Omelia IV Domenica d’Avvento

Omelia di S.E. Mons. Andrea Turazzi

Cailungo (RSM) – 18 dicembre 2016

Is 7,10-14
Sal 23
Rm 1,1-7
Mt 1,18-24

Meno dieci, meno nove, meno otto… insieme alle nostre comunità, conto i giorni che mancano al Natale. Meno sette, meno sei, meno cinque… Ci sono le recite nelle scuole (bravissimi i bimbi delle nostre scuole che si esibiscono davanti a nonni e genitori letteralmente impazziti). C’è chi s’affretta per gli acquisti per fare più bella la festa. Ma chi pensa al Festeggiato? Siamo pronti ad accoglierlo? Troverà, ancora una volta, soltanto paglia? Meno male che c’è la sua Mamma… Meno male che c’è Giuseppe, l’uomo dei sogni, che non parla mai, ma che sa ascoltare, che preferisce l’amore a Maria e a Dio piuttosto che l’amor proprio. Stiamo davanti al presepio e dedichiamo un po’ del nostro tempo, sempre così concitato (lo dico soprattutto per chi vive fuori di qui), alla meditazione. Mettiamoci nei panni dei personaggi del presepio, soprattutto nei panni di Maria che porta in grembo Gesù ed è ormai pronta per dargli la luce e come tutte le mamme con tanto amore ma anche con altrettanta apprensione; nei panni di Giuseppe che cerca un posto dove alloggiare Maria e il nascituro.
Dal racconto evangelico vediamo come Giuseppe per amore di Maria sia disponibile ai disegni di Dio e faccia spazio nel suo cuore al Bambino non suo. E diventa vero padre di Gesù, anche se non ne è il genitore. Con Giuseppe s’impara come accogliere Gesù: silenzio, obbedienza alla volontà di Dio, laboriosità senza attivismo, fiducia perché Dio è il protagonista e conduce gli avvenimenti. Qui, come a Betlem, succede di tutto: c’è chi è nemico di quel Bambino così intrigante e compromettente (Erode non è del tutto sparito). C’è chi è semplicemente indifferente: ha ben altro da pensare. C’è, in fine, chi ha fatto l’abitudine e non riesce a stupirsi nemmeno di un Dio che si fa bambino e che si può coprire di baci. Apro una pagina dal profeta Isaia. Faccio fatica a trattenere la commozione: così il Signore vince la mia tiepidezza: Non temere, perché io ti ho riscattato, ti ho chiamato per nome: tu mi appartieni. Se dovrai attraversare le acque, sarò con te…  se dovrai passare in mezzo al fuoco, non ti scotterai, … poiché io sono il Signore, tuo Dio, il Santo d’Israele, il tuo salvatore. Io do l’Egitto come prezzo per il tuo riscatto, l’Etiopia e Seba al tuo posto. Perché tu sei prezioso ai miei occhi, perché sei degno di stima e io ti amo… Non temere, perché io sono con te.
Quel bambino che sta per nascere ha un nome che riassume in sé la storia di Dio con l’umanità. Il nome, nella cultura antica, rappresenta l’identità e il compito di un uomo sulla terra. Giuseppe si è trovato davanti alla responsabilità di dare il nome per il nascituro. Nell’albero genealogico disponevano di nomi illustri. Ma per quel bambino interviene il Cielo. A Giuseppe viene detto che il bambino che nascerà porterà il nome di Gesù, che significa il Signore salva. Ma aggiunge che il bambino adempirà la promessa del profeta: La vergine concepirà un figlio che sarà chiamato Emmanuele, che significa: Dio con noi. Due nomi per un solo bambino! Sovrapponendo i due nomi – Gesù, Emmanuele – si comprende che egli è il Signore-salva-con noi. Per salvarci, Dio si fa uno di noi: Gesù. Nello stesso tempo è Signore con noi, perché non ci salva senza di noi: Emmanuele. Che fa Giuseppe? Tenta di sottrarsi all’invadenza del Cielo, poi ascolta. L’augurio di Natale: fai anche tu spazio al Cielo.
Meno quattro, meno tre, meno due…

Omelia III Domenica d’Avvento

Omelia di S.E. Mons. Andrea Turazzi

Uffogliano, 11 dicembre 2016

Is 35,1-6.8.10
Sal 145
Gc 5,7-10
Mt 11,2-11

Scendendo da Pennabilli sono passato veloce accanto ad un giardino; al centro vi ho notato un albero di cachi carico di frutti. L’albero era completamente spoglio e disadorno. I suoi rami penetravano la fitta coltre di nebbia, un po’ appesantiti da una quantità di palline dorate. Sono arrivato sulla piazza ed ho ammirato il grande albero di Natale. Ne ho gioito. Poi, quasi senza volerlo, ho confrontato i due alberi: quello spoglio ma pieno di frutti e quello stracarico di addobbi e di luci artificiali. Inevitabile l’applicazione della metafora alla mia vita: sono albero pieno di fronzoli (solo apparenza), o sono albero carico di frutti? Ognuno – se vuole – giri a sé questa domanda.
Giovanni Battista, prigioniero di Erode ma più ancora dei suoi dubbi, vorrebbe sapere se Gesù è davvero il Messia, colui che aspetta, o soltanto un miraggio. L’austero profeta non si lascia incantare dalle apparenze o dal luccichio dei lustrini… Va al sodo. E Gesù risponde: «Riferite ciò che udite e vedete: i ciechi riacquistano la vista, gli zoppi camminano, i lebbrosi sono mondati… ai poveri è annunciato il Vangelo». L’albero della Croce, nella sua disadorna nudità, porta appeso il Signore, frutto sbocciato dal grembo di una povera fanciulla di Nazaret e adagiato sulla paglia in una mangiatoia. Ecco il Messia! Un frutto per la vita dell’umanità. Gesù non ha mai promesso di risolvere i problemi della storia coi miracoli. Non ha distribuito “bacchette magiche”. Ha chiesto ai suoi di farsi prossimi, di stare come lievito nella pasta, come sale nell’acqua. Ha promesso qualcosa di più forte ancora: il miracolo del seme, il lavoro oscuro ma inarrestabile del seme che fiorirà (E. Ronchi). Quel seme è il nostro quotidiano “sì” al progetto di Gesù, disponibilità a compiere le opere del Messia; nel fare anche noi ciò che fa Gesù. Atti d’amore nascosti, sofferenze lenite, ponti gettati, ferite fasciate sul corpo e nell’anima, solitudini colmate. Il grande fuoco si attizza con una scintilla accesa in basso e nascosta. «Perciò, se riesco ad aiutare una sola persona a vivere meglio – scrive papa Francesco – questo è già sufficiente a giustificare il dono della mia vita. È bello essere popolo di Dio. E acquistiamo pienezza quando rompiamo le pareti e il nostro cuore si riempie di volti e di nomi» (Evangelii Gaudium, 274).  Ecco il nostro impegno per questi giorni di Avvento.

Omelia II Domenica di Avvento

Omelia di S.E. Mons. Andrea Turazzi

Miniera (Perticara), 4 dicembre 2016

La luce della conversione

Is,1-11
Rm 15,4-9
Mt 3,1-12

Scende in campo Giovanni Battista un profeta che non scherza. Il suo non è un invito suadente, ma un grido di allerta: il Messia è alle porte, cambiate vita! Non sono ammesse lentezze. È alle porte: è questione di… adesso. Ci siamo esercitati la scorsa settimana nel vivere “l’attimo presente” con pienezza, amore e solennità. Questa settimana accendiamo la luce della conversione. Giovanni Battista mette in campo la sua personale testimonianza, perfino scomposta, di araldo del Messia; assume i toni della minaccia per dissuaderci dai nostri rinvii e dalle nostre mediocrità. E noi? Ammettiamolo: ci succede di trattare Dio come un brillante da sfoggiare nelle feste, un portafortuna, un… soprammobile. Come ce ne torneremo dopo aver sentito questa pagina di Vangelo? Forse ben poco scossi. Per debolezza del predicatore? Può darsi. Per l’abitudine a sentir le cose di Dio? Probabilmente. Perché incapaci di portar frutti perché prigionieri del peccato? Ognuno esamini se stesso. Chissà che l’entrata di Giovanni Battista non ci smuova.
Attraverso la sua predicazione ci propone due domande. Sappiamo chi è colui che viene? A dispetto dei nostri addobbi natalizi (stanno già facendo la loro comparsa) e delle nostre prove di canto e di cucina, la foga del Battista ci suggerisce tutt’altro. Con ferme prese di posizione egli non tiene nascosto nulla del Messia di fuoco, di colui che dà alle fiamme l’albero senza frutti e la paglia inutile. La scure è posta alla radice: annuncio forte dell’imminente giudizio. La conversione non è facoltativa.
Chi attendiamo? Con una certa verità siamo ben disposti ad attendere il principe della pace, colui che offre serenità e gioia per tutti: “Natale – si dice – festa della bontà; incanto di buoni sentimenti, di legami affettuosi, della messa di mezzanotte…”, ma non possiamo censurare questa pagina del Vangelo: reclama decisioni coraggiose e scelte radicali.
La seconda domanda: Come preparare il suo arrivo? Certo, essere operatori di pace e di bontà, ma bisogna mettersi al lavoro, seriamente. Il cantiere è grande: preparare la via al Signore, portare frutti, vivere le sue parole. Vietato tenere le braccia incrociate in attesa del Regno che viene.
Faccio ai miei ascoltatori tre proposte concrete. La prima: considerare la conversione come possibile. Il Messia che viene mi battezza nel suo Spirito; il suo Battesimo non è un’azione simbolica come quella compiuta da Giovanni, ma è un’azione di Dio su di me capace di trasformarmi, di fissare la sua dimora dentro di me, solo che io lo voglia.
La seconda: dedicare tempo, riflessione e preghiera per identificare con chiarezza quale aspetto della mia vita deve cambiare, il difetto su cui lavorare, la risposta che devo dare al Signore in questo tempo.
La terza: cominciare a preparare il sacramento della Riconciliazione. Così il Signore Gesù farà di me il suo presepio. Così sia.

Omelia nella S.Messa di chiusura della Porta Santa

Omelia di S.E. Mons. Andrea Turazzi
Cattedrale di Pennabilli, 13 novembre 2016

Mal 3, 19-20
Lc 21,5-19

«Sorgerà con raggi benefici il sole di giustizia» (Mal 3,20). Per questo Sole eleviamo, cantando, il nostro Magnificat. È il Magnificat per quello che il Signore è andato facendo per noi in questo anno giubilare.
Grazie a tutti quelli che hanno reso possibili le celebrazioni dell’Anno Santo qui in Cattedrale come nelle altre chiese giubilari della diocesi.
Grazie soprattutto al Santo Padre, il Papa Francesco. Ci ha riconsegnato una parola particolarmente necessaria oggi. Una parola che va oltre le forme più delicate e belle della devozione; una parola decisiva per questa società di feriti, di arrabbiati, di disperati: la parola misericordia. È il cuore del Vangelo: siete amati, amate! Uscite, guardatevi attorno, compite opere di misericordia.
Il Santo Padre ci ha coinvolti nei suoi viaggi dalle periferie dell’Azerbaigian a Lund in Svezia, per stare agli ultimi. Nei “venerdì della misericordia” ci ha accompagnati sui luoghi degli sbarchi, nelle comunità di recupero, nelle carceri, negli ospedali, tra i poveri, perfino – venerdì scorso – nella casa in cui si incontrano amici che hanno lasciato il sacerdozio… periferie d’ogni genere. Ci hanno colpito le sue parole, forti, semplici, incisive, vere perché legate alla vita. Ci hanno colpito anche i suoi silenzi come ad esempio nella sua visita ad Auschwitz-Birkenau.
Papa Francesco ci ha fatto aprire “porte sante” nelle Cattedrali e in tante chiese, in tanti luoghi di sofferenza (abbiamo fatto celebrazioni giubilari nei nostri ospedali, nelle nostre carceri, in qualche fabbrica). Ha indicato, senza stancarsi, a noi figli prodighi, perché lontani, un Padre, prodigo davvero, perché ricco di misericordia. Le porte spalancate sono state per noi come le braccia del crocifisso che sussurra: «Non abbiate timore. Questa croce non è un pungiglione per me, ma per la morte. Questi chiodi non mi procurano tanto dolore, quanto imprimono più profondamente in me l’amore verso di voi. Queste ferite non mi fanno gemere, ma piuttosto introducono voi nel mio interno. Il mio corpo disteso anziché accrescere la pena, allarga gli spazi del cuore per accogliervi» (San Pier Crisologo).
Abbiamo fatto tesoro del Giubileo? L’Anno Santo ha avuto una reale incidenza? Al dire di molti parroci sono aumentate le Confessioni dei fedeli. Io stesso ricordo la Veglia penitenziale coi giovani a Valdragone prolungatasi fino alla mezzanotte. Ricordo le “ventiquattro ore per il Signore” a Talamello: anche qui tante Confessioni. Altrettanto a Ponte Cappuccini… Confessioni, catechesi, pellegrinaggi. Pellegrinaggi dei vicariati alla Cattedrale e della diocesi a Roma. Appuntamento mensile di tanti alla stazione giubilare sui luoghi della spiritualità sammarinese-feretrana. Rinnovazione di rapporti fra persone e, in generale, una proposta di cambiamento nello stile di vita. Ma affiora un certo rammarico nella nostra coscienza personale e comunitaria: si poteva fare di più, si poteva corrispondere maggiormente all’offerta della misericordia; si poteva essere più missionari. Si poteva, si poteva, si poteva… ma non ci si può fermare ai se, ai ma, ai forse. «Ecco ora il momento favorevole» (2Cor 6,2). Oggi, in questa Cattedrale, pur coi nostri limiti, possiamo tutti insieme fare un balzo. Riaffermare la nostra fede nel Signore Gesù. Accogliere il suo annuncio di misericordia.
I nostri giorni sono cattivi per la fede, sono dominati da uno stordimento che rende difficile l’ascolto del Vangelo. Da una parte il massimo del benessere materiale e di potenziale felicità per la persona giovane, sana, produttiva, dall’altra il massimo della emarginazione e potenziale solitudine per la persona anziana, ammalata, improduttiva.
Quale orizzonte è possibile per una testimonianza cristiana? Non può essere ridotta ai parametri di una vita “per bene”, educata, del “buon vivere”, deve essere profezia, annuncio di terra nuova e cieli nuovi; o così, o non è profezia!
Radicalità: questa sembra essere la parola giusta. Povertà – a cui spesso ci richiama papa Francesco – perché non siamo proprietari, ma responsabili di un capitale di Dio da mettere a frutto per tutti. Questa la ragione di un maggiore distacco dai beni materiali. Solidarietà fraterna: questo il motivo di uno stile di vita più sobrio, più fiducioso nella Provvidenza.
Dunque prendere sul serio il Vangelo. Un segno forte viene dalle comunità religiose che sono nella nostra diocesi. Sono comunità costruite sulla roccia (cfr. Mt 7,24). Contestazione vivente alla mondanità.
C’è poi il dono di giovani – ne ho avuto esperienza alla GMG di Cracovia – che vanno contro corrente e così si preparano, nella purezza, ad una vita di amore e dedizione. Essi sono all’erta di fronte alle sirene ingannatrici che promettono felicità, ma che al massimo riescono a dare piacere.
Il mondo ha bisogno di santi; di comunità più sante, più evangeliche, che credono che il Vangelo è vero, che ha in sé la forza di cambiare. Accettiamo la sfida?
Guardiamo la comunità dei discepoli e delle discepole di cui ci raccontano gli Atti degli Apostoli. Non erano tempi facili per loro. San Paolo non temeva di dire loro «siete luce» (cfr. Ef 5,8) a dispetto della presunta luminosità del paganesimo.
Da allora il tempo della Chiesa non è mai stato facile né comodo. La tentazione – di fronte ai fatti storici terribili che accadono – sarà, per i cristiani, di correre dietro alle ideologie e alle mistificazioni nella speranza di facili quanto illusorie garanzie di salvezza. Nel Vangelo che abbiamo appena letto Cristo ci assicura che veglierà sul suo popolo, non permetterà che venga strapazzato oltre ogni limite. Se i cristiani sapranno mantenersi saldi nella fedeltà esclusiva a lui, al suo messaggio, alla missione che gli ha affidato, «nemmeno un capello del vostro capo andrà perduto. Con la vostra perseveranza salverete la vostra vita» (Lc 21,18-19). Così sia.

Omelia per la XXXIII Domenica del Tempo Ordinario

Omelia di S.E. Mons. Andrea Turazzi

Perticara, 12 novembre 2016

Lc 21,5-19

Si parla troppo poco dei Novissimi. Anzi, s’è perduto il significato stesso della parola. Novissimi sono “le ultime cose” della storia di tutti e di ognuno. Un tempo venivano elencati così: morte, giudizio, inferno, paradiso. Che i novissimi siano importanti per la vita era ben espresso dall’ammonizione, pezzo forte dei predicatori: memorare novissima tua et non peccabis (traduzione libera: il ricordo dei Novissimi ti terrà lontano dal peccato). Noi preferiamo dire che il discorso sulla fine è in realtà il discorso sul fine e sullo scopo che diamo alla vita. Il vangelo di questa settimana si apre con lo stupore degli apostoli per la bellezza del tempio. Era una meraviglia: chi veniva dalla provincia come loro non poteva nascondere l’ammirazione. Del resto anche Gesù era un esteta, assai sensibile alla bellezza (ricordate le sue parole sul monte: Guardate i gigli del campo …?). Eppure tutto passerà. Perfino del tempio non resterà pietra su pietra. E ci saranno altri crolli. Crolli cosmici e crolli personali. Siamo fatti comunque di materiali deperibili a breve o a lunga scadenza che siano. Val la pena pensarci: Su che cosa fondo la mia vita? Ho trovato la roccia a cui ancorare la barca della mia esistenza? Domanda totale: Per chi vivo? Tutto apparirà più chiaro alla fine: sarà un giudizio inequivocabile, ma non dovrò temere se Dio sarà il mio tutto. Egli non lascia nulla d’intentato per unirmi a sé. Persino gli avvenimenti che fan soffrire sono un invito a cercare quello che vale, a procurarmi amici, a mettere da parte tesori che la ruggine non consuma. Un cuore che non si apre sarà incapace di Dio, come un radar in avaria, sordo ad ogni segnale e opaco persino allo splendore del sole. E’ l’inferno: definitiva, ostinata e terribile chiusura all’amore di Dio. Il paradiso, al contrario, è inesauribile emozione e pienezza: vedremo, ameremo, canteremo. Questo vangelo – morte, giudizio, inferno, paradiso – ci fa camminare sul crinale stretto della storia: da un lato il versante oscuro della distruzione e della fine; dall’altro il versante della tenerezza che salva (neppure un capello andrà perduto). Quando accadrà? Gesù dissuade da ogni forma di pettegola curiosità. Quel che ci dice sulla fine è vangelo che irrobustisce la fedeltà quotidiana. Soprattutto la carità. Alla fine ciò che rimane sono gli atti d’amore che abbiamo praticato. San Martino di Tours che oggi festeggiamo qui a Perticara ha vissuto la carità. Il suo gesto di cedere il mantello al povero è ancora eloquente a distanza di quindici secoli. Solo l’amore resta.

Omelia XXXII Domenica del Tempo Ordinario

Omelia di S.E. Mons. Andrea Turazzi

Santuario della Madonna del Faggio (Eremo di Carpegna – Montecopiolo)
6 novembre 2016

Vi è noto come Gesù fonda la nostra fede nella risurrezione sul grande sfondo dell’Alleanza tra Dio e le sue creature. Egli è il Dio dei viventi: il Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe… e potemmo continuare coi nomi dei nostri nonni, dei nostri genitori. In questo «di» sta il segreto della nostra eternità: «Una sillaba breve come un respiro, ma che contiene la forza di un legame, indissolubile e reciproco, e che significa: Dio appartiene a noi, noi apparteniamo a lui, Dio di Abramo, di Isacco, di Gesù; Dio di mio padre, di mia madre… Se quei nomi, quelle persone non esistono più è Dio stesso che non esiste» (E. Ronchi).
Dio vuole essere un tutt’uno con noi; ci considera parte integrante di sé, considera la nostra vita una cosa sola con la sua. Come Gesù siamo figli della risurrezione: Nulla potrà separarci dall’amore di Dio, né morte né vita (Rom 8,38). In questo legame d’amicizia (alleanza) sta il fondamento della risurrezione. Il pensiero antico era arrivato alla nozione dell’immortalità dell’anima e perfino a supporre la possibilità di una risurrezione del corpo. Ma qui è tutt’altra cosa: è Parola del vangelo.
Per concludere: immagina d’essere un condannato nel braccio della morte. E’ solo questione di tempo: sta per risuonare, nel lugubre corridoio, il grido del boia: dead man walking   (“uomo morto in cammino”). Ma Gesù viene a dirti: la sentenza di morte è annullata. Se credi esci, trovi porte spalancate e corri incontro alla vita! In questo luogo mariano consentitemi un’altra lettura del brano evangelico. Siamo in una “casa di Maria”, la Donna esemplare.
Nel brano appena letto a raccontare la parabola sono i sadducei, gli appartenenti ad un movimento politico-religioso del tempo di Gesù. I sadducei non credono nella risurrezione. Traspare una sottile ironia verso Gesù e verso chi invece ci crede nel racconto paradossale della donna dei setti mariti nel quale il matrimonio è visto come un braccio di ferro contro la morte; la si sconfigge suscitando vita: all’inesorabile avanzare della morte è la donna che tiene il passo moltiplicando i figli. In questa prospettiva, la donna non è considerata per se stessa, ma per la funzione a cui è chiamata.
Al tempo di Gesù la “discendenza” era quasi un’ossessione e l’eventualità della fine della stirpe un incubo. Gesù proclama che per Dio è la persona che conta. Gli obblighi famigliari, religiosi, sociali, sono subordinati al suo valore. La persona creata ad immagine di Dio vivrà oltre la morte: questo annuncio dà valore all’essere umano per se stesso.
I sadducei presentano la donna come oggetto appartenente ad una famiglia: ben in sette l’hanno avuta in moglie, ma, per il Signore, lei non appartiene a nessuno. E’ figlia di Dio! Nel Regno nessuno è proprietà di un altro. Dal più piccolo al più grande, sia uomo che donna, siamo uguali agli angeli ed essendo figli della risurrezione, siamo figli di Dio, partecipi della sua stessa vita che non tramonta. Ho trovato questa testimonianza da un antico scritto rabbinico: L’unica situazione in cui il pio ebreo non deve recitare la preghiera dello Shema Israel, che scandisce tre volte la giornata, è la sera delle sue nozze, perché, dice il Talmud, in quel momento, non è in grado di pregare con l’attenzione dovuta. Tuttavia, si racconta che Gamaliele invece lo abbia recitato la sera del suo matrimonio, perché persino quella sera, era capace di orientare tutte le sue forze a Dio. La sua unione con la moglie era quella di un amore totalmente rispettoso della libertà di entrambi, non oberava la sua per rivolgersi al Creatore.
Il brano evangelico che riporta la disputa di Gesù con i Sadducei pone anche le basi per la comprensione di due vocazioni diverse che si fondano sull’unico amore: il matrimonio e la verginità.

Omelia XXXI Domenica del Tempo Ordinario

Omelia di S.E. Mons. Andrea Turazzi

Stellata di Bondeno (Fe), 30 ottobre 2016

La conversione di Zaccheo è tutto un gioco di sguardi. Che cosa è più efficace di uno sguardo? Che cosa è più fulminante di un’occhiata? Chi può misurare il voltaggio che sprigiona da occhi sdegnati, innamorati, stupiti, compassionevoli? Zaccheo è come me, piccolo di statura; eppure non rinuncia a cercare Gesù. Guarda tra le frasche del sicomoro. Il suo sguardo assomiglia a quello audace dei magi che cercano la traiettoria di una stella sperduta nel cielo d’oriente perché li introduca alla corte del Re Messia. C’è anche lo sguardo notturno di Nicodemo che voleva indagare senza farsi vedere. Anche Erode cercava di vedere Gesù. Gesù gli viene condotto incatenato; e delude perché non dà spettacolo, esibisce soltanto i lividi delle percosse ricevute e le catene. Almeno Zaccheo ha fatto la fatica di arrampicarsi su un albero, ha rischiato la reputazione di capo dei pubblicani comportandosi da ragazzino. Erode aspetta a casa sua, senza muovere un passo, senza mescolarsi tra la folla sudata e impolverata. C’è lo sguardo di Gesù che snida il pubblicano e vede in lui tutto il positivo. C’era tanta gente in quell’assolato viale di Gerico (città delle palme) ma Gesù vede soltanto Zaccheo. Il suo sguardo penetra e non fa male. Al contrario: va in profondità, oltre la maschera imposta dal peccato. E’uno sguardo che sorprende, turba, disarma, conquista, abbraccia, converte. E’ uno sguardo che cambia e fa crescere come la luce e il calore del sole; è già oltre i preliminari ed è bacio! Perdona preventivamente, prima che Zaccheo offra garanzie di conversione. Chi non si lascerebbe conquistare da uno sguardo così?
Potrei sintetizzare così il percorso della nostra meditazione.
C’è uno sguardo che cerca: non è solo curiosità. Zaccheo vuole sapere chi è Gesù. Il suo è lo sguardo di un cercatore di Dio. L’emarginazione religiosa e sociale in cui vive non ha spento in lui l’aspirazione a qualcosa di più grande. Il suo voler vedere Gesù è, in qualche modo, già fede. Come Nicodemo cerca nel buio della sua esistenza.
C’è uno sguardo che fa esistere: è lo sguardo di Gesù che non giudica e non condanna, ma scende nel profondo della creatura che ha davanti e vede il suo disagio e la sua speranza. Gesù non vede il peccatore che è stato (il suo passato), ma il santo che è chiamato ad essere (il suo futuro).
C’è infine uno sguardo trasfigurato: è quello di Zaccheo. Sembra l’unico fra tanti a vedere la vera identità di Gesù Salvatore della sua vita. Immediatamente Zaccheo vede fratelli al posto di clienti, amici al posto di concorrenti. Ecco il miracolo! Un orizzonte nuovo si è dischiuso davanti a lui.

Omelia XXIX Domenica del Tempo Ordinario

Omelia di S.E. Mons. Andrea Turazzi

Secchiano, 16 ottobre 2016

Lc 18,1-8

La parabola che ci viene proposta oggi, contiene un importante insegnamento, solo apparentemente semplice, in realtà è piuttosto complessa. Essa ha un forte legame con l’attesa del ritorno del Signore fortemente sentita dalla comunità destinataria del Vangelo di Luca. Chi sono i protagonisti della parabola? Sembra ovvio: il giudice iniquo e la povera vedova di quella città. In realtà il vero protagonista secondo l’evangelista è Dio. Quello che vien detto del giudice e del suo comportamento, in positivo riguarda il comportamento di Dio e la certezza della sua venuta. La parabola riflette l’incrollabile fiducia di Gesù nella venuta finale del Regno di Dio, e questo non ostante che i fatti sembrino indicare il contrario e che il dubbio possa installarsi nella mente degli ascoltatori.
La povera vedova simboleggia, per l’evangelista Luca, la comunità cristiana del suo tempo (ma in verità di ogni tempo) bisognosa di aiuto: un modello di perseveranza ed intraprendenza. L’esempio scelto da Gesù (un giudice che cede all’insistenza una vedova che lo stressa) si prestava bene per essere attualizzato in una situazione di crisi: inculcare la certezza dell’esaudimento anche quando molte implorazioni e grida sembrano rimanere senza risposta. Se perfino il giudice iniquo finisce per ascoltare la vedova, quanto più il Padre che sta nei cieli ascolterà i suoi figli che gridano a lui? La Chiesa subisce persecuzioni (cfr Sir 35,11-24). La venuta del Signore si fa attendere, ma la comunità non deve abbandonare la convinzione che tale venuta è imminente: la parabola serve proprio a rafforzare questa certezza. L’esortazione alla preghiera, intesa come vigilanza, intraprendenza e fedeltà, è espressione della fede vissuta come attesa della parusia.
A questo punto è più che giusto e opportuno un esame sulla nostra preghiera…
C’è una povera preghiera e una preghiera povera: non è un gioco di parole. A volte le nostre preghiere sono veramente povere, perché frettolose, più recitate che vissute, relegate nei momenti peggiori della giornata, intellettualistiche, stipate di immagini impertinenti, distrazioni, piene di pretese, abitudinarie e senza slanci. Ahimè!
Altra cosa è la preghiera povera. E’ la preghiera che ci mette, in totale verità (povertà) davanti al mistero di Dio: cuore a cuore, di fronte a Colui dal quale sappiamo di essere amati (Teresa d’Avila): col canto dell’anima, con le lacrime del dolore, con lo sdegno per l’ingiustizia. E non guasta il silenzio, al contrario! Pregare infatti non è esattamente recitar preghiere (non sprecate parole… raccomandava Gesù). Pregare è come il voler bene. E’ un moto del cuore, un rapporto. Di Francesco, il poverello di Assisi, è stato scritto che non pregava più… era diventato preghiera. La fragranza di una preghiera così, non è appannaggio degli iniziati o dei teologi. E’ atteggiamento del figlio rivolto verso il Padre, il suo Creatore: Signore, tu mi scruti e mi conosci; tu sai quando seggo e quando cammino; penetri da lontano i miei pensieri… (dal Salmo 138). E’ come la preghiera della vedova povera che si trova davvero in grande difficoltà. La sua sembra una causa persa dall’inizio. Il giudice non la considera, ma lei, imperterrita, non recede, a costo d’essere importuna. Prega giorno e notte senza stancarsi. Ho sperimentato anch’io, come tanti, i giorni della fede difficile e mi sono chiesto: davvero il Signore esaudisce prontamente? Il primo miracolo della preghiera è rinsaldare la fede che Dio è presente nella nostra vita, non siamo abbandonati a noi stessi. Preghiamo? Preghiamo senza stancarci? Si comincia a pregare già con la decisione di ritagliare il tempo necessario, di puntare la sveglia, di spegnere la tv, di sostare in chiesa… Poi basta anche un sospiro.  La mattina o la sera per molti sono il momento migliore. Mattina e sera non sono da considerare i margini della giornata, ma la collocazione strategica della preghiera perché tutta la giornata ne risulti irradiata e diventi preghiera.
Una preghiera fiduciosa, povera, ma anche attiva. La vedova ci appare tutt’altro che rassegnata. Si batte per avere giustizia. Non si lascia cadere le braccia, ma come Mosè è perseverante fino alla vittoria!

Omelia XXVIII Domenica del Tempo Ordinario

Omelia di S.E. Mons. Andrea Turazzi

Cappella Vescovado, 9 ottobre 2016

Lc 17,11-19

L’evangelista Luca non dimentica di annotare che Gesù sta salendo verso Gerusalemme. Ormai sappiamo che cosa significa per Gesù quel viaggio e quante esperienze interiori vi si condensano: timore, risolutezza, accettazione della missione, sofferenza, adesione alla volontà del Padre… Proprio in questo contesto umano-divino (e quale contesto più adatto?), in prossimità di un villaggio, ai confini tra Galilea e Samaria, accade l’incontro con dieci lebbrosi. La Samaria è una nostra “vecchia conoscenza”: lì è ambientata la parabola del Buon Samaritano (Lc 10,29-37), in Samaria Gesù incontra la donna che va al pozzo di Giacobbe (Gv 4), in quel territorio Gesù dovrà affrontare la chiusura e l’ostilità degli abitanti (Lc 19,42), ma un giorno la Samaria accoglierà la Parola di Dio (At 8,14).
I dieci lebbrosi che avanzano sono paragonabili ad una micidiale nube tossica, una bomba ad orologeria: il contagio effettivamente è pericoloso. Le porte del villaggio sono ben chiuse. Immagino i discepoli all’erta, in atteggiamento di difesa. Gesù sembra non reclamare protezione. Vede in quegli sventurati tutti noi, tutta l’umanità piagata e sofferente. I lebbrosi stanno a distanza (lo imponeva un rigoroso precetto religioso e sanitario: la malattia è devastante, contagiosa e repellente) e, al di là della barriera, gridano la loro disperazione. Non chiedono nulla, neppure la guarigione. Soltanto chiedono a Gesù Maestro pietà. C’è anche una preghiera “a distanza” che denuncia la situazione esistenziale, e tuttavia non è così distante da non essere ascoltata dal Signore. E poi, esaudita.
Il Vangelo è pieno di guariti, un gioioso corteo che accompagna Gesù. Quei dieci lebbrosi si accorgono d’essere risanati mentre sono per via, come i due di Emmaus che finalmente riconoscono Gesù. Hanno appena intrapreso un viaggio – proibito per i lebbrosi – verso Gerusalemme per mostrarsi ai sacerdoti. L’essersi fidati di Gesù e l’essersi messi in viaggio, già di per sé, è qualcosa di straordinario. Ma accadde anche il miracolo: la lebbra sparisce. A nove di loro basta la guarigione: sono fuori di sé dalla gioia per il dono inatteso. Inebriati per gli abbracci ritrovati dimenticano il donatore che pensa di offrire loro molto di più: dare se stesso, nulla di meno! Uno dei dieci, doppiamente escluso perché lebbroso e perché bastardo (era samaritano!), segue lo slancio del cuore e torna da Gesù a cantare la sua gratitudine con voce grande. Notare i verbi che raccontano la sua avventura: interrompe il viaggio, va dove lo porta il cuore mentre gli altri nove vanno dove li porta la legge; torna sui suoi passi, l’amore ha i suoi dietrofront; canta per la strada, la strada è il suo rigo musicale; si butta ai piedi di Gesù mentre prima, come gli altri nove, stava a distanza a gridare il «Signore pietà»; dice grazie: ha ricevuto un dono senza meritarlo (chi è questo donatore che non dà in base ai meriti, ma per pura gratuità?). La dossologia (gloria di Dio) viene intonata da un samaritano, lo straniero! In lui ora brilla una luce che è solo divina, dovuta al tocco di Gesù: è ritornato uomo, è ritornato figlio. C’è stata una vera conversione ed il ringraziamento del Lebbroso va ben oltre la buona educazione: è il riconoscimento di Gesù come salvatore, espressione della fede che salva. Gesù apprezza il suo gesto, come apprezzerà i baci della peccatrice e la compagnia degli amici nell’ora della prova al Getzemani. Gesù – perché no? – vuole ed insegna la gratitudine. Per quanto riguarda colui che era lebbroso dobbiamo annotare infine come, insieme alla sua carne, sono rifioriti attorno a lui rapporti nuovi: con Dio, con gli altri, con se stesso. Nove sono i guariti, uno salvato! Era una samaritano… Perché non potrebbe succedere così anche a noi?

Omelia nella Messa di insediamento dei nuovi Capitani Reggenti

Omelia di S.E. Mons. Andrea Turazzi

Basilica del Santo Marino (RSM), 1 aprile 2016

Mt 18, 1-4

Quasi spintonandosi, gli apostoli si chiedono chi è il primo tra loro – così almeno nel racconto secondo Luca (cfr. Lc 9, 46-48). Qui invece, la domanda è posta meglio: «Chi è il primo nel Regno dei Cieli?». Chi dice “regno”, dice grandezza; ma Gesù si appresta a dire che non è questa l’unità di misura. E poi non argomenta con gli strumenti della Teologia, preferisce porre un gesto semplice, concreto, simbolico, “teatrale”: chiama un bambino e lo pone “nel mezzo”, davanti a tutti. Proviamo ad immaginare la scena. Un bambino intimidito, sorpreso, perplesso, che di colpo si trova messo davanti a tutti, forse a gente sconosciuta. Al tempo di Gesù, il bambino non era molto considerato: era una bocca in più da sfamare. Il bambino spesso è monello, non sta zitto, fa chiasso, è buono solo a piccoli servizi. Gesù dice: «Guardate, guardate bene questo bambino».
Non ci è stata riferita la reazione del bambino. Comunque, egli ha ascoltato la chiamata di Gesù, ha interrotto i suoi giochi – per un bambino sono una cosa seria – si è lasciato mettere nel mezzo, si è fidato. Amabilità di Gesù! Badate bene, non ho detto abilità di Gesù, ma amabilità. In verità, quel bambino, divenuto improvvisamente attore, ci rappresenta tutti e le parole dette in quella circostanza ci riguardano da vicino. Quel bambino, come tante altre figure anonime dei Vangeli, è tutt’altro che comparsa. È un modello e introduce nella scena un raggio di sole, una scena oscurata dalle beghe, dai litigi degli apostoli ancora in formazione (non è ancora accaduta la Pentecoste). Mi raffiguro Gesù che sorride davanti a tale scena, divertito da questo contrasto. «Chi è dunque il più grande nel Regno dei Cieli?». Domanda molto umana – direi di attualità – soprattutto nel nostro mondo caratterizzato da competizioni, concorrenze, sospetti, rivalità. Gesù mette in mezzo un bambino, cioè una fragilità, un’innocenza, una semplicità, un’umiltà. Sì, Gesù invita tutti noi a conversione, per diventare piccoli «come bambini», il che, ovviamente, non significa essere puerili e neppure esibire una fastidiosissima falsa umiltà. Si tratta, semplicemente, di spogliarci delle nostre presunzioni, delle nostre pretese di essere i migliori e di lasciar da parte i nostri giudizi sugli altri. Il bambino posto nel mezzo, al centro di quella drammatizzazione organizzata da Gesù, ci riporta la metafora della vita come palcoscenico, come teatro, metafora tanto cara a Shakespeare. Si entra in scena, si recita la propria parte, si esce di scena, più o meno drammaticamente. Il mondo, la nostra società, sono teatro e noi gli attori. La nostra Repubblica sicuramente è uno scenario e, in senso molto particolare, è spettacolare. Ciò è evidente in questa circostanza, non tanto per il folclore, ma per l’esperienza che ci fa vivere. I Capitani Reggenti si succedono investiti di un’autorità che viene data loro, perché è più grande di loro, li precede, e dovrà essere riconsegnata perché non è di loro proprietà. Sono a servizio di una maestà che non gli appartiene. E questo non è spettacolare? Inoltre, qui in Basilica e, prima e dopo nei palazzi istituzionali, si assiste al convenire di ambasciatori, rappresentanti di tante nazioni che l’antica Repubblica raduna ogni volta tessendo e rafforzando una rete di amicizie. E non è spettacolare questo? Il teatro, il palco, la scena, mettono in mostra e fanno interagire i personaggi, ognuno secondo la propria parte. Tale metafora ci responsabilizza: il popolo, i rappresentanti delle nazioni, i chiamati a governare e rappresentare la Repubblica, il Vescovo insieme al suo presbiterio, devono fare bene, tutti, la propria parte. Ed è per questo che chi è credente prega il Signore e chi è di altra convinzione si raccoglie silenzioso davanti alla propria coscienza. La metafora della vita come teatro suggerisce anche la possibilità – consentitemi – di cadere nell’ambiguità; la scena può essere calcata per mettersi in mostra, per mostrarsi non per quello che si è veramente e allora può essere l’occasione per andare a caccia di applausi, dunque finzione, col rischio – lo corriamo tutti – dell’ipocrisia. Recitiamo la parte di chi si sente a posto e magari attribuisce agli altri gli errori. Tutti abbiamo bisogno di conversione, di autenticità, di farci dono di reciproca fiducia. Tutti possiamo rimetterci alla scuola del “bambino evangelico”; è così che si entra nel Regno dei Cieli – questione centrale per un cristiano – così s’accorciano le distanze e si realizza la preghiera di Gesù: «Che avvenga in terra come in cielo» (Mt 6,10). Ce l’ottenga l’intercessione di Santa Teresa di Lisieux che oggi ricordiamo come modello dell’infanzia evangelica. Così sia.