Omelia per la festa di San Marino

Omelia di S.E. Mons. Andrea Turazzi
San Marino città, 3 settembre 2017

(da registrazione)

Eccellenze carissime, signori Segretari, fratelli e sorelle,
auguri per questa nostra festa, auguri a tutti;
mi dovete permettere di rivolgere un saluto specialissimo ai nostri giovani.
Quest’anno, cari ragazzi, ci sentirete molto parlare di voi, ci stiamo preparando al Sinodo dei Vescovi dedicato proprio al tema: “I giovani, la fede e il discernimento vocazionale”. San Marino è lontano da noi nel tempo, ma è così vicino e caro a tutti noi che quasi ci succede di identificarci con lui; per esempio, quando ci chiedono “di dove sei?” e rispondiamo “sono di San Marino”, indichiamo il luogo dove abitiamo, ma anche un’appartenenza: “Io sono di San Marino, ho un legame con questa persona così cara”. Non sono uno storico, non so tracciare ciò che manca ai documenti per ricostruire la figura di san Marino, quindi non mi permetterei mai di fare un “restauro interpretativo”, ma prendo quello che di lui ci dice la liturgia di oggi. E in particolare sottolineo un aspetto: Marino era un cercatore della verità, non uno che la sbandiera come sua proprietà, ma uno che è in continua ricerca. Nella prima lettura si parla di un “cercatore della sapienza”. C’è tutto un fiorire incalzante, suggestivo, di verbi. Quel cercatore rincorre la sapienza perché vuole capirne i segreti, addirittura si apposta quasi come uno che vuol fare un agguato, tende il suo orecchio, la spia, si ferma nei pressi della sua dimora, pone la sua tenda accanto, fissa un chiodo alle sue pareti per dire che di lì non se ne vuole andare; gli è troppo cara la sapienza. E poi mette se stesso e i propri figli sotto la sua protezione e lui stesso si difende alla sua ombra, ma alla fine è lei, la sapienza, che gli va incontro come fa una madre premurosa, o una sposa innamorata. Infine, continua il libro del Siracide, la sapienza lo nutre, lo disseta, lo sostiene, non lo delude: la sapienza non delude mai. E il cercatore a lei si abbandona fiducioso. Ecco il ritratto che la liturgia ci offre; per lo meno uno dei profili della figura di Marino, cercatore della sapienza. Chi è cattolico si riconosce in pieno in questa sua eredità e la trova ancora fresca, ma sa che potrà esser sua solo se la riconquista: occorre riguadagnare per ripossedere. C’è la gratitudine ma anche la responsabilità. Chi è laico gode di questa eredità perché in essa è contenuta una perla preziosa (e gli conviene).
Oggi in un’unica solennità celebriamo la fondazione della nostra comunità civile e il santo suo fondatore. Nella stessa comunità la dimensione religiosa e quella civile si sono intrecciate, unite ma non confuse, inseparabili ma senza prevaricazioni. San Marino – l’abbiamo detto più volte – non intese fondare una comunità religiosa come un monastero a cielo aperto, un sistema integralistico, ma una società fraterna. Avrà avuto certamente di fronte al suo sguardo la comunità cristiana dei primi tempi, una comunità che a volte ci succede di chiamare “ideale”, ma il termine è improprio perché quella comunità è programmatica per noi. «Erano un cuor solo e un’anima sola» (At 4,32). In questo sistema di sapienza «si dà a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio» (Mt 22,21). Da sempre la nostra tradizione ha promosso, più o meno consapevolmente, più o meno felicemente, il valore della laicità, facendo vivere insieme persone di diverse sensibilità e orientamenti. Questa apertura trova uno dei suoi punti di forza in una visione integrale della persona, propria dell’antropologia cristiana. Chi non è credente non tema le radici cristiane della nostra comunità, perché proprio su queste radici cristiane si fonda il rispetto e la libertà di ognuno. La nostra libertà è reale, non per concessione di qualcuno, ma perché fondata sulla dignità della persona. Chi è credente sa che può contare sul rispetto e sulla considerazione di chi afferma il valore dell’umanesimo.
È anche tempo, oggi, di considerare brevemente le virtù civili. Virtù è parola piuttosto desueta oggi, eppure è parola suggestiva. Virtù è una forza interiore permanente fino a diventare un abito, un abito operativo, cioè un’abitudine nel senso positivo del termine, un atteggiamento permanente. Accennerei appena a due virtù civili che in questo momento ci sono necessarie. La prima virtù: la disponibilità alla collaborazione (vorrei dire alla cooperazione), cioè l’attitudine a tener fisso lo sguardo sul bene comune, al mettersi insieme, astenendosi dai particolarismi per ottenere il meglio a vantaggio di tutti. Ci sono diversità di posizioni, ma talvolta bisogna anche saper andare oltre in vista del bene comune. Questo vale per le istituzioni, ma vale anche per la comunità cristiana e per le famiglie. Da notare che il Vangelo dice: «Voi siete luce». Non dice io, tu, ma voi, cioè io e te insieme. Quando un io e un tu si incontrano generando un noi, in quel noi, sia il noi della famiglia dove ci si vuol bene, sia il noi di una comunità dove si accoglie o il noi di una società solidale, è conservato il senso e il sale del vivere. C’è anche un’altra virtù civile di cui vorrei sottolineare l’importanza: l’onestà. Noi diamo molto valore all’educazione della famiglia. La famiglia onesta – si dice – non è più importante di una famiglia abbiente o ricca. Diamo valore alle istituzioni educative, all’impegno di associazioni, gruppi, movimenti, ma è fondamentale la formazione della personale coscienza. Al di là del ruvido dell’argilla di cui siamo fatti, nella cella segreta del cuore là troviamo sempre una luce accesa, una manciata di sale. Permettetemi di leggere una pagina di un sapiente caro all’umanesimo e caro alla tradizione ascetica spirituale cristiana, Seneca, che così scrive in una sua opera: «Quanto tranquillo, quanto profondo e libero, dopo che l’animo o è stato lodato o ammonito e, da osservatore e censore privato di se stesso, ha concluso l’inchiesta sui suoi costumi. Io mi avvalgo di questa possibilità e mi metto sotto processo ogni giorno. Quando hanno portato via la lucerna e mia moglie, che conosce la mia abitudine, tace, io scruto l’intera mia giornata e controllo tutte le mie parole ed azioni, senza nascondermi nulla, senza passar sopra a nulla. Perché dovrei temere uno qualunque dei miei errori, se posso dire: “Questo, vedi di non farlo più; per questa volta, ti perdono. In quella discussione sei stato troppo polemico; impara a non contendere più con gli incompetenti, che non vogliono imparare, perché non hanno mai imparato. Hai rimproverato quello là con eccessiva franchezza, quindi non lo hai corretto, ma offeso; d’ora in poi, non guardare soltanto se è vero quello che dici, ma anche se la persona alla quale parli è in grado di accettare la verità”. L’uomo buono gradisce un ammonimento, ma tutti i cattivi sono estremamente restii ai pedagoghi» (De ira, Libro III, 36, [2,3,4]).
Oggi siamo tutti in festa. Scambiamoci un regalo, il regalo della reciproca stima, accompagnata dalla messa a disposizione del meglio di noi stessi.
Per quanto mi riguarda inizierò la visita pastorale nella Repubblica di San Marino il prossimo 16 ottobre. La visita pastorale di un vescovo è un incontro, non è un controllo delle comunità cristiane. È un incoraggiamento, è un ravvivare rapporti di luce. La processione che speriamo di poter fare al termine della Messa è per noi credenti il segno che «Dio visita il suo popolo» e, attraverso Marino, benedice tutti.

Omelia XIX domenica del Tempo Ordinario

Omelia di S.E. Mons. Andrea Turazzi

Maciano, 12 agosto 2017

Mt 14,22-33

(da registrazione)

Gesù ha appena compiuto la moltiplicazione dei pani: ha sfamato cinquemila persone, senza contare le donne e i bambini. Un miracolo utilissimo, che meriterebbe la laurea ad honoris causa in economia. A quel punto Gesù costringe i suoi discepoli, i più vicini a lui, ad andare via. Perché? Gesù ha paura che si vantino di quel miracolo compiuto dal loro maestro, che vengano catturati in un entusiasmo inopportuno, deviante e non si ricordino, come aveva loro predetto, che era incamminato verso Gerusalemme. Gesù rimane a congedare la folla. Qualche interprete ritiene che Gesù abbia desiderato continuare da solo l’abbraccio con la folla che aveva sfamato. Qualcun altro pensa che Gesù abbia cercato di zittire entusiasmi troppo precoci, tant’è che, appena può, fa perdere le sue tracce salendo sul monte, da solo: dall’abbraccio della folla all’abbraccio del Padre, nella preghiera, nell’intimità con Lui. Che cosa si saranno detti? Ognuno provi ad immaginare, mettendosi nei panni di Gesù. Gli avrà parlato sicuramente della compassione verso le moltitudini, perché Gesù è umano. Poi avrà parlato della sua salita a Gerusalemme. Avrà detto: «Padre, allontana da me il calice… ». Avrà detto: «Padre custodisci il gruppo di coloro che sono disposti a credere in me, accompagnali, aiutali».
Poi la scena si sposta sulle rive del lago. Il mare è in burrasca, gli apostoli sono sulla barca, vedono in lontananza Gesù che cammina sulle acque, ma non lo riconoscono e, pieni di paura, pensano che sia un fantasma. Gesù stavolta fa un miracolo “inutile” a confronto del miracolo utilissimo della moltiplicazione dei pani: dar da mangiare a cinquemila persone. Compiuto nell’oscurità, in uno scenario irraggiungibile – in mezzo ad un lago – tutto il miracolo avviene per una questione di cuore. Pietro, quando vede una figura in lontananza, mentre tutti pensano che sia uno spirito, intuisce che è Gesù e gli dice: «Iube me venire ad te (Signore comanda che io venga a te)». In questo Pietro fa una preghiera fiduciosissima, ma anche un po’ pretenziosa nel chiedere al Signore il miracolo di poter camminare sull’acqua. Gesù glielo concede invitandolo a camminare verso di lui. Anche noi possiamo rivolgere a Gesù una preghiera come quella Pietro, quando ci troviamo davanti a decisioni da prendere, a difficoltà che pensiamo di non riuscire ad affrontare. Possiamo chiedere, come Pietro, che il pavimento di acqua che vediamo davanti a noi, diventi un pavimento di cristallo su cui possiamo camminare.
Tuttavia, quando si cammina sull’acqua, si affonda ed irrompe una seconda preghiera, molto bella anche se pare interessata, perché scaturisce dal cuore: «Signore, salvami!». Un grido del cuore. E Gesù soccorre Pietro – e con lui ognuno di noi – gli offre la mano e lo fa salire sulla barca, al sicuro. Lì si compie la grande preghiera, la grande dossologia, cioè la preghiera davanti a Gesù Signore. I passeggeri di quel naviglio si inginocchiano e adorano Gesù: sono la Chiesa del Risorto. Siamo noi e questa sera insieme lo adoriamo.

Omelia della XVIII domenica del Tempo Ordinario – San Donato

Omelia di S.E. Mons. Andrea Turazzi
San Donato di Sant’Agata Feltria, 6 agosto 2017

Mt 17,1-9

(da registrazione)

Anche noi oggi come Pietro diciamo: «Com’è bello Signore essere qui!». È bello questo momento di raccoglimento, di famiglia spirituale, nonostante il disagio del caldo e il peso della giornata, ma è bella soprattutto la possibilità del nostro rapporto con il Signore. Come Pietro, Giacomo e Giovanni anche noi in questo momento siamo davanti a Gesù Trasfigurato. «Non vediamo, non sentiamo, non tocchiamo, ma tu, Gesù, sei risorto, vivo in mezzo a noi». Tra poco lo guarderemo nell’ostia santa. Anche quella è una trasfigurazione, una metamorfosi, un “Dio di pane”.
Chi è Gesù adesso? Gesù adesso siamo noi uniti a lui. Noi formiamo il suo “corpo mistico” quando mettiamo a disposizione le nostre mani, i nostri piedi, il nostro cuore, la nostra intelligenza per essere una sua presenza oggi.
C’è un dettaglio nel racconto della Trasfigurazione che è soltanto dell’evangelista Matteo (anche se la Trasfigurazione è narrata da tutti gli altri sinottici e nella Lettera di Pietro): «Si trasfigurò e le sue vesti divennero candide come la luce». Gli altri evangelisti registrano invece la descrizione: «candide come la neve». Dunque Gesù appare vestito di luce; la luce è un vestito che trasfigura. Alcuni antichi commentatori della Genesi dicono che Adamo ed Eva, prima del peccato originale, erano vestiti di luce. Dopo il peccato, si accorgono di aver perso il vestito e si sono ritrovati nudi. Ciò è detto in modo metaforico, ma è un indizio stupendo: anche noi siamo chiamati ad essere vestiti di luce. Che cos’è questo “vestito di luce”? È la grazia santificante. L’abbiamo ricevuta il giorno del nostro Battesimo. Il vestito bianco che ha coperto il nostro corpo quel giorno stava a significare proprio l’abito della grazia, cioè la partecipazione alla vita stessa di Dio. Questa luce, questo profumo, questa fragranza sono conseguenza del fatto che siamo corpo di Gesù, il suo “corpo mistico”; soltanto il peccato può togliercelo e allora appare la nostra fragilità. «Signore, conservaci sempre vestiti di luce». Così sia.

Omelia della XVIII domenica del Tempo Ordinario – Scavolino

Omelia di S.E Mons. Andrea Turazzi
Scavolino (loc. La Croce), 6 agosto 2017

Mt 17,1-9

(da registrazione)

L’episodio della Trasfigurazione è raccontato in tutti i Vangeli sinottici e nella Lettera di Pietro, perché fin dall’inizio i discepoli hanno intuito che quell’avvenimento sull’alto monte era fondamentale. Pietro, che, come abbiamo visto molte volte, ha un temperamento diretto, schietto ed irruente, fa una gaffe quando dice a Gesù: «Farò qui tre tende, una per te, una per Mosè e una per Elia». Perché Pietro si sbaglia? Mosè è uomo di luce, uomo del monte; Elia, un grande profeta, paladino sul carro di fuoco… Ma Gesù è unico, non è uno dei tre, uno della fila, è il Signore! Se ci sono Mosè ed Elia è soltanto per “rassegnare le dimissioni” davanti a lui, per affermare che solo Gesù è il profeta, il maestro, il Messia, «Gesù solo». Comprendiamo il fervore di Pietro: «È bello per noi essere qui», come quando vediamo una bella scena, un bel film, uno spettacolo… Ma anche qui Pietro si sbaglia, perché l’essenza della fede cristiana è nell’ascolto. Dio non ha volto, si fa Parola ed è presente in Gesù di Nazaret, che diventa per noi volto ma soprattutto voce. Per questo il Signore ci chiede di ascoltarlo. Noi apprezziamo anche i sentieri delle altri religioni, perché pensiamo che lo Spirito Santo abbia guidato nel tempo tanti saggi, tanti filosofi. Tutti gli uomini hanno l’intuizione di Dio nel loro cuore. Ma Gesù è colui che ce lo rivela in un modo singolare, unico. Mentre affermiamo la nostra fede in Gesù ci risuona questo invito: «Ascoltatelo». Allora non è sufficiente preparare cerimonie, fare belle sculture… Bisogna ascoltare la sua voce, il suo Vangelo. Proponiamoci durante la settimana di ascoltare Gesù e di ripetere talvolta nel nostro cuore: «Lo vuoi tu Signore? Lo voglio anch’io. Cosa faresti Signore al mio posto?». Farsi queste domande significa essere veramente discepoli.

Omelia nella Solennità di San Leone

Omelia di S.E. Mons. Andrea Turazzi

Cattedrale di San Leo, 1 agosto 2017

Gn 12,1-4
Fil 4,4-9
Mt 7,21-27

Cari presbiteri,
cari fratelli e sorelle,

a dispetto della iconografia tradizionale, che rappresenta San Leone come vecchio austero e rude, la liturgia – soprattutto le letture – è tutta in prospettiva giovanile.
Avete sentito dalla Genesi le parole rivolte ad Abram dedicate a quegli inizi benedetti, agli orizzonti futuri di cammino, anzi di avventura? «Vattene dal tuo paese, dalla tua patria e dalla casa di tuo padre, verso il paese che io ti indicherò» (Gn 12,1).
Non sono queste le parole piene di grazia e di speranza che accompagnano la crescita dei giovani chiamati ad entrare nella vita (la ricerca di una scuola o di una università, poi di una sistemazione lavorativa e per molti il matrimonio)? Si tratta sempre di una ricerca vocazionale, bisognosa di coraggio e di valori.

Avete sentito l’invito alla gioia ribadito dalla seconda lettura? «Fratelli, rallegratevi nel Signore, sempre; e lo ripeto ancora, rallegratevi» (Fil 4,4). La gioia è la caratteristica di tutte le aurore, ma può ringiovanire anche i nostri tramonti. Ricordate il salmo: «Introibo ad altare Dei; ad Deum qui laetificat iuventutem meam» (Sal 43, 4)? Invito alla gioia ma anche al necessario, indispensabile e conseguente programma educativo, attualissimo per i nostri ragazzi, da non trascurare da noi adulti educatori: «Tutto quello che è vero, nobile, giusto, puro, amabile, onorato, quello che è virtù e merita lode, è quello che dovete fare» (Fil 4,9).
L’invito di Paolo ai Filippesi ha una corrispondenza nella parabola evangelica dell’architetto saggio che costruisce sulla roccia. Cade la pioggia, straripano fiumi, soffiano venti su quella casa, ma non cade (cfr. Mt 7,24-25).

Ci stiamo preparando alla celebrazione del Sinodo dei Vescovi su “I giovani, la fede e il discernimento vocazionale”. È vero, il Sinodo è dei Vescovi che si riuniscono col Papa, ma tutto il popolo di Dio è in certo modo coinvolto. Anzitutto con la preghiera, con la riflessione, con l’invio di un contributo e, particolarmente, col mettersi in ascolto dei giovani e poi col dovere di rivolgere loro con franchezza una parola, perché, a loro volta hanno bisogno di ascoltare e di imparare. Guai rinunciare alla missione educativa (cfr. 1Cor 9,16).
Papa Francesco ci chiede in questo tempo una attenzione speciale ai giovani, a tutti i giovani, alle loro attese, speranze, fragilità e debolezze. Una richiesta che diventa impegnativa e urgente, dato che secondo l’ultimo rapporto ISTAT sulla povertà sono proprio i giovani i più esposti alle difficoltà della crisi.

Parafraso uno dei responsabili della Pastorale Giovanile della nostra diocesi. Sintetizza con tre parole la situazione giovanile: fascino, malinconia, speranza.
Fascino, perché nei volti dei giovani c’è un quotidiano stupirsi e il desiderio di sentirsi parte di un grande progetto. Malinconia, perché in questa ricerca tante sono le difficoltà: difficoltà relazionali, paura del futuro, smarrimento, incertezze, fragilità… Speranza, che tiene per mano lo stupore e la malinconia, storie comunque di giovani che si affacciano alle nostre parrocchie.

È possibile ai giovani del nostro tempo costruire la loro casa sulla roccia? A prima vista è stridente la distanza tra le richieste di Gesù e la situazione che stanno vivendo. Le esperienze dei nostri giovani sembrano tutte tentativi di costruire sulla sabbia ed essi vengono spazzati via dalle prime intemperie. Nel tempo della precarietà strutturale, nella società liquida, pretendere di costruire la casa sulla roccia sembra un miraggio irraggiungibile, una speranza utopica e una ingannevole illusione.
La carenza del lavoro, le incertezze sul futuro, l’evaporazione delle sicurezze sociali rendono sempre più difficile dare una stabilità ai progetti di vita. Spesso i giovani finiscono per rimandare le scelte decisive al punto da ritenerle irraggiungibili e, in ultima analisi, poco desiderabili. Si affievoliscono non solo le possibilità, ma anche le attese, i desideri di fare cose grandi, di slanciarsi in progetti audaci. Essi arrivano a mortificare le proprie aspirazioni piegandosi a quella dittatura del relativismo che rende significativo solo ciò che rimane mobile, immediato, reversibile.

Così alla precarietà strutturale della situazione socioeconomica si sovrappone una precarietà interiore e spirituale che allontana dal dono di sé e dai progetti di bene che lo Spirito continua a ispirare nel cuore dei giovani. Nemmeno la fede è estranea a questa deriva culturale. Anziché cercare Dio nelle strade tracciate dai nostri padri e nella vita delle nostre comunità cristiane, i giovani stanno tracciando sentieri nuovi, a volte con slanci generosi ed aspirazioni autentiche, ma spesso dentro i termini ristretti della ricerca di un Dio che faccia stare bene, che consoli, che rassicuri. Un “Dio a modo mio” che ha la dolcezza del padre misericordioso, ma assai distante dal fuoco del cespuglio ardente che manda Mosè a salvare il suo popolo.

Le nostre comunità vivono con trepidazione la distanza dei giovani dalle loro liturgie, dalla vita comunitaria, dall’impegno nella carità. Tutto ciò che sta a cuore alla Chiesa sembra estraneo alla vita dei giovani e ciò che sta a cuore ai giovani appare distante dalle preoccupazioni ecclesiali. Non di rado facciamo l’esperienza di una certa incomunicabilità col mondo giovanile. Dobbiamo ammettere, pur nella volontà di incontrarli e di stare con loro, la nostra inadeguatezza e le deboli chance di aggancio e di linguaggio. E tuttavia ci troviamo di fronte ad una generazione che rischia di perdersi proprio perché non si sente chiamata. La dinamica della vita è vocazionale: si è chiamati da qualcuno all’esistenza. Si vive e si cresce perché qualcuno ci chiama a diventare grandi. Ma i nostri giovani incontrano una comunità bella, attraente, che li sprona a crescere, a spendersi e a rischiare? Si scontrano sovente con un mondo adulto che concede loro ogni divertimento, ma li tiene lontani dalla vita, dall’impegno, dal dono.

Dove trovare allora una roccia forte, una rupe solida (come questa di san Leo) su cui costruire una casa che resista alle tempeste? La roccia di cui parla Gesù non è la stabilità del mercato finanziario, la sicurezza del lavoro, la crescita economica, non somiglia alle sicurezze che abbiamo visto svanire in quest’ultimo decennio di crisi. La roccia è semplicemente Lui.
La roccia a cui allude Gesù non somiglia per niente a ciò che i nostri occhi vedono solido e durevole e a ciò che troppo spesso i nostri discorsi ecclesiali rimpiangono.
Tutto questo diventa perciò un invito alla Chiesa e a tutti i cristiani ad una profonda conversione del cuore.
Conversione, cioè fidarsi del Signore Gesù, della sua parola, della sua intramontabile attrattiva. Mostrarlo senza riduzioni o esenzioni, così come è. Fidarsi dei giovani, perché hanno la capacità di abitare da protagonisti questo tempo e il dono dello Spirito Santo per plasmare con il Vangelo le sue novità e le sue aspirazioni. Fidarsi – perché no? – anche di noi, sacerdoti, educatori e genitori: sapremo con questa fiducia stare accanto a questa “cara gioventù” (San Giovanni Bosco) per accompagnare senza timori e incoraggiare il suo cammino convinti cha la roccia incrollabile su cui costruire la casa è Gesù Cristo, ieri, oggi e sempre.

Omelia della XVII domenica del Tempo Ordinario

Omelia di S.E. Mons. Andrea Turazzi

Colonia sammarinese a Chiusi della Verna, 30 luglio 2017

Mt 13,44-52

(da registrazione)

Oggi siamo immersi nella più bella basilica esistente: il grande tempio della natura. Osserviamo le diverse gradazioni di verde, il blu del cielo, gli alberi che si ergono come colonne… E tutti noi uniti insieme: bambini e ragazzi di tutte le età, giovani educatori ed animatori, adulti. Gli adulti che son venuti a La Verna da ragazzi – cinquant’anni fa insieme a don Peppino – sono stati i pionieri che hanno reso bello questo luogo, con molti sacrifici nei primi tempi. Per tutto questo lodiamo il Signore.

Che cosa raccomanda oggi Gesù a noi che siamo riuniti in questo grande tempio della natura? Che cosa ci invita a fare non solo questa settimana, ma per tutta la vita?
Gesù vorrebbe persuaderci – anche se in molti non si lasciano persuadere – che il Regno di Dio (modo di dire che indica il suo cuore, la sua persona) è la cosa più bella, più ricca, più utile, più necessaria che ci sia. Il Regno di Dio si può paragonare ad un tesoro, ad una perla preziosa, ad una rete piena di pesci. Tre immagini per indicare qualcosa di molto prezioso. Paragoni significativi per la gente del suo tempo. Oggi avrebbe trovato probabilmente altre similitudini. Ma anche per noi tali immagini sono stupefacenti.
Gesù vuol dirci: «Persuaditi, la mia amicizia verso di te è la cosa più preziosa che ci sia, fidati».
Gesù ci invita ad essere scaltri come colui che ha scoperto il tesoro in una terra brulla, apparentemente inospitale, una terra che nessuno si sarebbe mai sognato di comprare. Egli ha dovuto affrontare sicuramente il sarcasmo dei concittadini e le critiche dei familiari, ma, incurante di loro, ha speso tutto ciò che aveva per acquistare quel campo.
Poi, Gesù loda chi cerca la perla, la cerca dappertutto: nel suo paese, nella sua regione, nella sua nazione… Non smette mai di cercare. È un collezionista.

Qual è il fazzoletto di terra in cui trovare il tesoro? In quale posto si trova la perla preziosa?
Il tesoro è dentro di noi, nel nostro cuore, nell’amicizia appena sbocciata con il Signore Gesù. Il suo Regno è dentro di noi. Per questo dobbiamo essere astuti come colui che ha trovato il tesoro, come San Francesco d’Assisi che ha abitato questi monti. Qualcuno l’ha sgridato: suo padre, la gente del suo tempo. Gli hanno dato del pazzo, ma lui era più furbo di tutti. Continuiamo a cercare!
La mia famiglia, il mio campo a Chiusi della Verna, Colonia San Marino, sono il luogo del tesoro, il luogo in cui trovare la perla preziosa. Non dobbiamo dire: «Ah, se fossi in un altro posto, se fossi in un’altra famiglia!». No, il tesoro è proprio qui.  Dobbiamo accettare che nel nostro pezzo di terra, oltre al tesoro che sta sotto, ci siano anche le erbacce, le ortiche, i sassi, gli insetti… Dobbiamo abbracciare il “pezzo di terra” che il Signore ci ha dato con tutto quello che contiene, ma cercando ogni giorno il tesoro che vi sta nascosto.

Concludo con una parabola moderna inventata da me. Nella mia città di origine, Ferrara, c’è un bellissimo palazzo costruito nel 1400. Si chiama Palazzo dei Diamanti. Esso è completamente rivestito di pietre appuntite a forma di diamante. Sono tantissime, saranno almeno diecimila. Una leggenda dice che in una di quelle pietre è nascosto un diamante. Quando mi capita di passare per la strada dove si trova il palazzo mi sembra tutto mi sembra fatato, semplicemente perché so che in una punta c’è un diamante. Il fatto di sapere che in una delle punte si trova un diamante rende il palazzo più bello, fatato, affascinante. È quello che capita nella nostra vita quotidiana. Abbiamo davanti a noi una nuova settimana. Sarà bellissima, perché ci sarà un momento in cui tra noi e Gesù avverrà un “ciak” che renderà tutto più bello, trasfigurato.

Omelia XIV domenica del Tempo Ordinario

Omelia di S.E. Mons. Andrea Turazzi

La Verna, 9 luglio 2017

Campo adulti Azione Cattolica

Mt 11,25-30

(da registrazione)

Il Vangelo registra un’esplosione di gioia di Gesù. La redazione dell’evangelista Luca è più esplicita, perché dice che Gesù «esultò di gioia nello Spirito Santo ed esclamò: “Ti rendo lode…”» (Lc 10,21).
Gesù ha vissuto altri momenti di gioia; ad esempio alle nozze di Cana a cui partecipa per far festa con gli sposi, e addirittura trasforma l’acqua in un vino migliore del precedente, oppure quando Maria di Magdala rompe davanti a lui il vaso di profumo che si effonde per tutta la casa e ne gioisce, a dispetto del brontolio di Giuda.
Nel brano odierno la gioia di Gesù viene motivata da un fatto che l’ha commosso. Gesù ha appena svelato i segreti del Regno e ha visto che molti che hanno la presunzione di essere dotti nelle Scritture non riescono a capirli, mentre «i piccoli», i semplici, ne colgono il significato. Ritorna alla mente il brano dell’Antico Testamento in cui Nabucodonosor ebbe una visione che nessuno a corte è in grado di interpretare, tranne il piccolo Daniele. La conoscenza del Signore, dunque, non è appannaggio delle persone superdotate intellettualmente, non proviene da raffinati corsi di filosofia, ma è per tutti. Non che Gesù disprezzi la cultura, lo studio, il sapere; anzi, da bambino interrogava e rispondeva ai dottori del tempio di Gerusalemme e tutti erano ammirati dalla sua sapienza. Gesù vuol dirci che c’è una conoscenza che viene dal mettersi, come lui che è figlio – che è, quindi, «un piccolo» –, nella relazione col Padre. Nell’esperienza della relazione col Padre si trova il sapere che dà sapore.
La conclusione è: «Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi» (Mt 11,28). Noi, di solito, intendiamo «stanchi e oppressi» per i fatti della vita, ma, in questo contesto, gli stanchi e gli oppressi erano quelli che giacevano sotto il peso della legge, di una selva sterminata di prescrizioni che si dovevano osservare; quasi tutte giustissime, ma che non erano capite nella giusta prospettiva. Gesù afferma che tutta la legislazione e tutto il sapere dell’Antico Testamento può essere un gravame.
In realtà, nel testo c’è anche una sottile vena polemica. Infatti, il Vangelo di Matteo è stato scritto pensando soprattutto agli Ebrei, quindi per i cristiani provenienti da un giudaismo da cui devono imparare difendersi.
Le più belle melodie sono leggibili e cantabili soltanto se ci si mette nella prospettiva di Gesù, nell’esperienza di una vita filiale. «Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro. Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per la vostra vita. Il mio giogo infatti è dolce e il mio peso leggero».
Consideriamo questo Vangelo anche nella prospettiva dell’Inno alla carità (cfr. 1Cor 13) che abbiamo meditato questa mattina. Se possedessimo tutte le scienze e conoscessimo tutte le lingue, ma non avessimo la carità, cioè non avessimo un legame filiale con il Signore, cioè non accogliessimo il suo amore, non saremmo nulla; anche se compissimo opere strepitose, guarigioni, o sapessimo darci alle fiamme del martirio, ma non avessimo in noi l’amore, non saremmo nulla.

Omelia XIII domenica del Tempo Ordinario

Omelia di S.E. Mons. Andrea Turazzi

Romagnano, 1 luglio 2017

Pellegrinaggio marina dei “primi cinque sabati del mese”

Mt 10,37-42

(da registrazione)

Proseguiamo nella pratica dei “primi cinque sabati del mese”. La Madonna, attraverso questa sequenza di cinque sabati, vuole stringerci sempre più forte a Gesù.
Ringrazio don Ezio Ostolani e i fedeli di Romagnano che ci hanno ospitato. Essere qui stasera è una grazia. Come abbiamo cantato nel Salmo 88, siamo qui per «cantare per sempre l’amore del Signore». La nostra vita ha come scopo la dossologia, cioè la lode e il ringraziamento. Così riportava il Catechismo: «Dio ci ha creati per amarlo, servirlo, lodarlo in questa vita e per goderlo nel Paradiso». Questo è il principio e il fondamento di tutta la vita cristiana: essere per la lode di Dio. Si diventa “voce” di tutte le creature che lodano il Signore.
Apriamo il Vangelo. Questa sera, in realtà, il Vangelo “apre” noi, perché ci inquieta. Quando ci si raduna per la lettura del Vangelo, se si esce un po’ turbati e scossi vuol dire che la Parola di Dio ha raggiunto il bersaglio. Quando invece si esce dalla porta della chiesa senza un interrogativo, senza una perplessità, senza un dubbio, vuol dire che la Parola di Dio è spiovuta su di noi, ma è scivolata via. Abbiamo bisogno che il Vangelo ci scuota con la sua forza dirompente.
Nel Vangelo di questa domenica incontriamo dieci frasi introdotte da un “chi”, pronome relativo. «Chi ama padre o madre, chi ama figlio o figlia…» (Mt 10,37).  Si possono dividere in due gruppi. I primi cinque “chi” riguardano le condizioni richieste a chi è discepolo di Gesù. Vuoi essere discepolo di Gesù? Sappi che è una cosa seria. Anche se si è deciso da tempo di esserlo, nel percorso arriva sempre un momento in cui Gesù ci provoca a fare un passo; qualche volta arriva a chiedere anche l’eroismo.
Personalmente, mi sento di affrontare i cinque “chi” che sono le condizioni per essere veri discepoli di Gesù soltanto nella preghiera. Quello che chiede il Signore è molto impegnativo. Egli non vuole dei discepoli “con riserva”, dei discepoli “part-time”. Egli non vuole molto da me, vuole tutto. Magari ho un cuore piccolo, una mente piccola, non importa; Gesù vuole semplicemente tutto. Almeno come tensione, come desiderio. Si sa che scivoliamo tanto facilmente nelle nostre fragilità.
Passo alla seconda sequenza di “chi”. Siamo alla fine del cap. 10 di Matteo, il capitolo dedicato agli araldi del Vangelo. Gesù dedica le ultime battute a far sì che sappiamo essere accoglienti con chi viene ad annunciarci il Vangelo. Chi è il messaggero del Vangelo? Sicuramente il nostro parroco, quando passa di casa in casa a benedire le famiglie, o quando viene a far visita ad un ammalato, oppure quando viene a portare la Santa Comunione, il primo venerdì del mese… E poi, chi ci annuncia il Vangelo? La persona che mi porta una testimonianza, la persona che, vedendo in me un fratello o una sorella, mi accoglie. Il secondo grappolo di frasi introdotte dal “chi” riguarda questa capacità: la generosità di saper accogliere i messaggeri del Vangelo.
Nell’Antico Testamento abbiamo sentito parlare della donna Sunammita, una donna illustre e facoltosa, che accolse il profeta Eliseo e venne ricompensata. In quel caso la ricompensa fu che ebbe la possibilità di concepire un figlio, ma sono tante altre le ricompense che il Signore può dare, inimmaginabili. Ad un sacerdote il Signore dona una paternità grande, vera, non simbolica, ed anche a chi è vicino ai sacerdoti. Penso alla mia famiglia che inizialmente era molto chiusa e, quando a mio fratello sacerdote è partito missionario, si è allargata e ha adottato persone che mai avremmo potuto immaginare di conoscere.
C’è una frase che appartiene al primo grappolo di “chi” che merita una spiegazione in più.
«Chi non prende la propria croce e non mi segue, non è degno di me» (Mt 10,38). Cosa vuol dire prendere la propria croce? Sono stati spesi fiumi di inchiostro su questa frase originalissima. Nessuno osò parlare di croce prima di Gesù. Erode aveva abolito la crocifissione per l’eccessiva crudeltà; poi suo figlio la reintrodusse e toccò a Gesù.
Quando Gesù parla di «prendere la croce» non intende martirizzare i suoi discepoli, anzi, li vuole felici. Gesù vuol dirci che la croce è un segno di vittoria. «Prendere la croce» significa credere che l’amore vince, che si trova la vita donandola, che quando si spende la vita per gli altri, per la famiglia, per la diocesi, la si salva. Il Signore dice ad ognuno di noi: «Prendi la croce, non aver paura, è un segno di vittoria. Io ne ho portato il peso, a te do il gusto di sapere qual è il suo vero significato». Così sia.

Omelia XII domenica del Tempo Ordinario

Montefiorentino, 24 giugno 2017

Incontro conclusivo gruppo “giovani sposi” Carpegna

Mt 10,26-33

(da registrazione)

1. Una premessa: questa domenica e la prossima ci troviamo nella parte finale del capitolo 10 del Vangelo di Matteo. Esso contiene tutti i detti che Gesù ha indirizzato agli apostoli in quanto suoi messaggeri. È il discorso missionario di Gesù che, in primis, riguarda i sacerdoti.

2. «Non temete». Nella sintassi greca si tratta di un imperativo aoristo, tempo che non esiste nella lingua italiana. Gesù lo usa ben tre volte. «Non temete» si dovrebbe tradurre: «Mi raccomando, che non incominciaste ad avere paura!».
L’imperativo aoristo è rafforzativo – si può tradurre con «mi raccomando» –  ma implica anche un continuarsi nel tempo. Questa raccomandazione che Gesù fa ai suoi messaggeri che manda nel mondo è in previsione delle difficoltà che incontreranno. Egli sa che li attenderà la persecuzione.
Poi, Gesù dice: «Perfino i capelli del vostro capo sono tutti contati». Dio si prende cura dei suoi messaggeri e di ciascuno di noi in virtù, per esempio, del sacramento del Matrimonio. Quando ci si sposa si riceve una missione: si viene invitati ad essere fondatori di una piccola Chiesa.  Dovremmo studiare più profondamente i documenti della Chiesa sul Matrimonio. L’Esortazione Apostolica post-sinodale di Papa Francesco, Amoris Laetitia, e il dibattito nato intorno ad essa, sono un grande dono, perché ci hanno permesso di scoprire la bellezza del Matrimonio ed aspetti del sacramento che prima non venivano considerati.
Dunque, Gesù invita anche gli sposi a non avere paura, a non temere le difficoltà che verranno.

3. «Due passeri non si vendono forse per un soldo?». «Per un soldo» letteralmente sarebbe «per un asse», la moneta più piccola che c’era al tempo di Gesù. «Eppure nemmeno uno di essi cadrà a terra senza il volere del Padre vostro». La traduzione qui non è perfetta. Infatti, potremmo dire “come mai, se i capelli del nostro capo sono tutti contati, se un passerotto che nidifica sotto il tetto davanti a Dio è prezioso, se la nostra vita e la nostra persona sono preziose davanti a Dio, cadono bambini che hanno appena iniziato a spiccare il volo, accade ancora la guerra, etc.?
Siamo un po’ condizionati dal proverbio che dice: «Non cade foglia che Dio non voglia». Invece, la traduzione corretta delle parole di Gesù è: «Eppure, nemmeno uno di essi cadrà a terra senza il Padre». Il Padre c’è sempre. Questo Vangelo è scritto proprio per me che ho paura, per me che ho tante zone della vita che sono sotto la paura, perché io mi renda conto che tutta la mia vita è protetta. Non ci sono fasi della vita che non siano protette, perché il Signore decide di farmi da nido con la sua mano e tutto quello che mi capita non è senza di lui. C’è lui! Perché non interviene? La storia, la natura, hanno il loro corso, la nostra vita comincia e si spegne, ma c’è lui. Siamo qui stasera perché Gesù vuol dirci questa cosa: «Non avere paura! Guai a te se hai paura! Allora non credi che Dio è nostro padre? Ricorda, lui ti fa da nido. Se tu patisci lui patisce con te, se tu soffri lui soffre con te». Gesù lo dice tre volte e lo dice con l’imperativo aoristo. Grazie Signore!
Infine Gesù aggiunge: «Se proprio vuoi avere paura, abbi paura solo di chi ti manda in rovina il cuore».

Omelia della Domenica di Pasqua

Omelia di S.E. Mons. Andrea Turazzi

Cattedrale di San Leo, 16 aprile 2017

At 10,34a.37-43
Sal 118
Col 3,1-4
Gv 20,1-9

«Questo è il giorno che ha fatto il Signore: rallegriamoci ed esultiamo» (Sal 118,24).
Abbiamo cantato questa antifona, pieni di gioia, introdotti dal coro che ci aiuta nella preghiera, dando a questa celebrazione un tono particolare. Ma ogni domenica è Pasqua, ogni domenica ci invita allo stesso fervore, allo stesso entusiasmo, perché Cristo è risorto. È quello che stiamo cantando e celebrando fra le luci, i profumi e soprattutto con la nostra unità, con il cuore che, se anche conosce le sue difficoltà e le sue tensioni, è disponibile: «Signore, vieni!».
Due precisazioni prima di cominciare la meditazione.
1. La risurrezione non è un simbolo. Gesù è di tutti e per tutti, nel modo in cui ognuno riesce a relazionarsi con lui, però la risurrezione non è una “rappresentazione” per dire un concetto, per veicolare la possibilità di ripresa, di risalita. La risurrezione è un fatto, un avvenimento! Ieri, all’inaugurazione della funivia a San Marino, il Segretario di Stato alle Finanze ha usato la metafora della funivia «che fa la sua risalita» per dire il desiderio di ripresa nella Repubblica. Raffigurazione era la funivia, ma il concetto che il ministro voleva significare era la ripresa economica. Quando noi cristiani parliamo di risurrezione non intendiamo una metafora, ma una cosa reale, che è accaduta e accade.
2. Se la risurrezione riguardasse soltanto Gesù, ci verrebbe da dire, senza peccare di irriverenza: «E per noi che cosa cambia?». Invece non è così: la risurrezione è la potenza di Dio che penetra l’universo e lo trasforma. L’atto della creazione è eterno, è qualcosa di metastorico, più grande della storia, qualcosa che accade e che è continuamente in accadimento. Altrettanto è la risurrezione, la vita che Dio vuole. Nel cosmo è stata inaugurata la vita nuova che passa attraverso Gesù. Lui è il primo di una fila di redenti, capofila in un esodo immenso, come dice l’Apocalisse: «Dopo queste cose vidi: ecco, una moltitudine immensa, che nessuno poteva contare… » (Ap 7,9). Dietro Gesù, in Gesù, con Gesù… ecco perché facciamo festa. La risurrezione è un fatto reale che, attraverso Gesù, vieni a rianimare ciascuno di noi. Ciascuno di noi va a casa dicendo: «Io sono un figlio della risurrezione» (cfr. Lc 20,36). La risurrezione, potenza di Dio, è un avvenimento che sta ribollendo – come il vino dentro al tino. Dovremmo ricordarlo sempre, anche nei momenti di paura, di sofferenza, di sconfitta, persino di peccato. Possiamo sempre dire che «è entrata in circolo la forza nuova della risurrezione».
Con queste due premesse ripercorriamo i primi nove versetti del Vangelo di Giovanni (cap. 20). Quel mattino del primo giorno dopo il sabato (quella che noi chiamiamo la domenica) è tutta una comunità, rappresentata da Maria di Magdala, Pietro e Giovanni, che è coinvolta nella ricerca di Gesù. Tutt’e tre, infatti, sono alla ricerca del Signore. Ma ognuno a suo modo; infatti ognuno ha una reazione diversa di fronte a ciò che accade.
Maria Maddalena sembra che, più che cercare il Signore, cerchi un sepolcro per piangere. Ha un bellissimo ricordo del Maestro, carico di affetto, ma non spera certo di incontrarlo vivo. Ha constato ella stessa che è morto. Quando si avvicina al sepolcro vede la pietra ribaltata, ma resta all’esterno, non indaga ulteriormente; agitata e sconsolata corre a dare agli altri l’annuncio che hanno trafugato il Signore. Maria Maddalena è il discepolo della fede superficiale, per il quale Gesù non è che un bel ricordo, ma che non crede di poterlo incontrare risorto e pertanto – diciamo così – ha un atteggiamento tipico di chi va al cimitero piuttosto che in chiesa. Tutti siamo un po’ come Maria di Magdala. L’evangelista annota: «era ancora buio fuori», ma il buio era soprattutto dentro di lei. Poi arriva Pietro, il secondo personaggio: lui entra nel sepolcro, decisionista com’è di carattere, vede che è vuoto, ispeziona accuratamente i teli funebri e capisce che il Signore non è stato trafugato, perché i lini sono piegati, il lenzuolo è ben sistemato in un angolo, il sudario in un altro, proprio come quando uno va via da casa e lascia tutto in ordine. Rimane perplesso; il suo esame è completo ma senza risultato. Pietro rappresenta il discepolo razionale, che ama approfondire personalmente la fede, ma non comprende che la risurrezione non è la conclusione di un’indagine scientifica e perciò rimane ad arrovellarsi nelle sue ipotesi. Al massimo approda a Gesù maestro di etica. In ognuno di noi c’è anche un po’ di Pietro, come c’è Maria di Magdala.
Giovanni è il discepolo che, pur senza rinnegare le esigenze della ragione, «vide», indaga come Pietro, tuttavia si lascia guidare dall’amore e, per questo, apre gli occhi sulla realtà misteriosa della risurrezione. Dice il Vangelo: «…vide e credette». Perché Giovanni è arrivato per primo? Qualcuno dice perché era giovane, quindi correva più forte. Non è per questo, sarebbe troppo banale. Giovanni è «il discepolo che Gesù amava» (anonimo perché ciascuno possa mettere il proprio nome).
Il messaggio che esce dalla tomba vuota è: «Fa’ come Giovanni». Solo un rapporto d’amore con Gesù fa alzare il sipario e aprire gli occhi sulla realtà misteriosa della risurrezione. «Signore, ti chiediamo un “di più” di fede».
Vedremo durante la settimana tanti racconti di apparizione. Ogni racconto non è altro che la testimonianza di un incontro.
«Signore, togli la pietra che chiude il nostro cuore nella notte. Facci vivere nella luce della tua Risurrezione».