Omelia XXV Domenica del Tempo Ordinario

Omelia di S.E. Mons. Andrea Turazzi

Parrocchia dei Santi Pietro, Marino e Leone (San Marino Città), 18 settembre 2016

Am 8,4-7
Sal 112
1Tm 2,1-8
Lc 16, 1-13

Auguri alla vostra parrocchia: compie 25 anni! Ormai è una ragazza bella, attraente, preparata, intraprendente, vivace. Che cosa vuol dirle il Signore con questa pagina di vangelo? L’aneddoto raccontato da Gesù è piuttosto bizzarro, ma attuale! Facciamo fatica a capire l’elogio che tesse per il comportamento di un fattore disonesto.

Siamo in situazione d’emergenza. La nostra sicurezza è fragile: è messa alla prova da malattie, difficoltà famigliari, rovesci finanziari, conflitti, terremoti… Bisogna trovare una tavola di salvezza alla svelta. Il fattore protagonista della parabola ha saputo fare. Di fronte ad una emergenza decisiva per la sua carriera e la sua vita ha trovato l’escamotage (la sua tavola di salvezza). Il Signore vuole i discepoli attenti, ma in maniera giusta, da figli della luce, cercando l’amicizia di Dio che ci accoglie e suggerendo come la qualità delle relazioni umane è una sicurezza ben superiore all’accumulo della ricchezza e al conto in banca.

Siamo degli amministratori. Il nocciolo della parabola sta quì. Dobbiamo considerare quello che abbiamo come “capitale di Dio”: ce lo affida non per abusarne egoisticamente, ma per un uso solidale. L’amministratore è generoso col denaro del suo padrone. E questi se ne rallegra: ha alleggerito il debito dei poveri; meglio così: prima sciupava! Come non vedere nella parabola una provocazione per i paesi ricchi che non sanno ridurre il debito ai paesi poveri.

Attenzione: il denaro è ingannatore. Gesù non è contrario alla ricchezza ma ci mette all’erta: la ricchezza spesso nasconde miserie morali e spirituali. Il danaro inganna quando fa credere che una vita sia fallita senza ricchezza, quando il denaro anziché servire, asserve. Il valore di una persona non si misura sulla base di quello che possiede. Nel nome del dio denaro si compiono azioni cattive, si creano divisioni, si passa sopra alla giustizia e alla verità. Meglio delle azioni di banca, sono gli investimenti in “buone azioni”!

Che è questo che sento dire di te? Rendi conto della tua amministrazione», sono le parole del padrone. E lo scaltro amministratore che fa? Si arrangia. Il Vangelo è totalmente estraneo al linguaggio del sottobanco e delle bustarelle. Non insegna la truffa, ma l’audacia. Lamenta che i cristiani talvolta abbiano meno immaginazione per far vivere la fede di quanta ne abbiano gli uomini d’affari per i loro traffici. La fede non dispensa dall’essere intelligenti! Possiamo partire proprio da qui per rilanciare il nostro programma annuale. «Che ne hai fatto del dono della fede? – dice il Signore – Che ne è di quello spicchio di territorio che ti ho affidato?». E potrebbe continuare: «Mi sono dato a te con la mia Parola, perfino col mio Corpo e il mio Sangue perché tu sia mia presenza, mie mani, mio cuore, mia intelligenza. Il tuo nome è «missione». Ti ho affidato la mia gente». La parrocchia ha imparato a pensare il proprio piano di lavoro, e va chiedendosi: «Che cosa ci chiedi, Signore? Quali sono le attese attorno a noi? Quali le risorse?». Paradossalmente il fattore disonesto della parabola ha qualcosa da insegnarci.
Cominciamo dalla curiosità, la curiosità di vedere ciò che il Signore farà quest’anno tra noi col soffio del suo Spirito. Siamo consapevoli di non essere un’assemblea costituente, né un’azienda, ma un popolo radunato dal Signore che è venuto a cercarci e s’è messo in mezzo a noi.
La parrocchia, alla fine, non deve prenderci troppo; siamo mandati piuttosto nei campi più svariati del nostro mondo: cultura, lavoro, famiglia, cittadinanza, ecc. Prendiamo ispirazione dall’icona delle volpi di Sansone lanciate ad incendiare le campagne dei Filistei: alle loro code Sansone legò delle torce accese (cfr Giud 15, 4-6). Gesù vuole che tutto sia clarificato, si riaccenda e si rianimi, ma incontra sovente la nostra indifferenza.
La fede è il dono più prezioso che abbiamo ricevuto, più prezioso dell’oro (cfr 1Pt 1,7). Condividerlo è un atto d’amicizia. Si tratta di testimoniare il nostro incontro con la persona viva di Gesù. Torna utile ripensare quanto accadeva ai primi cristiani: erano sorpresi dalla forza intrinseca del Vangelo e dell’annuncio (chiamato cherigma). Noi, ammettiamolo, annunciamo poco perché crediamo poco! La stessa fede che abbiamo nei sacramenti dovremmo impegnarla nel credere alla forza (exusìa) del seme che mettiamo nelle zolle dei nostri rapporti quotidiani. Ripartiamo per altri 25 anni e poi ancora: ad multos annos!

Omelia Festa del Beato Domenico Spadafora

Omelia di S.E. Mons. Andrea Turazzi

Montecerignone, 11 settembre 2016

Festa del beato Domenico Spadafora

Es 32,7-11.13-14
Sal 50
1Tm 1,12-17
Lc 15,1-32

Oggi il beato Domenico Spadafora ci riunisce per fare festa. Quale festa?
La festa per la sua memoria ancora viva dopo 500 anni (fatto ancor più sorprendente del suo corpo incorrotto). La festa per le grazie che la sua intercessione ci ottiene presso il Signore. Festa soprattutto per il messaggio che in questo anno giubilare della misericordia egli ci riconsegna. E’ un messaggio di conversione. Ci parla di braccia spalancate di un Dio che ci aspetta. E perché mai si sale al suo santuario se non per questo? So che qui viene celebrato con assiduità e frequenza il sacramento della riconciliazione. Qui si alternano gruppi di preghiera, una sorta di staffetta per l’intercessione. Si rinnovano propositi di vita cristiana. E si impara dall’esile frate domenicano la testimonianza: una testimonianza come la sua, trasparente (con la vita), contestuale (adeguata ai tempi), coraggiosa (con libertà e franchezza). Egli fu un missionario. Lasciò la carriera accademica e le cariche del suo ordine per venire nelle nostre valli per vivere il motto domenicano: Contemplata aliis tradere.
Bellissima la coincidenza che oggi ci fa incontrare il cuore del terzo Vangelo, il Vangelo di Luca. Siamo nel vangelo del Vangelo! Come i detti di Gesù che abbiamo letto la scorsa domenica, così radicali, avevano come sfondo un banchetto con gente per bene, le parabole della misericordia che ci accingiamo a meditare hanno come sfondo un banchetto con pubblicani e peccatori. Gesù questa volta ha cambiato campo: scribi e farisei sono presenti, ma a distanza, indignati per il comportamento del profeta di Nazaret. Le parabole sono tre. Le prime due sono parabole “gemelle” (si possono leggere in parallelo); protagonisti: un uomo -è un pastore- che ha perso una pecora e una donna -è una donna di casa, una massaia- che ha perso una moneta; la terza parabola racconta di un padre che perde un figlio (ma abbiamo già letto questa parabola nella Quaresima scorsa, pertanto non viene letta oggi). Tutte e tre hanno in comune alcune parole chiave: il perdere, il cercare, il gioire. Inoltre ci offrono l’immagine di Dio e il comportamento di Gesù: un tratteggio sorprendente, unico nella letteratura religiosa di tutti i tempi. Ma nelle parabole si riflette anche una preoccupazione pastorale: il problema dell’accoglienza di chi ha sbagliato. I tre racconti esprimono un pressante invito a cambiare mentalità ad entrare nelle vedute di Dio, a capire il suo agire, a condividere la sua gioia, condizione necessaria per entrare in comunione con lui ed avere il suo pensiero.
Salvare chi si perde.
Appare abbastanza illogico abbandonare un gregge intero  per andare alla ricerca di una sola pecora che si è perduta! 99 contro 1, ma questo contrasto mette in risalto l’interesse del pastore per la singola pecora: il fatto che la pecora si trovi in difficoltà basta per mobilitare la sua attenzione e le sue energie su quella sola. Il Vangelo di Tommaso (n. 107), a sua volta, riporta una parabola della pecora perduta. Ma in questo apocrifo, la pecora perduta è la più grande, la più bella, la preferita del pastore che va alla sua ricerca. L’insegnamento di Gesù è completamente frainteso: se un pastore perde una pecora del gregge, certo farà l’impossibile per ritrovarla, non perché è la migliore, ma semplicemente perché gli appartiene. Così agisce Dio. Se per Dio il peccatore ha tanto valore, non è perché possiede delle qualità particolari, ma proprio perché ha bisogno di aiuto. Gesù incarna il comportamento di Dio che per primo va in cerca di ciò che è perduto, e che rende visibile sedendo a tavola con i peccatori e i pubblicani. Il rapporto fra le novantanove pecore e la sola che è scappata accentua ancor più il prezzo che Dio dà alla salvezza di ciascun essere umano. E noi? Abbiamo la stessa preferenza nel raggiungere chi si perde o resta indietro? Quali sono le nostre priorità pastorali? Siamo disposti come la donna della parabola che ha perso la moneta a spazzare via ogni pregiudizio dal nostro cuore e davanti alla porta delle nostre comunità perché non siano chiuse come dogane, come scrive papa Francesco (cfr EG 47)? Saremmo poi farisei a nostra volta se non ci facessimo consapevoli d’avere in noi zone smarrimento e buio, bisognose di ritrovamento e di luce.
Cercare chi si perde.
Osserviamo il pastore che cammina e fatica sulle tracce della pecora perduta: quanta strada, quanti sentieri, quanta salita, quante discese… Osserviamo la donna nella sua povera casetta palestinese (con una piccola finestrella insufficiente per vederci bene) che accende la lampada, spazza accuratamente su un pavimento sconnesso, probabilmente di pietra e di terra: quanta costanza, quanta caparbietà…
Cercano finché non trovano. L’uno e l’altra non si scoraggiano, non si danno per vinti. Così il Signore: non lascia nulla di intentato. Impariamo. Non dovremmo mai interrompere un dialogo, eliminare un ponte. Camminiamo sui passi di Gesù.
Gioire per chi è stato ritrovato.
Non è vero, come talvolta si dice a proposito della teologia dei fratelli di altre religioni, che comunque l’dea di Dio è la medesima in tutte. Il cristianesimo rivendica giustamente di custodire un’immagine di Dio del tutto originale. Certo Dio è l’unico Dio, ma Gesù ce ne dà una descrizione con dei contorni esatti, sorprendenti, unici. Gesù ci mostra il volto raggiante di Dio, raggiante di felicità per aver trovato e accolto chi era perduto, per radunare attorno a sé le creature nella sua casa. La parabola della pecora perduta è narrata anche dall’evangelista Matteo che insiste più sulla ricerca, Luca invece più sulla gioia del ritrovamento (è presente il tema del compimento del regno e del banchetto escatologico). E come interpretare “i giusti che non hanno bisogno di conversione”? Se pensiamo agli avversari di Gesù è evidente il tono ironico: e chi non ha bisogno di conversione? Se l’evangelista pensa veramente ai veri “giusti” di cui ha parlato all’inizio del suo vangelo, allora vuole sottolineare come la gioia di Dio per i peccatori che tornano è davvero una gioia speciale, quella delle grandi occasioni; gioia che non ha l’opportunità di prodursi a proposito dei giusti!
L’evangelista vuole smentire il volto di Dio che talvolta ci immaginiamo, volto di un giudice implacabile. “Gioite con me”, dice. Condividiamo la sua gioia e facciamo festa per ogni ritorno: il nostro e quello dei fratelli!

Omelia XXIV Domenica del Tempo Ordinario

Omelia di S.E. Mons. Andrea Turazzi

San Leo, 11 settembre 2016

Sante Cresime

Es 32,7-11.13-14
Sal 50
1Tm 1,12-17
Lc 15,1-32

Cari ragazzi, oggi diventate testimoni e annunciatori di un messaggio straordinario: il messaggio della misericordia. Non è vero, come talvolta si dice a proposito della teologia di altre religioni, che comunque l’dea di Dio è la medesima in tutte. Il cristianesimo rivendica giustamente di custodire un’immagine di Dio del tutto originale. Certo Dio è l’unico Dio, ma Gesù ce ne dà una descrizione con dei contorni così particolari, così sorprendenti, da essere unici. Gesù ci mostra il volto raggiante di Dio, raggiante di felicità per aver trovato e accolto chi era perduto, per radunare attorno a sé le creature nella sua casa. Sentite il vangelo che oggi viene letto in ogni parte del mondo.
Pubblicani e peccatori vanno a Gesù per ascoltarlo. E lui li accoglie. I farisei e gli scribi trovano la cosa sconveniente. In quei peccatori, probabilmente, funzionavano ancora le antenne che rendono possibile la comunicazione interpersonale: colgono il guizzo di gioia che Gesù prova nell’incontrarli. Si sentono attesi, conosciuti, amati e, non ostante tutto, stimati, ritenuti capaci di essere gioia per qualcuno. Ritrovano, così, il senso della vita. Gesù non nasconde di provare gioia e poi la manifesta accettando l’invito a tavola. Vorrebbe condividere questo sentimento con i responsabili del suo popolo. Purtroppo, dall’alto della loro aristocrazia spirituale, i responsabili di ieri (speriamo non quelli di oggi), ritengono inammissibile questo stile accogliente.
Ma non temano i ben pensanti: Gesù non transige sulla verità e sulla pratica della virtù, non accetta compromessi; invita i peccatori a ravvedersi e si rivolge loro con forza e soavità: Non peccare più! Come dire: ce la puoi fare. Coraggio: io credo in te! In tre parabole successive Gesù descrive minuzio­samente l’atteggiamento di Dio, il suo ardore nel cercare il peccatore, il suo patire e il suo gioire. Si perde una pecora, si perde una dracma, si perde un figlio: anche Dio ha le sue sconfitte. Ma l’amore vince proprio perdendosi dietro a chi è perduto. Se Dio accetta le mie sconfitte perché non dovrei perdonare agli altri e a me stesso? Ritorno all’incipit di questa pagina evangelica; testualmente: Siccome tutti i peccatori e pubblicani si avvicinavano a Gesù per ascoltarlo… Mi chiedo come mai i peccatori, i cosiddetti “lontani”, si sentivano attratti da Gesù, mentre oggi tanti sfuggono alla Chiesa e alle nostre comunità? E penso a me, al mio ministero di pastore: perché “i peccatori” mi girano alla larga? Confesso d’essere andato un po’ in crisi. E tuttavia devo riconoscere che proprio nella Chiesa, a mia volta, ho trovato il perdono e la gioia. Sono stato accolto!

 

Omelia per la Professione Perpetua di Suor Maria Vera

Omelia di S.E. Mons. Andrea Turazzi

Convento di San Lazzaro (Ponte Cappuccini), 4 settembre 2016
Professione perpetua di Suor Maria Vera

1.

Cara Suor Vera, viviamo con te questo momento speciale in cui la percezione del Regno si fa più travolgente, un avvenimento del quale il cuore è inebriato. Non hai avuto paura di Gesù. Al contrario. I suoi occhi, il suo cuore, il suo programma, ti hanno affascinato. Sei pronta a seguirlo fino alla follia perché l’amore non ha mezze misure.
Ci siamo anche noi con te. Ti accompagniamo. Diciamo anche noi con te il nostro sì al Signore. C’è sicuramente tra noi chi sta compiendo passi decisivi dietro al Maestro, passi che compromettono, passi in salita, passi faticosi. Il tuo sì, i nostri sì, uniti insieme nel sì della Chiesa tutta…
Come vedi l’avventura che suggelli con la professione perpetua è profondamente ecclesiale. Per vari motivi.
Ecclesiale perché la Chiesa l’accoglie, l’approva, la benedice e la fa sua. Accogliendola, in questo momento, torna a domandarla a ciascuna delle tue sorelle e a ciascuno di noi fratelli e amici, chiamati ad una radicale sequela di Gesù, con dedizione totale.
Ecclesiale perché il tipo di vita a cui sei stata chiamata è segno della Chiesa: Chiesa sposa, Chiesa Madre… Segno di una Chiesa che sa di essere povera perché non possiede altro che la Parola di Dio e il Sacramento di Cristo, che vuole andare ai poveri, condividerne la condizione, promuoverli umanamente, elevarli spiritualmente; che vuole annunziare soprattutto l’Evangelo della misericordia. Quanta vita, quante vite, quanta storia, custodisce questa casa. Se le pietre potessero parlare…
Ecclesiale, perché questo tipo di vita è strumento per la Chiesa. In te e attraverso te, nelle tue sorelle e attraverso le tue sorelle, la Chiesa può dedicarsi a quello che è più necessario: la preghiera, l’adorazione, l’intercessione. I Dodici istituirono i diaconi per il servizio alle mense per potersi dedicare – dice il libro degli Atti – alla preghiera e alla predicazione. Tu e le sorelle rappresentate al vivo questa priorità dell’essere stesso della Chiesa sposa, tutta e solo per il suo Signore e per tutto il tempo, in modo che abbia poi efficacia l’attività e fecondità il ministero della predicazione.
Ecclesiale ancora perché interpreta l’esigenza della missione della Chiesa. Ci deve essere, nella Chiesa, chi, ispirato da Dio, prega per gli altri, per quelli che non pregano, per quelli che non riescono a pregare. Ci deve essere nella Chiesa chi prega per amore, con amore, per l’amore. La preghiera salva, l’amore può tutto, la bellezza evangelizza.
Infine, ecclesiale questa vita perché gloria della Chiesa. In essa risplende il primato dell’amore e l’indissolubilità di azione e contemplazione.

2.

Seguiamo, in diretta, la lettura evangelica. C’è tanta folla attorno a Gesù, ma non si esalta per il numero, non cerca l’applauso della gente. Gesù si volta. Indirizza lo sguardo dritto negli occhi di chi gli sta di fronte. Cerca la totalità del cuore fosse anche solo da parte dei Dodici e, paradossalmente, cerca anche di meno: cerca il cuore di uno… di me, di te! Da uno che abbia, come Pietro, cuore e coraggio di ripetere: Tu solo, Signore, hai parole di vita!
Gesù detta le condizioni. Il suo linguaggio, solitamente amabile e solare, lascia di stucco: parla di urgenza, rinuncia, distacco… chiede di preferirlo a parenti e amici… Ancora: chiede di preferirlo persino alla propria vita… Infine chiede di portare la propria croce venendo dietro a lui… cioè, il massimo dell’amore. La scuola di Gesù è diversa da quelle rabbiniche del suo tempo. Alla scuola dei rabbi si andava per libera scelta per un percorso formativo; alla fine, constatato il profitto, si poteva diventare rabbi a propria volta. Non è così per i discepoli di Gesù: essi rispondono ad una chiamata profetica che li lega per sempre non solo all’insegnamento del maestro, ma alla sua persona e al suo destino. Si capisce allora l’esigenza di posporre i legami famigliari, richiesta inaudita nell’ambiente delle scuole rabbiniche. Si capisce soprattutto il vero significato dell’invito a portare la croce. L’evangelista Luca insiste sul valore permanente e quotidiano di tale realtà: il discepolo è indissolubilmente legato al destino del Crocifisso-risorto, e ciò implica comunione di morte e di vita con lui. Ognuno ha la sua croce, cioè sofferenze e prove di ogni genere; ma il contesto suggerisce una comprensione più radicale: la disponibilità a dare la vita per il Signore, fosse anche il martirio, comunque a lasciare tutto per il Tutto! Portare la croce non è sinonimo di passiva rassegnazione, appartiene alla definizione del discepolo di Gesù. Negli Atti degli apostoli viene ricordata l’esortazione di Paolo e Barnaba alle comunità appena evangelizzate: E’ necessario attraversare molte tribolazioni per entrare nel regno di Dio (At 14,22). Il senso è dato da Gesù stesso che ha aperto la via alla piena realizzazione attraverso il dono di sé. E’ la nuova scuola del discepolo.
Il discepolo di Gesù mette le esigenze dello stare con Gesù al primo posto, anche se comportano lacerazioni. Se capite male queste parole sono pericolose: fanno pensare ad un cristianesimo tetro, per sconfitti e deboli oppure da integralisti e “talebani”. Ma l’accento va posto sul verbo principale: essere discepolo (espressione che torna ben tre volte in poche righe, quasi un responsorio); il centro della frase non è sulla rinuncia, ma sulla conquista; non sul punto di partenza, ma sul traguardo. Non sui «no», ma sui «sì». Gesù non vuole tanto, vuole tutto!
La radicalità della sequela va compresa sullo sfondo della novità escatologica che Gesù sta inaugurando: il regno di Dio. A volte siamo condizionati da una lettura moralistica dei vangeli: ci fermiamo ai buoni sentimenti, alle belle parole… In verità il nocciolo della predicazione di Gesù sta nell’annuncio di un evento decisivo che sta per accadere gioioso e minaccioso a seconda di come ci si pone di fronte ad esso: coincide con la sua persona!
Tuttavia, la decisione di seguirlo non è irrazionale o emotiva. Prima – dice Gesù – siediti a ragionare, come i protagonisti delle due mini parabole conclusive. Senza riflessione, senza consapevolezza delle proprie inconsistenze, senza ascolto della Parola di Dio, senza preghiera e senza una comunità come si può anche solo immaginare una vita evangelica?

Omelia XXIII Domenica del Tempo Ordinario

Omelia di S.E. Mons. Andrea Turazzi

Monastero S. Antonio in Pennabilli, 4 settenbre 2016

1.

Anche se a distanza ho seguito con interesse l’iniziativa di questa tre giorni di studio sul dialogo interreligioso. Il mio pensiero sull’argomento vi è noto: l’avete posto su una paginetta del programma. Lo ribadisco c’è una parola che non dobbiamo mai stancarci di ripetere e soprattutto di testimoniare: dialogo. Sull’esempio del Signore Gesù, il cristiano coltiva sempre un pensiero aperto verso l’altro, chiunque egli sia. Rischio di ripetere cose già sentite in questi giorni. Soprattutto rischio di risultare generico…
Aprirci agli altri non impoverisce, ma rende più ricchi perché ci fa conoscere la verità dell’altro, l’importanza della sua esperienza e il retroterra di quello che dice, anche quando si nasconde dietro atteggiamenti e scelte che non condividiamo. Un vero incontro implica la chiarezza della propria identità, ma al tempo stesso la disponibilità a mettersi nei panni dell’altro per cogliere, al di là della superficie. Ciò che si agita nel suo cuore, che cosa cerca veramente. In questo modo può iniziare quel dialogo che fa avanzare nel cammino verso nuove sintesi ed arricchisce l’uno e l’altro. Questa è la sfida davanti alla quale si trovano tutti gli uomini di buona volontà.

2.

La pagina evangelica di questa domenica ci provoca fortemente.
Gesù ti propone di seguirlo, di far strada con lui, di stare in famigliarità con lui. Dice: Se vuoi. Sei di fronte ad un invito e ad una decisione importante. Quando ha risuonato in te questo dialogo? Tanto tempo fa? E’ una storia vecchia? E’ successo di recente? Ne sei ancora inebriato? Sei in attesa? Considera che sta accadendo adesso. “Fac ut vocaris”!
Seguiamo, in diretta, la lettura evangelica. C’è tanta folla attorno a Gesù, ma non si esalta per il numero, non cerca l’applauso della gente. Gesù si volta. Indirizza lo sguardo dritto negli occhi di chi gli sta di fronte. Cerca la totalità del cuore fosse anche solo da parte dei Dodici e, paradossalmente, cerca anche di meno: cerca il cuore di uno… di me, di te! Da uno che abbia, come Pietro, cuore e coraggio di ripetere: Tu solo, Signore, hai parole di vita!

3.

Gesù detta le condizioni. Il suo linguaggio, solitamente positivo, amabile e solare, lascia di stucco: parla di urgenza, rinuncia, distacco… chiede di preferirlo a parenti e amici… Ancora: chiede di preferirlo persino alla propria vita… Infine chiede di portare la propria croce venendo dietro a lui… cioè, il massimo dell’amore. La scuola di Gesù è diversa da quelle rabbiniche del suo tempo. Alla scuola dei rabbi si andava per libera scelta per un percorso formativo; alla fine, constatato il profitto, si poteva diventare rabbi a propria volta. Non è così per i discepoli di Gesù: essi rispondono ad una chiamata profetica che li lega per sempre non solo all’insegnamento del maestro, ma alla sua persona e al suo destino. Si capisce allora l’esigenza di posporre i legami famigliari, richiesta inaudita nell’ambiente delle scuole rabbiniche. Si capisce soprattutto il vero significato dell’invito a portare la croce. L’evangelista Luca insiste sul valore permanente e quotidiano di tale realtà: il discepolo è indissolubilmente legato al destino del Crocifisso-risorto, e ciò implica comunione di morte e di vita con lui. Ognuno ha la sua croce, cioè sofferenze e prove di ogni genere; ma il contesto suggerisce una comprensione più radicale: la disponibilità a dare la vita per il Signore, fosse anche il martirio, comunque a lasciare tutto per il Tutto! Portare la croce non è sinonimo di passiva rassegnazione, appartiene alla definizione del discepolo di Gesù. Negli Atti degli apostoli viene ricordata l’esortazione di Paolo e Barnaba alle comunità appena evangelizzate: E’ necessario attraversare molte tribolazioni per entrare nel regno di Dio (At 14,22). Il senso è dato da Gesù stesso che ha aperto la via alla piena realizzazione attraverso il dono di sé. E’ la nuova scuola del discepolo.
Il discepolo di Gesù mette le esigenze dello stare con Gesù al primo posto, anche se comportano lacerazioni. Se capite male queste parole sono pericolose: fanno pensare ad un cristianesimo tetro, per sconfitti e deboli oppure da integralisti e “talebani”. Ma l’accento va posto sul verbo principale: essere discepolo (espressione che torna ben tre volte in poche righe, quasi un responsorio); il centro della frase non è sulla rinuncia, ma sulla conquista; non sul punto di partenza, ma sul traguardo. Non sui «no», ma sui «sì». Gesù non vuole tanto, vuole tutto!

4.

La radicalità della sequela va compresa sullo sfondo della novità escatologica che Gesù sta inaugurando: il regno di Dio. A volte siamo condizionati da una lettura moralistica dei vangeli: ci fermiamo ai buoni sentimenti, alle belle parole… In verità il nocciolo della predicazione di Gesù sta nell’annuncio di un evento decisivo che sta per accadere gioioso e minaccioso a seconda di come ci si pone di fronte ad esso: coincide con la sua persona!
Tuttavia, la decisione di seguirlo non è irrazionale o emotiva. Prima – dice Gesù – siediti a ragionare, come i protagonisti delle due mini parabole conclusive. Senza riflessione, senza consapevolezza delle proprie inconsistenze, senza ascolto della Parola di Dio e senza preghiera, come si può anche solo immaginare una vita evangelica?

Omelia nella Festa di San Marino

Omelia di S.E. Mons. Andrea Turazzi

Basilica del Santo (RSM), 3 settembre 2016

Mt 5,13-16

È molto significativo il gesto simbolico col quale il diacono scioglie i nodi che tengono serrato il libro dei Vangeli. Ed è proprio con la forza del Vangelo che abbiamo potuto cantare insieme, alternandoci al coro, il ritornello del Salmo 86: «Le mie sorgenti sono in te, città di Dio». È la prima volta che mi rivolgo al mio popolo e ai miei presbiteri dopo il terremoto che ci ha resi tutti un po’ marchigiani, laziali e umbri. Mi rendo conto di come l’informazione sui fatti del terremoto pian piano abbandoni la prima pagina dei quotidiani, vada in seconda pagina, scivoli in terza e poi sparisca. Mentre chi è nella sofferenza e nella prova continua a lottare. Vogliamo esprimere tutta la nostra vicinanza. Ai nostri antenati è capitato di abitare una bellissima penisola, distesa interamente sul mare e baciata dal sole. Molti l’hanno corteggiata: spagnoli, francesi, tedeschi. C’è chi è venuto da lontano per occuparla con imprese rocambolesche (Annibale, Napoleone, etc.). Ma questa penisola è tra i siti a più alto rischio per quanto riguarda eventi sismici. Non passa che un pugno di anni senza che la terra torni a tremare. Crollano case, chiese, scuole, torri, municipi. Si spalancano crepe profonde, si celebra la conta dei morti e ci si fanno tante domande. Come prevedere e prevenire? Come soccorrere efficacemente? Come ricostruire, con quali modelli? Se la natura si chiama “provvidenza”, la società deve chiamarsi “previdenza” (Victor Hugo). Il credente, poi, ha ulteriori domande. Perché il Signore lascia i suoi figli cadere nella trappola di un gigante oscuro? E perché nell’ora più impensata? Come vivere da credenti una tale tragedia? La prima risposta è sicuramente la solidarietà. Si piange con chi piange. Si prega. Ci si mobilita. Per quanto possibile si condivide. La fede ci aiuta pian piano ad elaborare il terremoto. La nostra vita sulla terra – si sa – è caduca, in balia di mille eventualità, scandita da tanti addii, tribolata anche da terremoti familiari e personali ugualmente devastanti. Ammonisce la Scrittura: «Non abbiamo quaggiù una stabile dimora» (Ebr 13,14). Siamo di passaggio. Allora quanto stolte sono le nostre presunzioni, quanto ridicole le nostre meschinità e quanto insensate le iniziative di guerra, di terrorismo, che devastano interi paesi e città. Tutte disobbedienze. E com’è disobbediente la terra che trema ed esercita, in qualche modo, la sua ribellione! L’anima credente s’acquieta alzando lo sguardo verso l’eterno e, pensando ai caduti, confessa nella fede «sono tutti vivi nel Signore», e prega: «Solo tu, Signore, non passi».

Nei Vangeli c’è un racconto di cronaca nera riferito tempestivamente a Gesù. Diciotto persone sono morte nel crollo di una torre; si vuole una presa di posizione da parte del Maestro. Tra gli inquisitori c’è qualche “teologo da strapazzo” che vuol fare il paladino di Dio, quasi che Dio abbia bisogno di un difensore d’ufficio, e cerca a chi dar la colpa. E poi perché proprio a quei diciotto e non ad altri? Gesù risponde andando ben oltre: quei malcapitati non erano più peccatori degli altri e gli altri scampati non erano i più santi, cioè non si deve leggere la disgrazia come intervento della giustizia divina, semmai come occasione per fare discernimento, per guardarsi dentro, per riproporsi ciò che resta ed è essenziale. Se suona una campana a morto non chiederti per chi suona, suona per te (H. Hemingway). I suoi rintocchi sono altrettanti inviti alla conversione. Alludendo anche all’esperienza del terremoto dell’Emilia, ho visto crollare tabernacoli con i cibori pieni di Eucaristia e ostie consacrate tra i calcinacci. Quelle ostie sono presenza di un Dio terremotato.

È festa per la nostra comunità, ma non possiamo non calare queste considerazioni in rapporto a quel che si vive in casa nostra. Anche noi abbiamo i nostri “terremoti”. Stando accanto a chi ha perso tutto si relativizzano i nostri problemi e siamo spinti ad avere una percezione più equilibrata della realtà. Abbiamo vissuto in passato livelli piuttosto alti di vita economica. Oggi le cose stanno cambiando, ma guardiamo alla quotidianità e alla situazione in cui versa il paese a noi più vicino, l’Italia, a cominciare da quell’Italia con cui facciamo diocesi: la Val Conca, la Val Foglia, la Val Marecchia, in una parola il Montefeltro. La Caritas diocesana potrebbe fornirci ragguagli interessanti in merito.

In un’unica Solennità celebriamo oggi la fondazione della nostra comunità civile e il santo suo fondatore, Marino. Nella stessa comunità la dimensione religiosa e quella civile si sono intrecciate. Unite, ma non confuse, inseparabili ma senza prevaricazioni. San Marino non intese fondare una comunità religiosa come un monastero a cielo aperto, un sistema integralistico, ma una società fraterna, dove si dà «a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio» (Mt 22,21). Da sempre la nostra tradizione ha promosso, più o meno consapevolmente e più o meno felicemente, il valore della laicità, facendo vivere insieme persone di diverse sensibilità e orientamenti. Questa laicità trae uno dei suoi punti di forza da una visione integrale della persona, propria dell’antropologia cristiana.
Chi non è credente non tema le radici cristiane della nostra comunità, è proprio su queste radici che si fonda il rispetto e la libertà di ognuno. La nostra libertà è reale non per la concessione di qualcuno, ma perché fondata sulla dignità della persona.
Chi è credente deve contare sul rispetto e sulla considerazione di chi afferma il valore della laicità.
Laicità è anzitutto accoglienza dell’altro col suo patrimonio ideale e la sua storia, i suoi diritti ad avere spazi e mezzi, insieme ai doveri. La vera laicità è molto più della tolleranza, perché è simpatia verso il dono che ognuno può portare all’insieme.
Credenti e non credenti non nascondiamo le nostre origini da un santo della Chiesa cattolica. Anche questo fa parte della nostra peculiarità, ci costituisce – appunto – sammarinesi. Talvolta c’è una voglia di emancipazione che assomiglia a quella degli adolescenti dai loro familiari. Dalle crepe del nostro “terremoto sociale”, vedo che c’è bisogno di riconciliazione fra tutti. Stiamo vivendo una stagione caratterizzata da rivalse, litigiosità, forse anche vendette. Questa è la nostra più grande povertà.

Oggi siamo tutti in festa. Scambiamoci un regalo: il regalo della reciproca stima accompagnata dalla messa a disposizione del meglio di noi stessi. La processione che faremo al termine della Messa è, per noi credenti, il segno di Dio che visita il suo popolo e che, attraverso San Marino, benedice tutti. Così sia.

Omelia XVI Domenica del Tempo Ordinario

Omelia di S.E. Mons. Andrea Turazzi

Marta e Maria, le due sorelle di Betania, rappresentano l’itinerario di ogni credente che passa dall’affanno per ciò che deve fare per il Signore, allo stupore per ciò che Dio fa per lui o, se vogliamo, dal Dio come dovere al Dio come desiderio.
In questo grazioso quadretto che l’evangelista Luca ci descrive, Gesù ci appare come un cultore dell’amicizia; non cerca servitori, ma amici. Durante l’ultima cena dirà: Non vi chiamo più servi ma amici… Maria l’ha capito e, benché seduta, si è messa in cammino. Si tratta di un cammino interiore; ecco le tappe: dal faccia a faccia, al tu per tu, fino al cuore a cuore.
L’amicizia domanda vicinanza; Gesù reclama attenzioni, gratitudine e … baci. L’ha detto chiaramente a Simone, suo ospite, quando, al banchetto a cui ha invitato il Maestro, irrompe la peccatrice: Tu non mi hai dato il bacio, questa donna non smette di baciarmi i piedi. Al lebbroso guarito che torna a ringraziare, Gesù dice: Non sono dieci quelli che ho sanato; dove sono gli altri nove? Nella tremenda notte del Getzemani protesterà: Dunque non siete capaci di stare svegli e di regalarmi un’ora di compagnia?
Dunque, si potrebbe dire, più importante del «fare per Gesù» è lo «stare con Lui»; anzi, lasciarsi guardare, lasciarsi amare.
Maria, l’amica, l’ascolta stupefatta. “Sa incantarsi – scrive un commentatore – come fosse la prima volta. Tutti conosciamo il miracolo della prima volta. Poi ci si abitua… L’eternità invece è non abituarsi, è il miracolo della prima volta che si ripete sempre” (E. Ronchi).
A Marta, l’ancella, Gesù dice: Marta, Marta tu ti affanni per troppe cose. Gesù non contraddice il servizio, ma l’affanno; non il desiderio, ma la dispersione dei desideri. La sola cosa urgente è non vivere senza mistero, non vivere senza relazioni amorose.
Marta e Maria non si oppongono, i loro atteggiamenti sono complementari. Qualcuno legge l’episodio contrapponendo le due figure e i due modi di vivere il discepolato: azione, contemplazione. Non è questo l’intento di Luca. Infatti che cosa fa Maria quando si alza? E che cosa fa Marta quando si siede? Marta non può fare a meno di Maria, perché il servizio zampilla da una sorgente, l’unica che fa grande il cuore. Maria non può fare a meno di Marta, perché non c’è amore di Dio che non si traduca in gesti concreti. L’amica e l’ancella sono due modi d’amare, entrambi necessari. Coessenziali.
Beati quelli che ascoltano la Parola, beati quelli che la mettono in pratica!

Omelia VI Domenica di Pasqua

Omelia di S.E. Mons. Andrea Turazzi

Petrella Guidi (Chiesa del Castello), 1 maggio 2016

At 15,1-2.22-29
Sal 66
Ap 21,10-14.22-23
Gv 14,23-29

«Se uno mi ama, osserverà la mia parola».

Oggi ci viene data l’opportunità di meditare alcune frasi dai discorsi di addio, i discorsi che Gesù tiene agli apostoli durante l’ultima cena. Si tratta di parole dolcissime, tutte intonate ad un sentimento di amore. Amore che Gesù reclama dagli amici; amore che egli offre. Sono parole consolanti anche per noi che oggi le leggiamo come fosse la prima volta.
In quasi tutto il Vangelo ritorna l’invito a dimorare con Gesù maestro, amico, signore. In questi giorni ho avuto modo di sviluppare la ricchezza tematica del verbo giovanneo rimanere, verbo usato con frequenza soprattutto dall’evangelista Giovanni e che sta come parola chiave. Ad esempio nel racconto della chiamata dei primi due apostoli, Andrea e Giovanni, si dice di loro che, assecondando l’invito del maestro (Venite e vedrete) rimasero con lui tutto quel giorno, inizio di infiniti altri giorni. Ho identificato in quel verbo la fondamentale proposta di Gesù che sceglie e chiama i Dodici perché rimangano con lui e poi per inviarli a predicare. Rimanente in me è, poi, l’invito appassionato di Gesù nei discorsi di addio. C’è dunque il rimanere di chi condivide spazi e tempi, di chi dimora fisicamente presso l’ospite. Ma non è propriamente a questo che si riferisce Gesù. Gesù, anzi, si sottrae alla Maddalena che, nel mattino di Pasqua, vorrebbe stringerlo a sé. Altro lo spessore del rimanere in lui. C’è il rimanere saldo del discepolo negli insegnamenti del Maestro: fare delle sue Parole la forma stessa della propria vita (in un crescendo di sfumature: in-formarsi, tras-formarsi, con-formarsi, uni-formarsi…). Più dello stare in uno spazio seppur sacro, più dell’abbracciare la disciplina e l’esemplarità del maestro, il rimanere di cui parla Gesù consiste in una immanenza vitale, un essere pervasi della sua stessa vita, linfa che discende da lui. Di più: non staccarsi mai da Colui che è la vite vera. L’apostolo Pietro scriverà ai primi cristiani: siete partecipi della natura divina! (cfr 2Pt 1,4).

«Noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui».

Il Vangelo ci ricolma di stupore quando, dopo averci condotto sin qui, annuncia la volontà di Dio di prendere lui stesso dimora presso di noi per rimanere in ciascuno! Prendere coscienza che si vive dell’Amore e del Respiro di Dio, è la cosa più bella, più utile e più necessaria che vi sia. Allora prende luce e pienezza di senso tutta la vita. Tutto quello che tu fai è come se il Signore agisse per mezzo tuo. Tu sei abitato dal Signore.
Ho visto luccicare gli occhi dei miei piccoli amici che si preparano alla Prima Comunione, quando hanno saputo che realmente Gesù verrà ad abitare in loro e che loro saranno il suo tabernacolo vivente. Andare in mezzo al mondo con questa convinzione sarà per loro e per tutti noi tutt’altra cosa!
Leggiamo allora il Vangelo in questa prospettiva, prima l’emozionante chiamata ad abitare presso il Signore, e poi la sorprendente notizia: lui stesso prende dimora in noi. Noi cielo di Dio!

Omelia V Domenica di Pasqua

Omelia di S.E. Mons. Andrea Turazzi

Domagnano, 23 aprile 2016
At 14,21-27
Sal 144
Ap 21,1-5
Gv 13,31-35
Molti hanno nostalgia di una comunità che sia veramente fraterna, nella quale ci si senta amati e seguiti anche nei passaggi difficili che talvolta impongono inevitabile lontananza. Ci si lamenta quando non c’è attenzione, amore, coerenza… Un amico mi confidava in questi giorni la gioia per aver trovato, finalmente, quello che cercava nel clima fraterno di una comunità evangelica protestante. Pur nel rispetto della decisione, ho manifestato il mio dispiacere, non tanto per la sua scelta, quanto per la sua delusione nei nostri confronti. E’ soltanto un sogno fare della parrocchia una comunità fraterna? Ascoltiamo il Vangelo. Ci parla di una notte sorprendente…Notte di straordinari contrasti: tradimento e amore, oscurità e luce. «Quando Giuda fu uscito dal cenacolo, Gesù disse: ora il Figlio dell’uomo è stato glorificato…». Poi continua: «Vi dò un comandamento nuovo: amatevi gli uni gli altri. Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri. Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avete amore gli uni per gli altri». Giuda esce di scena. E’ stato oggetto di una infinita tenerezza da parte di Gesù: immagina lo sguardo di Gesù verso Giuda mentre, in ginocchio, gli lava i piedi, mentre gli porge il primo boccone… Adesso Gesù può parlare, ancor più a ragione, dell’amore! E’ in questo contesto, infatti, che dona il comandamento nuovo. Perché “nuovo” se da sempre e dovunque uomini e donne amano? E molti amano in modo stupendo. Perché comandare l’amore? Un amore forzato che amore è? In realtà non è un comando, è di più: indica il destino di tutti. Siamo chiamati ad amare perché così fa Dio. L’amore è il nostro DNA. Amare tutti, senza alcun aggettivo qualificativo: simpatici o antipatici, giusti o ingiusti, ricchi o poveri, prossimi o lontani… Amare come Gesù ama. Ma chi potrà amare come lui, del cui amore è stata proclamata la lunghezza, l’altezza, la profondità (Ef 3,18)? Gesù lava i piedi ai discepoli, si rivolge a Giuda chiamandolo amico, prega per chi lo uccide, piange per l’amico sepolto da giorni, gioisce per il nardo profumato dell’amica, si china su chi soffre… Riprendi in mano il Vangelo e ricomponi le tessere di come ha amato Gesù, e poi ricomincia ad amare. E se non trovi amore, metti amore. Gesù non vuole essere un maestro solitario, al centro delle sue immense parole. Dagli angoli più nascosti e insospettabili suscita discepoli che osano d’essere come lui, dimentichi di sè.

 

Omelia IV Domenica di Pasqua

Omelia di S.E. Mons. Andrea Turazzi

Domenica del Buon Pastore
Gualdicciolo (RSM), 17 aprile 2016
 

At 13,14.43-52
Sal 99
Ap 7,9.14-17
Gv 10,27-30

 

Ogni anno alla quarta domenica di Pasqua si legge un brano del Vangelo nel quale Gesù si presenta come Buon Pastore. In questa domenica detta «del Buon Pastore», si fanno preghiere per le vocazioni al sacerdozio e alla vita consacrata. La scarsità delle vocazioni è motivo di grande preoccupazione per la Chiesa italiana e per la nostra Diocesi. In realtà il Signore non smette di chiamare. Non si è certamente dimenticato della sua Chiesa e lo Spirito suscita nuovi apostoli per il nostro tempo.
Il problema allora è un altro: sappiamo accogliere le vocazioni? Sappiamo coltivarle? Ci accorgiamo delle nuove forme vocazionali che il Signore va suscitando come il diaconato, come le testimonianze forti di frontiera? In fatto di vocazioni la Chiesa è chiamata, oggi più che in altri tempi, a dare prova di coraggiosa fantasia nel dare risposte al Signore che chiama; eccone un esempio: gli Atti degli Apostoli ci raccontano di Paolo e Barnaba che, rifiutati dai connazionali, si rivolsero ai pagani, aprendo così, nuove frontiere all’evangelizzazione. Una situazione di crisi si è trasformata in nuova chance.
Le vocazioni nella Chiesa sono “affare” di tutti. E’ sbagliato pensare sia un problema degli altri: «E’ un impegno della gerarchia» – si dice – «E’ una sfida per gli operatori pastorali specializzati». Non è evangelico pregare così: «Signore, manda operai nella tua vigna: manda altri, non me. Una comunità senza vocazioni è come una famiglia senza figli. Un sogno: che la nostra diocesi abbia vocazioni, tutte quelle che sono necessarie e che ne abbia da donare alla Chiesa tutta; che sia una comunità che prega (la preghiera è ascolto e accoglienza); una comunità che chiama (non solo in paziente attesa ma anche capace di proposte coraggiose); una comunità missionaria dove la domanda non è: «dove andare ma «che cosa posso fare là dove sono?». La Giornata Mondiale di Preghiera per le Vocazioni è un invito a riflettere sulla Speranza, un tesoro fragile e raro; il suo fuoco è sovente tenue anche nel cuore dei credenti. Abbiamo bisogno di una grande riserva di Speranza, con l’annuncio di un orizzonte luminoso verso cui insieme proiettarci.
L’immaginetta con la preghiera per le vocazioni che ci verrà consegnata e adagiata sul palmo della mano ha il valore di un mandato: «Ricordati ogni giorno di pregare perché tutti sappiamo rispondere con un generoso e pieno alla chiamata del Signore».