Omelia nella Solennità di Tutti i Santi

Cattedrale di Pennabilli, 1 novembre 2017

Ap 7,2-4.9-14
Sal 23
1Gv 3,1-3
Mt 5,1-12

(da registrazione)

La festa dei Santi ci introduce ad alcune giornate speciali. Siamo invitati dalla liturgia ad una straordinaria esperienza di comunione spirituale: la Chiesa militante – che siamo noi in cammino sulla terra –, la Chiesa in via di purificazione, che si prepara all’incontro “faccia a faccia” col Signore, e la Chiesa trionfante, che gode già della visione beatifica. Non tre Chiese, ma un’unica Chiesa. Per questo siamo pieni di speranza, nonostante tutto quello che accade ogni giorno. Consentitemi un paragone forse poco adeguato: chi traina i vagoni è il Signore Gesù e noi siamo uniti a lui in questo cammino. Formiamo un unico corpo, una unità saldissima e c’è reciproco scambio. Non viviamo in tre compartimenti stagni. La Chiesa pellegrinante, che siamo noi, gode dell’intercessione dei santi, si sente presa per mano. La Chiesa in purificazione gode delle nostre preghiere di questi giorni. La Chiesa trionfante fa risplendere la bellezza del mistero pasquale, inondata di luce, di canti, di fiori. Anche la liturgia di domani, che a volte viene scambiata per una liturgia mesta, in realtà è una liturgia pasquale, dove tutto ci parla della risurrezione: quella di Gesù e quella a cui siamo destinati anche noi.
Propongo una breve riflessione sulla solennità di oggi. Come si riconosce un santo? Dalla gioia, anzitutto. Il santo è una persona non necessariamente straordinaria, ma straordinariamente centrata sul tesoro che rende la sua vita felice, armoniosa. «Un santo triste – diceva una mia maestra – è un triste santo». Benedetto XIV, il bolognese card. Lambertini, aveva stabilito alcune regole per la procedura di riconoscimento della eroicità delle virtù di un cristiano. Le aveva sintetizzate in tre parole. Un santo è uno che fa la volontà di Dio sempre, subito e con gioia. Ecco le beatitudini! Poveri, miti, puri, affamati, perseguitati… Gesù li chiama “beati”, cioè felici.
Provo a dire qualcosa del mio rapporto con i santi. Oggi ci sono varie modalità, oltre ai libri, per conoscere la vita dei santi. Ricordo che mi ha commosso, di recente, il film sulla vita di Giuseppe Moscati, il medico napoletano vissuto all’inizio del nostro secolo, professore universitario che ha lasciato un’impronta nella storia della medicina. Egli amava immensamente i poveri. Erano i tempi della Prima Guerra Mondiale. Ha svuotato la sua casa per aiutare i poveri che assisteva personalmente.
Da ragazzo ammiravo padre Damiano De Veuster, un olandese andato missionario nelle Isole Hawaii, in particolare in un’isoletta, Molokai, in cui erano concentrati i lebbrosi. In lui, come in tanti santi missionari, ammiravo l’aspetto eroico, avventuroso e romantico. Il mio proposito da adolescente era: anch’io voglio essere santo. In seguito mi sono reso conto che è pura illusione pensare che la santità sia frutto dei nostri sforzi.
Da giovane mi ha soccorso l’incontro con Teresa di Lisieux, “la mia ragazza” (così la chiamavo). L’ho incontrata nei giorni della disillusione: non riuscivo ad essere santo, nonostante gli sforzi sinceri. La santità – concludevo – non è per me. Facevo un po’ come la volpe che non arriva all’uva e diceva che non era matura. Così mi mettevo il cuore in pace, restando nella mediocrità. Teresa mi ha insegnato la “piccola via” di mettere amore in ogni cosa e le “sei esse”, un detto da lei composto in sei parole che iniziano per “esse”: «Sarò santa se sarò santa subito». Una scoperta: la santità è un dono da accogliere nel momento presente, dono che Dio semina in ciascuno di noi, costituito da note da eseguire nel difficile spartito della nostra vita.
Veniamo ad oggi. Guardo il foglietto della Messa che avete fra le mani; guardo l’icona del frontespizio: sono riportati grandi santi “moderni”, personalità gigantesche, rese tali dalla grazia: don Bosco, San Giovanni Paolo II, Santa Faustina Kowalska, Santa Teresa di Calcutta, San Padre Pio… Ne godo. Metterei un’altra icona, se fossi l’editore del foglietto. Metterei i volti non solo di personalità straordinarie. Penso, ad esempio, alla signora Mercedes, una giovane sposa colpita da una malattia rara (la sclerodermia), lasciata dal marito con una bambina sordomuta. Questa giovane mamma che viveva il dramma della malattia mi ha insegnato – in quel periodo facevo l’animatore vocazionale in diocesi – che, oltre alla vocazione al sacerdozio e alla vocazione alla famiglia, può esserci anche una vocazione alla sofferenza. Poi ricordo un’altra ragazza, si chiamava Paola Volpe. Era non vedente, ma sapeva parlare di Gesù Luce ai miei studenti. Aggiungerei anche il volto di un sacerdote, don Dario, parroco di dodici minuscole parrocchie sull’Appennino parmense. Lo vedo santo perché cercava di vedere nei parrocchiani il lato positivo (facile vedere i difetti!), che annotava puntualmente nel Liber mortuorum. Leggendo le “adnotationes” sembrava che in paese fossero vissuti solo dei santi. Quando si recava in città, a Parma, dava tutto quello che aveva ai poveri e non aveva più i soldi per pagare il biglietto di ritorno. Inoltre, era capace di stare – senza inquietarsi – mezza giornata bloccato dalla neve: viveva con solennità l’attimo presente.
Faccio un’ultima osservazione: molti fra i santi sono giovani. Forse il Signore li porta presto con sé perché hanno raggiunto la maturità? Forse vengono rapiti presso di lui per essere preservati da questo mondo? Domande inutili. Tante volte questi giovani santi vengono ricordati per la loro sofferenza e per la morte prematura, prima che abbiano “gustato” la vita fino in fondo, l’amicizia, l’amore… Ci si spaventa pensando: «Dio mi prende in parola appena riesco a dirgli che voglio essere suo». Pregiudizi, luoghi comuni, paure: pensieri da superare. Il Signore sa qual è il nostro vero bene. Dicevo che la santità è per i giovani; mi correggo: è per tutti, ma è certo che la santità rende giovani, perché porta a vivere gli aspetti più belli e caratteristici della giovinezza. Queste sono le qualità dei giovani: la generosità, perché c’è assenza di calcolo; la totalitarietà: o tutto o niente; l’audacia dei grandi progetti, perché i giovani spesso sono leggeri, senza troppe sovrastrutture e portati facilmente verso i sogni.
Concludo con le parole dell’Apocalisse guardando a voi: «Vidi…una moltitudine immensa, che nessuno poteva contare, di ogni nazione, tribù, popolo e lingua. Tutti stavano in piedi davanti al trono e davanti all’Agnello». (Ap 7,9). Una folla immensa di santi. Ci siamo anche noi in questa grande carovana di cercatori.
Ricordiamo sempre che l’opposto del peccato non è la virtù, ma la fede: credere in ciò che il Signore saprà fare in ciascuno di noi quando gli diciamo il nostro “sì”.

Omelia nella S.Messa di apertura della Visita Pastorale a Falciano

Falciano, 30 ottobre 2017

(da registrazione)

Cari amici di Falciano,
sono contento di essere in mezzo a voi e di restare con voi per una settimana intera. Non starò sempre in chiesa, perché il mio desiderio è anche quello di andare a far visita agli ammalati, di incontrare le persone che lavorano nelle aziende e nelle fabbriche e – perché no – di camminare per strada, un po’ come faceva Gesù, che viveva insieme alla gente annunciando la buona notizia che il Signore ci ama immensamente. Noi siamo abituati a sentire questa parola; starei quasi per dire che questo annuncio ha perso un po’ del suo smalto e della sua novità. Al tempo di Gesù il rapporto con la divinità era spesso minaccioso. Mio fratello, che è missionario in Congo, tante volte mi ha parlato delle religioni pagane che hanno di Dio un’immagine truce. Secondo loro gli esseri umani sono sotto l’influsso degli spiriti, molti dei quali sono spiriti maligni, e quando una persona si ammala dicono: «Dio l’ha voluto». Pertanto vivono sotto questo incubo. Che bella invece la notizia che Dio ci ama immensamente. Vorrei che vi stupiste sempre di questo. Lo stupore non si può produrre artificialmente dentro di sé, ma lo possiamo chiedere come grazia. Nella prima lettura Paolo dice ai cristiani di Roma (ricordo che i cristiani di Roma avevano la vita dura, perché c’era la damnatio ad bestias, cioè li mandavano nel circo come pasto per gli animali): «Il Signore ha inviato su di voi il suo spirito, uno spirito da figli» (cfr. Rom 8,15). Dio è vostro papà, addirittura potete chiamarlo “Abbà”, che è la forma vezzeggiativa della parola “padre”. Lo Spirito è stato dato perché i cristiani, una volta ricevuto il Santo Battesimo, partecipino alla vita stessa del Padre, in Gesù, con lo Spirito Santo. Che cos’è la grazia? Un dono: partecipare della vita stessa di Dio. Tutto quello che facciamo quando siamo nello splendore della grazia, è come compiuto da Gesù per mezzo nostro. Tutto ciò che facciamo viene elevato in modo soprannaturale, perché la sua grazia pervade tutta la nostra vita.
Immaginiamo di essere nella Roma antica o a Corinto, oppure ad Atene o nell’Asia Minore, i luoghi dove il cristianesimo ha mosso i primi passi. Le prime comunità erano piene di entusiasmo, di stupore, di meraviglia. I primi cristiani non erano stanchi, come tante volte siamo noi. Non erano abituati; per loro il Vangelo era frizzante. Addirittura i primi cristiani vivevano uniti tra loro, mettevano tutto in comune, si amavano reciprocamente, perché il succo del Vangelo era l’amore reciproco. Non solo, erano anche coraggiosi testimoni. Andavano al mercato, come avevano sempre fatto, andavano nei luoghi della politica, come si conveniva agli adulti, andavano a fare sport, però con dentro al cuore la gioia del Vangelo. Il clima spirituale delle comunità dei primi cristiani è stato narrato in uno dei libri del Nuovo Testamento che si chiama Atti degli Apostoli. Chi dava a questi gruppi di cristiani che andavano formandosi in tutto l’impero antico la certezza di essere uniti a Gesù? Era la presenza degli apostoli. Gli apostoli dei primi tempi, dopo che Gesù era salito al Cielo, andavano da una comunità all’altra a raccontare di Gesù. Com’era, cosa faceva, i suoi miracoli, le parabole… I cristiani avevano tante curiosità. Volevano sapere tutto di Gesù, perché lo amavano. Non erano mai sazi di sentire parlare di lui. E quando gli apostoli sono morti, la Chiesa è rimasta senza aggancio col Gesù storico, il Gesù della Pasqua e della Risurrezione? No, gli apostoli, a loro volta, hanno imposto le mani su altri che sono diventati, per la potenza dello Spirito Santo, i testimoni della Risurrezione di Gesù, i depositari delle verità cristiane. Essi avevano, soprattutto, il compito di pascere quel piccolo gregge, un gregge che è andato sempre più crescendo fino ad arrivare ai tempi nostri. Sono passati duemila anni e non è mai mancata la grazia della successione apostolica. Il vescovo Andrea, che è qui in mezzo a voi questa settimana, è il 66-esimo vescovo del Montefeltro. Ora la diocesi si chiama San Marino-Montefeltro. È stato nel VII secolo che la nostra Chiesa, a quanto si sa dalle indagini storiche, ha cominciato a vivere. Essa è di derivazione riminese: i vescovi di Rimini hanno mandato i vescovi nel Montefeltro. A Rimini i vescovi sono stati mandati da Ravenna, la nostra metropolia, cioè Chiesa madre. Ravenna è molto importante nella storia della Chiesa, perché il primo vescovo di Ravenna fu Apollinare, ordinato vescovo da Sant’Ignazio di Antiochia, a sua volta ordinato vescovo da San Pietro. Quindi noi, in qualche modo, abbiamo una ascendenza petrina. Io sono l’ultimo anello; prima di me c’è stato Luigi, prima di Luigi c’è stato Paolo, prima di Paolo il vescovo di Rimini, perché per molti anni siamo stati senza il vescovo nella nostra terra.
E cosa fa il vescovo? Per prima cosa prega per il suo popolo; la preghiera di intercessione è il suo primo compito. Guai se non lo fa. Poi guida la comunità, dà indicazioni. I sacerdoti sono suoi collaboratori. Inoltre veglia perché non vada perduta la buona dottrina.
Oggi il vescovo non è più isolato come era nell’antichità, quando aveva contatti per lo più per lettera. Oggi i vescovi si aiutano tra loro e hanno il riferimento di Pietro. Pietro è il Papa. Qual è il compito del vescovo in questo preciso momento? Incoraggiare, parlare della gioia del Vangelo. Non si accorge, il vescovo, che tanta parte della nostra società si è allontanata dalla fede? Sì, lo sa, ma vuol dirci di non temere. Quando una cellula è sana, viva, vigorosa, prima o poi cresce e si sviluppa, diventa generativa. Sono in mezzo a voi, oggi, proprio con questo scopo: darvi coraggio, dirvi di essere fieri di essere cristiani.
San Girolamo, dalmata come San Marino e San Leo, grande studioso, il primo che ha tradotto la Bibbia nella lingua del suo tempo che era il latino (fu un grande studioso dell’ebraico, lingua degli antenati) ebbe un incubo in cui gli parve di andare in cielo davanti a San Pietro che gli chiese: «Tu quis es (tu chi sei)?». San Girolamo rispose: «Christianus sum». San Pietro gli ripeté la domanda. Rispose di nuovo: «Christianus sum». Allora San Pietro gli disse: «No, Ciceronianum es», cioè «sei un discepolo di Cicerone, perché pensi solo ai libri, agli studi, al latino elegante del grande scrittore che era Cicerone».
Anche a noi il Signore chiede: «Tu chi sei?». Che bello è potergli dire: «Sono un cristiano, o Gesù, sono del tuo gruppo, sono uno dei tuoi; ne ho la certezza, me lo dice il mio cuore e me lo dice anche il mio vescovo». E io dico al Signore: «Tutti questi fratelli, dai più piccoli ai più grandi, tutti, sono cristiani, felici di esserlo». Così sia.

Omelia nella S. Messa di chiusura della Visita Pastorale a Serravalle

Serravalle, 29 ottobre 2017

(da registrazione)

XXX domenica del Tempo Ordinario

Es 22,20-26
Sal 17
1Ts 1,5-10
Mt 22,34-40

1.
Ogni parrocchia ha una vocazione particolare. La dedicazione della parrocchia di Serravalle a Sant’Andrea designa la vocazione della vostra comunità. Vediamo qual è.
Sant’Andrea è l’apostolo che porta a Gesù. Ci sono tre episodi evangelici nei quali è protagonista. In tutti e tre ci appare intraprendente. Nel primo episodio Andrea viene invitato da Giovanni Battista a seguire Gesù: «Ecco l’agnello di Dio, ecco colui che toglie il peccato del mondo!» (Gv 1,29). Andrea si mette a curiosare alle spalle di Gesù. Gesù si volta e lo invita. Andrea va con lui, rimane con lui per un giorno intero e si ricorderà per tutta la vita: «Erano le quattro del pomeriggio» (cfr. Gv 1,39). Andò nella dimora di Gesù e quando tornò, andò da suo fratello Pietro: «Abbiamo trovato il Messia, vieni a vedere» (cfr. Gv 1,41). E lo condusse da Gesù. Un altro episodio commovente è quello della folla affamata al seguito di Gesù. Gesù dice agli apostoli di provvedere, ma non sanno come sfamare tanta gente. Andrea – ecco la vocazione – segnala la presenza di un fanciullo e lo accompagna da Gesù. Anche lui è tormentato dai dubbi come noi e si lascia sfuggire un’esternazione scettica: «Ma che cos’è questo per tanta gente?» (Gv 6,9). Gesù moltiplicherà pani e pesci per tutti, ma è stato Andrea che ha portato il fanciullo a Gesù. Nel terzo episodio viene raccontato un momento di altissima, sublime autorivelazione. C’è un gruppo di greci (stranieri) che vuole vedere Gesù. La delegazione si rivolge ad Andrea (Andrea porta un nome greco, per questo i greci vanno da lui, si sentono interpretati da lui, essendo inculturato col loro mondo. Andrea e Filippo vanno a dirlo a Gesù che accoglierà i greci. Dopo questa concitata anticamera, avviene l’incontro. Gesù coglierà l’occasione per consegnare il significato della sua esistenza e del suo sacrificio con la metafora del chicco di frumento che, caduto a terra, muore e moltiplica vita (cfr. Gv 12,24). Sì, ho visto il prolungarsi della missione di Andrea nell’impegno educativo e catechistico della vostra parrocchia, un impegno a favorire e a preparare l’incontro con il Signore. La parrocchia di Serravalle si distingue per l’impegno in ambito educativo. Vorrei dire ai genitori: «Assecondate questo sforzo, approfittate di tante risorse ed energie messe a disposizione con il servizio disinteressato di tanti amici ed amiche!». Penso anche al Circolo e al Centro sociale Sant’Andrea che offrono iniziative e contatti anche con l’esterno della parrocchia per avvicinare a Gesù e al suo Vangelo, attraverso il dialogo con tutti, specialmente con i “greci” di oggi. Altrettanto la Colonia, a servizio di tante famiglie e per la gioia di tanti ragazzi, con la collaborazione delle istituzioni, soprattutto della Congregazione di Serravalle; così l’impegno nel campo sportivo dell’associazione Juvenes. Che cosa chiedono i giovani? Di allargare sempre di più le proposte e di andare in cerca di nuovi amici. Come ha fatto Andrea! Ma, come la chioma di un albero è proporzionata allo sviluppo delle radici, così dico loro di andare in profondità nella vita cristiana, sacramentale, nella preghiera. Ad esempio, si avvicinano le ricorrenze dei Santi e dei defunti: sarebbe bello ne approfittaste per rinnovare la Confessione, per accostarsi all’Eucaristia. Abbiate cura della vita interiore.

2.
Il brano evangelico ci ha riproposto il comandamento dell’amore. La parola amore rischia di essere inflazionata e pertanto di sgualcirsi. Attenzione, gli avversari di Gesù tornano alla carica, stavolta con un tranello più raffinato: «Qual è il più grande dei comandamenti?». Oltre ai dieci dati sul Sinai, i maestri della legge contavano, tra proibizioni e ordini, 613 precetti. Una scuola rabbinica del tempo di Gesù considerava tutti dello stesso valore. Dicevano: «Che il comandamento leggero ti stia a cuore come quello più pesante». Un’altra scuola, invece, aveva stilato una sorta di minuziosa piramide di valori. Vogliono che Gesù prenda posizione, si comprometta, si schieri da una parte o dall’altra. Gesù anche questa volta sorprende, va all’essenziale, a ciò che sta sotto di ogni precetto, risponde: “Ama!”. Solo questo? Sì, solo questo! Gesù sembra operare una semplificazione e ridimensioni la tensione morale. Al contrario, Gesù radicalizza le esigenze della legge, perché mobilita tutto l’uomo nella sua interezza: cuore, anima, mente, forza, tutto quello che è nell’uomo, e in maniera integrale, ripetendo per ben tre volte il dimostrativo “tutto, tutta, tutto”. Per ben tre volte ripete l’appello alla totalità, all’impossibile! Ma non è l’impossibile che sgomenta. «Come posso osservare tutte le leggi?». «Ama senza misura» è la risposta. «Perché di amare sei capace! Ti ho programmato così», dice il Signore. In questo senso il comandamento dell’amore non è il primo di una serie, ma quello che dà senso e vigore ad ogni altro atteggiamento cristiano. Tutti i comandamenti non sono altro che applicazioni ed espansioni dell’unico comandamento.
Incontrando le maestranze e gli imprenditori delle tante attività presenti sul vostro territorio ho parlato di spiritualità del lavoro. Ho detto con alcuni: «Quando metti la chiave per avviare l’auto che ogni mattina ti porta lavoro, a che cosa pensi?». La risposta è: «Guardo se c’è la benzina». D’accordo. «Prova a fare un pensiero più profondo». «Perché vai a lavorare?». «Vado a lavorare per lo stipendio». Certamente. Qualcun altro: «Perché ho dato la mia parola». Sicuramente. «Per creare insieme ad altri qualcosa di nuovo». Ci sta! Ma più si avanza con i “perché” – per la propria famiglia, per i figli, per un servizio alla comunità, per accontentare clienti – si arriva a riconoscere che è l’amore che dà significato, slancio e creatività al lavoro. Si lavora per amare, si fa per gratitudine ed è questo che nobilita il lavoro umano. Allora la spiritualità non è soltanto una preghiera, una benedizione che avvolge di divino la fatica di ogni giorno, ma l’amore che tutto vivifica e trasforma. Anche il lavoro è preghiera. È il mio messaggio a quanti ogni giorno si spendono nel lavoro: «Fare per amore».

3.
In alcuni luoghi pubblici, soprattutto a scuola, si è voluta giustificare accuratamente e puntigliosamente la visita del vescovo. Si dice ad esempio: la scuola è laica, è di tutti, deve guardarsi dall’invadenza della Chiesa cattolica. Vorrei dire: «Non temano i dirigenti, i maestri; quella del Vescovo è stata e sarà sempre una visita di cortesia, per significare quanta considerazione la Chiesa abbia per la scuola. Non può un’istituzione del territorio come la scuola non tener conto di un’altra istituzione tanto significativa come la Chiesa.
Più in generale, non temano le istituzioni civili: il richiamo evangelico ad amare Dio è strettamente connesso con l’amore per il prossimo, con i valori della pace, della solidarietà, dell’impegno per il bene di tutti. L’anonimo dottore della legge che ha fatto la domanda a Gesù recitava ogni mattina lo “Shemà Israel”, il precetto dell’amore a Dio; sapeva bene che il precetto dell’amore al prossimo è collegato (come del resto praticano tutte le religioni…). Ma questa è la novità portata da Gesù: il secondo precetto è simile al primo, congiunto ad esso inseparabilmente. Amare Dio e amore al prossimo non sono alternativi, al contrario. Dio non ruba il cuore, non sequestra menti e braccia, semmai le moltiplica. Non è l’esperienza che facciamo tante volte? Dio allarga il cuore. L’amore allarga il cuore perché Dio è amore! Chiedetelo ai tanti anziani ammalati della parrocchia che, attraverso i sacerdoti, le suore, i ministri, ricevono l’Eucaristia ogni mese, qualcuno anche ogni domenica. Quanti cuori allargati ho incontrato. Le loro membra sono stanche, la mente e la memoria sono offuscate qualche volta, ma in loro c’è tanto cuore, tanta saggezza, tanto amore verso i figli, tenerezza verso i nipoti. Se qualcuno fa fatica a credere o non ci riesce proprio gli direi: «Continua ad amare». C’è una frase fulminante nel Vangelo: «A chi ama mi manifesterò» (Gv 14,21).

4.
Siamo per avvicinarci al momento centrale dell’Eucaristia, la più forte e la più inaudita delle dichiarazioni d’amore: «Prendete e mangiatemi, prendete e bevetemi» (cfr. Mt 26,26). In ogni dichiarazione d’amore c’è un trasalimento, qualcosa di magico. Attorno all’altare formiamo una sola famiglia nel silenzio adorante i cuori battono all’unisono. Poi viene il momento di ricevere la Comunione con il corpo-sangue-anima- divinità del Signore Gesù presente nel dono di un pane spezzato. Ci sono fratelli e sorelle che con il loro ardente desiderio di ricevere la Comunione, che ora non possono fare, e la loro nostalgia, sono per tutti noi un ammonimento, ammonimento per le nostre Comunioni disattente, abitudinarie, distratte e, qualche volta, fatte senza discernere il corpo del Signore. Ho ascoltato questi amici, queste amiche: è stato uno degli incontri più belli della settimana. Una tappa importante sul loro cammino di discernimento, di integrazione delle fragilità. Tutti in comunione. Tutti discepoli. Tutti impegnati a vivere il Vangelo. Ripeto: «Se tu leggi il Vangelo e lo vivi ti trasforma in un altro Gesù» Questo è il messaggio che consegno alla comunità parrocchiale di Serravalle: «Siate fieri di essere cristiani! E fatelo vedere!».

Omelia nella S.Messa di apertura della Visita Pastorale a Serravalle

Serravalle, 23 ottobre 2017

1Cor 1,1-13
Sal 22
Lc 5,1-11

(da registrazione)

Una cosa la si può dire sottovoce, la si può dire proclamando, la si può dire cantando – cantare significa essere ancora più persuasi. L’abbiamo cantato: «Il Signore è il mio pastore». È proprio lui che ci raduna e che, in questi giorni, fa sentire la sua prossimità a tutti noi. A me darà la forza per – in qualche modo – rappresentarlo; a voi tutto il suo amore. È davvero grande la mia gioia di stare con voi una settimana intera. Ho visto che sono in programma molti pranzi e molte cene; saranno occasioni per conoscervi meglio – anche se, a colpo d’occhio, mi sembra di conoscervi quasi tutti – e per riannodare ancor più fortemente i legami con la Chiesa particolare di San Marino-Montefeltro. Il trattino fra “San Marino” e “Montefeltro” unisce: è una diocesi unica! La visita pastorale sarà anche opportunità per incoraggiare e, se necessario, rinnovare qualcosa. Come vi vede il Vescovo? Che cosa sa di voi?
Il Vescovo sente profondamente vere le parole con cui San Paolo si rivolgeva alla comunità di Corinto, una città che sorgeva in un lembo di terra fra il mare Egeo e il mare Adriatico, su un istmo, città ricca di commerci e di genti di vario tipo; una città molto pagana dove pochi ricchi dominavano e molti servivano ai due porti: uno raccoglieva le navi che venivano da Ovest e uno quelle che venivano da Est.
San Paolo salutava così la comunità: «Voi siete motivo di ringraziamento per la grazia di Dio che vi è stata data in Cristo Gesù». La prima cosa che mi nasce in cuore vedendovi è il pensare la grazia di Dio che vi è stata data in Gesù in abbondanza. L’onda del Battesimo che scaturisce come da un grembo genera tanti cristiani qui in mezzo a voi. Poi penso ai fiumi di Eucaristia, a tutte le dichiarazioni d’amore in cui il Signore ha detto a ciascuno: «Prendimi, mangiami» (cfr. Mt 26,26). E ancora penso all’effusione dello Spirito Santo che fa di tutti noi dei coraggiosi testimoni del Vangelo. Tutto questo è “grazia di Dio”. Grazia perché dono immeritato, frutto della eccedenza dell’amore del Signore che ci fa suoi figli, fratelli di Cristo, tempio dello Spirito Santo. Il Signore mi ha dato modo, nei tanti incontri avuti con la vostra comunità, di constatare come siete stati arricchiti di tutti i doni: quelli della Parola e quelli della conoscenza. La vostra è una parrocchia che ha dato sempre molta importanza e vigore alla formazione: un robusto impianto di catechesi per l’iniziazione cristiana, ma anche per le altre fasce d’età, perché siamo sempre discepoli, scolari, sempre bisognosi di formazione; offre tutt’ora una diversificata proposta di movimenti e associazioni come Comunione e Liberazione, Azione Cattolica, ecc.
Continua San Paolo: «La testimonianza di Cristo si è stabilita tra voi così saldamente che non manca più alcun carisma a voi». Quando si dice Castello di Serravalle non si può non fare riferimento alla sua parrocchia e alle sue istituzioni, soprattutto a favore della gioventù. Penso alla società sportiva Juvenes, al Centro Sociale Sant’Andrea, all’esperienza della Colonia estiva a servizio di tutto il territorio sammarinese, a Chiusi della Verna. La parrocchia è per il Castello di Serravalle un grande punto di riferimento. Lo sanno bene le istituzioni civili, penso ad esempio alla Congregazione, ma la parrocchia è anche un serbatoio di energie, di valori, di persone disponibili per tutta la comunità civile ed educativa. Penso alla parrocchia di Serravalle e ringrazio il Signore per il dono prezioso dei ministri istituiti, dei ministri straordinari della Comunione, dei diaconi (il diacono Massimo è stato ordinato appena una settimana fa). Lodo il Signore per la presenza tra voi della vita consacrata (le Suore Francescane Missionarie d’Assisi) e di tante vocazioni che sono partite da qui anche verso la missione.
A voi che aspettate la manifestazione del Signore – dice San Paolo e io lo dico a voi –: «Egli vi renderà saldi fino alla fine, irreprensibili nel giorno del Signore Gesù Cristo». Il Signore vi dà grandi motivi di speranza, vi tiene sul palmo della sua mano: non potete andare tanto lontano. Basta siate perseveranti. La vostra comunità, infatti, è fondata sulla roccia della Parola di Dio. Nei momenti in cui dovesse esserci burrasca domandatevi: per chi siamo riuniti? Per chi stiamo vivendo? Perché il nostro impegno e la nostra fatica? Per chi se non per lui, il Signore! Alla fine resterà soltanto lui, al di là delle nostre opere, e resterà l’amore con il quale abbiamo cercato di fare tutto. Di momenti difficili ne avete superati tanti. Lo scorso anno, ad esempio, l’avvicendamento del parroco. Don Peppino ha lasciato dopo oltre 60 anni di servizio ed è subentrato don Simone, sacerdote giovane e preparato. L’uno e l’altro presenza di Gesù Pastore, l’uno e l’altro con caratteristiche diverse. «Chi ascolta voi, ascolta me», dice il Signore. State certi dell’amore di don Peppino, che non vi dimentica; l’ho visto quando vi guarda dal balconcino della sua casa di Galazzano e prega per voi, e state certi dell’amore e dell’abnegazione di don Simone che dà il meglio di sé.
Dopo l’elogio che Paolo ha indirizzato alla chiesa di Corinto, senza smentirsi, guarda con realismo le problematiche di quella comunità. Si tratta delle divisioni che serpeggiano tra i fratelli: «Vi esorto ad essere tutti unanimi nel parlare perché non vi siano divisioni tra voi». L’unità: per questo la Chiesa è immagine della Trinità sulla terra. Dovremmo, con la cura nelle nostre relazioni, assomigliare alla Trinità. L’unità è un dono che viene dall’alto ed è un compito da costruire giorno per giorno, insieme, con le nostre forze, i nostri slanci, la nostra umiltà e le nostre correzioni fraterne. L’unità è indispensabile per meritare la presenza di Gesù. Il Vangelo dice: «Dove due o più sono uniti nel mio nome io sono in mezzo a loro» (Mt 18,20). Notate: non dice “dove due o più santi”. La santità semmai viene dopo. Dove due o più sono uniti, questo sì. L’unità è segno profetico per il mondo d’oggi e testimonianza. Allora prima di parlare, prima di agire, prima di organizzare dovremmo domandarci: siamo uniti? C’è la carità tra noi? Pietro, scrivendo ai suoi cristiani, diceva: «Ante omnia, caritatem habentes», prima di tutto vi sia la carità. Un’ascesi.
Nel Vangelo, udiamo l’invito di Gesù a Simone: «Prendi il largo». Ma come – dice Simone. Abbiamo pescato tutta la notte senza prendere nulla. «Prendi il largo». Ecco una parrocchia in vista della missione. Il mare che ci sta di fronte è grande e ci sentiamo piccoli, chiusi in un piccolo vascello. Ma, se avremo l’audacia dei pescatori di Galilea e getteremo le reti sulla parola di Gesù, saremo anche noi come quei pescatori pieni di stupore, di gratitudine e di gioia.

Omelia nella S.Messa di chiusura della Visita Pastorale a Dogana

Dogana, 22 ottobre 2017

XXIX domenica del Tempo Ordinario

At 2,1-11
Sal 95
1Ts 1,1-5
Mt 22,15-21

«Mentre stava compiendosi il giorno della Pentecoste, si trovavano tutti insieme nello stesso posto» (At 2,1). Ecco, quel giorno è appena iniziato (non è accaduto solo duemila anni fa!). Proprio adesso, cari ragazzi, vivrete immersi in quell’atmosfera, nella fragranza dello Spirito del Signore che scende su di voi e su tutti noi.

1.
Ho una parola da dire ai più piccoli. Il Vescovo è passato nelle scuole e sui campi di calcio della Juvenes; gli è parso di vedere questi luoghi come dei vivai dove spuntano germogli, si aprono gemme, crescono piante, sbocciano fiori. Come? Con l’acqua, la luce, il calore, che maestri, educatori, mister assicurano perché ogni bambino e ogni ragazzo diano il meglio di sé.
E chi, più di Gesù, è un bravo maestro, il più caro degli amici? Che cosa dice, Gesù, ai suoi piccoli amici?
Sentite. C’è una città dei Paesi Bassi (Harlem) che è stata costruita su un terreno leggermente al di sotto del livello del mare; per difenderla dalle onde, quando sale la marea, è stata innalzata una grande diga. Così la città è al sicuro dalle mareggiate. Un giorno ci fu un bambino che si accorse di una crepa sulla parete della diga e come da un piccolo foro cominciava a penetrare l’acqua del mare. Il foro si sarebbe ingrandito sempre più per la pressione del mare e la crepa si sarebbe allargata fino a squarciare la diga. Quel bambino ebbe il coraggio di mettere il suo dito in quella fessura: lui, da solo, ha resistito ed ha salvato la città di Harlem dalla furia del mare in tempesta. Ecco cosa chiede Gesù a ciascuno di voi bambini: non siete troppo piccoli per difendere il mondo dal male. Con la vostra preghiera – mai dimenticarsene la sera e la mattina – siete come il bambino di Harlem che insieme a Gesù ferma tutto il male che c’è nel mondo.

2.
Anche alle mamme e ai papà ho lasciato un messaggio. Li ho sentiti preoccupati per l’educazione dei figli. L’indirizzo educativo spetta a loro: è loro diritto-dovere. Nessuno può prendere il loro posto, tutt’al più si può collaborare con i genitori. Con loro ho trascorso una bellissima serata, con tante domande e interventi, tanti consigli e suggerimenti reciproci; ma il messaggio fondamentale è questo: mamma e papà vogliatevi sempre bene, crescete ogni giorno di più nell’amore, perché dalla vostra vita di coppia dipende, in gran parte, il futuro dei vostri figli. Ci sono mamme e papà che devono affrontare da soli l’impegno di “tirar grandi” i figli. Il Signore si fa in quattro per loro perché non perdano coraggio.

3.
Ho incontrato i catechisti: una parte speciale della comunità parrocchiale, perché a loro, con il parroco e le famiglie è affidato il servizio di far crescere nella fede bambini e ragazzi, di introdurli nell’amore a Gesù. Non si tratta di trasmettere nozioni, ma di far sbocciare l’affetto per il Signore. Dico a loro, ancora una volta di prendere dalle mani di Gesù il “grappolo” che a loro è stato affidato. Il grappolo è il loro gruppo di catechismo o il gruppo associativo, un grappolo già pieno di sole, ma da proteggere, da custodire e da accompagnare. Di quel grappolo fanno parte anche i genitori, i fratelli, le sorelle e – perché no? – anche i nonni. Un bel grappolo! Ogni catechista è come quel giudeo di cui il profeta ha scritto: «Aggrappati al lembo del suo mantello ci sono dieci persone che non vogliono staccarsi e dicono: “Vogliamo venire con te perché abbiamo capito che con te c’è il Signore!”» (Zac 8,23).

4.
Tante persone, soprattutto adulti, sostengono la vita della parrocchia: c’è chi è impegnato nel campo educativo, chi in quello liturgico, chi nell’assistenza spirituale agli ammalati, chi nel campo della carità, chi in quello dei molteplici servizi, tutti nobili e tutti importanti (dal decoro della chiesa alla cura degli ambienti, sempre accoglienti e in ordine, dalla manutenzione ordinaria alla preparazione della grande festa parrocchiale, dall’economia della parrocchia al sostegno spirituale con la preghiera, ecc.). Ripeto quello che San Paolo diceva ai cristiani di Filippi (città della Macedonia): «Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù» (Fil 2,5). Che cosa sentiva Gesù quando incontrava le persone? Tutti correvano a lui. Allora dico agli impegnati parrocchiali:
Esserci, ma senza esserci troppo.
Fare, ma solo per amore.
Essere presenti, ma non per mettersi in mostra.
Essere intraprendenti, ma sempre in armonia col parroco e con gli altri amici della parrocchia.
«Servi inutili siamo», ma attenzione, la traduzione della frase è “servi senza utile”, cioè servi che fanno “per gratuità”, per amore!

5. Il Vescovo è stato in alcune aziende e in luoghi dove si fanno affari. Ha ricordato ad imprenditori e lavoratori la parabola dei talenti. «Fate fruttare i talenti», dice il Signore, «la ricchezza, l’intelligenza, l’impresa non sono una cosa cattiva quando sono per il bene comune, quando si è attenti alle necessità delle persone. Anzi, il denaro è un ottimo servitore… ma un pessimo padrone!
Gesù dice: «Bene, servo buono e fedele, entra e sii parte del tuo Signore. Non hai lasciato a riposo la creazione, non sei stato indolente, sei stato mio collaboratore» (cfr. Mt 25,21). Il lavoro è per far crescere talenti per il bene di tutti.

6.
Vengo ai giovani. Tra voi, in modo particolare penso ai ragazzi che stanno per ricevere il sacramento della Cresima e che diventeranno parte dei giovanissimi. Vi affido una grande responsabilità: aiutare la Chiesa ad essere in ascolto dei vostri amici, dei giovani di oggi (in ottobre del prossimo anno si terrà a Roma, convocato dal Santo Padre, un Sinodo dedicato interamente a tutti i giovani). Per ascoltare i giovani bisogna raggiungerli; per raggiungerli bisogna “uscire”, per uscire bisogna inventare modi per agganciarli o – come si dice – attaccare bottone. Mi ispiro al libro dei Giudici. Racconta di Sansone che, per sconfiggere i Filistei che continuavano ad opprimere Israele, catturò volpi, legò alle loro code torce infuocate e le mandò nei campi di orzo e di grano dei Filistei. Ci fu un grande incendio e la sconfitta di quegli oppressori. Vorremmo che i giovani fossero le nostre volpi che incendiano – ma d’amore – tutta la Repubblica di San Marino e oltre: dove passano lascino una scia di bene.

7.
Quante immagini, quanti messaggi… Ogni giorno, di questi passati con tutti voi, sentivo spuntare nel mio cuore una parola per tutti. Me la sono ripetuta mentre camminavo tra le vostre case pregando il Rosario: «Siate famiglia!». Questa è la bellezza affascina. «Siate famiglia»! Una parrocchia bella per i rapporti, bella nei suoi riti (tutto parla: le luci, i fiori, i canti, i ministri attorno all’altare) bella nei volti… Volti di belle persone. La bellezza è la spinta missionaria della parrocchia. Oggi, la gente, se da qualcosa si lascia sorprendere, è la bellezza. «Siate famiglia»!

Avete ascoltato il Vangelo. Hanno dato a Gesù una moneta; poi, per provocarlo, hanno chiesto: «È più importante Dio o Cesare?».
«Di chi è l’immagine nella moneta?», chiede Gesù. «È di Cesare», gli rispondono. «Dategli, dunque, la sua moneta». E poi, in modo non verbalmente esplicito ma chiarissimo, dice: «Di chi è l’immagine dentro di voi, che marchia il vostro cuore, che stampa indelebilmente la vostra anima e il vostro volto?». Voi con me certamente gli dite: «È l’immagine tua Gesù, siamo stati fatti a tua immagine». Quale la conclusione? Diamo tranquillamente a Cesare la sua moneta e a Gesù, il Signore, il nostro cuore. Così sia.

Omelia nella S.Messa di apertura della Visita Pastorale a Dogana

Dogana, 16 ottobre 2017

1 Pt 2,4-9
Sal 109 (110)
Gv 15,1-8

Dalla cattedra il sacerdote spiega la Parola di Dio, non parla di sé, dei propri sentimenti; è discepolo come tutti dell’unico Maestro che è Gesù. Ma, in una sera come questa, si può cedere un po’ ai sentimenti, non sono estranei alla fede e all’esperienza ecclesiale: il cuore è il cuore!
Dal momento della partenza da Pennabilli – sede vescovile – fino a destinazione, non ho fatto che pensare alle visite degli apostoli alle prime comunità cristiane a Iconio, a Listra, ad Antiochia, per poi arrivare, al di là del mare, ad Efeso, a Corinto e, infine, a Roma. L’apostolo – uno dei primi compagni di Gesù – racconta, ogni volta come la prima, il suo incontro col Maestro, poi il cammino e le soste con lui. I cuori palpitavano per il desiderio di conoscere Gesù: non solo le parole e i miracoli, ma anche i dettagli – per chi ama, i dettagli non sono mai trascurabili! –, ad esempio com’era la sua veste, com’era l’erba quando furono sfamati i cinquemila, quanti erano i pesci raccolti quella notte in cui gli apostoli avevano osato tornare a pescare sulla parola di Gesù… Anche voi avete questo desiderio di conoscere Gesù, per questo venite in parrocchia. Ma perché conoscere Gesù? Per amarlo, per amarlo sempre di più. In questi giorni vorrei essere d’aiuto perché tutti facciano uno scatto in avanti nell’amicizia con Gesù, lo amino maggiormente e lo seguano. Se lui è il nostro punto di riferimento, se è la nostra pietra basilare, noi con lui formiamo un unico edificio. Da notare che coloro che fanno parte del suo gruppo, della sua comunità, non si sono scelti tra loro. La parrocchia è caratterizzata da un elemento fondamentale: la territorialità. Le persone che fanno parte di quel luogo preciso, come voi che vi radunate in questa bellissima chiesa, formano la comunità dei chiamati, cioè la Chiesa. Una metafora ancora più bella della Chiesa è quella della vite e dei tralci, dove scorre la stessa linfa: la vita di Gesù. La vita che è nelle sue parole e nei suoi insegnamenti, che diventano la nostra norma di vita, e quella che è nell’Eucaristia, il dono del pane spezzato in cui Gesù ha voluto essere presente. Ancora di più quella linfa è la vita stessa di Gesù che viene comunicata. Noi la chiamiamo grazia. La grazia ci fa santi, cioè ci fa come Gesù. È bello raccontarsi questo… Guai a chi dice con rammarico «siamo nel dopo Gesù»; semmai dopo la sua risurrezione, ma Gesù è vivo! Tante volte accadeva che il luogo dove si trovavano gli apostoli diventasse improvvisamente diverso, più luminoso; a volte c’era come un frastuono e lo Spirito di Gesù Risorto scendeva su una varietà di persone: qualcuno era un pescatore, qualcuno lavorava in campagna, qualcuno era soldato… Eppure, ognuno di loro diventava coraggioso. «Plebei illetterati» (At 4,13), sono detti negli Atti degli Apostoli, però capaci di dialogare anche con i sapienti, capaci di testimonianza, di audacia.
Il mio passaggio in mezzo a voi in questi giorni ha lo scopo di incoraggiare ed essere incoraggiato (anche voi aiutate me!).
Stamattina sono stato ad un convegno su Filone d’Alessandria. Questo personaggio, ebreo, cercava di dialogare con la cultura del suo tempo. Qual è la chiave per dialogare? Guardare Gesù crocifisso, perché lui, sospeso fra cielo e terra, perde tutto: perde il posto in sinagoga, perde gli amici – gli sono rimasti solo la madre e l’amico del cuore – e sente anche l’assenza del Padre: «Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato?» (Mc 15,34). Non è un perdere la propria identità: ciò non sarebbe più dialogo; semmai è quella disposizione d’animo che è libertà e fiduciosa apertura, disponibilità all’essenziale senza compromessi.
Vorrei raccontare ora la storia di tre visite pastorali. La prima è narrata dal Manzoni nei Promessi Sposi. Una perla di quella visita fu l’incontro fra il cardinal Federigo e l’Innominato. Tutto comincia con il progetto malvagio dell’Innominato nei confronti di Lucia Mondella, un progetto che si tramuta in tormento interiore. Una notte di lotta e poi, al mattino, il suono delle campane che inondano la valle. C’è un popolo che si raduna festoso. L’Innominato – qui è certamente la grazia che ha l’iniziativa – scende, col suo tormento, ad incontrare il Cardinale. Ecco il celebre dialogo: «Dio, Dio, se lo vedessi! Se lo sentissi! Dov’è questo Dio?». E il Cardinale: «Voi me lo domandate? Voi? E chi più di voi l’ha vicino! Non ve lo sentite in cuore che v’opprime, che v’agita, che non vi lascia stare e, nello stesso tempo, vi attira, vi fa presentire una speranza di quiete» (cfr. A. Manzoni, I promessi sposi, cap. 23).
Alla vostra cortesia confido altri due racconti di visite pastorali, infinitamente più “casalinghi”. Il primo. Il vescovo vuole al centro della sua visita l’appuntamento coi giovani. Ma in quella parrocchia, pur popolosa, non vi è alcun gruppo giovanile. Il parroco da tempo ha lasciato perdere queste pecorelle del suo gregge. Si fa coraggio, va al bar centrale, offre da bere ad un gruppo di giovanotti e li prega di fare “presenza”. Si tratta di riempire il teatrino della parrocchia. Uno di loro si intenerisce per il suo vecchio parroco e sfida gli amici: «Andiamo! Con un’oretta ce la caviamo…».
Il vescovo, davanti a quella platea di giovani, si accalora e dà il meglio di sé. Da allora quel giovanotto reimpara il vialetto che porta alla chiesa. È un metalmeccanico con la terza media. Alla fine entra in seminario. Prende la maturità liceale e, dopo il percorso teologico, diviene sacerdote. Ora è parroco-abate di una importante comunità. Il secondo racconto è ancor più ingenuo. Altro il vescovo, altra la parrocchia. Secondo programma il vescovo fa visita ad alcune famiglie. Entrato in una casa, l’occhio episcopale, ad un tratto, si fa severo; alla vista dell’albero di Natale non trattiene la sua disapprovazione (altri tempi!): «Lo detesto». La mamma accompagna il vescovo nel sottoscala, tira una tendina. C’è un altarino con fiori, addobbi e odore acre di candeline appena spente. È uno dei suoi figli che gioca a fare il… prete! Il Vescovo va all’attacco, la mamma resiste. Alla fine quel bambino entra in seminario e diventerà vescovo! Attenzione: non tutte le visite pastorali finiscono così! Ma con le visite pastorali tante grazie arrivano. Non sappiamo che cosa accadrà durante questa settimana; la prendiamo dalle mani del Signore e siamo certi che lui farà meraviglie. Così sia.

Omelia nella celebrazione di chiusura del Centenario di Fatim

Omelia di S.E. Mons. Andrea Turazzi
Santuario del Cuore Immacolato in Valdragone, 13 ottobre 2017

Et 8,3-8.15-17
Gv 2,1-12

Immagino di girare in mezzo a voi chiedendo a ciascuno: «Perché sei venuto qui stasera?». Azzardo qualche risposta. Qualcuno risponde «perché oggi è il 13 ottobre», ricordando l’ultima delle apparizioni di Fatima, con la consegna dei messaggi e il grande prodigio del sole. Qualcun altro mi dice di essere venuto per mettersi alla scuola di Maria, perchè vuole imparare da lei come si diventa discepoli. Qualcun altro – forse la maggioranza dei presenti – viene per chiedere delle grazie. Come diceva Dante: «Donna, se’ tanto grande e tanto vali, che qual vuol grazia e a te non ricorre, sua disïanza vuol volar sanz’ ali» (Dante Alighieri, La Divina Commedia, Paradiso, Canto XXXIII). C’è anche chi è venuto perché invitato dal Vescovo. Il Vescovo ha convocato tutti; attorno a lui ci sono i sacerdoti, e c’è anche chi è venuto dalle tre del pomeriggio per partecipare ad una “staffetta” ininterrotta di preghiera, mentre molti sacerdoti si dedicavano al sacramento della Confessione.
L’invito del Vescovo e il pregare tutti insieme uniti con lui costituisce un segno, una epifania della Chiesa. Per questo dico «grazie: grazie, per aver accettato l’invito». Penso che anche la Madonna sia contenta e vi ringrazi per aver risposto alla sua chiamata. Permettetemi un’altra domanda: «Perché quando il Vescovo chiama alla formazione, all’impegno sui temi della educazione, della socialità, della presenza della Chiesa nella città non trova altrettanta corrispondenza?». Qualche esempio. Abbiamo avuto la gioia, appena un anno fa, di inaugurare l’Istituto Superiore di Scienze Religiose perché i nostri giovani ci fanno domande impegnative e non possiamo più dire «che si fa così perché si è sempre fatto così»: abbiamo bisogno di acculturarci. Il Vescovo invita ogni anno alle “giornate per la scuola e con la scuola” perché siamo tutti preoccupati per l’educazione. Quest’anno, per la prima volta, abbiamo addirittura fatto capolino nel mondo dello sport. Sono fiero che la nostra Chiesa abbia qualcosa da dire su questi argomenti. Capisco che non si può sempre rispondere agli avvisi che vengono dalla Diocesi… sono tanti e poi ci sono gli impegni di lavoro, di famiglia, ed anche il giusto riposo. Però mi sorge un dubbio: non sarà per caso che per tanti cristiani la fede si limita all’ambito privato e sia vista solo per preparare l’anima al cielo? Preparare l’anima al cielo è sicuramente molto importante, ma non basta. La conversione cristiana esige di considerare tutto ciò che concerne l’ordine sociale e il conseguimento del bene comune. «Nessuno può esigere che noi cristiani releghiamo la religione al segreto intimo della nostra persona, senz’alcuna influenza sulla vita sociale e nazionale, senza preoccuparci per la salute delle istituzioni, senza esprimerci sugli avvenimenti che interessano i cittadini. Chi oserebbe rinchiudere in un tempio oppure far tacere il messaggio di San Francesco d’Assisi e di Teresa di Calcutta?» (EG 183).
Il nostro programma pastorale rilancia lo studio del Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa che è una parte integrante delle nostre catechesi, della nostra formazione personale (cfr. Tra la gente con la gioia del Vangelo, Programma e calendario pastorale 2017/18, pag.50). Sogno una Diocesi trapuntata di scuole base di formazione: dal Vangelo alla vita! Questo richiamo non vi appaia incongruente con quello che celebriamo stasera. Maria, a Fatima, si intrattiene con tre bambini e parla loro della Russia. Loro non sanno neppure che esiste la Russia, ma la Madonna mette loro in cuore il mondo, la società. Ricordiamo il canto di Maria, il Magnificat. Ad un certo punto Maria canta colui che disperde i potenti ed esalta gli umili, che ricolma di beni gli affamati e rimanda i ricchi a mani vuote (cfr. Lc 1,52-53). La liturgia della Parola stasera ci ha condotto ad ascoltare la preghiera di Ester, figura di Maria che prega per il popolo. La vicenda di Ester è ambientata nei sontuosi palazzi del Re di Persia. Un libro, quello di Ester, scritto per tempi difficili come i nostri. Ricordo brevemente la vicenda di Ester. La splendida regina Vasti si rifiuta di comparire davanti al Re che vuol mostrare al popolo e ai capi la sua bellezza. A corte i saggi dicono che il rifiuto di Vasti è molto grave. Conformemente alle leggi del tempo il Re decide che la regina deve essere deposta e che un’altra fanciulla dovrà essere eletta alla dignità regale. Viene bandito un concorso di bellezza: la più bella sarà regina al posto di Vasti. Anche la piccola Ester viene iscritta dallo zio che l’ha presa a casa sua da quando è rimasta orfana e sola. Il Re, quando la vede, rimane conquistato dalla sua bellezza e la vuole al suo fianco: lei, che è piccola e umile, viene elevata a regina. Intanto, a corte, un potente ministro sta organizzando un programma di sterminio degli Ebrei, il popolo a cui Ester appartiene. Lo zio di Ester riconosce come provvidenziale l’elezione della nipote e le dice: «Il Signore vuol servirsi di te per salvare il suo popolo». C’è veramente una grande somiglianza col destino di Maria che il Signore sceglie per salvare l’umanità. La liturgia di oggi ci fa vedere la provvidenziale intercessione di Ester presso il Re come quella di Maria presso il Signore che l’ha voluta come tenerissima madre e regina presso di lui, accanto a noi. Non fu così anche alle nozze di Cana, come narrato nella lettura evangelica che ci è stata impartita questa sera? La premura di Maria spostò in avanti le lancette dell’ora di Gesù. Conosciamo bene le battute del dialogo tra Maria e Gesù: «Non hanno più vino». Maria sa che nella vita di ognuno il bene può venir meno, come il vino delle nozze. L’amore sulla terra è a rischio; la diminuzione, il venir meno, il tramontare sembrano una costante delle esperienze umane. Maria, a Cana, non si rassegna e sente che le cose possono andare diversamente: dal debole al forte, dal poco al tanto, dall’acqua al buon vino. Gesù, infine, interverrà: sarà il suo primo miracolo. «Non hanno più vino». E Maria ingiunge ai servi: «Fate quello che lui vi dirà». Con questa parola di Maria concludo domandando a me e a voi: «Che cosa vuole il Signore in questo preciso momento?». Anche San Marino, che fino a pochi anni fa costituiva una sorte di oasi felice, si è trovata a fare i conti con fenomeni prima sconosciuti come la disoccupazione e la crisi del sistema bancario e finanziario che rischia di travolgere il paese. Imprese, famiglie, singoli sono in forte sofferenza, anche in questi giorni, per questa situazione. Alle istituzioni, agli imprenditori, ai vertici del sistema bancario è chiesta una dimostrazione di grande responsabilità sociale, nella consapevolezza che quando si fanno scelte in ambito economico e finanziario si vanno a toccare, talvolta persino in modo drammatico come in questi giorni, la vita e il futuro delle persone e delle famiglie, che noi stasera vogliamo ricordare nella preghiera e a cui vogliamo esprimere la nostra vicinanza. La fedeltà al Vangelo ci impegna tutti, ognuno secondo il suo ruolo, ad anteporre agli interessi particolari il bene comune, avendo il coraggio di osare strade nuove di collaborazione, anche al di là degli schieramenti: lavoriamo tutti per il bene di tutti. La Repubblica sammarinese è un bene di tutti. Ci vuole anche il coraggio della riconciliazione tra componenti diverse della politica e del lavoro insieme nel solco dei valori trasmessici dal Santo Marino e dalla migliore tradizione della nostra Repubblica. «Non hanno più vino». «Fate quello che lui vi dirà». Stiamo a vedere!

Discorso nel conferimento della cura pastorale della parrocchia di San Leo a don Carlo Adesso

San Leo, 8 ottobre 2017

Per l’inizio del suo ministero pastorale tra voi il vostro parroco don Carlo ha ricevuto dal Vescovo, con un gesto simbolico, due chiavi. La chiave del tabernacolo nel quale si custodisce l’Eucaristia e la chiave della Pieve, la vostra parrocchia, che vi raccoglie in comunione attorno all’Eucaristia. L’una è la chiave della dimora del corpo sacramentale di Gesù, l’altra la chiave dell’assemblea del corpo mistico di Gesù, in altre parole la chiave del cuore, delle persone che accolgono l’Eucaristia per viverla. Un rito, quello che abbiamo compiuto, simbolico, ma anche chiaro e tanto eloquente.
Queste chiavi sono affidate a te, don Carlo. Permettimi di citare un breve testo dalla Lettera agli Ebrei: «Ogni sommo sacerdote viene costituito – scrive l’autore – per offrire doni e sacrifici per i peccati» (Ebr 5,1).
Ecco il vostro parroco partecipe del sacerdozio di Cristo: viene in mezzo a voi per attendere alle cose che riguardano Dio e per offrire doni e sacrifici per i peccati. Viene per le cose che riguardano Dio: Dio non è superato, non è morto; forse è emarginato dal cuore di tanti, dimenticato, forse è perfino allontanato, può darsi anche da noi. Ma è presente, presentissimo anche se nascosto, ed è operante. Sentirete durante la liturgia della Parola come è grande la tenerezza del “padrone della vigna” che non lascia nulla di intentato e, al culmine della storia della salvezza, quando sembra ormai che l’umanità sia una “boccia persa”, manda il proprio Figlio (cfr. Mt 21,33-46). Se esige qualcosa, esige che si creda al suo amore, perché vuole la reciprocità: se lo ami ti amerà di più! Dio talvolta appare distante, ma in realtà è inquietante, tormentante. Inquietudine e tormento sono il suo modo di farsi presente, sono il modo della sua offerta, del suo richiamo, del suo bussare alla porta del cuore. «Sto alla porta e busso» (Ap 3,20). Ricordiamo nel romanzo dei Promessi Sposi la conversione dell’Innominato, il suo incontro con il cardinale Federigo a cui dice: «Dio, Dio, se lo vedessi! Se lo sentissi! Dov’è questo Dio?». E il Cardinale: «Voi me lo domandate? Voi? E chi più di voi l’ha vicino! Non ve lo sentite in cuore che v’opprime, che v’agita, che non vi lascia stare e, nello stesso tempo, vi attira, vi fa presentire una speranza di quiete» (cfr. A. Manzoni, I promessi sposi, cap. 23). In questi giorni su “Avvenire” è stato pubblicato uno scritto molto interessante del filosofo rumeno nichilista, anche se di ambientazione parigina, Emil Cioran, il quale dice: «Sono certo d’aver cercato Dio, ma sono ancor più certo d’aver fatto di tutto per non incontrarlo. L’origine di tutte le mie grida e del sarcasmo con cui l’ho glorificato sta in una opprimente solitudine al cui termine egli appare. Io come Pascal cerco ragioni per non credere» (cfr. Avvenire, 27 settembre 2017). Ebbene, il sacerdote ha la missione di far pensare a Dio, di farlo avvertire, di farlo ascoltare, di farlo incontrare. Notate: sentire, avvertire, ascoltare, incontrare. Il sacerdote ha la missione, poi, di offrire doni e sacrifici per i peccati, ossia, di innalzare preghiere, intercedere, celebrare il sacrificio eucaristico per la remissione dei peccati. Il sacerdote è, anzitutto, l’uomo dell’Eucaristia.
La chiave è consegnata al vostro parroco affinché lui per primo preghi silenziosamente, da solo, il Signore eucaristico e poi apra la porta e sia largo nel consegnare a tutti voi il Pane della vita. La Lettera agli Ebrei continua: «In tal modo egli [il sommo sacerdote] è in grado di sentire giusta compassione per quelli che sono nell’ignoranza e nell’errore, perché anch’egli rivestito di debolezza» (Ebr 5,2).
Ecco il vostro parroco, viene in mezzo a voi capace di giusta comprensione per quelli che sono nell’ignoranza e nell’errore. Notate la delicatezza di questo testo. Non accenna ai peccatori e ai loro peccati o, se in qualche modo vi allude, salva i peccatori col vedere nei peccati degli uomini degli sbagli dovuti ad ignoranza. Se sapessero, se sapessimo… Vale a dire che il vostro parroco, per la comunione e la conversazione che ha con Gesù Eucaristia, viene a voi come a fratelli, pieno di bontà, di indulgenza, pronto a donare pace a quanti si sentono angustiati e fragili, pronto alla riconciliazione. Del resto, ognuno di noi ripete l’esperienza del figliuol prodigo, si allontana dai suoi, da quelli di casa sua (dal padre e dai fratelli), ma porta con sé la nostalgia della casa paterna e vuol tornarci, anche se a volte non lo dice. Il parroco viene a voi per favorire questo ritorno ed esercita tra voi il sacramento della Riconciliazione, del perdono, dell’abbraccio rasserenante di ognuno con il Signore. Ho confidato a don Carlo come l’essere posto nel confessionale durante il rito del mio ingresso in parrocchia fu un momento sconvolgente. Avevo finito di leggere qualche settimana prima il romanzo di Bernanos “Sotto il sole di Satana” – chi l’ha letto può capirmi. Il sacerdote protagonista del romanzo morì in confessionale sotto il peso delle confidenze che riceveva dai parrocchiani, distrutto dalla incapacità di capire come l’Amore non fosse amato. Auguro al nostro don Carlo di stare molto in confessionale – anche se non sarà quello di questa chiesa perché talvolta è più facile il colloquio spirituale in un’altra postura – e che sia un prete che dona gioia e che rincuora: uomo di rapporti profondi.
Aggiungo per don Carlo alcune parole pronunciate da papa Francesco che parlando, ieri, di noi sacerdoti, diceva: «La formazione sacerdotale non è mai finita. La formazione sacerdotale dipende in primo luogo dall’azione di Dio e richiede il coraggio di lasciarsi plasmare dal Signore». Il Papa era ricorso all’immagine biblica dell’argilla nelle mani del vasaio: «La domanda che deve scavarci dentro, quando scendiamo nella bottega del vasaio, è questa: che prete desidero essere? Un prete “da salotto”, uno tranquillo e sistemato, oppure un discepolo missionario a cui arde il cuore per il maestro e per il popolo di Dio? Uno che si adagia nel proprio benessere o un discepolo in cammino? Un tiepido che preferisce il quieto vivere o un profeta che risveglia nel cuore dell’uomo il desiderio di Dio?» (cfr. Papa Francesco Discorso ai partecipanti al Convegno internazionale sulla “Ratio Fundamentalis”, 7 ottobre 2017). Penso che don Carlo abbia fatto la sua scelta.
E a voi leontini che cosa dico (ma estendo l’interrogativo anche ai tanti non leontini presenti)? Vogliate bene al vostro parroco. Io ho avuto la fortuna di essere stato molto amato dai parrocchiani e di essere stato generato da quell’amore. Vogliate bene ai vostri parroci, vogliate bene e collaborate con loro. E pregate perché il Signore susciti in tanti giovani il privilegio della vocazione. Così sia.

Omelia nella cerimonia di investitura dei Capitani Reggenti

Omelia di S.E. Mons. Andrea Turazzi
San Marino, 1 ottobre 2017

XXVI domenica del Tempo Ordinario

(da registrazione)

Ez 18,25-28
Sal 24
Fil 2,1-11
Mt 21,28-32

Eccellentissimi Capitani Reggenti,
grazie per il servizio di questo semestre.
Auguri ai nuovi Capitani Reggenti. Confidenzialmente verrebbe da chiedervi chissà cosa raccontate di questa esperienza dal punto di vista umano alle persone a voi amiche. Non si esce da questo incarico uguali a come si era entrati. I rapporti con le persone, le esigenze dei più poveri e di chi bussa per cercar lavoro, i contatti internazionali; tutte esperienze che lasciano sicuramente un segno nel cuore.
Voglio anche salutare mons. Giorgio Chezza, incaricato d’Affari della Santa Sede; gli chiedo di portare il nostro saluto a mons. Bernardini, che cede l’incarico ad un nuovo nunzio che verrà nominato.
Infine un saluto ai Segretari di Stato, agli Ambasciatori e a tutti i fratelli e le sorelle che questa domenica gremiscono la Basilica.
Ci troviamo di fronte ad un Vangelo stupendo. Una vigna, due figli e un padre. La vigna non è soltanto fatica e sudore. La vigna è gioia, futuro, promessa di vita, grappoli pieni di sole… Perché allora sottrarsi all’invito di lavorare nella vigna, perché guardare soltanto all’attenzione e alla perseveranza che richiede, alle levatacce che occorrono per averne cura? Ognuno ha la sua vigna. Non parlo solo delle vigne che fanno il buon vino sammarinese, ma parlo della vigna della nostra famiglia, della vigna dello Stato, della vigna della pubblica amministrazione. Ad ognuno la propria responsabilità, la risposta; del resto vivere è rispondere. Rispondere alla chiamata: «Va’ a lavorare nella vigna». I due figli si sbagliano si di fronte alla vigna, perché la vedono solo come un impegno e una fatica; sono poco lungimiranti, anche poco generosi, ma si sbagliano soprattutto sul padre. Lo vedono come un padrone che dà ordini. Il primo dei due figli si ribella, è capriccioso, impulsivo, si contrappone al padre: «Non ne ho voglia, non ci vado»: si smarca. L’altro figlio si potrebbe dire che è servile, dice di sì, è ossequioso nei confronti del padre, forse si rassegna, constata che non si può far diversamente, ma appena vede una possibilità, anziché andare nella vigna, se la “svigna”. Forse il padre era lontano, forse qualcuno ha preso il suo posto, fatto sta che si imbosca.
Facciamo ora il passaggio dalla parabola alla vita quotidiana. Uomini di chiesa – parto da chi sta sul presbiterio – uomini della cultura, uomini della politica, tutti: quante volte ci sbagliamo su Dio perché lo vediamo come un padre padrone e, per difenderci, ci sottraiamo, ci viene da scappare, oppure rasentiamo l’ipocrisia, la doppiezza. Andiamo ma per servilismo. In realtà i due figli sussistono in ciascuno di noi. In ciascuno di noi c’è un po’ del figlio che si sottrae, si ribella, dice “no” e c’è il figlio che dice “sì” e poi non fa. Questa giornata è il momento per ridire il nostro “sì”, non per servilismo, ma perché vogliamo far nostro il progetto della vigna. La vigna è il bene comune, la nostra vocazione, il nostro servizio. Dio non è un padre padrone, ma un amico che ci chiama a collaborare con lui, trasmettendoci la sua passione per la vita. In conclusione, un “sì” che sia “sì”, che ci fa passare dalle parole ai fatti. Non vale dire «Signore, Signore» (cfr. Mt 7,21). Il Vangelo ci ricorda che non l’appartenenza etnico-religiosa mi aggrega al popolo di Gesù, ma la decisione fattiva, operosa, di essere dei suoi. Questo brano di Vangelo costituisce in un certo senso una sberla. Ben venga questa sberla se ci aiuta ad uscire dal perbenismo spirituale. Gesù tenta anche questa via con noi, abilmente ci provoca con l’idea del sorpasso. Ci sono persone che noi riteniamo fuori strada, “bocce perse”, che invece ci passano davanti. Gesù allude al rifiuto di chi dovrebbe accoglierlo. Noi, oggi, vogliamo dire a lui – e dire anche di fronte alla nostra coscienza – il nostro «sì, ci vado nella vigna, per amore».

Omelia XXIV domenica del Tempo Ordinario

Omelia di S.E. Mons. Andrea Turazzi
Pennabilli, 16 settembre 2017

Candidatura al diaconato di Vittorio

(da registrazione)

Sir 27,33-28,9
Sal 102
Rm 14,7-9
Mt 18,21-35

Una regola generale e assoluta deve normare i rapporti all’interno della comunità: la misericordia e il perdono, avendo come prototipo quello di Dio verso di noi.
La bellissima ed efficace parabola è preceduta da uno scambio di battute tra Gesù e Pietro. Pietro conosceva bene le esortazioni rabbiniche sul perdono. Esse procedono dalla grande lezione dei libri sapienziali dell’Antico Testamento. Putroppo, al tempo di Gesù, erano racchiuse in uno schema legalistico che si perde a discutere sul cerimoniale… di pace e sul numero massimo dei perdoni legittimi. I rabbini di solito erano d’accordo che il numero di perdoni fosse quattro! Pietro, avanzando fino a sette, pensa di aver fatto il massimo per avvicinarsi al Maestro. Gesù gli risponde in modo sorprendente. Allacciandosi a Gn 4,24: «Lamec sarà vendicato settanta volte sette», Gesù ribalta la cifra della vendetta nella cifra del perdono. «Settanta volte sette» è un ebraismo che significa “sempre”. Non ci sono limiti fra fratelli. Poi segue la parabola. Punto di partenza la misericordia di Dio che è pensato come un signore orientale, supremo giudice sui suoi sudditi (ius capitis). Il debito del suo servo non è realistico: 100.000 monete d’oro (10 milioni di euro!), cifra a quei tempi neppur pensabile. L’esagerazione sottolinea che si tratta di qualcosa di umanamente imperdonabile.
Il servo lo supplica: pagherò un po’ alla volta (promessa risibile). Eppure al re questo atto sincero di disponibilità è sufficiente e, con una mossa a sorpresa, accorda al suo servo infinitamente di più di quanto gli avesse chiesto: gli cancella totalmente il debito.
Il nostro peccato è qualcosa di grande, ma la misericordia è infinitamente superiore. Va al di là di ogni ragionevolezza. Non è misurabile con il metro umano, la si può solo accogliere con fede e gratitudine. Questa prima scena fa da prologo alla seconda che è il centro dottrinale della parabola. Il servo graziato esce e incontra un collega che gli deve 100 denari (15 euro). Non ha pietà. Applica la sanzione giuridica. La terza scena non intende opporre due volti di Dio, ma è funzionale alla seconda scena. È un espediente di Matteo per dare vigore e urgenza all’ammonizione centrale: il perdono assolutamente necessario. Questo è il cemento della comunità (luogo della festa e del perdono) che oggettivizza nella Chiesa quanto Dio ha storicamente compiuto in Cristo. La parabola drammatizza la richiesta del Padre: «Rimetti a noi i nostri debiti, come noi li rimettiamo ai nostri debitori» (Mt 6,12). «Padre perdonali, perché non sanno quello che fanno» (Lc 23,34).

Stefano e Filippo, diaconi di Gesù, sono diaconi nel suo Vangelo, diaconi generosi con i loro fratelli, per cui hanno spezzato il pane del Vangelo. Sono passati 2000 anni dalla stesura dei quattro vangeli, ma si può dire che non hanno perso la loro carica, la loro novità. I quattro vangeli assomigliano ad una biografia, ma sono ben di più. Non dobbiamo immaginare gli evangelisti a tavolino che scrivono di getto, penna e calamaio alla mano; la loro opera nasce dalle testimonianze e dai ricordi custoditi con cura dalla cerchia degli amici di Gesù. L’origine del loro scritto ha qualcosa di straordinario. Gesù stesso offre la chiave per interpretare i fatti della sua vita, compresa la sua morte di croce, le parabole, le parole che racchiudono una suggestione profonda. Non è solo una nuova dottrina che affiora, ma la comunicazione di un vigore che mette in moto perdono, libera risorse, apre alla speranza, la stessa sperimentata nei numerosi miracoli compiuti da Gesù. I miracoli si ripetono in forza della fede in Gesù: nemici che si ricongiungono, ricchi che sono disponibili alla condivisione, condannati dalla vita che si rialzano. Più che di miracoli si dovrebbe parlare di miracolo: il miracolo di Gesù. C’era in Gesù qualcosa di così straordinario, impossibile da spiegare con le sole risorse dello storico, che faceva trasalire. Basti pensare al racconto della sua vicenda di morte e risurrezione, del suo rapporto col Padre, della sua tenerezza verso chi aveva sbagliato. Anche oggi i fatti parlano chiaro. In virtù di quell’annuncio c’è chi cambia vita, c’è chi la vita la gioca pericolosamente per lui, chi trova una libertà e una gioia mai sperimentate prima e questo è un fatto: accade. I quattro vangeli sono opera degli evangelisti, ma in fondo sbocciano su questa esperienza originaria, condivisa da tanti, da una comunità.
Diacono, cioè servo del Vangelo. È difficile esserlo? Non è stato facile neppure per i primi discepoli; l’impresa di annunciare il Vangelo era smisurata. Gesù aveva detto: «Andate in tutto il mondo, annunciate il Vangelo ad ogni creatura» (Mc 16,15). L’opera era iniziata, ma l’entusiasmo quasi subito veniva messo alla prova da una terribile persecuzione. I primi messaggeri e testimoni hanno incontrato pericoli e sopraffazioni, hanno affrontato viaggi e fatiche, hanno subito le critiche e le ironie dei sapienti, si sono scontrati con l’incomprensione dei familiari. Era difficile per la novità del messaggio, era difficile per le condizioni di vita e per le vie di comunicazione di allora, ma c’era la certezza – e c’è anche adesso – che il Signore accompagna il messaggero, anzi talvolta il messaggero si sorprende di essere preceduto da lui che apre strade e cuori. E i luoghi del primo annuncio, allora – ma si può dire che possa essere così anche oggi – erano i più disparati. Non solo luoghi pubblici: a Gerusalemme il tempio, ad Atene l’aeropago. Ma anche luoghi feriali: il mercato, le case, le carceri, le locande. Sorprendono soprattutto i contatti tra le famiglie; si discorreva di Gesù nella casa di Priscilla e Aquila, in quella di Cloe, ecc. A ben guardare la fede cristiana non è altro che un racconto, un racconto di Cielo, di un Dio che si fa uomo per amarci, per prendersi cura di noi, per chinarsi come fanno un papà ed una mamma sul proprio piccino. Questo racconto, fatto nuovamente, col cuore, come testimonianza di un incontro reale, vero, autentico, contiene una grazia particolare, quasi un sacramento. I primi cristiani chiamavano questo racconto kerygma. Questo racconto espone chi lo fa ed espone gli ascoltatori alla nuda e disarmante essenzialità della fede cristiana. Poi viene tutto il resto. Se tu per primo – anche noi – ci lasciamo guidare da questo paradosso pian piano si constata che i conti tornano, la vita cambia. Quello che è un racconto – stiamo parlando del kerygma – diviene un racconto sovversivo, perché sovverte la nostra idea di Dio, sovverte la nostra pratica stanca e abitudinaria della fede, sovverte il nostro modo di pensare e di stare in questo mondo.
Caro Vittorio, preparati a questa altissima missione. Dovrai parlare della misericordia del Signore, dovrai dire ad ogni persona, prima con la tua vita e poi con le parole, come diceva San Francesco, che Dio la ama immensamente.