Omelia di S.E. Mons. Andrea Turazzi
Cattedrale di Pennabilli, 13 aprile 2017
Is 61,1-3.6.8-9
Sal 88
Ap 1,5-8
Lc 4,16-21
Carissimi fratelli,
«lo Spirito del Signore è su di me, perché il Signore mi ha consacrato con l’unzione; mi ha mandato a portare il lieto annuncio» (Is 61,1). Parole scolpite per voi e per me.
La mia prima missione è di confermare, sostenere, consolidare voi, miei primi fratelli e collaboratori; è attraverso voi che la maternità della Chiesa raggiunge l’intero popolo di Dio.
1.
Vorrei corrispondere con tutte le mie forze e con la somma delle mie povertà a questa missione. Lo desidero per tutto il tempo che mi sarà dato di servire questa Chiesa. A questo mi impegno, anche con l’imminente visita pastorale. Lo prometto nel dies natalis del nostro sacerdozio. Giorno di festa per noi. Giorno di incontro tra noi. Giorno di gioia pasquale con tutto il popolo di Dio. Formiamo quell’unico presbiterio fondato sul sacramento che ci lega in eterno al Signore Gesù, unico sacerdote. Del suo sacerdozio noi partecipiamo. Nella ordinazione sacerdotale l’unzione col Crisma ci ha configurati a lui buon pastore.
Chi siamo? Come siamo? Come ci vede il Signore?
2.
Parto con un selfie, fotografia di gruppo con autoscatto. Siamo 62 presbiteri, 48 diocesani e 14 religiosi, di varie età, da 36 anni agli over 90. A quanto so, tutti in discreta saluta fisica e spirituale. 5 confratelli godono di meritato riposo e continuano ad essere le nostre colonne. Abbiamo provenienze diverse, diversi, soprattutto, sono stati i percorsi formativi. Non pecchiamo certo di uniformità: ci contraddistinguiamo per sensibilità e caratteri, perfino con punte di singolarità.
A detta di alcuni laici non brilliamo per entusiasmo. Non siamo un presbiterio di punta, tuttavia un presbiterio capace di fedeltà: presenza in parrocchia (va migliorata l’organizzazione delle vacanze e dei viaggi), celebrazione quotidiana dell’Eucaristia, visita almeno mensile agli anziani e agli ammalati, incontro pasquale con tutte le famiglie, assistenza al catechismo, etc… Siamo più propensi a soddisfare la richiesta di sacramenti che a suscitare domande di formazione. Ci accade talvolta di accondiscendere ad una pastorale che accentua la sacramentalizzazione rispetto all’evangelizzazione: forse più liturghi che maestri, più stanziali che missionari, più navigatori solitari che compagni di squadra. Tendiamo – ma non ci è facile – alla pastorale d’insieme richiesta per l’unità del presbiterio, per una maggiore efficacia dell’azione e per rispondere alle mutate situazioni delle nostre comunità. Fatichiamo a far decollare le unità pastorali. Poco coraggio? Troppo complessa e articolata la realtà? Prevalenza delle esigenze individuali su quelle dell’insieme?
Ognuno porta il proprio fardello: fatiche, delusioni e, talvolta, incomprensioni. Dobbiamo fare poi i conti con i nostri limiti e difetti: c’è chi finisce per essere senza gioia; e questo è brutto! C’è chi si è seduto: ha fatto tanti tentativi, cercato vie nuove… Hanno finito per pesare i condizionamenti della consuetudine e della routine. Talvolta si è bloccati per il timore di non essere all’altezza delle richieste. Circa l’impiego del tempo: contemperare l’attività apostolica con la cura amministrativa, con la gestione della Chiesa, con la custodia della casa… e anche questo porta via tempo. C’è chi sente il sovraccarico pastorale; deve districarsi fra le mille richieste della gente, le riunioni, gli incontri al centro diocesi e gli incarichi oltre la parrocchia (benedette agende!); senza dire poi della prepotenza del telefono e delle comunicazioni digitali. Qualche volta, ammettiamolo, si perde tempo e ci sfugge quello che accade accanto a noi, salvo poi fare le ore piccole per recuperare.
3.
Dal selfie alla radiografia. Come siamo dentro? Consideriamo il cammino vocazionale che ci ha portato ad abbracciare la vita da prete, vita totalmente posseduta da Cristo e messa fiduciosamente nelle mani della Chiesa: l’inquietudine della ricerca, l’entusiasmo della decisione; il tempo della formazione e dell’ascesi per la conquista della libertà interiore e le esitazioni del tutto normali davanti ai passi decisivi per “sposare il Signore per sempre”, i timori e i lampi di gioia e la voglia di santità, la lotta interiore fino a capire, finalmente, che non i nostri sforzi sono decisivi, ma l’opera di Dio in noi.
Chi non ha desiderato di essere un bravo prete? In verità la scommessa era più sulla fedeltà del Signore che sulla nostra. E questo ci ha dato coraggio. In alcuni passaggi ci è stato di aiuto chi, senza toglierci la libertà, ci ha incoraggiato e spinto all’audacia.
Per alcuni la famiglia è stata vicina e collaborativa, per altri un banco di prova. Comprensibili i timori dei genitori: «Proprio mio figlio ha questa vocazione?». Ai nostri genitori erano ben note le nostre inconsistenze e la nostra normalità. Tuttavia, anche la famiglia, più o meno consapevolmente, alla fine è stata coinvolta nel progetto di vita. E poi le amicizie… Gli amori: amori adolescenziali, amori dichiarati o solo platonici, amori più maturi. Esperienze, anche queste, che hanno arricchito e preparato ad un amore più grande nella scelta-dono del celibato.
Veniamo al giorno radioso dell’ordinazione. Oggi, soprattutto, dobbiamo ritornare alla grazia di quel giorno, con gratitudine, col desiderio di un nuovo inizio, con fermi e rinnovati propositi. Con l’ordinazione sono venuti i primi incarichi, il legame con persone e comunità che mai avremmo immaginato di incontrare: son diventate parte della nostra vita. Ci legano ad esse vincoli di fraternità e paternità. Legami di cuore. Siamo stati avvertiti di non vagheggiare luoghi diverse, carriere, ambizioni. Ci basta che l’anima sia “a fuoco”, sempre in una appassionante intimità con colui che ci ha chiamati; e così faticare, avanzare, cantare per fede, solo per fede! Contempliamo, in tutto il suo splendore, la chiamata, anche con le cicatrici e le ferite che la rendono più bella. «Una corona invece della cenere, olio di letizia invece dell’abito a lutto, veste di lode invece di uno spirito mesto. Voi sarete chiamati sacerdoti del Signore, ministri del nostro Dio sarete detti» (Is 61,8). Riprendiamo a sognare!
4.
Che cosa ci è chiesto?
Constatiamo la necessità di una conversione pastorale. Si fanno convegni, studi, pubblicazioni, esperienze sull’argomento, ma la conversione pastorale presuppone la conversione del cuore. Non si tratta di nuove strategie e neppure è questione di programmi, ma di interiore disponibilità ad ascoltare la voce dello Spirito.
Abbiamo davanti grandi orizzonti, piccoli passi ma concreti da fare.
Primo, la comunione: la si esige dagli altri, ma noi siamo disposti a cedere il nostro punto di vista, le nostre posizioni? Siamo capaci di ascoltare fino in fondo i pensieri degli altri, di praticare il discernimento comunitario? Partecipiamo cordialmente alla vita diocesana e presbiterale? Siamo disposti ai cambiamenti, alla collaborazione, all’incontro? (dovremmo rileggere spesso il n.43 della Novo Millennio Ineunte sulla spiritualità di comunione).
Secondo, la missione: la missione non coincide con il pendolarismo da una chiesa all’altra, ma scaturisce dalla urgenza di far conoscere il Signore, dal desiderio di avvicinare la gente, partendo pedagogicamente dal punto in cui si trova. Il prete missionario è aperto verso tutti nella consapevolezza che separarsi per non sporcarsi con gli altri è la sporcizia più grande (L. Tolstoj). Il prete missionario circonda di attenzione e di tenerezza le persone a lui affidate fino a conoscerle una per una. Ha un approccio costruttivo con i laici: sa collaborare, accetta di mettersi in questione, si fida, costruisce insieme… preti così non si improvvisano. «Il Signore mi ha mandato a portare il lieto annuncio a i miseri, a fasciare le piaghe dei cuori spezzati, a proclamare la libertà degli schiavi, la scarcerazione dei prigionieri, a proclamare l’anno di grazia del Signore» (Is 61,2).
Non servono preti clericali il cui comportamento rischia di allontanare la gente dal Signore. Non servono preti funzionari che, mentre svolgono un ruolo, cercano lontano dal Signore consolazioni e compensazioni. Il prete missionario entra nel dolore della gente. Partecipa. Ha la missione nel cuore.
Terzo, il servizio: non è servizio quello di chi dall’alto della considerazione di sé ostenta benevolenza, è paternalismo. Il servizio non è dominio sulle persone protette o sulle situazioni per le quali si finisce per considerarsi indispensabili. Un servizio così inteso, sotto sotto, diventa potere, indisponibilità a farsi da parte. Il servizio rifugge dall’esibizione: preferisce l’ultimo posto non per moralismo, ma per la convinzione che il Signore è con i più poveri, i più piccoli… Il Signore si è identificato con chi ha fame, sete, con chi è malato, etc. Il servizio è farsi uno: «Mi metto nei tuoi panni, così è mio il tuo problema, mi metto accanto a te e nella reciprocità cresciamo insieme». Impariamo la lezione del Signore che lava i piedi (cfr. Gv 13, 1ss).
5.
E il Signore come ci vede? Che cosa dice di noi?
Il Signore Gesù ci dona il suo stesso donarsi. Il sacerdozio nell’Antico Testamento veniva descritto come una struttura sociologicamente ben organizzata. Chi era investito del sacerdozio diveniva segno di una particolare proprietà divina, ma l’elezione era vissuta come separazione: così il popolo di Israele di fronte a tutti gli altri popoli, sacro al Signore, perciò separato (cfr. Es 19,1-7; Dt 7,1-8); la tribù di Levi, destinata del culto, non aveva parte con le altre tribù, era porzione del Signore (cfr. Dt 10,8-9). Dalla tribù di Levi veniva scelta una famiglia per il santuario: una volta all’anno il sommo sacerdote immolava un agnello mediante la consumazione col fuoco (cfr. Ebr 9). Questo procedimento, come si vede, era per successivi e drammatici distacchi, quasi una struttura piramidale al cui vertice non c’era altro che una nube che sale verso l’alto. Il sacerdozio antico era rituale, formale, esteriore. Celebrazione della trascendenza, ma anche della irraggiungibilità di Dio.
Gesù, dal punto di vista sociologico, fu laico. Tuttavia, il Nuovo Testamento lo proclama sacerdote, ma in una prospettiva diversa rispetto al sacerdozio antico: il suo è un sacerdozio interiore, esistenziale, personale. Il movimento è discendente e procede per successivi incontri. Il Verbo si incarna. Nell’unica persona sono inseparabilmente unite la natura divina e la natura umana, un abbraccio salvifico ed eterno. Gesù di Nazareth vive la vicenda umana nella quotidianità e nella prossimità con la gente, fino ad assumere sofferenza e peccato. Sulla croce, estrema frontiera, fa proprio il dolore innocente e celebra il sacrificio in obbedienza al Padre: è sacerdote, vittima e altare ad un tempo. È la divina liturgia del fiat. Con il grido del suo abbandono (estremo abbassamento e kenosi) si manifesta in croce come unico mediatore tra Dio e gli uomini, abbattendo la separazione e facendo l’unità (enosis). Dal fianco squarciato effonde lo Spirito per una nuova creazione.
Gesù prolunga il dono di sé attraverso l’Eucaristia. Un grumo di materia, trasformato in lui, anticipa l’unità completa di tutto in lui (cfr. Ef 1,10). La kenosi del Signore, in vista dell’unità universale, sembra raggiungere qui il suo vertice, ma la massima espressione del suo abbassarsi sta nel dono che egli fa del suo stesso donarsi, cedendolo ad alcuni dei suoi fratelli, «uomo assunto tra gli uomini per le cose che riguardano Dio» (cfr. Ebr 5,1). I presbiteri, tali per l’imposizione delle mani, agiscono in persona Christi, ministri della stessa mediazione sacerdotale di Cristo. Grandezza del sacerdozio! Incanto e responsabilità. «Coloro che li vedranno riconosceranno che essi sono la stirpe benedetta dal Signore» (Is 61,9). Auguri!