Discorso in occasione del 60° anniversario di ordinazione presbiterale di mons. Graziano Cesarini

Macerata Feltria (PU), 24 giugno 2023

Mt 10,26-33

«Voi valete di più». Sono parole che incoraggiano e invitano, o meglio comandano: «Non abbiate paura» (è un imperativo!). Mentre la prima parte del discorso missionario di Gesù ha il tono dell’esortazione, questa seconda parte, che abbiamo ascoltato or ora, è imperniata su tre imperativi (aoristo) che si possono tradurre così: «Che non incominciate ad avere paura!». I discepoli stavano facendo i primi passi e già il Maestro li stava inviando in missione. La prima cosa che veniva loro in cuore erano le paure. È umano avere paura: paura della persecuzione, paura della derisione, paura – una paura che abbiamo anche noi – dell’incoerenza nel sentire discordanza tra quello che si dice (la testimonianza evangelica) e quello che si fa: questo fa soffrire e qualche volta frena nel dire le parole di Gesù. «Non incominciare ad avere paura», ripete Gesù.
Questa sera sono qui con voi per fare festa ad un presbitero che non ha avuto paura, che non ha paura di parlare.
Quando uno parla può essere riconosciuto come maestro, ma può essere anche rifiutato, può accontentare e può scontentare. Però don Graziano si è messo davanti a Dio.
Qui avete un prete che non ha paura di essere se stesso. Tutto d’un pezzo. Un prete che non ha paura di essere spirituale, col rischio di apparire d’altri tempi. Si è messo davanti a Dio.
Qui avete un prete che non ha paura di riconoscere Gesù Cristo davanti a tutti, perché Gesù Cristo gli basta, anche se questo prete può apparire poco umano. Con l’età arrivano gli acciacchi, tuttavia questo prete ha il coraggio di rimanere sulla breccia. C’è, però, un tempo per prendere e un tempo per lasciare, un tempo per seminare e un tempo per raccogliere, un tempo per parlare e un tempo per tacere – riecheggia il libro del Qoelet: Dio solo resta. Cosa dice quel prete che si è messo davanti a Dio? «Sei tu, Signore, l’unico mio bene» (Sal 16,2). Ed è pronto a tutto.
«Nulla accade senza che ci sia il Padre» (cfr. Mt 10,29). Abbiamo sentito leggere così, parlando dei passerotti dei quali il Signore si prende cura, dei capelli del capo che non cadono a terra senza il volere del Padre. Però vediamo tante cose non belle che accadono… «Sei tu, Signore, che le vuoi?». La traduzione esatta sarebbe: «Nemmeno un passerotto cadrà a terra senza che ci sia il Padre accanto a lui». Pensiamo alle persone che sono nella prova, i bambini che vengono violati, i migranti che si inabissano nel mare. Tutto questo non accade senza il Padre, senza che ci sia il Padre accanto a loro nel mistero della sofferenza. Capita spesso di usare il proverbio: «Non cade foglia che Dio non voglia». No. Nulla accade senza che il Padre sia accanto a te, pronto a raccoglierti. Anche per i distacchi, l’oblio, la solitudine, se il cuore è innamorato, non c’è nulla da temere.
Dico a mio fratello, monsignor Graziano: «Non avere paura. Tu vali di più, perché il tuo cuore è innamorato del Signore. Tutto passa, tutto può crollare, ma il Signore non passa. Il Signore rimane sempre». Così sia.

Omelia nella XI domenica del Tempo Ordinario

Secchiano (RN), 18 giugno 2023

40° anniversario di ordinazione sacerdotale di don Sante Celli

Es 19,2-6
Sal 99
Rm 5,6-11
Mt 9,36-10,8

Caro don Sante,
cari parrocchiani,
non poteva esserci pagina più bella di questa per comprendere la bellezza del prete missionario e la missionarietà di ogni discepolo di Gesù.
Il Vangelo ci presenta il Signore nell’atto di scegliere coloro che devono continuare la sua missione. Qual è il motivo che lo spinge a chiamare nuovi missionari? «Vedendo le folle» Gesù intuisce in loro il bisogno profondo di Vangelo. Lo sguardo di Gesù è uno sguardo di amore infinito, che conosce le esigenze e le sofferenze della gente. Solo l’amore conosce veramente.

1.

Gesù volge lo sguardo attorno e vede la folla. Nel testo originale (nella parlata propria di Gesù) “folla” va intesa nel senso di “folla disordinata”, “folla ammucchiata”. Gesù vuole fare il passaggio da una “folla disordinata” di persone ad una comunità. Chiederà, poi, agli apostoli e ad ogni discepolo di “essere costruttori di comunità” (è il tema del Programma Pastorale 2022/23!). Dio è comunione e non desidera altro che siamo una comunità di fratelli, un “cantiere” dove tutti sono impegnati, ognuno al suo posto, nei diversi ambiti di vita.
Gesù fa nascere la comunità col suo sguardo: questo è il perché della Chiesa. Ho incontrato persone che sono innamorate di Gesù Cristo, ma non vogliono la Chiesa… Ciò non è possibile! Se segui Gesù, non puoi non riconoscere la sua Chiesa come un corpo organico con tanti ministeri e tanti carismi.

2.

Il Vangelo dice che Gesù prova un sentimento di commozione che attraversa “le sue viscere” (il verbo usato descrive il fremere tipico del grembo materno). Caro don Sante, anche tu come Gesù, proprio qui in questa chiesa, nei momenti in cui preghi per la tua gente condividi con Gesù lo sguardo amorevole che coglie il bello che c’è nella tua gente e la sua compassione viscerale per le fragilità e le debolezze.
Come viene descritta la folla? Abbiamo sottolineato che viene presentata come una “folla disordinata”, lacerata, dispersa, afflitta dalla stanchezza. Oggi si parla molto della stanchezza esistenziale, che non è la stanchezza fisica, ma il riverbero di una stanchezza più profonda. Che cosa ci rende stanchi? È il non poter contare su relazioni in cui possiamo riposarci. Il cuore di ogni persona riposa nella pienezza di una relazione di amore, di accoglienza, nella quale c’è dono reciproco. L’essere lontani da questo tipo di rapporto rende stanchi nel cuore. Non è una novità di oggi, era così anche al tempo di Gesù. Si ha bisogno di fidarsi di qualcuno. Quando sei in una relazione in cui ti puoi fidare, il cuore si riposa: puoi essere te stesso. Altrimenti devi sempre difenderti, conquistare posizioni, avere prestazioni che ti facciano accreditare dagli altri (invece con la propria mamma non si ha bisogno di manifestare chissà che cosa per essere amati). Questa è la stanchezza che tu, don Sante, devi soccorrere per «essere costruttori di comunità», affinchè ognuno si senta bene, non si senta giudicato. In ogni iniziativa parrocchiale si esaltino le qualità di ogni persona, come in una famiglia.

3.

Il Vangelo aggiunge un’altra immagine. Gesù sente la folla che ha di fronte «come pecore senza pastore». È una frase che, alle orecchie degli ascoltatori era ricorrente, perché era una frase dell’Antico Testamento. La frase «erano pecore senza pastore» era sbocciata nel contesto storico dell’esodo, il periodo in cui gli ebrei erano schiavi in Egitto. Poi si mettono in cammino. Mosè cerca di fondere insieme le dodici tribù ed arriva alle soglie della terra promessa. Anche per lui si avvicina il tempo della morte e, guardando il popolo che ha messo in cammino, preso da un grande abbattimento prega: «Signore, chi continuerà dopo di me? Queste persone sono come pecore senza pastore». Allora, a Mosè viene indicato un successore: Giosuè (è lo stesso nome di Gesù, senza l’accento all’italiana). L’immagine delle «pecore senza pastore» viene usata anche in un altro passo biblico, quando gli ebrei sono a Babilonia durante il tempo dell’esilio. Hanno il terrore di scomparire per sempre come popolo: non hanno più il tempio, non hanno più la terra, non hanno più il sacerdozio, non hanno più profeti… Vivono nella terra tra i due fiumi, a Babilonia. Allora dicono al Signore: «Siamo come pecore senza pastore, scompariremo…». Invece, il Signore farà sorgere altri condottieri. Gesù prova lo stesso sentimento, la stessa urgenza. Eppure dice: «La messe è molta, ma gli operai sono pochi… Pregate!». Questa risposta stupisce, perché Gesù non esorta anzitutto a darsi da fare per raccogliere e mietere, ma a pregare. Questa frase ci libera dall’ansia da prestazione; in fondo pensiamo che tutto dipenda da noi, dalla nostra attività, invece, secondo Gesù, l’apostolo, il vero evangelizzatore, deve sapere che non è lui che salva il mondo: è Dio che opera. Noi interveniamo, caro don Sante, nella fase finale: Dio fa crescere, fa maturare, opera nel cuore delle persone, a noi il compito di mettere in evidenza quello che il Signore fa. A volte la persona meno religiosa, meno praticante, compie atti d’amore, è sensibile, accoglie il sacerdote per la benedizione e fa domande… Il sacerdote ha la missione di far sbocciare il bene presente in germe, di evidenziare talenti, di avere lo sguardo di Gesù.

4.

Gesù ha chiamato a sé quelli che ha voluto come apostoli e dirà che li chiama «a stare con lui» (cfr. Mc 3,14): ecco cosa chiede al sacerdote (non invita tanto a corsi di aggiornamento, perché l’insegnamento è Gesù stesso, la sua persona, non una teoria). Poi Gesù esprime, con cinque verbi, cosa deve fare l’apostolo; da notare che con solo uno di questi invita l’apostolo a fare attività mediante parola, mentre con gli altri quattro verbi indica attività di carità, di servizio, di prossimità: «Strada facendo – cioè nello svolgimento della vita – predicate, dicendo che il Regno di Dio sta per venire (unico verbo che indica attività mediante parola), guarite gli infermi, risuscitate i morti, purificate i lebbrosi, scacciate i demoni». Non commento questi verbi, ma sottolineo che, per Gesù, i “demoni” sono anzitutto le immagini sbagliate di Dio. Ci sono persone che girano alla larga da Dio perché hanno paura, perché gli è stata trasmessa un’immagine contraffatta di Dio. Dio è ben diverso dai loro “fantasmi”; il Dio di Gesù è pieno d’amore, è lui che crea relazioni in cui non avanzi per i tuoi meriti e le tue performance. I prediletti di Dio sono le persone più fragili. Il cristiano deve fare esorcismi perché deve liberare l’immagine bella di Dio che è nel profondo del cuore di ciascuno: Dio è amore!

Omelia nella Solennità del Corpus Domini

San Marino Città (RSM), Basilica del Santo Marino, 8 giugno 2023

1.
«I bambini domandavano il pane, ma non vi era chi lo spezzasse loro» (Lam 4,4). Gesù avrà pensato a questo grido del libro delle Lamentazioni quando si è trovato di fronte alla grande folla che lo aveva seguito affascinata dalla sua persona e dalle sue parole. Allora compie il segno della moltiplicazione dei pani e dei pesci. Giovanni, l’evangelista, volutamente non lo chiama miracolo, ma segno; nel segno c’è della compassione, ma soprattutto c’è la sua autorivelazione: «Ecco chi sono io!». «Io sono il pane della vita, non come quello che mangiarono i vostri padri e morirono» (cfr. Gv 6,48).
Gesù è la risposta alla promessa – valida oggi come allora – del profeta: «Ecco, verranno giorni – dice il Signore – in cui manderò la fame nel paese, non fame di pane, né sete di acqua, ma d’ascoltare la parola del Signore. In quel giorno appassiranno le belle fanciulle e i giovani per la sete» (Am 8,11.13).
Quel giorno, sulle colline attorno a Cafarnao, si manifesta colui che sazia la fame e la sete esistenziale. Ma quella gente si ferma al dono, all’ammirazione per il miracolo – non si è mai sazi di miracoli! – e non va al Donatore. Se lo cerca, è per avere ancora di quei pani.
Evidentemente c’è un equivoco!
Sappiamo dal racconto evangelico che Gesù si sottrarrà a questa strumentalizzazione: «Voi mi cercate non perché avete visto dei segni, ma perché avete mangiato di quei pani e vi siete saziati» (Gv 6,26).

2.
Gesù riprende il discorso nella sinagoga di Cafarnao. Un discorso che sconcerta nemici ed amici. Un tratto di quel discorso l’abbiamo udito poco fa: «Mangiate la mia carne, bevete il mio sangue». Frase ripetuta almeno sette volte, accompagnata da una motivazione sempre più chiara, sempre più incalzante: «Per vivere, semplicemente per vivere, per vivere davvero»; la vita è il perno di tutta la spirale argomentativa di Gesù.
Gesù è consapevole di possedere qualcosa che può cambiare la direzione dell’esistenza; noi, talvolta, la sentiamo in discesa, verso il basso, verso il meno, verso il vuoto e la disperazione. Gesù non ci sta! Capovolge questo piano inclinato: «Mangia la mia carne, bevi il mio sangue per avere la vita». Qui sta la genialità del cristianesimo: «Dio viene dentro le sue creature come lievito dentro il pane, come pane dentro al corpo, come corpo dentro l’abbraccio» (E. Ronchi). Viene per dare speranza e senso, per dare capacità di amare, per dare una socialità aperta e nuova.
Gesù ci affida il compito di entrare nella sua ora: l’Eucaristia ci attira nell’atto oblativo di Gesù. Noi non riceviamo soltanto in modo statico il Verbo incarnato, ma veniamo coinvolti nella dinamica della sua donazione. Ci attira dentro sé! «L’ammirabile conversione del pane e del vino nel suo Corpo e nel suo Sangue pone dentro la creazione il principio di un cambiamento radicale (…) nel più intimo dell’essere, un cambiamento destinato a suscitare un processo di trasformazione della realtà» (Benedetto XVI, Sacramentum caritatis, 11).

3.
Oggi festeggiamo il Corpus Domini: una festa di luci, di ostensori raggianti, di tabernacoli aperti, di petali di rose che i più piccoli gettano al passaggio dell’Ostia consacrata. Ma centro e motivo della festa è il donarsi del Signore in quel pane spezzato in cui ha scelto di abitare: mistero della fede! Presenza, azione e donazione di Cristo.
C’è di più: festeggiamo il fatto che possiamo e dobbiamo mangiare questo pane se vogliamo vivere. Notate il verbo semplice, concreto, realistico: letteralmente masticare e quindi assimilare, assorbire, metabolizzare. Sorprendente e affascinante il dono che Gesù fa di sé quando prende il pane, lo benedice, lo spezza e lo dà… Ma ancora più grande il fatto che mangiamo quel Pane e lui viene in noi e noi diventiamo lui: oggi è la solennità del Pane preso e del Pane mangiato.

4.
Nel Pane preso e mangiato c’è un duplice frutto: il primo la comunione-dono con Cristo, il secondo, la comunità tra quanti si nutrono di lui. La Chiesa fa l’Eucaristia, ma è più fondamentale che l’Eucaristia fa la Chiesa e le permette di essere la sua missione, prima ancora di compierla. Questo è il mistero della comunione: ricevere Gesù perché ci trasformi da dentro e ricevere Gesù perché faccia di noi l’unità e non la divisione. Il primo effetto, diciamo, è mistico o spirituale. Il secondo effetto è quello comunitario: «Poiché vi è un solo pane – ci ricordava san Paolo nella Seconda Lettura – noi siamo, benché molti, un solo corpo» (1Cor 10,17). Si tratta della comunione reciproca di quanti partecipano all’Eucaristia. Siamo comunità, tutti nutriti dal Corpo e dal Sangue di Cristo. Non si partecipa all’Eucaristia senza impegnarsi in una fraternità vicendevole e sincera.

5.
È necessario, cari sammarinesi, che ci interroghiamo sulla qualità delle nostre relazioni sociali, sulle nostre responsabilità educative, sull’accoglienza della vita nascente e anche nei momenti della sua fragilità. Torno a ricordare che altro è ciò che è riconosciuto legale e altro ciò che è veramente morale. Abbiamo perso un’occasione per affermare la nostra originalità, la nostra significatività tra le nazioni. Dio non voglia abbiano prevalso condizionamenti esterni. Noi non possiamo pensarci fuori dall’Italia, fuori dall’Europa, ma partecipi essendo noi stessi, con la nostra originalità.
È importante per i fedeli una ripresa della partecipazione alla Messa domenicale.
È indispensabile per noi sacerdoti fare della celebrazione eucaristica il centro della nostra vita; non possiamo celebrare la Messa secondo i nostri gusti e il nostro individuale criterio, semmai è la liturgia a normare noi. Papa Francesco, con serenità e chiarezza, «ci guida alla comprensione dello sviluppo e dei cambiamenti liturgici dal post Concilio fino ad oggi, alla ricerca della comunione e dell’unità nella Chiesa. I libri liturgici promulgati dai santi Pontefici Paolo VI e Giovanni Paolo II in conformità ai decreti del Vaticano II sono l’unica espressione della lex orandi del Rito Romano» (DD 31).
Ai sammarinesi, ai fedeli, a noi sacerdoti la perseveranza nella preghiera perché il Signore doni degni ministri dell’Altare e a tutti uno stile di vita eucaristico. Così sia.

Omelia nella Solennità della SS. Trinità

Carpegna (PU), chiesa di San Nicolò, 4 giugno 2023

Sante Cresime

Es 34,4-6.8-9
Dn 3,52-56
2Cor 13,11-13
Gv 3,16-18

La pagina evangelica proclamata oggi conta solo due versetti. In questi due versetti mi soffermerò su tre parole. La prima è la parola “mondo”: ricorre ben quattro volte (è il perno del ragionamento dell’evangelista Giovanni). La seconda parola è il verbo “donare”: «Dio ha tanto amato il mondo da donare il Figlio». La terza parola è il verbo “salvare”.

Mentre facevo meditazione ho pensato all’universo nella sua immensità, nelle sue dinamiche, nelle molteplici forme che lo percorrono e lo abitano: viene da smarrirsi! di fronte alla sua infinità viene da smarrirsi. Giacomo Leopardi, nella poesia “L’infinito”, canta degli «interminabili spazi e sovrumani silenzi» e poi conclude: «Tra questa immensità s’annega il pensier mio e il naufragar m’è dolce in questo mare». L’universo è amato da Dio.
Nell’universo c’è un piccolo pianeta azzurro che è la terra (forse non è l’unico pianeta abitato). Il Signore ama questo mondo che, a volte, a noi non piace. Il mondo è come una foresta piena di sorprese, fa paura, mette ansia. «Dio ha tanto amato il mondo…». Nel mondo ha amato la terra, nella terra ha amato gli esseri umani. In che modo li ha amati? Li ha amati facendosi Lui uomo come loro. Gesù è il Verbo di Dio. Dio non dona “qualcosa”, perché in Dio «tutto è Lui». In Gesù si è dato all’uomo: Lui è la pienezza dell’essere.
Dio da sempre ha voluto l’uomo e l’ha creato capace di amare, di rispondere al suo amore. Rubo un’espressione a sant’Agostino: «Dio ci ha amato per amarci». Significa che Dio ama per veder accendere l’amore nella creatura che ama. Donando se stesso fa in modo che, liberamente e consapevolmente, l’uomo ami a sua volta. Se la creatura corrisponde all’amore, Dio può amarla ancora di più; se l’uomo si lascia prendere nel gioco di amore, Dio lo amerà infinitamente di più, come in una spirale infinita. Tutto in una reciprocità che ci sorprende e ci affascina. «Dio ha tanto amato il mondo», anche il mondo che a noi non piace, anche quello che a noi non piace di noi stessi!

La seconda parola è “donare”. «Dio ha tanto amato il mondo… da donare il suo Figlio». Il “tu” di Dio, il Verbo, si è fatto uomo, Gesù di Nazaret venuto in mezzo a noi. Dio l’ha donato a noi. La relazione più intima, più cara, più preziosa la partecipa a noi. Il dono di Dio è irrevocabile: è per sempre! È un dono totale: si dà tutto! È un dono gratuito: lo si accoglie stupefatti! È mistero, mistero grande. Ed è realtà, realtà che noi viviamo, che noi godiamo, che noi vediamo già grazie agli occhi luminosi e illuminanti della fede (cfr. Ef 1,18), grazie all’intelligenza che ci viene dall’amore, per cui crediamo e conosciamo (cfr. 1Gv 4,16) «finché egli, il Signore, ritorni» (1Cor 11,26).

La terza parola è “salvare”. Salvare non è semplicemente estrarre dalla melma o impedire la caduta nell’inferno. Salvare vuol dire custodire per sempre, conservare, mantenere; è un po’ come quando il computer ti chiede: «Vuoi salvare?». Quando si salva, quel file rimane, non va perduto, non cade nell’oblio.
«Dio ha tanto amato il mondo, ha tanto amato ciascuno di noi, per salvare, perché non vada perduto nulla». Ci vuole la fede: attorno a noi, vediamo realtà caduche e dimenticanze; vediamo la morte. L’annuncio della fede è questo: «Dio ha tanto amato il mondo da mandare il Figlio per salvare»: come? Assumendo tutto in sè.
Se scriviamo una serie di note su un cartellone restano mute, ma, se tracciamo il rigo musicale, quelle note segnate una dopo l’altra formano una melodia. La fede ci svela la melodia di questo mondo e la vocazione di questo mondo. Lodiamo il Signore, diciamo grazie. Vogliamo entrare in questo gioco d’amore: Dio è Trinità d’amore e da sempre ci ha pensati partecipi della sua vita.
C’è un momento della Messa che ogni volta mi emoziona: è quando alzo il calice con il vino e il piatto con il pane e pronuncio parole che sembrano uno scioglilingua: «Per Cristo, con Cristo, in Cristo, a te Dio Padre la lode». In quelle parole è racchiusa la nostra destinazione: essere proiettati nel seno del Padre. Figli nel Figlio ci avvolge una forza ascensionale: lo Spirito Santo. «Per Cristo, con Cristo, in Cristo, a te Dio Padre la lode nello Spirito Santo».

Cari ragazzi, tra poco riceverete il sacramento della Cresima. Verrete davanti all’altare e risponderete ad alcune domande. In questi anni vi siete preparati per rispondere in modo più consapevole. Poi stenderò le mani per invocare la discesa dello Spirito Santo su di voi e sulla comunità. Attraverso di me è Gesù che vi guarda negli occhi, vi vuole bene e vi dona il suo Spirito. Lo Spirito è raffigurato da un profumo, il crisma, con cui vi ungerò la fronte dicendo: «Ricevi il sigillo dello Spirito Santo». E voi risponderete: «Amen». Vi darò un piccolo schiaffo per incoraggiarvi: «Hai ricevuto lo Spirito, adesso devi essere un cristiano coraggioso».
L’olio profumato svanirà subito, ma il segno spirituale della Cresima si imprimerà in voi, rimarrà per sempre, molto più di un tatuaggio: rimarrà per l’eternità: appartenete al Signore.

Omelia nella VI domenica di Pasqua

Romagnano (RN), 14 maggio 2023

Cresime a Romagnano

At 8,5-8.14-17
Sal 65
1Pt 3,15-18
Gv 14,15-21

Una premessa. Ci troviamo nel Cenacolo. È l’ora nella quale Gesù annuncia che sta per lasciare i discepoli. I discepoli rimangono sbalorditi. Scende un velo di tristezza su tutti. Uno degli apostoli – l’abbiamo letto domenica scorsa –chiede a Gesù: «Dove vai? Come si fa a venire con te?» (cfr. Gv 14,5).
Nel Cenacolo è avvenuta l’Ultima Cena, la lavanda dei piedi, l’annuncio del “comandamento nuovo” («amatevi gli uni gli altri come io vi ho amato»), l’istituzione dell’Eucaristia e la promessa della discesa dello Spirito Santo. Poi, nel Cenacolo, cinquanta giorni dopo la Pasqua, l’effusione dello Spirito Santo. Con la forza dello Spirito gli apostoli si lanciano sulla piazza e gridano a tutti: «Gesù è vivo!». La morte è stata vinta. Gesù aveva detto: «Vado a prepararvi un posto. Quando sarò andato e vi avrò preparato un posto, verrò di nuovo e vi prenderò con me, perché dove sono io siate anche voi e là dove sono io voi vivrete per sempre» (cfr. Gv 14,2-4). Questa è la nostra fede.
La settimana scorsa ho celebrato il funerale di una giovane mamma. Eravamo tutti sconvolti. Lascio immaginare il dolore dello sposo, dei genitori, della figlia e degli amici. È scesa questa Parola di Gesù e abbiamo pregato: «Gesù, crediamo in te, ci fidiamo di te. Tante volte nel Vangelo hai detto parole che, vissute, sperimentiamo vere. Allora perché non dovremmo credere a questa che è la più importante: «Vi prenderò con me?».

All’inizio del Vangelo di oggi ci sono tre parole: amore, comandamento, Spirito Santo. Sembrano estranee l’una all’altra, eppure formano una sorta di costellazione.

Amore. Che cos’è l’amore? È un sentimento, che va e viene? È anche un sentimento, ma soprattutto è una decisione. Ad esempio, un fidanzato può dire alla fidanzata: «Ho trovato in te qualcosa di speciale, di unico, per cui decido di vivere per te e ti chiedo di vivere per me». Poi, nell’amore c’è senz’altro una evoluzione. Proprio perché una decisione, ogni volta che decidi di amare, decidi di scegliere: ogni volta che si ama, si sceglie di nuovo. Io sono un sacerdote, ho scelto di essere di Gesù. Lui mi ha sposato, è la pienezza della mia vita. Ogni giorno lo riscelgo, prendo la decisione di essergli sposo e ogni scelta è anche una Pasqua. La parola “Pasqua” in ebraico significa “passaggio”. Quando amo faccio spazio in me per accogliere l’altro, perché sia a casa sua in casa mia. Questo vale in tutte le relazioni, nell’amicizia, fra colleghi di lavoro… Il fare il vuoto perché l’altro si doni a me è un passaggio, c’è una Pasqua: c’è una morte e una risurrezione.

Comandamento. Cosa c’entra un comandamento con l’amore? Come fa Gesù, la sera in cui c’è tanta tristezza nel gruppo dei discepoli, a parlare di comandamenti? Eppure, senza comandamento non c’è amore, perché l’amore, per sua natura, chiede fedeltà. Allora si impone a se stesso, in virtù della decisione di amare, anche un “comandamento”. Il comandamento aiuta il cuore ad amare. C’è una circolarità fra l’interiorità e l’esteriorità. Si dice: «L’importante è il cuore, non sono tanto i gesti o le parole o i regali…». È vero, il cuore è il centro degli affetti, ma è pur vero che dobbiamo educare il cuore. Noi collochiamo i comandamenti nell’ambito della morale (i “dieci comandamenti”). Non sarebbe così. Gesù sapeva che i comandamenti rinviavano il pio israelita all’esperienza pasquale del passaggio attraverso il mar Rosso verso la libertà. Quando gli ebrei sentivano la parola “comandamento”, non pensavano anzitutto al dovere, ma all’evento della loro liberazione: «Io sono stato salvato da Dio; eravamo una tribù schiava d’Egitto e il Signore ci ha liberati, siamo un popolo libero e anche noi abbiamo avuto il dono di una legge, non più la legge del Faraone o di Nabucodonosor o di Hammurabi, ma la nostra legge». Quando un pio israelita osservava i comandamenti poteva dire: «Signore, credo che tu mi ami, che sei il mio liberatore, il mio Salvatore, sei il mio Tutto». Gli ebrei praticavano 613 precetti legati ai comandamenti, perché ogni momento della vita fosse sotto lo splendore della liberazione e dell’amore del Signore. Prima di pranzare, prima di dormire, prima di andare al mercato, prima di studiare, c’erano piccole osservanze che rinviavano all’amore di Dio.

Spirito Santo. Gesù lo chiama Paraclito, che significa Consolatore ed Avvocato. Lo Spirito Santo è Consolatore. «Non dire che sei solo, non lasciarti prendere dalla paura», dice Gesù. Puoi contare sullo Spirito, che viene dentro di te e sarà sempre con te. Lo Spirito Santo è Avvocato. Immagina di essere dentro ad un processo; c’è uno spirito cattivo, Satana, che parla contro di te, che ti suggerisce il pensiero che sei solo, che il Padre è lontano. Questi pensieri sono all’origine di ogni peccato. Lo Spirito, che è Avvocato, parla bene di te, parla in tuo favore.
Concludo con un’esperienza che ho vissuto alcuni anni fa. Sono stato convocato a Verona a fare da testimone in un processo. Appena entrato nell’aula del tribunale ho notato subito la scritta: «La legge è uguale per tutti». La mia causa veniva rinviata continuamente, perché non era ancora arrivato un altro testimone, così ho avuto modo di seguire vari processi. Ad un certo punto è entrato un giovane, con le manette ai polsi, accompagnato da due carabinieri. Vicino a lui si è seduto l’avvocato difensore. Dall’altra parte c’era il Pubblico ministero, l’accusa, e poi la corte che ascoltava. C’è stato il dibattito. La giudice si è ritirata con gli avvocati per formulare la sentenza. Finalmente, dopo trenta minuti, la corte è rientrata ed è stato proclamato il verdetto: «In nome della Repubblica, con i poteri conferitimi… dichiaro che il signor… è assolto per non aver commesso il fatto». Il giovane ha abbracciato l’avvocato difensore, il “paraclito”, e in fondo alla sala si è sentito un timido applauso (forse si trattava della sua mamma). Si è alzato in piedi e ha porto i polsi ai carabinieri, come per riprendere le manette per essere condotto fuori. Gli hanno risposto: «No, adesso sei libero!». Quando penso allo Spirito Santo mi sovviene questa esperienza: lo Spirito Santo è l’Avvocato difensore, che parla bene di noi. Allora portiamolo con noi, come amico, anche nei momenti della prova, del dubbio, quando ci chiediamo: «Faccio bene a parlare o è meglio stare zitti? Faccio bene ad andare o è meglio restare?». Sant’Agostino è arrivato a dire: «Ama e fa’ ciò che vuoi».

Omelia nella Festa del Lavoro

Gualdicciolo (RSM), 1° maggio 2023

Gen 1,26-2,3
Sal 89
Mt 13,54-58

Oggi festeggiamo san Giuseppe Lavoratore. Ci piace pensare che l’aureola che lo avvolge incoroni il lavoro e i lavoratori. Tutti i lavori e tutti i lavoratori.
Festa del Lavoro. Sappiamo come è nata questa ricorrenza: da grandi sofferenze e da grandi tensioni agli inizi dell’industrializzazione (il 1 maggio come festa dei lavoratori è nato negli USA nel 1887: commemorazione delle vittime dei sanguinosi scontri di Chicago; in Italia è entrato ufficialmente tra le festività civili nel 1946; la festa è stata ripresa anche dalla Chiesa nel 1955; fu Pio XII che istituì il 1 maggio la memoria di san Giuseppe Lavoratore, perché tale data potesse essere condivisa a pieno titolo dai lavoratori cattolici). La Chiesa ha visto nella questione operaia un segno dei tempi (un kairòs, un tempo di grazia) ed ha avviato un dialogo importante per lei e per ogni lavoratore, suggellato da una lettera enciclica, la Rerum novarum di Leone XIII (quest’anno, proprio in questi giorni, si ricorda il 60° di un’altra enciclica, di respiro universale, scritta da san Giovanni XXIII, la Pacem in terris, indirizzata ai cattolici, ma anche a tutti gli uomini di buona volontà).

La Chiesa ha ripreso a sfogliare il “Vangelo del lavoro”, segnato dal peccato ma redento dal Signore, il “figlio del carpentiere”: così chiamavano Gesù (cfr. Mt 13,55; Mc 6,3; Lc 4,22; Gv 6,42).
Oggi si fa festa al lavoro, che in questi giorni apprezziamo ancor più. Il lavoro, benché costi fatica e sudore, ancorché debba misurarsi con la resistenza che gli fa la natura, nonostante l’attrito della materia che non si lascia piegare facilmente, è per l’uomo possibilità di trasformazione del mondo, di modificazione della realtà, di esplorazione in ogni campo. Con l’onesto lavoro l’uomo produce quello che serve alla sua vita, traffica i talenti che ha ricevuto, trasmette cultura, prolunga le possibilità della comunicazione. «Dio disse – così le parole della Genesi – facciamo l’uomo a nostra immagine, secondo la nostra somiglianza: domini sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo, sul bestiame, su tutti gli animali selvatici e su tutti i rettili che strisciano sulla faccia della terra» (Gn 1,26).
La Genesi prosegue raccontando come il Creatore affidi all’uomo il giardino: «Riempite la terra, soggiogatela…».
Sì, proprio nel lavoro, nell’iniziativa, nell’impresa l’uomo esprime uno dei profili che lo rendono “a somiglianza di Dio”, gran lavoratore: Dio è sempre all’opera! Come non festeggiare il lavoro? Come non metterne in evidenza, oltre alla necessità e utilità, la bellezza? Perfino i bambini, quando giocano, fanno mestieri. Conosco bambini camionisti straordinari e… bambini che giocano a fare il prete! Conosco anche uomini e donne che lavorano con tanta passione: il loro lavoro sembra un gioco.

Il lavoro non è soltanto utile e necessario, ma anche bello, perché in esso si manifesta la vocazione dell’uomo creato “ad immagine di Dio”, somigliante a Dio. Ecco perché ogni uomo ha diritto al lavoro. Una delle piaghe più gravi della nostra società è la mancanza di lavoro. È calata la disoccupazione (secondo dati recenti), ma si tratta di un lavoro inclusivo e sicuro? La mancanza del lavoro offende la dignità della persona, perché smentisce la vocazione dell’uomo, creato ad immagine di Dio Creatore.
C’è una parola che in questo giorno mi sembra importante. Ci riguarda tutti. È da mettere in luce: è la parola solidarietà. A noi è più congeniale la parola carità: siamo fratelli, i nostri destini sono intrecciati. Io posso stare bene se anche tu stai bene: principio dell’economia sociale. L’economia liberista, in cui ognuno fa tutto per sé, scientificamente non è una buona economia. Un’economia buona è quella che fa crescere gli altri e, di conseguenza, la propria impresa. C’è interdipendenza nei nostri destini.

Festa del Lavoro, ma anche giornata di intensa preghiera. L’intensità della preghiera è segno di responsabilità, solidarietà e partecipazione. Pregare per dare un senso umano-divino al lavoro, per dare un’anima alla fatica di ogni giorno, perché sia assicurato e tutelato il lavoro di tutti. «Rendi salda, Signore, l’opera delle nostre mani»: così abbiamo cantato nel Salmo e così continuiamo a fare!

Consentitemi un ultimo passaggio. Ciò che Iddio Creatore manifesta fin dal principio, e cioè la connessione persona-lavoro, viene messo in risalto in modo unico da Gesù Cristo, come dimostra la pagina evangelica appena letta: Gesù, il Figlio di Dio, ha lavorato. Il lavoro non è disdicevole. Gesù appartiene al mondo del lavoro, del lavoro artigiano, come Giuseppe, suo padre putativo. Questa testimonianza resa da Gesù al lavoro trova conferma particolare nell’insegnamento e nella pratica di uno dei più grandi apostoli, san Paolo, che si faceva un vanto del suo lavoro e grazie ad esso poteva svolgere liberamente il ministero (cfr. 2Ts 3,8).
Vorremmo che questo 1° maggio parlasse davvero a tutti e dicesse la verità. Una Festa del Lavoro è davvero tale solo se si accresce il grado di dignità delle persone, se si accompagna con strumenti solidali chi non ce la fa, se non ci si arrende ad un’occupazione povera e precaria. Ecco cosa vorremmo sentirci dire domani; ecco cosa speriamo davvero per il 1° maggio; ecco perché continuiamo ostinatamente a festeggiarlo.
Concludo con la preghiera a san Giuseppe: «Salve, custode del Redentore, sposo della Vergine Maria. A te Dio affidò il suo figlio. In te Maria ripose la sua fiducia. Con te Cristo diventò uomo. O santo Giuseppe, mostrati padre anche per noi, e guidaci nel cammino della vita. Sostienici nella fatica del lavoro quotidiano. Ottienici grazia, misericordia e coraggio, e difendici da ogni male. Così sia».

Omelia nella Solennità del “Venerdì Bello”

Pennabilli (RN), Santuario della Madonna delle Grazie, 17 marzo 2023

Gen 37,3-4.12-13.17-28
Sal 104
Lc 1,26-38

Carissimi, la tradizione ci ha consegnato la memoria di un avvenimento straordinario: una lacrimazione dell’immagine della Santa Vergine, evento gelosamente custodito, trasmesso fedelmente da una generazione all’altra con lo stesso fervore, la stessa meraviglia e la stessa gratitudine. Un evento di lacrime, ma tramandatoci come bellezza, chiamato, da quel venerdì del 1489 (allora era il 20 marzo), il “Venerdì Bello”!
Non stupisce che la Madre del Signore sia venerata in tanti dei nostri borghi e delle nostre chiese come la Vergine Addolorata, testimonianza delle sofferenze di queste popolazioni, ma qui è la stabat mater lacrimosa, accanto al Figlio Gesù e accanto a questo popolo.
Il Cielo è vicino alle nostre vicende?
L’umanità risorta del Signore e l’umanità della Vergine Assunta sono umanità trasfigurate e gloriose, divina quella di Gesù, divinizzata quella della Madre, la prima della creazione ad entrare nella gloria, in corpo e anima, segno e anticipo della nostra vocazione alla santità e alla divinizzazione.
Sull’immagine della Santa Vergine, qui a Pennabilli, in questa chiesa, furono viste lacrime. Le lacrime sono punto d’incontro fra corpo e anima: esprimono sentimenti, accompagnano la preghiera, indicano un dolore esteriore ed interiore, fisico e spirituale; una distinzione – quest’ultima – improbabile, perché il dolore e le lacrime dicono l’unità della persona nella sua realtà psicofisica.
Quanta tristezza ci capita di scorgere sui volti che incontriamo, specialmente – mi rivolgo ai sacerdoti – in queste settimane di visita alle famiglie. Quante lacrime vengono versate ad ogni istante – in questo istante – nel mondo; una diversa dall’altra, e insieme formano come un oceano che invoca compassione e consolazione.
Le più amare sono quelle provocate dalla malvagità umana: le lacrime di chi si vede strappare violentemente una persona cara, di chi si sente abbandonato, fallito, incompreso. Questi sono giorni di lacrime: lo testimonia la cronaca; sofferenze costantemente presenti nei nostri cuori di pastori e nella nostra quotidiana preghiera: ci mettiamo nei panni degli altri: «Piangere con chi piange…» (cfr. Rom 12,15).
E che dire delle nostre lacrime? Ci sono lacrime che ci fanno onore. Il Messale e la Tradizione spirituale ci esortano a chiedere il dono delle lacrime, come segno della partecipazione del cuore alle sofferenze degli altri e alla Passione del Signore. Nei momenti di tristezza, di senso di inadeguatezza, nella malattia, nel lutto, nella critica che punge, nella persecuzione… Come scrive papa Francesco, «ognuno cerca una parola di consolazione, cerca paternità e fraternità; sente forte il bisogno che qualcuno gli stia vicino e provi compassione per lui, che possa realmente capire il suo dolore». Ci sono occhi che spesso rimangono fissi sul tramonto e stentano a vedere l’alba di un giorno nuovo» (Veglia di preghiera “per asciugare le lacrime”, 5 maggio 2016).
Le lacrime sono ben note nelle Sacre Scritture, un tema ricorrente nella storia della salvezza: c’è un’umanità che piange, un popolo in cerca di liberazione, cuori, volti, occhi bagnati di lacrime. Basta sfogliare il libro dei Salmi, il nostro libro di preghiera. «Torrenti di lacrime gli scendono dagli occhi» (Sal 119,136). «Irroro di lacrime il mio letto» (Sal 6,7). «Signore, non essere sordo alle mie lacrime» (Sal 39,16). L’orante insiste: «Le lacrime sono mio pane giorno e notte» (Sal 42,4). «Le mie lacrime nell’otre tuo raccogli» (Sal 56,9). Il profeta Geremia tante volte allude al pianto: «Occhi che grondano lacrime» (Ge 14,17). «Il mio occhio si scioglie in lacrime» (Ge 13,17). «I miei occhi sono consumati nelle lacrime» (Lam 2,11). «Nell’andare se ne va e piange» (Sal 126,6).
Ma il salmista sa che «chi semina nelle lacrime, mieterà con gioia» (Sal 126,6): è la promessa!
«Signore, hai liberato i miei occhi dalle lacrime» (Sal 116,8): questo è motivo di gratitudine.
Sì, il Signore «asciugherà le lacrime» (Is 25,8), «tergerà ogni lacrima dai loro occhi» (Ap 7,17;21,4).
Si potrebbero considerare le lacrime di diversi personaggi biblici colti nell’atteggiamento delle lacrime; sarebbe molto bello e incoraggiante.
Giuseppe, venduto dai fratelli, piange cinque volte: sembra essere il personaggio biblico più propenso alle lacrime. Tre volte piange di gioia per rapporti riallacciati, per una fraternità ritrovata… Piange così forte che lo sente tutto il palazzo del faraone. Versa lacrime di dolore – è la quarta volta – per la morte di Giacobbe, suo padre, ma c’è una quinta lacrimazione, la più pungente: è quando i fratelli, dopo la morte del padre, vanno dal vicerè (Giuseppe è il fratello che ha fatto carriera), si prostrano davanti a lui per chiedergli pietà. Giuseppe piange perché non credono alla sua misericordia, al suo cuore (cfr. Gn 15-21). Sono le lacrime più amare.
Faccio un salto nel Nuovo Testamento, ad una persona di cui non sappiamo neppure il nome: la donna silenziosa che, nel Vangelo di Luca, bagna di lacrime i piedi di Gesù e li asciuga con i capelli (cfr. Lc 7,38): lacrime che contengono il dolore per il suo peccato e la consolazione per il perdono.
Paolo di Tarso. Mi piace considerare le lacrime dell’Apostolo. Ritroviamo in lui le nostre. Esorta con lacrime, scrive lettere tra le lacrime (2Cor 2,3.4; 9,7.8.12). Sono lacrime di delusione.
Ma è soprattutto Gesù che vediamo in lacrime: per la morte dell’amico Lazzaro (cfr. Gv 11,35-36) e alla vista di Gerusalemme ingrata (cfr. Lc 19,41). Di lui, l’autore della Lettera agli Ebrei ricorda che, nei giorni della sua vita terrena, «offrì preghiere e suppliche con forti grida e lacrime» (Ebr 5,7).
Il nostro ministero, cari fratelli sacerdoti, è un ministero di consolazione, un quotidiano asciugare lacrime, un piangere con chi piange (cfr. Rom 12,15), quasi per far nostro l’invito di Gesù a non piangere su di lui ma sui nostri figli (cfr. Lc 23,28) fino a proclamare la beatitudine: «Beati voi che ora piangete, perché riderete» (Lc 6,21). Siamo annunciatori, spesso incompresi, della Risurrezione.
Spendo ora una parola sulle lacrime di Dio, tornando alla domanda iniziale: «Il Cielo è vicino alle nostre vicende? C’è sofferenza in Dio? C’è partecipazione al dolore umano?». La teologia ha sempre affermato l’impassibilità di Dio. Dio, assoluta perfezione, non conosce il limite, la privazione, lo scadere del tempo. Dio è lo splendore del vero, senza ombra alcuna. È l’assoluto. Dio è incorruttibile bellezza e armonia.
Come possono esserci lacrime nell’Essere supremo? Come anche solo immaginare una qualche forma di sofferenza in colui che è Eterna beatitudine?
I filosofi hanno considerato la sofferenza nel suo aspetto di limite, imperfezione, mancanza. In questo senso è, quanto meno, contraddittorio mettere insieme lacrime e perfezione divina. La prospettiva cambia completamente quando la sofferenza viene collocata nell’ambito dell’amore. Allora viene riscattata dalla sua negatività: più grande è l’amore, più comprensibile è il dolore.
Certo, Dio non è un uomo! Siamo ben lontani dalle rappresentazioni del paganesimo.
Per la fede cristiana, Dio si fa uomo, piange lacrime salate come le nostre, assume il limite, ama sino alla follia.
Che Dio conosca la sofferenza dell’uomo è ben chiaro già dalla vicenda vocazionale di Mosè, al quale è stato dato di sentire le parole di Dio misericordioso: ho visto la sofferenza del mio popolo, ho sentito il suo lamento… (cfr. Es 3,7-10).
Dunque, Dio vede, sente, partecipa e, soprattutto, ama. E in Gesù Cristo vuole provare come sta l’uomo sotto il peso della croce, come patisce l’uomo per l’amarezza dell’ingratitudine, come risuonano nel petto i battiti del cuore umano e quanto è abissale l’oscurità delle notti dell’anima.
Siamo qui per fare Eucaristia, per dire il nostro grazie, per rinnovare la nostra consacrazione alla Madonna delle Grazie, alla quale abbiamo tanto da chiedere, e per stringere i vincoli della fraternità sacerdotale e universale.

Omelia nella Solennità del Mercoledì delle Ceneri

Pennabilli (RN), 22 febbraio 2023

Gl 2,12-18
Sal 50
2Cor 5,20-6,2
Mt 6,1-6.16-18

Nell’ingresso in Quaresima Gesù ci invita alla preghiera, al digiuno e alla condivisione (preferisco il termine condivisione perché elemosina dà l’idea dello spicciolo che si dà ad un passante): tre atteggiamenti necessari che il Signore domanda esplicitamente per scuotere il nostro cuore e per sollevarci dalla nostra mediocrità.
C’è una condizione che torna come un ritornello: fare nel segreto. Il segreto è l’intimo del cuore, il luogo dove il Padre ha stabilito la sua dimora e dove noi possiamo incontrarlo. Nel segreto cadono le maschere, siamo finalmente noi stessi, nella verità del nostro essere. Il segreto, poi, è la garanzia della gratuità di quello che facciamo, del nostro fare sul serio. Dunque, non ci sarà nessun vantaggio, nessun guadagno per l’immagine che gli altri possono essersi fatti di noi: siamo quello che siamo, non importano i complimenti e neppure il vestito, il copricapo… L’essere nel segreto non esclude l’essere in comunione con gli altri. È qui che il Padre ci attende per consegnarci ai nostri fratelli.
Dei tre atteggiamenti necessari – preghiera, digiuno e condivisione – questa sera preferisco dire una parola sul digiuno: «Quando digiunate non assumete un’aria melanconica come gli ipocriti». Nel Salmo 50 c’è una frase che ha molta pertinenza con la Quaresima: «Rendimi la gioia di essere salvato» (cfr. Sal 50,14). Per questo la Quaresima non è un tempo triste!
Il digiuno fa bene al nostro corpo, al nostro spirito e al nostro rapporto con il Signore. La pratica del digiuno si trova in tutte le tradizioni religiose (ad esempio nel ramadan dei musulmani, nella regola dei monaci buddisti, nella prassi dell’ebraismo in occasione di diverse feste, tra i cristiani in Quaresima e non solo…) e si ritrovano diversi esempi nell’Antico e nel Nuovo Testamento: ad esempio quando Neemia, dopo il rientro dalla cattività babilonese, convoca tutto il popolo e proclama un giorno di grande digiuno, oppure quando la principessa Ester invita i giudei a digiunare insieme ai suoi servi o quando san Paolo prega per gli anziani inviati alle nuove comunità che sono state fondate. Nell’antichità il cibo scarseggiava, tuttavia si digiunava. Invece oggi il digiuno non trova una grande accoglienza; è una pratica desueta, perché sinonimo di mortificazione e di austerità. I parroci più fervorosi invitano tutt’al più ad altre forme di moderazione, indicano altre forme di penitenza (es. la rinuncia alla tv). Allora perché digiunare?

  1. Il credente digiunando coinvolge l’intero suo corpo. È un modo concreto di spendersi: la nostra fede non è disincarnata. Quando Gesù ci chiede di camminare con lui chiede di investire non soltanto l’anima, ma anche la nostra corporeità: muovere dei passi con lui, mettere in azione dei muscoli… Non si può avere una visione soltanto intellettualistica della fede. Possiamo dire che il digiuno è la più incarnata delle preghiere.
  2. Digiunare è un mezzo per partecipare a quello che vivono tanti poveri che sono nel mondo. I poveri mancano del minimo per vivere, mentre noi – nonostante anche qui ci siano difficoltà – facciamo parte della società del benessere. Fare una rinuncia, fare un digiuno è un piccolo passo verso gli altri che sono in difficoltà.

Attenzione, non si deve fare il digiuno quasi come una forma di scambio con il Signore: «Io digiuno e tu fai quello che io ti chiedo». Non si compra Dio! Non è detto che perché digiuni Dio manderà magicamente un pasto caldo a quella famiglia che tribola nell’inverno dell’Ucraina. Se digiuno è per pensare a Dio, per essere unito ai poveri, allora il digiuno è una preghiera.

  1. Il digiuno ci segna profondamente. Non mangiare lascia un vuoto concreto, metafora di un vuoto più profondo che dobbiamo riconoscere dentro di noi, un bisogno da colmare: «Non di solo pane vive l’uomo». Digiunare è come aprire una porta, creare uno spazio di disponibilità. Quando si fa una bella cena, un bell’incontro conviviale, più del buon cibo e del buon vino si dice che si fa famiglia. Si può fare famiglia anche con il digiuno.

Ma che ne pensa del nostro digiuno chi ha fame? Che beneficio ricava dal nostro digiuno?
Daremmo volentieri metà del nostro pranzo per chi ha fame, ma non lo possiamo spedire a chi ne ha bisogno. Allora a cosa serve digiunare? Digiunare in due è ancora peggio…
In certi periodi in famiglia si raccoglieva l’equivalente della cena e lo si consegnava in chiesa. Mio papà diceva: «Ti do i soldi per una cena, ma io ceno!». Digiunare ci lega veramente con chi soffre. La sofferenza dell’altro non ci sarà mai completamente accessibile, non la sentiremo totalmente su di noi. Tuttavia, digiunare vuol dire stare un po’ accanto ed esprime la misura della nostra capacità di fraternità. Vedendoci incapaci di risolvere il problema proviamo dispiacere, ma ci fa bene, ci rende umili. Non abbiamo altra risorsa che questa. Il digiuno produce questo effetto: non ci sentiamo più la persona che dall’alto si china benevolmente per offrire qualcosa: diventiamo compartecipi. Non ci resta che pregare e sperare.
Se la pratica del digiuno ci avvicina a Dio è perché, in fondo, è un atto di fede. Anche quando non vediamo gli effetti. Noi credenti sappiamo che il nostro digiuno non è mai un ricatto, come certi digiuni esibiti: «Mi lascio morire di fame davanti a te, perché non ho altra arma umana per ottenere ciò che voglio». No, il nostro digiuno è un atto di fede.
Crediamo anche alla dimensione soprannaturale che ci lega, il Corpo Mistico: «Quando un membro soffre, tutto il corpo partecipa di questa sofferenza» (cfr. 1Cor 12,26-27).
Inoltre, il digiuno lo si pratica in vista di un cammino che vogliamo fare dietro a Gesù per rispondere alla sua chiamata, per essere in comunione.
Avevo aperto la riflessione dicendo: «Perché digiunare?». La concludo dicendo: «Per chi digiunare?». Il profeta Zaccaria, rimproverando il popolo, scriveva: «Quando avete fatto digiuni e lamenti lo facevate per me?» (cfr. Zac 7,5). Vorrei che questa sera tutti dicessero: «Signore, vogliamo fare digiuno per te, perché vogliamo sentire la fraternità come la senti tu!».

Omelia nella S.Messa esequiale per il signor Tonino Giorgetti

Valdragone (RSM), Santuario del Cuore Immacolato di Maria, 21 febbraio 2023

Sir 2,1-13
Sal 36
Mt 25,31-46

La Prima Lettura dal Libro del Siracide presenta il ritratto del saggio secondo l’Antico Testamento. Vengono evidenziate tre caratteristiche: il saggio è intraprendente, si fida del Signore, ascolta. Ma il giusto viene anche provato: «Sii paziente nelle vicende dolorose, perché l’oro si prova con il fuoco e gli uomini ben accetti nel crogiuolo del dolore». Il saggio, nella prova, si abbandona al Signore e non smette mai di coltivare l’amicizia con il Signore. Poi il brano si conclude così: «Si è mai sentito dire che un uomo così sia abbandonato da Dio?», domanda ripetuta tre volte.
Ora mi accingo a tuffarmi nel brano evangelico. Mi sembra che Tonino, questa sera, ci faccia un grande dono, dicendo a ciascuno di noi: «Non guardate me, guardate il Signore!».
Faccio notare, innanzitutto, che c’è uno stupefacente contrasto fra la grande scenografia del Giudizio finale e la semplicità delle domande che il Signore fa: «Avevo fame, mi hai dato da mangiare? Avevo sete, mi hai dato da bere?». Siamo di fronte all’esame più facile e più difficile che ci sia: facile perché, fin d’ora, ci viene dato l’elenco delle domande; difficile perché quell’esame costituisce la verifica sul nostro modo di pensare l’esistenza: lo svelamento della verità ultima del vivere, rivelazione di ciò che rimane quando non rimane più niente: l’amore.
Questa pagina di Vangelo risponde alla più seria delle domande: «Che cos’hai fatto di tuo fratello?». Il Signore elenca sei “opere”, ma poi sconfina: «Tutto ciò che avete fatto ad uno dei miei fratelli, l’avete fatto a me». Gesù Cristo stabilisce un legame così stretto tra sé e gli uomini da arrivare a identificarsi con loro: «L’avete fatto a me!».

Sottolineo tre passaggi.

  1. Dio ci appare come colui che tende la mano: «Avevo fame, avevo sete, ero malato, ero nudo…». È come se a Dio mancasse qualcosa. Questa rivelazione – un Dio che chiede, che tende la mano – capovolge ogni idea sul divino che talvolta abbiamo. C’è da innamorarsi di un Dio così, mendicante di pane e di casa, che non cerca venerazione per sé, ma per i suoi amati. Li vuole tutti saziati, dissetati, vestiti, guariti, visitati, liberati: queste le risposte alle sei domande dell’esame. Davanti a questo Dio c’è da incantarsi. Vogliamo accoglierlo ed entrare nel suo mondo insieme a Tonino.
  2. L’argomento del giudizio non è il male, ma il bene. La misura dell’uomo e del mondo non è il negativo, l’ombra, ma il positivo, la luce. La bilancia di Dio non è tarata sui peccati, ma sulla bontà; verità dell’uomo non sono le sue debolezze, ma la bellezza del cuore.
  3. «Alla sera della vita saremo giudicati solo sull’amore (san Giovanni della Croce), non su devozioni o riti, pur importanti, ma sul nostro farci carico del dolore dell’altro. Il Signore non guarderà a me staccato dal mio contesto, ma accoglierà nel suo sguardo la realtà che ho attorno, comprese le persone di cui mi sono preso cura.

«Se mi chiudo nel mio io, pur adorno di tutte le virtù, e non partecipo all’esistenza degli altri, se non sono sensibile e non mi impegno, posso anche essere privo di peccati, ma vivo in una situazione di peccato» (E. Ronchi).
In questa pagina di Vangelo il Signore non ci appare come un bonaccione che caccia dentro al suo Regno tutti con una pacca sulla spalla e non è neanche un professore sessantottino che promuove tutti con il sei politico. La scena del Giudizio finale ci fa capire che il Signore prende sul serio le nostre azioni. Per lui non siamo marionette tenute dai fili di un grande burattinaio, ma siamo figli responsabili, chiamati a far fruttare le qualità che ci ha dato, qualità con cui possiamo far crescere la sua famiglia, perché costruiamo il cantiere che è la comunità, espressione della comunione effusa dallo Spirito. Rinnoviamo tutti l’impegno di essere costruttori di comunità: messaggio che ci rilancia Tonino.

Omelia nella S.Messa per la Giornata del Malato

San Marino Città (RSM), chiesa dei Santi Pietro, Marino e Leone, 11 febbraio 2023

Is 53, 1-5.7-10
Sal 102
Lc 1, 39-56

La liturgia della Parola ci presenta, nella Prima Lettura, il cosiddetto “Carme del Servo Sofferente” e il Vangelo della Visitazione di Maria ad Elisabetta, con il cantico del Magnificat: ambedue i testi parlano di Gesù. Il Servo Sofferente che prende su di sé il peccato dell’umanità, che redime con la sua sofferenza e diventa luce per le genti è il medesimo che Giovanni Battista, dal grembo di Elisabetta, sua mamma, già riconosce e saluta danzando. La Visitazione di Maria, in fondo, è una visitazione del Signore: Maria è l’arca che lo porta. Ognuno di noi oggi è qui per consegnare alla Madre la sofferenza, il dolore, la sua lotta personale e quella di tanti altri, ma viene invitato, sommessamente, dalla liturgia ad uscire da sé, ad alzare lo sguardo, a contemplare il Signore. Succede a tutti di ripiegarsi su di sé, soprattutto quando si è sotto un peso che schiaccia. Ci si lamenta, non si trattengono le lacrime. Ci dobbiamo aiutare, in questo momento, almeno per un attimo, a volgere uno sguardo d’amore, di riconoscenza, di compassione a «colui che hanno trafitto» (cfr. Gv 19,37), Gesù.
Mi hanno raccontato che padre Pio da Pietrelcina, quando ha ricevuto le stigmate, piangeva non per sé, per il male che sentiva, ma per il pensiero di quanto Gesù aveva sofferto. Aiutiamoci a non piangere su noi stessi, almeno per un momento, ma sul Signore, e in particolare sul suo Corpo Mistico che è l’umanità: Lui è il capo, noi umani le membra, membra che soffrono (ricordiamo le vittime e i sopravvissuti al terremoto… Ma di terremoti ce ne sono di tutti i tipi).

Chi è, dunque, il servo misterioso di cui parla il profeta Isaia? Alcuni ritengono che il profeta parli di se stesso; qualcuno pensa sia un’allusione al popolo di Israele, sempre umiliato, percosso, esiliato; qualcun altro pensa sia figura di ogni uomo che si mantiene fedele al bene e alla libertà, a costo della sofferenza, a costo di pagare di persona (in questo momento storico un popolo intero, l’Ucraina, sta difendendo la sua indipendenza). Questo carme, superando i confini dello spazio e del tempo, preannuncia misteriosamente Gesù, il vero Servo del Signore, prediletto dal Padre, Salvatore del mondo attraverso l’offerta della propria vita, poi glorificato da Dio e divenuto luce degli uomini. Gli evangelisti, e poi la tradizione cristiana, hanno sempre dato questa interpretazione. In effetti sembra che questa pagina profetica sia in anteprima il racconto della Passione. Il servo svolge la sua missione con dolcezza e con fermezza di fronte alla sofferenza, agnello di Dio che prende su di sé il peccato del mondo e accetta la sofferenza ingiusta, l’accetta in silenzio, senza difendersi, senza chiedere la punizione dei nemici. Dopo la risurrezione la Chiesa ha continuato a rendere presente nel mondo il mistero salvifico di Gesù: «Dalle sue piaghe siamo stati risanati», «Dalla sua pienezza noi tutti abbiamo ricevuto…».
Il discorso qui si sposta un po’. Ogni cristiano può essere servo del Signore, può continuare a rendere presente ciò che Gesù ha già realizzato, perché, in forza del Battesimo, è unito a Cristo, è una cosa sola con Lui e, come Lui – se accetta – diventa membra della redenzione. Ogni dolore fisico, spirituale, morale, ogni fragilità possono essere offerti per amore.
C’è un ministero della sofferenza, prima o poi per tutti, che viene riconosciuto e consacrato da un sacramento specifico che è l’Unzione degli infermi.
Il cristiano prolunga il ministero del Servo sofferente facendosi carico anche, con la parola e con le opere, delle sofferenze dei fratelli. Dobbiamo allargare l’orizzonte e considerare come servi del Signore coloro che portano la croce che dal mondo viene messa sulle loro spalle. Penso alla fatica e all’impegno quotidiano di chi cerca la pace, la giustizia, di chi si spende per gli altri. Anche questa ministerialità viene riconosciuta e santificata dall’unzione-sacramento, quella della Cresima.
Dice papa Francesco parlando della globalizzazione dell’indifferenza: «Vivere indifferenti davanti al dolore non è una scelta possibile». «La malattia fa parte dell’esperienza umana»: prima o poi tutti passiamo attraverso questa strada. Ma essa può diventare disumana. È umana perché di tutti gli umani, ma è disumana «quando è vissuta nell’isolamento e nell’abbandono». Eppure, attraverso l’esperienza della fragilità e della malattia, possiamo imparare a camminare insieme con lo stile di Gesù.
Ho imparato molto da mio fratello missionario, padre Silvio: era paraplegico, è stato più di cinquant’anni su una sedia a rotelle. Quando era ora di partire per tornare in Africa – veniva a casa ogni tre anni – andava da solo. I nostri genitori erano preoccupati, ma lui li rassicurava dicendo che, quando arrivava all’aeroporto, vedendolo su una carrozzina andavano a gara per aiutarlo. Di fronte alla sofferenza gli altri tirano fuori il meglio: l’amore che hanno dentro. L’esperienza della fragilità e della malattia è disumana, soprattutto quando vissuta nell’abbandono e nella solitudine, ma può essere la molla per farci riscoprire la fraternità. Nel suo Messaggio per la XXXI Giornata Mondiale del Malato il Papa ci ha affidato l’icona del buon samaritano. Sottolineo un particolare: il buon samaritano, all’inizio del brano, fa esercizio di fraternità e di cura a tu per tu, ma poi la cura si allarga ad una cura organizzata. C’è il pericolo che un certo tipo di pensiero di cultura e di filosofia, non faccia riferimento a criteri sicuri per la scelta dei valori più importanti nella pratica sanitaria e nella politica sanitaria. Che cos’è assolutamente dovuto alla persona malata? Il rischio è di rispondere: «Ciò che i bilanci preventivi consentono». Questa risposta ha una parte di verità, ma, se diventa l’unica, insidia la cultura del primato della persona. Oggi è più che mai necessario un supplemento di sapienza, di saggezza, che sappia vedere chiaramente qual è il bene intangibile della persona e individuare quanto ne debba essere assicurato. Impariamo dal Signore ad essere una comunità che cammina insieme, capace di non lasciarsi contagiare dalla cultura dello scarto.
Mi metto, ora, davanti al Vangelo della Visitazione: Maria si mette in viaggio verso la montagna, raggiunge in fretta la casa di Elisabetta, che è anziana e gravida al sesto mese. La visita di Maria alla grande casa che è la Chiesa e alle nostre case è attualità, come lo è stato a Lourdes per prendersi cura di noi peccatori, «adesso e nell’ora della nostra morte». Così sia.