, almeno un poco, sul letto della croce. Per dirgli che cosa? Kyrie, eleison!, l’invocazione di lingua greca rimasta per millenni nella nostra liturgia. Kyrie, Signore; eleison, forma imperativa: Abbi pietà.
Oggi, Venerdì Santo, è la preghiera che sale dalla terra, da tutta la terra.
È una supplica accompagnata da pianti e da singhiozzi; è un’invocazione, un’implorazione, preghiera che si fa grido in questi giorni difficili, di lutti e di paura. Giorni nei quali la preghiera intercetta il grido del sangue che sale dalla terra, sparso ingiustamente. È una preghiera che riassume bene lo Spirito di quest’Anno Santo: «Pietà, misericordia». Vi è condensata l’implorazione dell’Antico Testamento: «Pietà di me, o Dio, secondo la tua misericordia: nella tua grande bontà cancella il mio peccato; lavami da tutte le mie colpe, mondami dal mio peccato» (Sal 50, 3-4).
Quante volte questa supplica è stata rivolta a Gesù; una polifonia!
«Figlio di Davide, abbi pietà di noi», urlano dalla loro oscurità i due cechi mentre seguono Gesù (Mt 9,27).
«Pietà di me, Signore, figlio di Davide», grida la donna cananea per la figlia tormentata dal demonio (Mt 15,21).
«Signore, abbi pietà di mio figlio», lo prega un uomo in ginocchio per suo figlio epilettico (Mt 17,15).
«Gesù, maestro, abbi pietà di noi», dicono alzando la voce dieci lebbrosi (Lc 17,13).
«Gesù, figlio di Davide, abbi pietà di me», per ben due volte e gridando sempre più forte, prega il cieco di Gerico (Lc 18,38-39).
«O Dio pietà di me, peccatore», sussurra battendosi il petto il pubblicano nella parabola (Lc 18,13).
Potrei continuare… davanti a Gesù crocifisso la liturgia, al momento dello scoprimento e dell’adorazione della croce, ci farà pregare così: «Santo, forte, Dio immortale, abbi pietà di noi: Kyrie, eleison!».
Ci facciamo interpreti dell’umanità carica di colpe, schiacciata dal peso del peccato, talvolta ignara della sua situazione. Guardiamo al Signore, unica fonte di perdono, di riconciliazione, di salvezza e di vita e attendiamo…
Già al popolo di Israele Dio si è rivelato come misericordia, pazienza, longanimità, amore, tenerezza; così a Mosè: «Il Signore, il Signore, Dio misericordioso e pietoso, lento all’ira e ricco di grazia e fedeltà, che conserva il suo favore per mille generazioni, che perdona la colpa, la trasgressione e il peccato…» (Es 34,6-7).
Nel Salmo 58,17-18 “Misericordia” è persino il nome di Dio! «Dio, misericordia mia! Amore, tenerezza mia, tutto il mio bene».
Con la venuta di Gesù, la misericordia di Dio irrompe tra gli uomini e trionfa!
Da Maria, la fanciulla di Nazaret, a San Paolo, a San Giovanni, tutti cantano questa vittoria del perdono sul peccato, della luce sulle tenebre.
«Per mille generazioni», dice Maria, ma diremmo ancor più… per quella misericordia di cui Egli non si dimentica (cfr. Lc 1,54).
Anche noi, catena in questo susseguirsi di generazioni che lo amano, ci rivolgiamo a questa Misericordia, con la breve formula greca, così abituale, famigliare, cara alla nostra liturgia: Kyrie eleison!
Kyrie (Signore): Tu sei il Signore, o Gesù, tu sei il Dio forte, il Santo, l’Immortale!
Noi ti confessiamo Signore! Anche nel vederti Agnello sgozzato, ucciso. Crediamo alla tua debolezza, alla tua impotenza, alla morte che ti ha annientato. Ma sappiamo che la tua impotenza è potenza, onnipotenza!
Crediamo che la tua morte vince la morte e dà a noi la vita. Tu sei l’Agnello che porta il peccato del mondo e che non solo lo porta, ma lo toglie e distrugge.
Eleison (pietà): ci affidiamo a te perché tolga il peccato dai nostri cuori, dal cuore del mondo. Non pensiamo che sia troppo grande la colpa degli uomini perché non abbia da incontrare il tuo perdono (cfr. Gen 4,13). Tu sei più grande del nostro cuore (cfr. 1Gv 3,21). A te ci arrendiamo, a te ci consegniamo. Tra un attimo ti copriremo di baci. Kyrie eleison!

Omelia Giovedì Santo “in coena Domini”

Omelia di S.E. Mons. Andrea Turazzi

Cattedrale di Pennabilli, 24 marzo 2016

Es 12,1-8.11-14
Sal 115
1Cor 11,23-26
Gv 13,1-15

Ore di amore e di passione.
Con la Chiesa sposa col suo sposo.
Tre sere di veglia e di contemplazione.
Certo: non lasceremo fuori dalla preghiera le ore drammatiche che sta vivendo l’Europa; non dimenticheremo i problemi etici che affliggono la nostra società, né le preoccupazioni pastorali che allertano la Chiesa oggi.
E tuttavia – nella nostra preghiera – predominerà la contemplazione dello Sposo.
Questa sera siederemo alla mensa di Gesù come gli Apostoli nel Cenacolo. Ci distenderemo, domani sera, con lo Sposo sul letto della sua croce. Scatteremo in piedi, alzando le nostre mani al canto degli Evviva! sabato notte.
Questa sera, sedendo a tavola con Gesù (come facciamo ad ogni Messa), canteremo Osanna! Domani sera, prostrati, invocheremo Kyrie Eleison! Festeggeremo, sabato nella Veglia pasquale, cantando infiniti Alleluia.
Osanna, Kyrie eleison, Alleluia: tre parole di cui dobbiamo scoprire e gustare il significato; tre parole che vengono da lontano, che non appartengono alla nostra lingua. Ci ricordano che noi siamo stati graziati da una prima evangelizzazione.
Eravamo olivo selvatico; successivamente siamo stati innestati nell’olivo buono (cfr. Rom 2,24).
Domenica scorsa (domenica delle Palme) con i fanciulli ebrei e con la gente di Gerusalemme siamo andati incontro al Signore cantando: «Osanna! Benedetto colui che viene nel nome del Signore, il figlio di Davide, il re di Israele! Nel più alto dei cieli. Osanna!» (cfr. Marco 11,9-10; Lc 19,37-40; Mt 21,9-11).
C’è chi si stupisce per tanto chiasso attorno a Gesù.
C’è chi vorrebbe imporre silenzio, ma «griderebbero le pietre!» (Lc 19,40).
C’è chi saluta Gesù re; ma egli corregge immediatamente l’acclamazione respingendo, ancora una volta, l’idea di un messia guerriero trionfatore. Egli sale su un asinello e si presenta quale messia dei poveri, degli umili, di coloro che pongono la loro fiducia solo in Dio.
Questa sera, prima di sedersi a tavola con noi, Gesù si toglie la veste, indossa il grembiule del servo e si mette a lavare i piedi dei suoi amici. Ecco il messia per il quale cantiamo Osanna!
Osanna! è una parola ebraica, l’abbiamo gridata domenica scorsa, ma la cantiamo in ogni Messa. È una preghiera. Nell’Antico Testamento esprime la domanda di aiuto rafforzata dal suffisso “na”, equivalente al nostro “dai” (come si dice qui in Romagna). «Salvaci, dai!». Ben presto questo grido di aiuto s’è trasformato in un grido di festa, un’ovazione. Chiedi salvezza e già l’hai ottenuta!
Tradurre Osanna! con Evviva! è ancora poco, meglio pensare agli Urrà fragorosi di una folla.
C’è un salmo che inquadra il nostro Osanna! e lo illustra attivamente. È un salmo col quale il popolo canta il corteo di trionfo del suo re, del suo Dio.
«Grida di giubilo e di vittoria…la destra del Signore ha fatto meraviglie… Non morirò, resterò in vita… la pietra scartata dai costruttori è diventata testata d’angolo, ecco l’opera del Signore… Questo è il giorno fatto dal Signore: rallegriamoci ed esultiamo in esso…». E questi i versetti che più ci interessano: «Dona (“dai!”), la tua salvezza, Signore (Osanna), dona (“dai!”), Signore, la tua vittoria (Osanna). Nel nome del Signore benedetto colui che viene» (Sal 117(118), 25-26).
In questa prospettiva facciamo riecheggiare il nostro grido, invocazione e acclamazione, all’inizio della prece eucaristica, quando il Signore, Colui che viene, è atteso e accolto dal cuore dei suoi fedeli. «Santo, Santo, Santo il Signore Dio dell’universo… I cieli e la terra sono pieni della tua gloria».
Quindi: «Osanna nell’alto dei cieli. Benedetto colui che viene nel nome del Signore. Osanna nell’alto dei cieli». Cantiamola questa preghiera, con le labbra e coi nostri cuori, in questa sera speciale e tutte le volte che ci accostiamo all’altare in offerta e dono al nostro sposo. Osanna! grido di soccorso: «Dai, aiutaci Signore!». «Dai, salvaci, Signore!».
Osanna! grido di vittoria. Il Signore, re vittorioso, viene a noi, Urrà! con le conquiste della sua morte e risurrezione. Viene con la dote nuziale: Urrà!
Grido di gioia, di riconoscenza, di fede nel suo amore sconfinato e pazzesco. Evviva, anzi, Urrà!

Omelia Santa Messa Crismale

Omelia di S.E. Mons. Andrea Turazzi

Cattedrale di Pennabilli, 24 marzo 2016

Is 61,1-3.6.8-9
Sal 88
Ap 1,5-8
Lc 4,16-21

«Signore, non guardare ai nostri peccati, ma alla fede della tua Chiesa». È il primo pensiero per questa liturgia crismale nell’Anno Santo, Giubileo della misericordia.
«La tua sposa, Signore, davanti alla eccedenza del tuo amore, davanti alle meraviglie della Pasqua e alla ricchezza dei tuoi doni nuziali, prova qualcosa di simile allo stupore smarrito di Pietro dopo la pesca miracolosa e come lui dice: «Signore, allontanati da me che sono un peccatore!» (Lc 5,8).
Allora, guarda alla fede oggettiva della tua Chiesa e non alle nostre preferenze liturgiche, teologiche, pastorali; non alle nostre emozioni o al nostro sentirci bene o sentirci a disagio È nella fede della tua Chiesa nella quale vogliamo essere ben edificati, nella quale vogliamo radicarci in profondità e nella quale espanderci nella testimonianza. Non tener conto delle nostre meschinità, dei nostri dubbi, delle nostre infedeltà. Dico di me: «Non guardare ai miei peccati, ai miei difetti, ma alla fede dei miei presbiteri sui quali hai effuso il tuo Santo Spirito, che hai consacrato con l’unzione e mandato a portare il lieto annuncio ai poveri» (cfr. Is 61,1-3).
Ci siamo riuniti per celebrare il triplice dono pasquale: l’Eucaristia, il sacerdozio, il comandamento nuovo. È la nostra Pasqua; festa di famiglia, perché formiamo un solo presbiterio unito da un vincolo irrevocabile e sacramentale. Nessuno si tiri indietro, nessuno ci privi del dono della sua presenza né oggi, né nelle altre occasioni d’incontro.
Godiamo insieme dei frutti di questo Anno Santo. Godiamone insieme ai nostri fratelli consacrati e laici. E poiché è festa di famiglia, prendiamo spunto dai ricordi di casa. Ricordiamo i sacerdoti che ci hanno lasciato in questi mesi: ben quattro!
Per loro l’espressione della gratitudine: «Hanno faticato molto per il Signore» (cfr. Rom 16,6)) e per la sua Chiesa. Per loro la nostra preghiera di suffragio. Pur con le loro singolarità, coi tratti della formazione ricevuta, con il logorio dei tanti anni di ministero «portando il peso della giornata e il caldo» (direbbe Gesù, cfr. Mt 20,12), sono stati una “parola viva” del Vangelo per tutti e, per noi confratelli, rappresentazione di qualche aspetto della vocazione sacerdotale. Una eredità da custodire. Pagine di teologia del sacerdozio.

Don Edoardo Barlassina ci ha ricordato come Gesù – l’unico sacerdote – chiede al suo ministro di condividere prima opere e giorni, andando e predicando di villaggio in villaggio, accostando persone e situazioni, e poi di essere imitatore della sua vita nascosta, nel silenzio, nel nascondimento, nella preghiera nota solo a Dio. È questo il momento nel quale il Signore chiama ancor più vicino a sé per far rivivere passione e morte, per celebrare il sacrificio da lui offerto con la sua esistenza. E questo nella prospettiva luminosa della Risurrezione.
Don Edoardo, celebre per le sue barzellette e freddure, ci ha però elevato a questi orizzonti. È più importante, più fecondo, per noi e per gli altri, il nostro fare, pur intelligente, zelante, gratificante, o è più proficuo ed edificante quello che il Signore può domandarci nella rinuncia, nell’impotenza, nel sacrificio, nella croce? Don Edoardo fu più dono alla diocesi nei quaranta anni di vita attiva o negli altri dieci di vita nascosta?

Don Giuliano Sarti, un prete semplice, contemplativo, a servizio in piccoli posti, è stato un giullare che ha saputo cantare anche sul letto di morte, in attesa del suo Signore. Uno degli effetti dell’Eucaristia è lo spirito di giovinezza: «Verrò all’altare di Dio – canta il Salmo 42 – al Dio che rinnova la mia giovinezza» (v.4). Si va avanti negli anni, ma si avanza nella giovinezza dello Spirito. Don Giuliano pur con le asperità del suo temperamento e con le sue impennate ci ha ricordato lo Spirito delle beatitudini. Ad esempio, «beati gli operatori di pace». Una beatitudine che don Giuliano ha espresso nella fedeltà al confessionale che, in pratica, è fedeltà al nascondimento, al buio, alla monotonia, al segreto. Lì il perdono, la pace, la crescita nel continuo confronto di sé con Cristo. Lì ogni sacerdote diviene testimone stupito degli incontri e dei colloqui di Dio con le anime.
Lì il sacerdote è dispensatore dei misteri divini (cfr. 1Cor 4,1). Ci sarebbe da essere presi da timore e poi dal desiderio di dar gloria a Dio che ha dato agli uomini un tale potere: rimettere i peccati e risuscitare la grazia. Donare pace. Beati gli operatori di pace!

Don Egel Morilla ci ha riproposto la vita sacerdotale come viaggio per la missione, nella prospettiva di fede di Abramo. La sua vita è stata un lungo viaggio, dall’Argentina alla Repubblica di San Marino.
Anche per noi – bambini o giovani – tutto è iniziato con le parole dette da Dio ad Abramo: «Parti. Esci dalla casa di tuo padre, dalla tua terra per un paese che ti indicherò. Sarai una benedizione» (cfr. Gen 12,1-2).
L’avventura di un prete è una benedizione: egli benedice in nome di Dio, è ministro della grazia sacramentale di Cristo, proclama la Parola, riunisce e guida la comunità, è un segno e una provocazione nella società secolarizzata. «Lasciate un paese senza prete – diceva il Santo Curato d’Ars – e vedrete in quali condizioni lo ritroverete». La ragione più profonda del prete-benedizione sta nel mistero profondo della sua vocazione (mistero che sfugge ai sociologi, agli psicologi, agli opinionisti), e precisamente nell’essere una esistenza offerta, conforme al Sacrificio del suo Signore che celebra sull’altare. Ci sovviene, allora, un’altra pagina sulla vicenda di Abramo: Dio gli chiede il sacrificio di Isacco, suo figlio. Per don Egel e per ciascun sacerdote come per Abramo inizia, allora, un viaggio in salita e drammatico: distacco dai propri programmi, perfino dalle opere dell’apostolato e calo della salute…
Le membra del sacerdote sono le membra della redenzione con l’offerta del quotidiano servizio alla propria gente, con la corrispondenza al dono del celibato, con il fedele rimanere aggrappato alla croce di Cristo e sono membra della Redenzione, ancor più alla fine.

Infine, don Franco Ferrerio, uomo spirituale, ruvido talvolta, ma sulla breccia fino all’ultimo. Ci ha insegnato come «la pietra scartata dai costruttori è diventata pietra d’angolo» (cfr. Sal 118,22-23). Il Signore ha in cuore per la sua vigna nuovi operai al posto dei primi vignaioli che non l’hanno accolto (cfr. Mt 21,33-44).
Dio ha stima di noi, a dispetto di noi stessi!
Ricava dai nostri errori e dalle nostre fragilità beni migliori; sui nostri sgarbi ricava affreschi sorprendenti.
Grazie a questi sacerdoti. Solo esistenze di sofferenza e di vertigini? No di certo. Sono state esistenze ricche di consolazioni, di amicizia e, soprattutto di prossimità del Signore.
L’anno scorso erano qui con noi, ora sono concelebranti nella liturgia del Cielo.
E adesso rinnoviamo davanti ai nostri fratelli e alle nostre sorelle qui presenti, con la generosità e l’incanto della prima volta, le promesse sacerdotali, la promessa di essere ultimi e servi di tutti, di essere consolatori del popolo di Dio, di essere custodi della memoria del Signore, misericordiosi e degni di fede, di essere perseveranti nell’intercessione, di essere uniti alla vittima pura.
Quella volta, nel Cenacolo, Gesù chiese agli Apostoli – che avevano perseverato con lui nelle sue prove – «quando vi ho mandato senza borsa, né bisaccia, né sandali, vi è forse mancato qualcosa?». Risposero: «Nulla!» (Lc 22,28-35).
Sarà così anche per noi.
Cari fedeli che siete a celebrare con noi la consacrazione dei sacri oli e del crisma, grazie per la vostra preghiera per noi.
Un grazie particolare – forse l’avete dimenticato ma io ne conservo un ricordo vivo e commosso – per il vostro nuovo applauso quando nell’autunno scorso avete sottolineato la gratitudine verso i sacerdoti come ministri della misericordia e della Riconciliazione.
Ci ritroveremo tutti insieme laici e sacerdoti, giovani e adulti, a fine anno pastorale, l’11 giugno, per celebrare una assemblea diocesana nella quale ringraziare il Signore dei suoi doni, chiedere perdono delle inconsistenze, ripartire con nuovo slancio: «Eccoci!».

Omelia Domenica delle Palme

Omelia di S.E. Mons. Andrea Turazzi

Cattedrale di Pennabilli, 21 marzo 2016

Is 50,4-7
Sal 21
Fil 2,6-11
Lc 22,14-23,56

Quali furono i sentimenti, i pensieri e le decisioni di Gesù – nella sua ultima settimana in particolare – se non amore? Entriamo nella Settimana Santa col desiderio di seguirlo da vicino, di ascoltarne i palpiti del cuore e di imparare da lui. Ciò è possibile sia per chi è al lavoro, sia per chi sta in casa; sia per chi può fermarsi e sostare, sia per chi è trattenuto da doveri e impegni; in tutti il proposito di partecipare alle solenni liturgie del Triduo pasquale. Bisogna, però, organizzarsi per tempo; rinunciare a qualche altra attività: ne vale la pena. Un ricordo speciale va alle persone inferme o anziane, impossibilitate a venire nella nostra bella Cattedrale; tuttavia le sentiamo presenti. Pregano ed uniscono la loro sofferenza a quella del Signore, con lui sono membra vive della redenzione. Più a rischio sono i bambini e i ragazzi: i giorni di vacanza dissipano. Chiedo a genitori e nonni di accompagnarli a celebrare la Pasqua. Il racconto della passione del Signore ci è arrivato attraverso quattro diverse redazioni, sostanzialmente concordi; le differenze confermano la storicità dei fatti. Ciascuno degli evangelisti (Matteo, Marco, Luca, Giovanni) ha tuttavia una propria prospettiva teologica ed una propria originalità di stile.
Oggi abbiamo letto la Passione secondo Luca. Balzano evidenti almeno “dieci particolari” che solo l’evangelista Luca riferisce, in linea col suo Vangelo. Luca – come abbiamo avuto modo di dire in altre occasioni – è lo scriba mansuetudinis Christi (Dante Alighieri) e i “dieci particolari” costituiscono la sua firma (espediente usato da tanti artisti per le loro opere). Il terzo Vangelo, quello di Luca, è il vangelo che racconta l’infanzia di Gesù, la dolcezza di Maria e la premura di Giuseppe. E’ un Vangelo pervaso dalla gioia dei piccoli, dei poveri e delle donne attorno a Gesù. E’ il Vangelo delle parabole della misericordia e della parabola capolavoro del Padre misericordioso. Gesù entra nella passione come prototipo del martire coraggioso e mansueto che muore pregando e perdonando.
E’ una fortunata coincidenza trovarci a meditare il testo di Luca proprio in questo anno giubilare: il Giubileo della Misericordia. Il percorso che abbiamo fatto ci porta nel cuore del Vangelo della Misericordia. Rileggiamo il testo gustando interiormente “i dieci particolari”.

  1. Nel Getzemani Gesù soffre fino a sanguinare. Un angelo viene a confortarlo.
  2. Durante la cattura compie un estremo tentativo di recupero del traditore. Lo chiama per nome e pronuncia le parole che gli altri evangelisti riferiscono col discorso indiretto.
  3. Un discepolo troppo zelante colpisce uno sbirro. Gesù fa per lui l’ultimo miracolo: risana il suo orecchio (l’orecchio destro!).
  4. Pietro rinnega tre volte il Signore. La prima volta è una donna a metterlo in crisi (una serva), poi due innominati. Un gallo canta, ma è lo sguardo penetrante di Gesù che lo fa piangere.
  5. Gesù è un prigioniero scomodo: viene rimbalzato da un potere all’altro. Pilato per tre volte ne riconosce l’innocenza.
  6. Sorpresa: da quel momento Pilato ed Erode, notoriamente avversari, diventano amici!
  7. Al seguito di Gesù, nel momento supremo della prova, ci sono ancora le donne. Luca ne riferisce i lamenti e le parole delicatissime di Gesù per loro.
  8. Gesù perdona i suoi carnefici e prega per loro.
  9. Probabilmente qui è il centro di tutto il Vangelo. Da una parte ci sono il popolo che sta a guardare, i capi che deridono il condannato, la soldataglia che ironizza; dall’altra il centurione che glorifica Dio per come Gesù muore, la folla che si batte il petto, i discepoli che osservano attoniti; e nel mezzo del racconto il dialogo di Gesù con i due ladroni. Uno di loro domanda: Ricordati di me. Gesù risponde: Oggi sarai con me.
  10. Luca riferisce la preghiera di fiducioso abbandono pronunciata da Gesù (Salmo 31, 6) con l’aggiunta originalissima: Padre, e poi: Nelle tue mani consegno il mio spirito.

Omelia V Domenica di Quaresima

Omelia di S.E. Mons. Andrea Turazzi

Cappella del vescovado, 13 marzo 2016

Is 43,16-21
Gv 8,1-11

Anzitutto oggi vogliamo ricordare il terzo anniversario della elezione di papa Francesco al soglio pontificio. Ringraziamo il Signore per il dono di questo papa alla Chiesa. Proprio ieri, una rappresentanza della nostra Diocesi lo ha incontrato durante il pellegrinaggio giubilare a Roma. Papa Francesco ancora una volta ci ha raccomandato l’amore che si fa servizio, mettendoci di fronte all’icona di Gesù che lava i piedi agli apostoli. C’è un servizio a cui siamo particolarmente chiamati; è il servizio del perdono: lavarci reciprocamente i piedi (cfr Gv 13,1-ss). Tema che possiamo ben collegare con i testi della liturgia odierna.
Siamo nella domenica in cui contempliamo la «Misera e la Misericordia» una di fronte all’altro: l’adultera restituita ad un amore diverso e più grande e il Signore Gesù. Un messaggio forte per tutti noi: avere fiducia, non guardare a noi stessi, contare su di Lui. E’ la domenica nella quale risuona l’appello consegnato al profeta Isaia per tutti noi desiderosi di un nuovo inizio: Non ricordate più le cose passate… Ecco io faccio una cosa nuova: proprio ora germoglia, non ve ne accorgete? (Is 43,19).
Gustiamo interiormente i verbi attorno cui si condensano le frasi del Vangelo: nutrono la preghiera. Il verbo esprime l’azione compiuta dal Soggetto (“Soggetto” con la maiuscola: è Gesù!). Esemplifico col brano di questa quinta domenica di quaresima.

* Gesù scrive col dito per terra. E’imbarazzato, ma non per la donna che gli sta di fronte; semplicemente non vuole incrociare gli sguardi che giudicano e accusano; non sopporta gli sguardi di morte. Il gesto dello scrivere per terra allude ad un oracolo: Sarà scritto sulla polvere chi si allontana da te, Signore (Ger 17,13).
* Di nuovo si china. Responsabilizza i presenti. Sono sotto il giudizio di Dio: Chi di voi è senza peccato scagli per primo la pietra. Anche per loro Gesù è salvatore: Non giudicate per non essere giudicati (Mt 7,1). Cadono le pietre dalle mani.
* Si alza. E’ rimasto solo con la peccatrice. Si alza come si fa davanti ad una persona attesa e importante. Che cosa vede nei suoi occhi? La paura? La vergogna? La speranza?
* Le parla. Nessuno, fino a questo punto del racconto, ha parlato alla donna o le ha chiesto qualcosa. La chiama «donna» (come quando si rivolge a sua madre). In lei, prima della peccatrice, vede la creatura, fragile certo, ma vera, che vuole vivere ed è capace di amare molto. Gesù non la condanna, non per depenalizzazione dell’adulterio che resta tradimento, ma perché quella donna non è il suo errore.
* Va’ e non peccare più. Toglie la donna dal suo passato e la restituisce al futuro, ad un pulito e nuovo progetto d’amore. Va’: devono ripartire la vita e il futuro da quel grembo. Ciò che conta, adesso, è andare (il Vangelo usa molte volte questo verbo: va’ e vendi quello che hai; va’ a riconciliarti col tuo fratello; va’ dai miei fratelli e dì loro…). Chiudo con una preghiera ritagliata da un giornale: «Non darmi, Signore, l’innocenza: è un miracolo che non so portare; conservala per i tuoi santi che sanno custodirla senza orgoglio. A me concedi la grazia di vederti mentre ti alzi in piedi davanti a me e mi parli, l’umiltà di lasciar cadere di mano tutte le pietre che avevo preparato, la gioia di sentirmi perdonato da te. E non lancerò mai più pietre» (E. Ronchi, Avvenire, 2007).

Omelia IV Domenica di Quaresima

Omelia di S.E. Mons. Andrea Turazzi

Chiesa parrocchiale di Soanne (RN) – 6 marzo 2016
 
Gs 5,9-12
Sal 33
2Cor 5,17-21
Lc 15,1-3.11-32

Dopo aver proclamato una pagina così di Vangelo, non diciamo più che il Dio di Gesù è il medesimo delle altre religioni! Certo Dio è uno ed unico, non ve n’è altri. Ma i tratti del volto di Dio come ci vengono presentati, ad esempio in questa pagina, sono di una tale originalità e singolarità da stupirci ogni volta; ci fanno esclamare con audacia e confidenza: «Papà!». Un Dio che eccede nell’amore e nella misericordia, che sorprende, turba, disarma, converte, conquista, abbraccia, fa crescere. Una eccedenza che mette in difficoltà la teodicea stessa. Nell’Islam vengono proclamati con devozione i novantanove nomi di Dio; il centesimo – dice la loro tradizione – verrà svelato in paradiso… Ai cristiani è svelato ed è motivo e senso della loro vita: essere figli!
Ci vuole coraggio ad esser figli. Talvolta è più comodo esser serviccolo; prepariamo il suo ritorno; prendiamoci cura di lui. Fagli da padre e da madre.a dire: mettiti con me; cerchiamo il più p: «hai meno responsabilità; esegui e sei a posto; se rompi paghi; hai le tue ore di reperibilità e per il resto sei libero». Oggi siamo invitati a considerare il nostro grado di coinvolgimento nella relazione filiale. Lo possiamo fare rileggendo più volte la parabola del Figliol prodigo (più esattamente del Padre misericordioso).
Gesù presenta un papà giovanile, intraprendente, dal cuore grande e, soprattutto, capace di suscitare gioia, fino ad organizzare una festa coi fiocchi, dove c’è buona musica e si balla: su, presto, facciamo festa! In tutto il capitolo il termine gioia appare ben nove volte. Ci avviciniamo al padre da due punti d’osservazione: da quello del figlio più giovane e da quello del figlio maggiore. Il figlio più giovane vuole la sua parte di eredità; di solito la divisione del patrimonio avviene alla morte del genitore: simbolicamente quel figlio ha decretato la morte di suo padre. Vuole la sua parte per essere autonomo ed emancipato. Scoprirà ben presto che un conto è il divertimento, un conto la gioia. L’esplosione completa della gioia si avrà al suo ritorno, quando cadrà tra le braccia del padre. Il padre che, a malincuore, l’ha lasciato partire, ora lo accoglie senza risentimento. Ci domandiamo: perché il padre ha accettato la partenza del figlio? Il narratore – Gesù – ha messo abilmente in moto la nostra curiosità. Del padre vorremmo sapere tutto: i suoi sentimenti, i pensieri del suo cuore, la passione che scuote la sua compostezza orientale… Ma la gioia del padre è improvvisamente freddata dall’atteggiamento del figlio maggiore indispettito per il ritorno del fratello. Probabilmente non ha mosso un dito per rintracciarlo, tenere i contatti (non è questo quello che solitamente fa il fratello maggiore?) e adesso non si lascia coinvolgere nella festa. Il padre lo disarma: Figlio, tutto quello che è mio è tuo. Se questo è vero per i beni patrimoniali, non sarà altrettanto per i beni affettivi e spirituali? Il padre sembra dire: mettiti con me; cerchiamo il più piccolo; prepariamo il suo ritorno. Fagli da padre e da madre. A proposito: in questo racconto “di famiglia” manca del tutto la figura femminile. Alcuni commentatori la rintracciano in quella commozione viscerale del padre, espressa dall’evangelista col termine greco che indica il grembo materno.
Due notazioni conclusive. Riguardo al figlio minore: anche nell’ultimo naufragio (senza amici e compagnia, completamente al verde, lontano, tra i pagani e guardiano di maiali, a pancia vuota) rimane nel cuore un santuario di nobiltà: allora rientrò in se stesso; e nel fondo di sé il figlio trova l’immagine del padre.
Riguardo al figlio maggiore: l’uomo dei rimpianti, onesto e infelice; non ama quello che fa, lo subisce e il cuore è assente. Vive da salariato, non da figlio! Ci vuole coraggio ad essere figlio. Ci vuole coraggio ad essere fratello!