Omelia nella Veglia di Pasqua

Omelia di S.E. Mons. Andrea Turazzi

Cattedrale di Pennabilli, 15 aprile 2017

Mt 28,1-10

La prima cosa che vorremmo annunciare ed insegnare al piccolo Martino, che tra poco riceverà il sacramento del Battesimo, è che Gesù è risorto. Questa notte, proprio per questo, la Chiesa è insaziabile di “Alleluia”. Ripercorriamo gli eventi celebrati nella settimana santa: un re mite che cavalca un puledro d’asina, la domenica delle Palme; uno sposo innamorato che si dichiara, Giovedì santo; un servo sofferente che offre la sua vita per la nostra, Venerdì santo. La notte di Pasqua, madre di tutte le Veglie, quale sorpresa ci riserverà ancora? Gesù è l’amico! Il Vangelo ci ha abituato a sentire sulle labbra di Gesù questa parola, “amico”. Lui amico, i discepoli amici: l’amicizia infatti chiede reciprocità, corrispondenza. L’amicizia fa, di più persone, una cosa sola. Talvolta è più disinteressata dell’amore sponsale. Gli avversari di Gesù – senza saperlo – dicono il vero: «Sei l’amico dei pubblicani e dei peccatori» (cfr. Mt 11,19). E lo è in verità, perché vuole strapparli dal male. L’amico vero strappa dal male. «Signore – dicono a Gesù – il tuo amico Lazzaro è malato» (cfr. Gv 11,1). In nome dell’amicizia gli domandano di guarirlo. «A voi miei amici io dico…» (Lc 12,4; Mt 10,28), così Gesù introduce le confidenze agli apostoli. E nell’ultima sera, durante la cena, confesserà: «Voi siete miei amici, non vi chiamo più servi» (cfr. Gv 15,15). Volendo dare la chiave interpretativa della sua vita dice la parola suprema: «Nessuno ha un amore più grande di questo, dare la vita per i propri amici» (Gv 15,13). E pensate fino a che punto si spinge l’amicizia di Gesù: dopo il bacio di Giuda, il traditore, Gesù dirà – ed è un estremo tentativo di recuperarlo -: «Amico, per questo sei venuto?» (Mt 26,50).
Durante la settimana santa, arrivata ora al suo culmine, abbiamo considerato le dinamiche del rapporto con Gesù alla luce dell’amicizia, nostra e sua. Amicizia vissuta: gli amici infatti si cercano, si incontrano, condividono tempi, spazi, progetti. Dice il Vangelo: «Li chiamò perché stessero con lui» (Mc 3,14), fino a consumare pasti insieme: «Ho desiderato ardentemente cenare con voi» (Lc 22,15). Amicizia dichiarata: all’amicizia non basta la condiscendenza, l’amicizia reclama reciprocità, preferisce la complicità alla compassione. Insomma l’amico si deve dichiarare. Amicizia tradita: il tradimento è sempre gravemente deludente; tuttavia l’amicizia sa metabolizzare l’incidente e trarne motivo per andare più in profondità. L’amicizia stagiona, con la pioggia e col sole, come il buon legno. Infine, amicizia goduta: «Io – assicura Gesù – sarò sempre con voi» (cfr. Mt 28,20). … Come dice la Sapienza nell’Antico Testamento: «Mia delizia è abitare con i figli degli uomini» (Prov 8,31).
In questi giorni – l’incontro serale è stato per noi come un corso di Esercizi Spirituali – ci siamo ripetutamente chiesti: «Chi è Gesù per me? Gli sono amico? Quanto? Fino a stare con lui nel Getsemani? Fino a morirne?». Un vero amico, per quanto timido, non si limita ad ascoltare, prende posizione, si schiera, corre rischi, è fedele. Il Signore ha tra noi chi sta dalla sua parte, capace di risparmiargli almeno una delle spine che gli trafiggono il capo? Domanda decisiva: Gesù può contare su di me?
Come vedete non stiamo parlando di un’idea, ma di una persona viva, di un amico in carne ed ossa, che ha sentimenti, volontà, anche se trasfigurato nella risurrezione e lui, il Risorto, ci viene incontro «come un giorno andò incontro a Pietro» (cfr. Gv 21,15-19). Avrebbe potuto Gesù Risorto condividere le sorprese e le primizie della risurrezione, del mondo nuovo, con le persone potenti del suo tempo, con gli specialisti di cose dell’aldilà, con i santi esperti di virtù, con i sapienti e invece che fa Gesù, l’amico? L’amico non può che andare incontro all’amico per chiedere: «Mi ami tu?». E una seconda volta: «Mi ami tu più di tutti?». E per la terza volta: «Mi ami tu?». Chissà se posso rispondere, anche piangendo, come Pietro: «Signore, tu sai tutto, tu sai che io ti amo» (cfr. Gv 21,18ss).

Omelia del Venerdì Santo

Omelia di S.E. Mons. Andrea Turazzi

Cattedrale di Pennabilli, 14 aprile 2017

Is 52,13- 53,12
Sal 30
Eb 4,14-16; 5,7-9
Gv 18,1- 19,42

Domenica delle Palme abbiamo cantato l’Osanna al Re, il Signore mite che cavalca un puledro d’asina: Gesù, il Re.
Ieri sera, Giovedì Santo, abbiamo contemplato Gesù lo sposo che si dà col suo corpo alla sposa, la Chiesa, e si nasconde per dare a sé la gioia di essere cercato e alla sua sposa la felicità di trovarlo.
Questa sera, Venerdì Santo, contempliamo il Signore servo sofferente. Di lui cantano quattro brani del profeta Isaia (I carmi del servo: Is 42,1-7; 49,1-6;50,4-11;53,1-12); ne tracciano il profilo. Il servo sofferente appare come un personaggio misterioso. Chi è il servo sofferente? Se lo chiedeva l’etiope, ministro della regina Candace, quando scendeva nella sua patria dopo il viaggio a Gerusalemme (cfr. At 8,27ss). Il diacono Filippo, salito sul suo carro, risolverà l’enigma e porterà la testimonianza di tutta la prima comunità cristiana. Il servo sofferente è Gesù di Nazaret. È lui colui che il Signore Dio ha scelto, chiamandolo per una missione di salvezza. Ma il servo non viene accolto, piuttosto è disprezzato. Come un agnello viene condotto al macello, come una pecora muta davanti ai suoi tosatori. Si è caricato i pesi e i dolori di tutti. Addirittura è considerato maledetto da Dio. In verità per le sue piaghe siamo stati tutti guariti. E non soltanto il popolo d’Israele, ma tutte le genti.
Perché servo? In che senso? È servo perché ha scelto la via della croce fra mille modalità possibili. Il motivo è profondo in relazione a noi e in relazione al Padre. Verso di noi si è fatto servo dimostrando il massimo dell’amore per noi, perché ha voluto che lo sapessimo vicino nelle nostre situazioni di lotta e di sofferenza. Verso il Padre è stato servo obbediente, obbediente nella confidenza, nell’abbandono a lui, nella fiducia, scegliendo, per fare la sua volontà, di percorrere una strada difficile e dolorosa.
E così ha dato il massimo al Padre e a noi.
Ti ringraziamo, Signore, perché con la tua croce hai redento il mondo.

Omelia nella Messa in Coena Domini

Omelia di S.E. Mons. Andrea Turazzi

Cattedrale di Pennabilli, 13 aprile 2017

 

Es 12,1-8.11-14
Sal 115
1Cor 11,23-26
Gv 13,1-15

Benvenuti «al convito nuziale del suo amore». Sono le parole della preghiera con cui abbiamo iniziato la liturgia, a questo «convito nuziale del suo amore» possiamo partecipare in pienezza, cioè non come semplici spettatori, ma “stando al gioco” sino in fondo. Quella notte effettivamente – la notte dell’ultima cena – Gesù, lo sposo, ha iniziato un gioco d’amore: si è nascosto per farsi trovare e per la gioia di sentirsi cercato. Una tattica vincente, perché fa crescere il desiderio e col desiderio l’ardore. Per chi si lascia amare, lui può dare ancora più amore in una performance sempre più esuberante: eccedenza dell’amore sponsale! E dove si nasconde lo sposo? Nel pane spezzato quella sera, prima del suo sacrificio: «Prendete e mangiate, […] prendete e bevete» (cfr. Mt 26,26). Rimane nascosto agli occhi. Sulla croce era nascosta la divinità, qui è nascosta anche l’umanità. E noi, tutti insieme, la Chiesa sposa, crediamo alla sua divinità e alla sua umanità, benché nascoste nel pane e nel vino, pane che viene poi conservato e racchiuso nel tabernacolo, cuore delle nostre chiese. Davanti al fascino dello sposo finalmente riconosciuto, questo mistero d’amore ha l’effetto sulla bocca di renderci muti, l’effetto negli occhi di renderci miopi e l’effetto nell’anima di renderci mistici. Le parole “mistero” e “mistico” derivano dal verbo greco “muo” che significa “star chiuso di bocca e di occhi”, cioè “essere muto” e “essere miope”. E chi ci obbliga a questo? Il mistero, cioè il fascino dell’Eucaristia. Lo sposo cercato, ritrovato, serrato a sé, si dà con il suo corpo e in questo noi riconosciamo la sponsalità di questo amore. «Eccomi – dice Gesù -, prendimi, unisciti a me, mangiami, possiedimi». Da parte sua, lo sposo vuole donarsi, cioè farsi dono – e il dono non è un prestito -, vuole perdersi, cioè consegnarsi per sempre nella fedeltà. Nell’unità c’è la fusione: lui in noi, noi in lui. Questo fa l’Eucaristia.

Tra poco riceveremo il Signore che si dona così e da questa unità nasceranno tanti frutti: fecondità, creatività, voglia di essere come lui. Lo sposo ama in modo incondizionato e dà il meglio di sé all’amato. Chiede fedeltà, una fedeltà da intendere nel modo giusto. Dichiara una gelosia che non è possesso che annulla, che tarpa le ali, che inibisce. È una fedeltà che fa sbocciare l’amato in tutti i suoi colori. È una fiducia che fa crescere, è una gelosia che protegge, perché ti fa sentire quanto vali per lui, quanto importante sei per lui. «Eccomi – dice stasera il Signore -, io sto alla porta e busso, se qualcuno mi apre io verrò da lui, cenerò con lui e lui con me» (cfr. Ap 3,20). E poi aggiunge: «Io sono lo sposo che passerà a servire» (cfr. Mc 13,34; Mt 20,28).
Teresa d’Ávila dice che, nel momento dello sposalizio con il Signore, la creatura arriva a «compiere opere ed opere». Così lo sposo e la sposa gareggiano nel servizio. Gesù lava i piedi; rivivremo questo momento fra alcuni istanti. Anche a noi chiede di fare lo stesso, questa sera nel rito, ma, appena fuori, nel servizio concreto, fatto con i muscoli, con il sacrificio, spesso necessario. Per “mistica” non intendiamo qualcosa di evanescente, ma la dedizione verso chi ci vive accanto, amore con i fatti e non a parole. Lo sposo ritiene fatto a sé quello che facciamo «al più piccolo dei nostri fratelli» (cfr. Mt 25,40). «Ecco la tua sposa, Signore: questa assemblea che è pronta per te». Amen.

Omelia nella Messa crismale

Omelia di S.E. Mons. Andrea Turazzi

Cattedrale di Pennabilli, 13 aprile 2017

Is 61,1-3.6.8-9
Sal 88
Ap 1,5-8
Lc 4,16-21

Carissimi fratelli,
«lo Spirito del Signore è su di me, perché il Signore mi ha consacrato con l’unzione; mi ha mandato a portare il lieto annuncio» (Is 61,1). Parole scolpite per voi e per me.
La mia prima missione è di confermare, sostenere, consolidare voi, miei primi fratelli e collaboratori; è attraverso voi che la maternità della Chiesa raggiunge l’intero popolo di Dio.

1.

Vorrei corrispondere con tutte le mie forze e con la somma delle mie povertà a questa missione. Lo desidero per tutto il tempo che mi sarà dato di servire questa Chiesa. A questo mi impegno, anche con l’imminente visita pastorale. Lo prometto nel dies natalis del nostro sacerdozio. Giorno di festa per noi. Giorno di incontro tra noi. Giorno di gioia pasquale con tutto il popolo di Dio. Formiamo quell’unico presbiterio fondato sul sacramento che ci lega in eterno al Signore Gesù, unico sacerdote. Del suo sacerdozio noi partecipiamo. Nella ordinazione sacerdotale l’unzione col Crisma ci ha configurati a lui buon pastore.
Chi siamo? Come siamo? Come ci vede il Signore?

2.

Parto con un selfie, fotografia di gruppo con autoscatto. Siamo 62 presbiteri, 48 diocesani e 14 religiosi, di varie età, da 36 anni agli over 90. A quanto so, tutti in discreta saluta fisica e spirituale. 5 confratelli godono di meritato riposo e continuano ad essere le nostre colonne. Abbiamo provenienze diverse, diversi, soprattutto, sono stati i percorsi formativi. Non pecchiamo certo di uniformità: ci contraddistinguiamo per sensibilità e caratteri, perfino con punte di singolarità.
A detta di alcuni laici non brilliamo per entusiasmo. Non siamo un presbiterio di punta, tuttavia un presbiterio capace di fedeltà: presenza in parrocchia (va migliorata l’organizzazione delle vacanze e dei viaggi), celebrazione quotidiana dell’Eucaristia, visita almeno mensile agli anziani e agli ammalati, incontro pasquale con tutte le famiglie, assistenza al catechismo, etc… Siamo più propensi a soddisfare la richiesta di sacramenti che a suscitare domande di formazione. Ci accade talvolta di accondiscendere ad una pastorale che accentua la sacramentalizzazione rispetto all’evangelizzazione: forse più liturghi che maestri, più stanziali che missionari, più navigatori solitari che compagni di squadra. Tendiamo – ma non ci è facile – alla pastorale d’insieme richiesta per l’unità del presbiterio, per una maggiore efficacia dell’azione e per rispondere alle mutate situazioni delle nostre comunità. Fatichiamo a far decollare le unità pastorali. Poco coraggio? Troppo complessa e articolata la realtà? Prevalenza delle esigenze individuali su quelle dell’insieme?
Ognuno porta il proprio fardello: fatiche, delusioni e, talvolta, incomprensioni. Dobbiamo fare poi i conti con i nostri limiti e difetti: c’è chi finisce per essere senza gioia; e questo è brutto! C’è chi si è seduto: ha fatto tanti tentativi, cercato vie nuove… Hanno finito per pesare i condizionamenti della consuetudine e della routine. Talvolta si è bloccati per il timore di non essere all’altezza delle richieste. Circa l’impiego del tempo: contemperare l’attività apostolica con la cura amministrativa, con la gestione della Chiesa, con la custodia della casa… e anche questo porta via tempo. C’è chi sente il sovraccarico pastorale; deve districarsi fra le mille richieste della gente, le riunioni, gli incontri al centro diocesi e gli incarichi oltre la parrocchia (benedette agende!); senza dire poi della prepotenza del telefono e delle comunicazioni digitali. Qualche volta, ammettiamolo, si perde tempo e ci sfugge quello che accade accanto a noi, salvo poi fare le ore piccole per recuperare.

3.

Dal selfie alla radiografia. Come siamo dentro? Consideriamo il cammino vocazionale che ci ha portato ad abbracciare la vita da prete, vita totalmente posseduta da Cristo e messa fiduciosamente nelle mani della Chiesa: l’inquietudine della ricerca, l’entusiasmo della decisione; il tempo della formazione e dell’ascesi per la conquista della libertà interiore e le esitazioni del tutto normali davanti ai passi decisivi per “sposare il Signore per sempre”, i timori e i lampi di gioia e la voglia di santità, la lotta interiore fino a capire, finalmente, che non i nostri sforzi sono decisivi, ma l’opera di Dio in noi.
Chi non ha desiderato di essere un bravo prete? In verità la scommessa era più sulla fedeltà del Signore che sulla nostra. E questo ci ha dato coraggio. In alcuni passaggi ci è stato di aiuto chi, senza toglierci la libertà, ci ha incoraggiato e spinto all’audacia.
Per alcuni la famiglia è stata vicina e collaborativa, per altri un banco di prova. Comprensibili i timori dei genitori: «Proprio mio figlio ha questa vocazione?». Ai nostri genitori erano ben note le nostre inconsistenze e la nostra normalità. Tuttavia, anche la famiglia, più o meno consapevolmente, alla fine è stata coinvolta nel progetto di vita. E poi le amicizie… Gli amori: amori adolescenziali, amori dichiarati o solo platonici, amori più maturi. Esperienze, anche queste, che hanno arricchito e preparato ad un amore più grande nella scelta-dono del celibato.
Veniamo al giorno radioso dell’ordinazione. Oggi, soprattutto, dobbiamo ritornare alla grazia di quel giorno, con gratitudine, col desiderio di un nuovo inizio, con fermi e rinnovati propositi. Con l’ordinazione sono venuti i primi incarichi, il legame con persone e comunità che mai avremmo immaginato di incontrare: son diventate parte della nostra vita. Ci legano ad esse vincoli di fraternità e paternità. Legami di cuore. Siamo stati avvertiti di non vagheggiare luoghi diverse, carriere, ambizioni. Ci basta che l’anima sia “a fuoco”, sempre in una appassionante intimità con colui che ci ha chiamati; e così faticare, avanzare, cantare per fede, solo per fede! Contempliamo, in tutto il suo splendore, la chiamata, anche con le cicatrici e le ferite che la rendono più bella. «Una corona invece della cenere, olio di letizia invece dell’abito a lutto, veste di lode invece di uno spirito mesto. Voi sarete chiamati sacerdoti del Signore, ministri del nostro Dio sarete detti» (Is 61,8). Riprendiamo a sognare!

4.

Che cosa ci è chiesto?
Constatiamo la necessità di una conversione pastorale. Si fanno convegni, studi, pubblicazioni, esperienze sull’argomento, ma la conversione pastorale presuppone la conversione del cuore. Non si tratta di nuove strategie e neppure è questione di programmi, ma di interiore disponibilità ad ascoltare la voce dello Spirito.
Abbiamo davanti grandi orizzonti, piccoli passi ma concreti da fare.
Primo, la comunione: la si esige dagli altri, ma noi siamo disposti a cedere il nostro punto di vista, le nostre posizioni? Siamo capaci di ascoltare fino in fondo i pensieri degli altri, di praticare il discernimento comunitario? Partecipiamo cordialmente alla vita diocesana e presbiterale? Siamo disposti ai cambiamenti, alla collaborazione, all’incontro? (dovremmo rileggere spesso il n.43 della Novo Millennio Ineunte sulla spiritualità di comunione).
Secondo, la missione: la missione non coincide con il pendolarismo da una chiesa all’altra, ma scaturisce dalla urgenza di far conoscere il Signore, dal desiderio di avvicinare la gente, partendo pedagogicamente dal punto in cui si trova. Il prete missionario è aperto verso tutti nella consapevolezza che separarsi per non sporcarsi con gli altri è la sporcizia più grande (L. Tolstoj). Il prete missionario circonda di attenzione e di tenerezza le persone a lui affidate fino a conoscerle una per una. Ha un approccio costruttivo con i laici: sa collaborare, accetta di mettersi in questione, si fida, costruisce insieme… preti così non si improvvisano. «Il Signore mi ha mandato a portare il lieto annuncio a i miseri, a fasciare le piaghe dei cuori spezzati, a proclamare la libertà degli schiavi, la scarcerazione dei prigionieri, a proclamare l’anno di grazia del Signore» (Is 61,2).
Non servono preti clericali il cui comportamento rischia di allontanare la gente dal Signore. Non servono preti funzionari che, mentre svolgono un ruolo, cercano lontano dal Signore consolazioni e compensazioni. Il prete missionario entra nel dolore della gente. Partecipa. Ha la missione nel cuore.
Terzo, il servizio: non è servizio quello di chi dall’alto della considerazione di sé ostenta benevolenza, è paternalismo. Il servizio non è dominio sulle persone protette o sulle situazioni per le quali si finisce per considerarsi indispensabili. Un servizio così inteso, sotto sotto, diventa potere, indisponibilità a farsi da parte. Il servizio rifugge dall’esibizione: preferisce l’ultimo posto non per moralismo, ma per la convinzione che il Signore è con i più poveri, i più piccoli… Il Signore si è identificato con chi ha fame, sete, con chi è malato, etc. Il servizio è farsi uno: «Mi metto nei tuoi panni, così è mio il tuo problema, mi metto accanto a te e nella reciprocità cresciamo insieme». Impariamo la lezione del Signore che lava i piedi (cfr. Gv 13, 1ss).

5.

E il Signore come ci vede? Che cosa dice di noi?
Il Signore Gesù ci dona il suo stesso donarsi. Il sacerdozio nell’Antico Testamento veniva descritto come una struttura sociologicamente ben organizzata. Chi era investito del sacerdozio diveniva segno di una particolare proprietà divina, ma l’elezione era vissuta come separazione: così il popolo di Israele di fronte a tutti gli altri popoli, sacro al Signore, perciò separato (cfr. Es 19,1-7; Dt 7,1-8); la tribù di Levi, destinata del culto, non aveva parte con le altre tribù, era porzione del Signore (cfr. Dt 10,8-9). Dalla tribù di Levi veniva scelta una famiglia per il santuario: una volta all’anno il sommo sacerdote immolava un agnello mediante la consumazione col fuoco (cfr. Ebr 9). Questo procedimento, come si vede, era per successivi e drammatici distacchi, quasi una struttura piramidale al cui vertice non c’era altro che una nube che sale verso l’alto. Il sacerdozio antico era rituale, formale, esteriore. Celebrazione della trascendenza, ma anche della irraggiungibilità di Dio.
Gesù, dal punto di vista sociologico, fu laico. Tuttavia, il Nuovo Testamento lo proclama sacerdote, ma in una prospettiva diversa rispetto al sacerdozio antico: il suo è un sacerdozio interiore, esistenziale, personale. Il movimento è discendente e procede per successivi incontri. Il Verbo si incarna. Nell’unica persona sono inseparabilmente unite la natura divina e la natura umana, un abbraccio salvifico ed eterno. Gesù di Nazareth vive la vicenda umana nella quotidianità e nella prossimità con la gente, fino ad assumere sofferenza e peccato. Sulla croce, estrema frontiera, fa proprio il dolore innocente e celebra il sacrificio in obbedienza al Padre: è sacerdote, vittima e altare ad un tempo. È la divina liturgia del fiat. Con il grido del suo abbandono (estremo abbassamento e kenosi) si manifesta in croce come unico mediatore tra Dio e gli uomini, abbattendo la separazione e facendo l’unità (enosis). Dal fianco squarciato effonde lo Spirito per una nuova creazione.
Gesù prolunga il dono di sé attraverso l’Eucaristia. Un grumo di materia, trasformato in lui, anticipa l’unità completa di tutto in lui (cfr. Ef 1,10). La kenosi del Signore, in vista dell’unità universale, sembra raggiungere qui il suo vertice, ma la massima espressione del suo abbassarsi sta nel dono che egli fa del suo stesso donarsi, cedendolo ad alcuni dei suoi fratelli, «uomo assunto tra gli uomini per le cose che riguardano Dio» (cfr. Ebr 5,1). I presbiteri, tali per l’imposizione delle mani, agiscono in persona Christi, ministri della stessa mediazione sacerdotale di Cristo. Grandezza del sacerdozio! Incanto e responsabilità. «Coloro che li vedranno riconosceranno che essi sono la stirpe benedetta dal Signore» (Is 61,9). Auguri!

Omelia nella domenica delle Palme

Omelia di S.E. Mons. Andrea Turazzi

Cattedrale di Pennabilli, 9 aprile 2017

Is 50,4-7
Sal 21
Fil 2,6-11
Mt 26,14- 27,66

Vorrei sapere se durante la lettura della Passione il vostro cuore ha avuto qualche increspatura, se si è mosso qualche cosa dentro.
Il racconto della Passione è decisivo per noi cristiani, perché ci invita a guardare il nostro cammino di fede; ad esempio ad individuare in quale personaggio ci identifichiamo. Gesù ha sofferto per il tradimento di Giuda; trenta monete, è stato il suo prezzo. Ha sofferto per il rinnegamento di Pietro, quando spergiurando ha detto «non conosco quell’uomo!» (Mt 26,72). Ha fatto soffrire Gesù la viltà di Pilato, il quale con un processo sbagliato, se ne è lavato le mani, cioè non si è assunto la responsabilità della decisione.
Anche oggi c’è tanta indifferenza davanti al Signore Gesù. Penso alla mia mediocrità, penso alle nostre esitazioni che fanno da ostacolo all’annuncio del Vangelo. Ce la sentiamo di assomigliare ad altri personaggi, i personaggi positivi di questo racconto? Gesù non ha forse bisogno di noi perché gli teniamo compagnia nella veglia nel Getsemani? Gesù non ha bisogno forse di un nuovo Simone di Cirene per aiutarlo a portare le croci dell’umanità che soffre? Gesù non ha forse bisogno di un centurione che lo riconosca come Signore dal più profondo del cuore? Allora, durante questa settimana di passione proponiamoci di avere nel cuore gli stessi sentimenti che furono di Gesù (cfr. Fil 2,5). Invito tutti a trascorrere con questo spirito le giornate della settimana santa. Giovedì Santo: la memoria dell’ultima cena, nella quale il Signore ci ha dato il comandamento nuovo e ha istituito il sacramento dell’Eucaristia.
Venerdì Santo: la memoria della Passione e morte del Signore. A Pennabilli abbiamo la tradizione popolare della processione detta “dei giudei”, ma, prima di quella manifestazione, in Cattedrale rileggeremo la Passione secondo Giovanni, scopriremo la croce, che era stata velata nei giorni precedenti, e la copriremo di baci. E poi la Veglia Pasquale: la notte nella quale, dopo l’ascolto di tante pagine della Scrittura, verrà benedetta l’acqua nel fonte battesimale e verranno sciolte le campane, perché si celebrerà, dopo giorni di astinenza, l’Eucaristia. Gesù è risorto, è vivo! Dunque, avere in noi gli stessi sentimenti che furono in Gesù. E diciamo, con nuovo slancio: «Sì, Signore, vogliamo essere cristiani – oggi non è più scontato -, vogliamo vivere nella tua grazia, senza il peccato. Per ogni volta che, per la nostra fragilità abbiamo sbagliato, ti chiediamo perdono».
Abbiamo iniziato questa liturgia facendo memoria del Signore che entra in Gerusalemme acclamato dalle folle. Allora, un umile asinello fu la cavalcatura del Messia. Che ognuno di noi si renda disponibile a portare il Signore: noi tutti umili asinelli, ma fieri di portare Gesù!

Omelia V domenica di Quaresima – Funerale di Andrea Dini

Omelia di S.E. Mons. Andrea Turazzi

Macerata Feltria, 2 aprile 2017

Funerale di Andrea Dini

Ez 37,12-14
Sal 129
Rm 8,8-11
Gv 11,1-45

Anche se fisicamente siamo a Macerata Feltria, proviamo ad immagine di essere a Betania, il villaggio distante da Gerusalemme tre chilometri appena. Betania è, anzitutto, il luogo dove si piange, dove si vive un grande dolore. È anche il luogo dove si protesta e per ben due volte: sia Marta che Maria rimproverano Gesù: «Signore, se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto!». Eppure Marta si sbaglia, Gesù non ha detto che Lazzaro non sarebbe mai morto, ma che non sarebbe morto per sempre.
Oggi siamo qui con un grande peso nel cuore, paragonabile alla grossa pietra che stava davanti al sepolcro di Lazzaro. E chi può muovere quella pietra? Soltanto un Dio!
Mi ha commosso il vostro parroco, don Graziano, che per l’emozione non riusciva a terminare la lettura del Vangelo. Ho visto come vuole bene ai suoi ragazzi.
Anch’io soffro con voi sotto questo peso e, quando si è schiacciati da un masso, non si sussurra, si urla. Ma con tutte le mie forze accetto la sfida di Gesù, quando mi dice: «Tuo fratello vive». Mi succede spesso, durante le mie giornate – permettete la confidenza – di dar credito alle sue parole; per esempio quando dice: «C’è più gioia nel dare che nel ricevere» (At 20,35), oppure: «Non c’è amore più grande che dare la propria vita» (cfr. Gv 15,13), «Voi siete il sale della terra» (Mt 5,13). Credo alle parole di Gesù – ahimè ad intermittenza – ma ogni volta constato che sono vere; vedo che è proprio come dice lui. Allora perché non dovrei credergli in una cosa di così grande importanza come quella che stiamo vivendo in questo momento? Vedo che Gesù non fugge la sofferenza, ma non si lascia imprigionare da essa. Altrettanto domanda a noi.
Betania è anche il luogo dove si consola. A casa di Marta e di Maria ci sono tante persone, come oggi qui. Sebbene sia una bellissima domenica di primavera, in una vallata stupenda, anche i ragazzi hanno preferito essere qui; non per curiosare, non per chiacchierare, ma semplicemente per essere vicini, consapevoli che nessuno potrà mai rimpiazzare quel posto rimasto vuoto. Siamo tutti qui per aiutarci. Vorrei rappresentare, come fanno i registi, in modo plastico, la scena di Gesù in uscita verso Betania. Anche lui va per consolare. Vorrei fare delle zoomate su ciascuno dei gradini che portano Gesù all’incontro. Prima Gesù sembra tergiversare; poi decide di andare quando gli sussurrano che ormai è inutile, perché è già accaduto tutto. Gesù si avvicina a Betania, affrontando il rischio della cattura, nonostante gli apostoli gli suggeriscano di essere prudente. Non ha paura di andare dove si piange, affronta la disperazione. Si fa condurre al sepolcro. Fa togliere la pietra. Vince anche le riserve della famiglia: «È già lì da quattro giorni». Gesù compie dei passi anche dentro di lui. Lazzaro era suo amico. Di per sé, la parola “Lazzaro”, nella lingua ebraica, significa “Dio soccorre”, ma, quando gli mandano a dire che l’amico è malato lo chiamano “Colui-che-tu-ami…”. E Gesù piange. Discende gradino dopo gradino, s’avvicina sempre di più. Gesù c’è, si fa trovare al momento buono, arriva sempre in tempo.
Vorrei anche raffigurare il cammino che fanno le persone verso Gesù. Betania è il luogo dove si sente l’annuncio della risurrezione, della vita che non finisce. Lazzaro è stato rianimato, poi è morto di nuovo. Il segno compiuto da Gesù indica un’altra realtà futura: la risurrezione. Marta va per prima incontro a Gesù; Maria, che è in casa, come morta per il dolore, si mette in cammino appena sente che Gesù sta arrivando al villaggio; allo stesso modo i cittadini di Betania e gli apostoli; Tommaso, che all’inizio del brano aveva detto a Gesù di non andare in Giudea perché correva rischi, successivamente, con una velata rassegnazione, decide: «Andiamo anche noi a morire con lui!». Dunque, anche nelle persone vicine a Gesù c’è fatica, c’è cammino, c’è desiderio e, nello stesso tempo, la razionalità che frena e fa rallentare. Infine avviene l’incontro tra Gesù, che è disceso dove c’è il pianto, e le persone che salgono con la loro flebile fede. Siamo nel cuore del Vangelo. Gesù dice: «Io sono la risurrezione e la vita». E ripete oggi anche a noi il dolce rimprovero rivolto a Marta: «Non ti ho detto che se credi vedrai la gloria di Dio?».
Ecco la nostra Betania. Anche noi aspettiamo Gesù. Ora è qui; vogliamo incontrarlo: «Signore, fa che ogni giorno impariamo a morire e a risorgere». Quando si ama in qualche modo si muore a se stessi per far spazio all’altro; questa dinamica ci prepara alla vita per sempre con il Signore.

Omelia per insediamento Capitani Reggenti

Omelia di S.E. Mons. Andrea Turazzi

San Marino (Basilica del Santo), 1 aprile 2017

Es 20,1-17
Sal 18
Mt 5,13-18

Eccellenze, Signore e Signori,
Carissimi tutti,
ogni volta che partecipo a questo avvicendamento istituzionale e a questa liturgia resto stupito ed entusiasta. E non tanto per il folclore. Ho avuto modo di ripeterlo in altre circostanze: la piccola Repubblica di San Marino compone e ricompone un bozzetto di umanità futura, riconciliata e unita per la presenza di tanti signori ambasciatori. Si resta poi ammirati nel constatare come l’autorità non sia appannaggio o arbitrio di qualcuno, ma sia una realtà per la quale due persone accettano di mettersi a disposizione e, una volta compiuto il servizio, passano la mano. Questa volta Capitani Reggenti sono due signore: ne siamo felici e auguriamo loro un buon lavoro.
Pur fedeli alla propria sensibilità, cultura e formazione, i Capitani Reggenti diventano rappresentanti di tutti i cittadini. Ogni sammarinese può dire: «Ecco chi mi rappresenta!». Essi sono costituiti arbitri al di sopra delle parti, ma io preferirei dire con tutte le parti, perché ascoltano, vedono e accolgono il meglio di ogni componente della comunità. Senza preclusioni. Senza pregiudizi. A servizio, semplicemente.
La tradizione ha pensato che il peso della responsabilità fosse condiviso da due persone. Insieme. Per aiutarsi? Per ridimensionare il potere individuale? Per una migliore pratica del discernimento? Per una condivisa rappresentanza? Del resto non mandava a due a due i suoi discepoli anche Gesù, il Maestro? (cfr. Mc 6,7).
So, per la confidenza di qualcuno, che non si esce da questo mandato, senza esserne profondamente cambiati.
Eccoci, oggi, davanti ad un testo biblico importante che in dieci parole (decalogo) racconta l’uomo. Queste dieci parole hanno la pretesa di cogliere l’essenziale. Sono state scritte su pietra, ma ognuno le porta in sé: non c’è persona, a qualsiasi popolo o cultura appartenga, che non vi legga la propria verità.
Il decalogo – già presente in un antico testo mesopotamico, detto Codice di Hammurabi (XVIII sec. a.C.) – ci ha raggiunto con forma e linguaggio giuridico; indica all’uomo che cosa deve fare e che cosa non deve fare. Ma, in realtà, va ben oltre: dice all’uomo chi egli è; riguarda più l’essere che il fare. Diogene, secondo l’antico racconto, si aggirava per la piazza, in pieno giorno e, con la lanterna in mano, cercava l’uomo. La piazza è il meraviglioso alveare che l’uomo ha creato con i suoi commerci e la trama delle sue relazioni. Ma in esso paradossalmente può smarrirsi. La lanterna è una provocazione per chi presume di vederci chiaro, mentre si inganna inebriandosi troppo presto di ciò che luccica, di ciò che appaga immediatamente e di ciò che sembra più facile.
Uomo, chi sei?
Abbiamo bisogno di entrare in noi stessi e di scoprire l’altissima dignità a cui siamo chiamati. Nessuno – vorrei dire – si condanni alla mediocrità: il decalogo, parola di chi ci ha creati, ci viene in aiuto. La sua lettura non moralistica ci fa comprendere la natura profonda della nostra vocazione. I «non fare…», i «non commettere…», i «ricordati…», non sono altro che la definizione della nostra vera natura: siamo fatti per l’infinito, per la relazione, per desideri smisurati.
Fatti per l’infinito.
La Bibbia non disdegna di usare il linguaggio colorito del mondo orientale: «Io, il Signore, sono il tuo Dio, un Dio geloso» (Es 20, 5). Dio non tollera che la sua creatura più preziosa gli sia alienata e passi sotto padroni che lo derubino della sua libertà e della sua anima.
Fatti per la relazione.
Dio si offre agli uomini attraverso padri e madri; egli è colui che viene raccontato dal padre al figlio. Ma Dio non è soltanto raccontato; anche nella condizione umana più deturpata, là dove il padre non racconta Dio, cede ai genitori il suo attributo di creatore e solo attraverso loro suscita una nuova creatura e l’associa alla propria volontà di amore. La vita e Dio scendono così insieme trasportati da un’interrotta successione di padri e di madri per tutta la durata della storia.
Fatti per desideri smisurati.
Dio è il Signore della vita. Per un disegno di amore la effonde e l’affida all’uomo perché ne diventi responsabile. Questo è motivo di gioia e di gratitudine. Talvolta, però, se ne sente il peso e la fatica. «L’ingresso costa troppo caro per la nostra tasca. E perciò mi affretto a restituire il mio biglietto d’ingresso». Così parla Ivan al fratello Alyosha ne “I fratelli Karamazov” di F.M. Dostoevskij. La nostra fondamentale e prima chiamata consiste nella fedeltà alla vita, nel pronunciare ogni giorno il nostro “sì” coraggioso e responsabile: «Vivere è rispondere».
Il comando «non desiderare» non è ostile alla vita, ma combatte l’egoismo, non si limita al diniego, ma propone un’educazione del desiderio. Anche Dio ha desideri smisurati: ci desidera. Ci desidera tutti.
Gesù è venuto per raccontarci il desiderio di Dio. Per questo: «Nessuna delle dieci parole venga cancellata e non cada neppure uno iota o un trattino da esse» (cfr. Mt 5,18).

Omelia IV domenica di Quaresima

Omelia di S. E. Mons. Andrea Turazzi

Cattedrale di Mantova, 25 marzo 2017

1Sam 16,1.4.6-7.10-13
Sal 22
Ef 5,8-14
Gv 9,1-41

Carissimi, siamo a metà della Quaresima. È consentita un’attenuazione della penitenza – per questo i paramenti sono rosacei – però la liturgia ci sta anche allertando, sembra dirci: «Guarda che presto sarà la veglia di Pasqua. Se sei un cristiano autentico, quella notte, salvo gravi motivi, dovrai esserci, perché è la notte in cui si rinnova il Battesimo». I tre momenti che precedono la settimana santa anticipano i grandi temi della Veglia pasquale. Domenica scorsa Gesù si autorivela acqua viva. Questa domenica si autorivela come luce. Domenica prossima incontreremo il grande tema della vita, quando Lazzaro verrà restituito alla vita, ma è soltanto un segno di quello che accadrà quando risorgeremo in Gesù.
Nella stupenda pagina del Vangelo di oggi Gesù incontra un cieco; lo incontrerà anche alla fine del brano e, fra il primo incontro e l’incontro finale, c’è un dibattito molto serrato fra Gesù, i farisei, il cieco, i genitori del cieco e poi di nuovo con Gesù. C’è una sorta di ironia che è svelata completamente nel penultimo versetto quando Gesù dice: «C’è chi non vede e viene condotto a vederci; c’è chi presume di vedere e invece diventa sempre più cieco».  Signore, donaci la fede! La condizione del cieco nato simboleggia la condizione umana del ritrovarci senza luce, nel buio totale. La luce che sta per balenare è una luce universale, la luce di Gesù. Da notare che il prodigio della guarigione del cieco non è da riferirsi alla misericordia di Gesù come si osserva in altri racconti, quando Gesù si piega sugli ammalati, mosso dalla compassione. In questo caso non si direbbe. Ad ottenere il prodigio non è di per sé l’impasto che Gesù ha composto con la saliva e la polvere, anche se persino questo è un simbolo che ha tante risonanze; non è neppure l’acqua della piscina di Siloe e neppure la fede di colui che è cieco, perché di fatto lui non ha chiesto nulla: è stato visto mendicare da Gesù e gli è stata donata la vista… perché? Perché doveva manifestarsi pienamente che Gesù è la luce.
La prima conclusione mi viene da un’esperienza vissuta oggi. Prima di venire a Mantova siamo stati a San Benedetto Po, insigne paese del basso mantovano. Nella celebre abbazia ci è stato mostrato un quadro con un’allegoria della fede rappresentata da una donna slanciata con in mano un calice; la testa non c’è, è in mezzo alle nuvole. La guida turistica ha spiegato così l’allegoria: la fede è oscurità. Al contrario, vorrei dire che la fede è la festa della ragione, perché essa apre orizzonti e stimola a cercare nuove strade. La fede è luce.
Ripenso all’incontro che ho avuto con un gruppo di fidanzati. Ho detto loro che potevano interpretare quello che gli era accaduto, cioè il loro incontro, come un caso. Un incontro casuale in pizzeria, amici comuni, l’innamoramento… Se fosse così, il loro amore avrebbe un aggancio davvero improbabile: il caso. Invece la fede fa interpretare quello accade non come un caso ma come un disegno. Così l’incontro con il futuro sposo/a. La fede offre una chance a quelle coppie di fidanzati. Mentre parlavo, ho visto che i loro occhi brillavano al pensiero che la loro vita è il dispiegarsi di un disegno di Dio che è amore. Verranno i momenti di difficoltà nella vita di famiglia, di coppia, ma se avranno la fedeltà di ricordarsi che hanno una missione davanti, che stanno compiendo il disegno di Dio, questo darà loro una grande forza; è la grazia del Sacramento, la luce della fede.
Vi auguro una buona settimana; che possiate tutti essere luce e portare luce, perché la fede diventi fosforescenza del Signore. Che cosa vuol dire in concreto? Anzitutto essere persone di buon umore, persone che sanno scoprire in ogni circostanza il lato positivo. Il cristiano dove passa lascia gioia, buonumore, benevolenza. San Paolo, nella Lettera agli Efesini, ha detto: «Voi siete luce». A quel tempo Efeso era il manifesto della presunta luminosità del paganesimo, della cultura classica. A Efeso c’era un tempio meraviglioso, l’Artemision, costruito con marmi bianchissimi, e un lago che, come a Mantova, lanciava il riverbero e moltiplicava la luce del sole. Invece, i cristiani vivevano nei tuguri, ma Paolo dice ugualmente: «Voi siete luce». Del resto, Gesù ha detto ai discepoli: «Voi siete la luce del mondo» (Mt 5,14), una luce che, evidentemente, viene da dentro. Invito a preparare bene la Confessione di Pasqua, per essere più luminosi, perché la grazia del Signore risplenda dentro ciascuno: Non si brilla di luce propria! La luce viene da Lui!

Omelia III domenica di Quaresima

Omelia di S.E. Mons. Andrea Turazzi

Maciano, 19 marzo 2017

Es 17,3-7
Sal 94
Rm 5,1-2.5-8
Gv 4,5-42

Attorno a quel pozzo si intrecciano tante relazioni e tante persone: Gesù, la donna samaritana, gli apostoli e i cittadini di quel villaggio. Immaginiamo di fare una zoomata sul personaggio protagonista: Gesù. Gesù è stanco, affamato, assetato. Si presenta in modo molto semplice e molto umano. Da parte sua la samaritana si mostra come una donna vivace, capace di reagire, intraprendente, edotta, coglie subito le diversità: Gesù è un giudeo, lei una samaritana. Nonostante ciò, Gesù non ha difficoltà a stare con lei e neppure lei a stare con lui. È una donna orgogliosa della sua religione e della sua tradizione, ma vive una grande sconfitta personale, affettiva e sociale: ha avuto cinque mariti e l’uomo con cui vive non è suo marito. È abile a depistare il discorso di Gesù facendogli a sua volta delle domande, in particolare sul culto. Sorprende che Gesù si presenta a lei come uno che chiede. In verità, egli chiede per donare. Gesù non parte da un tema e neppure da una correzione. Egli manifesta la sua umanità, esprimendo tutta la sua sete. Ciò che avvia il discorso è semplicemente il suo «dammi da bere», poi la rivelazione sarà totale.
Si possono osservare due cammini: il cammino che percorre Gesù e il cammino che percorre la donna samaritana. Il cammino che Gesù percorre è per avere la chiave del suo cuore. A Gesù non interessa l’acqua del pozzo, ma l’amore di quella donna, come quello di ciascuno di noi. Tornano alla memoria le parole commoventi di Gesù in croce, quando, sospeso fra cielo e terra, inchiodato, dice: «Ho sete». Le stesse parole che pronuncia al pozzo di Sicar. Osserviamo più da vicino il cammino di Gesù. Gesù scavalca alcuni steccati; per primo lo steccato del sesso, perché da vero giudeo, preoccupato dell’etichetta, non avrebbe mai potuto parlare in pubblico con una donna; poi lo steccato della diversità di razza, perché i samaritani, anche se sono della terra di Israele, sono ritenuti “bastardi”. Infatti, durante la deportazione al tempo degli Assiri, la borghesia israelitica venne portata nella terra dei due fiumi, nella Mesopotamia. In Samaria era rimasta la gente più povera del paese e gli Assiri, da intelligenti conquistatori, vi portarono persone del loro popolo, coloni. Così, i samaritani si sono “impastati” con i colonizzatori e sono diventati una razza meticcia. Gesù, invece, parla sempre bene di loro. Dopo lo steccato della razza Gesù varca anche lo steccato della religione, perché i samaritani conoscevano solo una parte della religione ebraica, avevano solo il Pentateuco, i primi cinque libri della Bibbia; non conoscevano i profeti, i libri sapienziali, etc. Erano rimasti alla prima Alleanza. Adoravano Dio sul monte Karizim, mentre i Giudei ortodossi adoravano Dio soltanto a Gerusalemme, la città santa. Pertanto i samaritani erano anche apostati. Gesù va oltre: «Verrà il giorno, ed è questo, in cui i veri adoratori adoreranno Dio in spirito e verità», affermando di essere lui stesso il tempio in cui adorare Dio. Infine, Gesù scavalca lo steccato del diritto, della legislazione di allora che non consentiva ad un ebreo di contaminarsi con i samaritani.
Quali ostacoli ci sono in me? Quali barriere Gesù trova nella mia storia, nella storia della mia famiglia, nel mio carattere, nelle mie abitudini?
Gesù non si ferma di fronte alla mia pochezza, ai miei peccati, alla mia inconsistenza. Gesù è sicuramente capace di scavalcare questi steccati.
Osserviamo ora il cammino che fa la donna. È anonima, perché in lei possiamo tutti vederci; si parla di lei ma si parla di tutti noi. È un cammino che progredisce sempre di più. Prima tappa: la chiusura. «Perché tu che sei giudeo chiedi da bere a me che sono samaritana?». Poi arriva il dubbio, quando vede che Gesù va molto in profondità: «Da dove prendi l’acqua che prometti?». Si incrina la sua difesa: pian piano la donna si apre seppure per malinteso. «Signore dammi quest’acqua così speciale». Arriva ad una fede incerta: «Non sarà per caso il Messia costui che vede nel cuore?». Finalmente ci troviamo di fronte alla piena confessione della donna e anche dei samaritani che dicono: «Non è per i tuoi discorsi che noi crediamo, ma perché noi stessi abbiamo udito e sappiamo che questi è veramente il Salvatore del mondo».
C’è stato un incontro! Auguri affinché anche tutti noi possiamo vivere oggi quest’incontro con Gesù sposo, amico del cuore, e portarlo con noi come acqua viva durante la settimana.

Omelia al “Venerdì Bello”

Omelia di S.E. Mons. Andrea Turazzi

Pennabilli (Santuario B.V. delle Grazie), 17 marzo 2017

Prv 8,22-31
Sal 44
Ef 1,3-6.11-12
Lc 1,26-38

«Il Signore mi ha creato all’inizio della sua attività, prima di ogni sua opera. Dall’eternità sono stata costituita, fin dall’inizio… » (Prv 8,22).

Durante la liturgia della Parola abbiamo spalancato orecchi, mente e cuore a due inni: quello dal libro dei Proverbi di Salomone e quello di Paolo nella Lettera agli Efesini, inni che ci hanno innalzati al Cielo della Trinità.
Chi è la Sapienza di cui canta Salomone?
Di lei si parla in testi biblici, ancora più antichi, come di un bene spirituale, il più desiderabile, il più prezioso…
Ma qui la Sapienza è personificata. È lei stessa che parla di sé e racconta della sua origine:
– generata prima di ogni creatura,
– coinvolta come parte attiva nella creazione,
– incaricata di una missione da svolgere presso gli uomini: condurli a Dio.
Quello contenuto nell’inno del libro dei Proverbi è un identikit appena abbozzato della Sapienza. Nel Nuovo Testamento quella intuizione avrà uno sviluppo nuovo e decisivo, diventerà Rivelazione: la Sapienza è il Verbo di Dio, Gesù Cristo!
Gesù Verbo è Sapienza di Dio.
Come viene detto della Sapienza, Cristo partecipa alla creazione e conservazione del mondo. Di lui, come Logos, parla il Vangelo di Giovanni.
Nel prologo vengono attribuiti al Verbo i tratti della sapienza creatrice e si dice del suo prendere dimora tra gli uomini.
La liturgia applica questo testo alla Vergine Maria, collaboratrice del Redentore come la Sapienza lo è del Creatore, nella duplice veste di parte attiva nel mistero della redenzione e per la sua missione verso di noi (missione materna).
A Maria ho voluto dedicare la mia Lettera pastorale per la Pasqua 2017 con questo titolo: «Maria cielo di Dio». Con questa intitolazione non ho inteso formulare un’iperbole devozionale, né avere la presunzione di attribuirle un privilegio nuovo. Ma, semplicemente, sottolineare quanto accade in questa creatura e la sua tersissima trasparenza, il suo totale silenzio, anzi il suo farsi nulla perché su questo sfondo il Padre doni il suo splendore, l’irradiazione della sua gloria. Maria è il cielo nel quale accade tutto questo per pura grazia. In Maria la creatura viene coinvolta nella dinamica della vita trinitaria. Che cosa le è chiesto di fare? Nulla! Soltanto accogliere l’iniziativa dell’Amante nel suo eterno generare l’Amato, il figlio, e il reciproco donarsi che è lo Spirito Santo.
Il racconto evangelico dell’Annunciazione è, tra le pagine di rivelazione trinitaria, la più significativa. Tutta la Trinità si affaccia sulla casetta di Nazaret e vive in Maria come nel suo cielo: in lei l’Eterno entra nel tempo, «stende su di lei la sua ombra», scende – per così dire – nel suo grembo e risplende come sull’Arca. Ogni versetto si presta per la nostra contemplazione. Al saluto dell’Angelo, Maria è sconvolta, ma sta umile e disponibile davanti a Dio. Il suo abbandonarsi è totale. Il senso vero della sua domanda, «Come accadrà questo?», equivale a un «Signore, che cosa vuoi che io faccia?». Maria lascia da parte tutte le ragioni sicuramente valide: c’è di mezzo Giuseppe, che cosa dirà? C’è di mezzo la sua piccolezza, ma è proprio alla sua piccolezza che l’Altissimo ha rivolto lo sguardo…
Non dubita. Crede alle parole dell’Angelo. Anche se non capisce del tutto, accoglie il Mistero nel suo svelarsi, nel suo concedersi, nel suo incarnarsi.
E Maria concepisce per opera dello Spirito Santo e mette al mondo Gesù, che sarà chiamato “Figlio dell’Altissimo”. E sarà lui che salverà il suo popolo.

Nostra Signora del «sì» insegnaci a discernere la volontà di Dio, ad accoglierla nella fede e a corrispondere alla grazia.

Tu, la piena di grazia, dicci come imitarti. Non possiamo essere cristiani se non essendo mariani!

Rendici sempre più consapevoli d’essere a nostra volta cielo di Dio, dimora della Trinità, grembo di Dio nella storia, arca della sua presenza.

In questo tutto è grazia, soltanto grazia. Rapiti da questa bellezza facciamo nostro l’inno che apre la Lettera agli Efesini, un inno che Paolo innalza mentre è in catene dopo aver chiesto al Signore di aprirgli la bocca con una parola franca per far conoscere il mistero del Vangelo: «Benedetto sia Dio, Padre del Signore Nostro Gesù Cristo, che ci ha benedetti con ogni benedizione nei cieli in Cristo. In lui ci ha scelti, per essere santi e immacolati, predestinati ad essere figli adottivi… In lui (Cristo) siamo stati fatti anche eredi, perché fossimo a lode della sua gloria».

Oggi, alla presenza di Maria Santissima, col presbiterio riunito insieme a numerosi fedeli, annuncio la mia intenzione di iniziare la sacra visita pastorale, a Dio piacendo a partire dal prossimo ottobre, secondo una scansione da organizzare entro l’estate.
La visita pastorale è una delle forme, collaudate dall’esperienza dei secoli, con cui il Vescovo mantiene contatti personali con i sacerdoti e con gli altri membri del Popolo di Dio. È occasione per ravvivare le energie degli operai del Vangelo, lodarli nel loro impegno, incoraggiarli nelle loro fatiche. È anche l’occasione per richiamarci tutti al rinnovamento della vita cristiana e ad un’azione apostolica più intensa.
La visita consente al Vescovo di valutare l’efficienza delle strutture e degli strumenti destinati al servizio pastorale, rendendosi conto più da vicino delle circostanze e delle difficoltà dell’evangelizzazione, per poter determinare meglio priorità e mezzi della pastorale organica.
La visita pastorale non ha il piglio di una visita fiscale, né di una ispezione, né di una formalità. Al contrario è un’azione apostolica per il Vescovo che deve compierla animato dalla carità e per far sentire l’unità nella Chiesa particolare.
Per le comunità e le istituzioni che la ricevono, la visita è un evento di grazia che riflette, in qualche modo, quello specialissimo incontro con il quale “il Buon Pastore” pascola il suo popolo.
La visita pastorale è espressione del nostro dovere di camminare e di camminare insieme. È il dovere lasciato da Gesù agli apostoli: «Andate, dunque… Vi ho costituiti perché andiate». Un andare che, a parte il senso geografico, è un movimento del cuore.
Camminiamo allora, camminiamo insieme.