Omelia nella IV domenica del Tempo Ordinario

Monte Grimano Terme, 3 febbraio 2019

S.Messa di chiusura della Visita Pastorale

Ger 1,4-5.17-19
Sal 70
1Cor 12,31-13,13
Lc 4,21-30

(da registrazione)

Alla fine della Visita Pastorale il Vescovo lascia un messaggio, una frase breve, incisiva, facile da memorizzare. La consegna che faccio alla comunità di Monte Grimano è la seguente: vi auguro di stupirvi del Vangelo.
A volte il Vangelo consola e incoraggia, ma occorre saperlo apprezzare anche quando è inatteso, duro, nuovo quando suscita meraviglia com’è accaduto a Nazaret, allorché Gesù, per la prima volta, prese la parola in sinagoga. Nazaret era un borgo più piccolo di Monte Grimano. Ogni sabato la popolazione si riuniva per l’ascolto della Parola di Dio e la preghiera.
Domenica scorsa abbiamo letto la pericope evangelica in cui Gesù viene invitato a leggere i testi sacri, scritti su rotoli. Capitò a Gesù la profezia del libro di Isaia che riguardava lui stesso. Gesù la lesse: «Lo Spirito del Signore è sopra di me e mi ha mandato per annunciare ai poveri un lieto messaggio, a fasciare le piaghe dei cuori spezzati, a proclamare la libertà degli schiavi e la scarcerazione dei prigionieri e a promulgare l’anno di misericordia del Signore per tutti (anche per quelli che non frequentavano la sinagoga, anche per gli stranieri, anche per gli odiati romani)» (cfr. Is 61,1-2). Gesù ha proclamato che la salvezza di Dio è per tutti e che lui è il Messia di questa salvezza.
Perché i nazaretani si sono stupiti? Magari anche noi provassimo stupore o “inciampo” (scandalo) quando ascoltiamo il Vangelo, come a dire che non è una parola scontata, abituale. Perché ai nazaretani fa problema l’insegnamento di Gesù?  I motivi possono essere due.
Gesù parla di Dio in un modo assolutamente nuovo, un Dio che si china sull’uomo ferito, prigioniero del male, lontano. Un esempio è la parabola del figliuol prodigo. In essa c’è un figlio che scappa di casa e se la spassa finché ha denaro, giocandosi tutto. Quando si ritrova in miseria comincia a riconsiderare l’idea di tornare a casa dal padre. Ritorna. La prima reazione dei “benpensanti” è di respingere quel figlio, invece il padre gli corre incontro, lo abbraccia e organizza per lui una festa. Gli usa misericordia incondizionatamente. Il padre sa che chi si sente amato dà il meglio.
Un altro brano evangelico che suscita stupore è quello degli operai che vanno a lavorare nella vigna ad ore successive. Non sembra giusto che gli operai dell’ultima ora guadagnino come quelli della prima ora…  Umanamente parlando non è giusto. Tutto il Vangelo è pieno di questo messaggio “nuovo”, rivoluzionario. Per questo suscita domande e inquietudine. Vi auguro che la Parola vi generi stupore. Dio ama senza misura, incondizionatamente. Non mercanteggia: è misericordia, è amore, è gratuità.
Una volta una signora mi ha contestato dopo aver ascoltato queste parole sul perdono del Signore: «È troppo comodo pensare di essere sempre perdonati!». «Non è così – le dissi –, quando ci si sente guardati dagli occhi di Gesù viene voglia di impegnarsi e di fare di tutto e di più».
Il secondo motivo per cui i nazaretani non accolgono il loro compaesano Gesù, il figlio di Giuseppe, il falegname, e di Maria, è che il profeta, il Messia, era uno di loro, uno del paese. Possibile!?! Da Cafarnao era giunta voce avesse fatto molti miracoli… «Falli anche da noi!», gli dicevano. Ma Gesù non era tornato per fare degli show. Anche noi, a volte, ci meravigliamo della santità vicina, la «santità della porta accanto», come dice papa Francesco. Abbiamo messo i profeti e i santi nelle nicchie. Mi è capitato di fare da postulatore della causa di Servo di Dio, don Dario Porta. Aveva come peculiarità l’amare: sempre, subito e con gioia. Stupiva molto che si proponesse la sua canonizzazione “per così poco”. Ognuno di noi è chiamato a questo traguardo bellissimo, fino all’ultima ora della sua vita: la santità.
Concludo dicendovi il mio “grazie” per questi giorni insieme. Stupitevi del Vangelo! Quando ho incontrato gli amici della banda ho fatto questa proposta: «Dite la frase più bella del Vangelo». È stato molto bello vedere come ognuno avesse una parola che diventa il motto della sua vita. Provate anche voi a pensare, durante la settimana, a quale frase vorreste come parola per la vostra vita. Scrivetela. Ricordatela. Ma soprattutto vivetela. Così sia.

Omelia nella festa della Presentazione al tempio di Gesù

Monte Grimano Terme, 2 febbraio 2019

Giornata della vita consacrata

Ml 3,1-4
Sal 23
Eb 2,14-18
Lc 2,22-40

(da registrazione)

A Monte Grimano oggi batte il cuore dell’intera diocesi. Insieme ai laici, infatti, con la presenza di alcuni sacerdoti, si sono dati appuntamento le religiose e i religiosi della diocesi. Sono spiritualmente presenti anche le claustrali e gli eremiti. Abbiamo pure la gioia di avere con noi il Consiglio Generale dell’Istituto religioso dei Servi del Paraclito. Alcuni di loro, fra qualche mese, prenderanno dimora nel convento di Maciano in Val Marecchia. È un momento di grande gioia, di commozione. È la festa della Presentazione del Signore: Maria e Giuseppe portano il bambino primogenito al tempio ed è quanto vedono gli occhi di due anziani, Simeone e Anna, ma anche di quanti, quel giorno, si trovano nel tempio di Gerusalemme. Lo Spirito Santo illumina lo sguardo interiore dei due vegliardi e fa vedere in questo bambino (un bambino come tutti gli altri), il Signore che viene nel suo tempio e la Salvezza preparata per tutti i popoli. Vedono in questo bambino presentato al tempio il presente di Dio, presente al suo popolo e a tutta l’umanità. Questo dono di Dio era nascosto, viene svelato proprio in questo momento. Potremmo dire che “quei due” vedono l’invisibile, la verità nascosta in quell’evento. È per questo che noi diciamo che sono profeti, come è profetica la Chiesa, del resto, quando rivela il dono di Dio, il mistero di salvezza, negli avvenimenti del tempo presente.
Oggi celebriamo questa Eucaristia in ringraziamento per un dono particolare di Dio, un frutto dell’offerta di Cristo, cioè la vita consacrata. Che ci siano donne e uomini che seguono Cristo, amandolo con cuore indiviso, ha la sua radice nel dono che Cristo ha fatto di se stesso sulla croce, un dono anticipato nel momento della sua presentazione al tempio.
Vedendo voi consacrati siamo profondamente assicurati che Cristo è morto e risorto per noi. Voi lo dite con la vostra vita, una vita interamente spesa per questo. Qual è, infatti, il nucleo essenziale della vostra decisione? Che cosa avete deciso nel momento in cui avete scelto di essere religiose e religiosi?
Avete deciso di appartenere esclusivamente e totalmente a Cristo. La vostra è una vita consacrata per sempre, che esprime la radicalità del vostro essere afferrati da Cristo e del vostro lasciarvi afferrare.
Care religiose, cari religiosi, voi siete, in modo particolare, una profezia vivente. Vedete l’invisibile e ad esso vi siete dati. Il Signore è apparso nella vostra storia come l’Assoluto. A lui volete affidare interamente la vostra vita. Dite, come Paolo a Damasco: «Signore, cosa vuoi che io faccia?» (At 22,10). Oppure come il giovane Samuele: «Parla, o Signore, il tuo servo ti ascolta» (1Sam 3,9). E come il vostro modello per eccellenza: «Ecco, sono la serva del Signore, avvenga in me secondo la tua parola» (Lc 1,38).
Negli studi di filosofia si insegnano i percorsi per la dimostrazione dell’esistenza di Dio; ciascuno di voi è una prova dell’esistenza di Dio. Voi siete, come le candele, luce dell’Infinito che brilla nei nostri borghi, nelle nostre contrade. E una luce, anche se piccola, si vede da lontano.
La disposizione intima di Gesù è stata quella dell’offerta di sé al Padre, perché il Padre compisse in lui la salvezza del mondo. La vostra conformità e appartenenza a Cristo vi pone in una disponibilità totale ai bisogni degli uomini. A nome di tutti dico «grazie» per la vostra quotidiana disponibilità e la rinnovazione dei voti. Senza di voi la nostra Chiesa non potrebbe compiere interamente la sua missione. Chi più profondamente viene espropriato da Cristo, più profondamente deve farsi servo di tutti. Beata la Chiesa dove questa legge è rispettata! Nell’offerta di Cristo al tempio abbiamo contemplato la vostra offerta e ne godiamo nel Signore. Non fateci mancare mai questa gioia con la vostra vita: traspaia in essa e illumini la nostra Chiesa e tutte le genti.

Omelia nella III domenica del Tempo Ordinario

San Marino Città, 27 gennaio 2019

Festa di San Giovanni Bosco

Sir 1, 1. 23; 2, 1-6. 10-11
Sal 32
Fil 4, 4-9
Mt 18,1-6.10

Buona festa a tutti voi!
Oggi farò un’omelia un po’ diversa dal solito. Immagino di fare un’intervista a san Giovanni Bosco. Vado da lui col mio tablet e gli rivolgo delle domande.

  1. «Don Bosco, dove ti trovo? Dove mi dai appuntamento?».

Don Bosco: «In chiesa… Io sto qui». «Ma c’è tutta Torino da incendiare d’amore – gli rispondo – ci sono migliaia di giovani scesi dalle montagne per avventurarsi in città, cercando lavoro, una vita più aperta, un futuro diverso! E tu stai in chiesa?».
«Sono qui, perché qui sbocciano i miei sogni. Qui traggo ispirazione. È qui che ripeto al Signore – si sarà ormai stancato –: “Ti cedo tutto, ma dammi i ragazzi. Te lo dico anche in latino: Da mihi animas, cetera tolle. È qui che ho pensato all’oratorio dei ragazzi e sono venuti in centinaia. Ho pensato non solo ai ragazzi di oggi, ma anche a quelli di domani. A quelli del Piemonte, ma anche a quelli della Repubblica di San Marino! Ho preso casa in periferia; a disposizione c’era solo una bicocca fatiscente. Ho coinvolto tante persone, persino la mia mamma Margherita. Ci mancava di tutto, ma una cosa non mancava mai da noi: era – stanne certo – l’allegria. Anzi, avevo uno slogan: “Scrupoli e malinconia, fuori da casa mia”. E guai a chi parla male dei ragazzi! Sono monelli, a volte graffianti, soprattutto disoccupati – così sono tanti giovani nella mia Torino. Non critichiamoli, ma diamo loro cultura, lavoro, opportunità».

  1. «Don Bosco, che cosa pensi dei bambini e dei ragazzi?».

«Quando ho di fronte un ragazzo – risponde don Bosco – so che dentro di lui c’è una perla: ogni ragazzo è come una conchiglia. Cerco di forzarla e di aprirla: che sorpresa! Dentro, chiusa come in uno scrigno, c’è una perla di inestimabile valore. A volte i ragazzi non lo sanno neppure. L’ho capito, ad esempio, con il primo dei ragazzi che ho incontrato, quello a cui ho chiesto: «Sai scrivere?». «No». «Sai leggere?». «No». Sai disegnare? «No!». Sai cantare?». «No». «Sai fischiare?». Questa era l’arte di don Bosco che non si arrendeva e continuava a cercare anche solo una cosa positiva. Quel ragazzo disse: «Sì, certo». Allora lo chiamò per iniziare con lui a formare l’oratorio.
I discepoli, una volta, hanno chiesto a Gesù: «Chi è il più grande nel regno dei cieli?» (cfr. Mc 9,34). Tu che ne pensi? «Quella domanda – con tutto il rispetto per gli apostoli – è un po’ sciocca, per lo meno ingenua, perché rivela che loro pensavano il Regno di Dio come una grandezza mondana (di questo mondo), dove contano le carriere, il potere, le gerarchie. Invece Gesù ha chiamato un bambino in mezzo a loro – con grande acume didattico – e ha detto che, per entrare nel Regno di Dio, bisogna diventare come quel bambino. Il bambino è nativamente spontaneo, sincero, non ha ambizioni egemoniche. E la comunità dei discepoli di Gesù non dovrà dar credito a carrierismi, ma essere accogliente, semplice, discreta. Guai a chi si vergogna ad accogliere anche uno solo di questi bambini, anche se a volte sono fastidiosi, perché pongono tante domande e vogliono giocare. Si guardi bene l’educatore, l’animatore, il leader dal «disprezzare anche uno solo di questi piccoli». «Gesù ci ha detto – continua don Bosco – che “i loro angeli (ogni bambino ha un angelo custode) nel cielo vedono sempre la faccia del Padre”, fanno parte del consiglio ristretto di Dio (anche Dio ha un consiglio pastorale!)». Gli angeli dei bambini possono essere nostri avvocati difensori o, al contrario, i nostri accusatori.

  1. «Caro don Bosco, permetti che ti faccia una domanda un po’ imbarazzante, che tocca una situazione che stiamo vivendo oggi nel mondo: ci sono degli adulti, a volte sono parenti, allenatori, maestri, qualche volta persino dei sacerdoti, che non hanno rispetto dei ragazzi e delle ragazzine. Tu che ne pensi?».

«Quanto dolore. Quanta sofferenza, soprattutto per chi è stato vittima di molestie e di mancanze di rispetto. Quanta ingiustizia ai danni della convivenza sociale. E quanta vergogna per la comunità cristiana che al suo interno si è trovata crimini che più di altri smentiscono il Vangelo. Eppure, è accaduto e accade. Ciò che sconcerta di più – mi confida don Bosco – è il tentativo di coprire e di proteggere chi fa del male ai ragazzi. Però non basta la condanna, occorrono la prevenzione e la cura di chi è stato vittima».

  1. «Se le cose stanno così, caro don Bosco, allora non verrebbe neanche voglia di dedicarsi ai ragazzi… Che ne dici?».

«No, vorrei incoraggiare tutti coloro che sono educatori, catechisti, animatori Scout, insegnanti, a continuare a prendersi cura dei bambini, dei ragazzi, dei giovani, con trasparenza, con rispetto, con amore. Chiedere perdono per il male che è stato fatto e cercare riparazione è il primo passo, ma non è sufficiente perché guarda solo al passato. Occorrono risposte che guardino avanti, al futuro, che assicurino un cambiamento radicale di mentalità, perché la sicurezza dei bambini e dei ragazzi ha la priorità assoluta. Sta scritto: “Se un membro soffre, tutte le membra soffrono insieme”(1Cor 12,26)».

  1. Avrei un’ultima domanda. «Don Bosco, tu sei santo, san Giovanni Bosco, ma ti sentiamo ancora vivo, vicino, ti sentiamo “dei nostri”. Qual è il segreto della santità?».

«Anche tu devi farti santo!».
«Santo? Impossibile. La santità mi sembra una cosa da recordman, da persone grandi. E poi… aureole, nicchie, mani giunte, non fanno per me, non mi appartengono.
«Cos’hai capito della santità? Che sia una posa? Tutti siamo chiamati ad essere santi. “Sei sposato? Sii santo amando e prendendoti cura di tuo marito o di tua moglie, come Cristo ha fatto con la Chiesa. Sei un lavoratore? Sii santo compiendo con onestà e competenza il tuo lavoro al servizio dei fratelli. Sei genitore o nonna o nonno? Sii santo insegnando con pazienza ai bambini a seguire Gesù. Hai autorità? Sii santo lottando a favore del bene comune e rinunciando ai tuoi interessi personali. Sei una consacrata o un consacrato? Sii santo vivendo con gioia la tua donazione. Sei una ragazzina o un ragazzino? Chiediti quello che Gesù farebbe al tuo posto. E poi studia, quando è ora di studiare, prega, quando è ora di pregare, gioca, quando è ora di giocare” (cfr. GE 14)».
Quando senti la difficoltà, la tua debolezza, alza gli occhi al Crocifisso e digli: «Signore, io sono un poveretto, ma tu puoi compiere il miracolo di rendermi un poco migliore». Ecco la santità.
«Tutto ciò che è vero, nobile, giusto, puro, amabile, onorato, quello che è virtù e merita lode, tutto questo sia oggetto dei tuoi pensieri».
Caro don Bosco, grazie e arrivederci!

Omelia nella II domenica del Tempo Ordinario

Pennabilli (monastero della Rupe), 20 gennaio 2019

Is 62, 1-5;
1Cor 12,4-11
Gv 2,1-11

Gesù, Maria e i discepoli sono invitati ad uno sposalizio nel “terzo giorno”. Il vino viene a mancare… «Fate tutto quello che lui vi dirà!», dice Maria riprendendo le stesse parole del faraone agli Egizi durante la carestia: «Andate da Giuseppe e fate tutto quello che lui vi dirà» (cfr. Gn 41,55). Giuseppe, l’ebreo votato alla morte dai suoi fratelli, era sopravvissuto, prima schiavo, poi prigioniero e interprete dei sogni.
Quali sono gli ordini di Giuseppe? Aprire i granai per accogliere il grano e poi ridistribuirli nei giorni delle “vacche magre” per soccorrere quanti arrivano a causa della loro miseria.
Gesù, che dà compimento a tutte le figure della Prima Alleanza, è, come Giuseppe, votato alla morte, ma eccolo risorto, vivente per sempre. Viene non solo per sfamare le folle – lui, pane di vita – ma per versare il vino delle nozze.
In modo stilizzato san Giovanni ci riporta al mistero della morte e della risurrezione di Gesù, che già si profila: Gesù, uscito vivente dal sepolcro il “terzo giorno”, viene per le nozze definitive fra Dio e l’umanità, e l’acqua cambiata in vino ne è il segno. Questo miracolo, ben lontano d’essere il racconto di una cronaca di paese, è il “primo dei segni”, è epifania del Messia, il Signore. La liturgia ce lo propone come ultimo suggello del tempo natalizio, tempo della manifestazione.
Oggi sale da tutte le chiese la preghiera per l’unità. «Fate tutto quello che lui vi dirà», dice Maria. «Ut omnes unum sint», dice Gesù. E noi? Eccoci all’opera nel cantiere per fare un mondo unito. Preghiamo.

Omelia nella festa del Battesimo di Gesù

Talamello, 13 gennaio 2019

Is 40,1-5.9-11
Sal 103
Tt 2,11-14;3,4-7
Lc 3,15-16.21-22

Quella notte la cattedrale splendeva di una luce accecante: era la notte di Pasqua di qualche anno fa. Grondavano gli Alleluia polifonici. L’organo, dopo i giorni del silenzio della Settimana Santa, intonava “ripieni” di vittoria. Condivisi con i presenti l’estasi di quella notte piena di misteri svelati, di simboli e di canti.
Lascio la cattedrale – ormai è notte fonda – ed entro, ben coperto, nell’oscurità della notte. Piove. Attraverso la piazza di Pennabilli: sto raccontando un’esperienza reale. Da una via secondaria si ode un chiacchiericcio sommesso: decine di giovani stazionano davanti al bar stracolmo di gente. È solo una tappa verso i luoghi del sabato sera. Passano così la notte di Pasqua. Sarebbe stato bene imboccare quella direzione, attaccar bottone con quei ragazzi per raccontare la novità, perché di novità si tratta: Gesù è Risorto, è vivo! Il contrasto è stridente. Ma il timore di essere importuno, la fretta del rientro, la preoccupazione per le eventuali reazioni dei ragazzi mi hanno fatto riprendere la strada senza fermarmi. Poi, quasi subito, rincasando muto e deluso dalla mia prudenza, mi sono fatto queste domande: «Per te dov’è la forza della Pasqua? Quanto grande è il tuo convincimento della novità cristiana? Qual è lo spessore reale del tuo incontro con Gesù Risorto?».
Chiedo un po’ di benevolenza. Parto da questa esperienza reale per dire qualcosa del nostro Battesimo.
Le statistiche assicurano che in Italia il 98% degli italiani è battezzato (probabilmente tale valore si è un po’ abbassato per l’arrivo di persone provenienti da altra cultura e altre religioni). E molti si ritrovano cristiani senza aver mai deciso di diventarlo. Non è che chi non pratica o non pensa al suo Battesimo sia una persona meno sensibile ai valori, meno raffinata moralmente, meno dedita al prossimo. Ma essere cristiani è semplicemente un’altra cosa. L’essere cristiani ci situa in una responsabilità diversa.
Un indice abbastanza significativo di quello che sto dicendo è la diversità con cui viene celebrata la Pasqua rispetto al Natale. Molta gente frequenta il Natale. Invece le Veglie pasquali, che sono il centro della vita della Chiesa, sono povere di presenze. Il Natale – si dice – col suo messaggio di pace, di bontà, con le sue melodie pastorali e le tradizioni famigliari, è sentito da tutti. Perfino la tv ne parla e sovrabbonda di richiami natalizi, tralasciando quasi sempre riferimenti al Festeggiato. Eppure, la Pasqua è il centro teologico e temporale della fede cristiana. «Se Cristo non è risorto, vana è la nostra fede», già dicevano i primi cristiani (cfr. 1Cor 15,17). La Veglia pasquale è il momento più alto e significativo per il nostro cammino come comunità cristiana. È «la grande notte» nella quale i cristiani si connettono con la grande epica di Israele: liberazione dalla schiavitù, passaggio del mar Rosso, esodo verso la terra promessa, esperienza di un Dio presente che non sta “sopra”, ma “davanti” ai cammini di liberazione. La notte di Pasqua fa rivivere tutto questo. Gesù, dopo aver dato la sua vita sulla croce per amore, risorge e comunica la vita nuova a chi l’accoglie. L’antico esodo, adesso, lo si vive nel Battesimo. Allora ogni cristiano dovrebbe riprenderlo in considerazione seriamente e fare di nuovo “il passaggio” ad una vita nuova, che è la vita stessa di Gesù. Gesù, nella più solenne delle sue apparizioni davanti ai testimoni oculari, ha detto: «Battezzate» (cfr. Mt 28,19). Ci sarebbero molte cose da dire, ma penso subito al nostro personale Battesimo. Il Papa più volte in questi anni ci ha invitato a disturbare il nostro parroco per chiedergli di farci vedere sui registri quando siamo stati battezzati. In alcune famiglie c’è una piccola acquasantiera; c’è anche davanti alla porta della nostra chiesa. Quando intingiamo la mano nell’acqua e facciamo il segno di croce, facciamo memoria del nostro Battesimo e ricordiamo con quale amore siamo stati accolti nella famiglia di Gesù.

Vorrei soffermarmi sulle “tre parole” che vengono pronunciate nel momento del nostro Battesimo. Parole sconvolgenti e programmatiche: sono le stesse che sono state pronunciate su Gesù nel giorno del suo Battesimo al fiume Giordano. Basta la meditazione di queste parole per farci ritrovare la consapevolezza di cosa significhi essere un battezzato. Sono parole che grondano Bibbia, anche se sono brevissime, incisive, ma dietro vi stanno pagine e pagine di Sacra Scrittura, scritte per noi. Sono parole che esprimono intensità di relazione. Sono state rivolte a ciascuno di noi, come unico destinatario. Parole creatrici e arcane, come sono tutte le parole di Dio. Risuonarono in quel momento, ma riempiono tutto il tempo della nostra esistenza. La stessa dichiarazione d’amore indirizzata a Gesù dal Padre, viene, per così dire, indirizzata a ciascuno di noi per la nostra felicità. Non si finisce mai di gustarle. Risulteranno sempre nuove. Ci saranno momenti nei quali ci parranno addirittura incredibili, tanto sorprendono; alcune volte sono consolanti, soprattutto quando ci sentiamo sbagliati. Qualche altra volta sono un balsamo, mentre ci battiamo il petto riconoscendo i nostri peccati. Teniamole sempre presenti. Sono parole semplicissime. Ognuno le senta rivolte proprio a sé. Le faccia oggetto di meditazione durante la settimana, nei momenti di passaggio tra un’azione e l’altra, nei momenti di preghiera, anche quando si guida l’automobile. Ecco le tre parole.

«Tu sei figlio mio». È una dichiarazione. Molti testi sacri, anche delle altre religioni, concordano nell’affermare che, essendo creature di Dio, in un certo senso siamo figli di Dio. Ma noi lo diciamo con un altro significato, perché qui è svelata una relazione profonda. Siamo chiamati ad una relazione interpersonale con Dio. Siamo innalzati alla sua stessa guancia, possiamo rivolgere il nostro sguardo nei suoi occhi e ripetere senza fine: «Tu sei mio Padre».

«Tu sei l’amato». «Amato» è un participio che nelle Scritture viene usato per Isacco, figlio di Abramo, il figlio della promessa, sacrificato sul monte e riavuto, generato due volte (al tramonto del grembo sterile di Sara e sulla cima di una terribile obbedienza che chiedeva la sua immolazione).

«In te ho il mio compiacimento», cioè tu sei oggetto della mia gioia. Verrebbe da dire con uno scrittore cristiano: «Si può aggiungere splendore al sole, dolcezza al miele, felicità al paradiso?». Eppure, quest’affermazione è forte: tu sei gioia per il Signore. Che cosa trova di così appagante nella sua creatura? L’ha creata a sua immagine, l’ha destinata a partecipare alla sua vita. Se la lontananza genera nostalgia, il ritorno colma di gioia. In due passi del Vangelo sta scritto: «Si fa più festa in cielo per un peccatore che si converte che per novantanove giusti che non hanno bisogno di conversione» (Lc 15,7-10).
Questo è semplicemente il contenuto delle Scritture, è il linguaggio usato da Dio nelle sue parole ed è ciò che noi celebriamo in ogni Battesimo. «Tu sei figlio mio, l’amato, oggetto del mio compiacimento, della mia gioia».

Omelia nella Messa esequiale per don Armando Evangelisti

Talamello, 8 gennaio 2019

1Gv 4,7-10
Sal 71
Mc 6,34-44

Il Natale con le sue luci e le sue tradizioni è ormai passato, ma lo splendore del Signore Gesù, risorto e vivo in mezzo a noi, continua a brillare. Questa, cari fratelli e sorelle, è la sostanza della nostra fede; questo il programma della nostra azione pastorale e il fondamento della nostra speranza.
Che cosa si è manifestato nel Natale? Ce l’ha ricordato Giovanni nella sua Prima Lettera: «Si è manifestato l’amore di Dio in noi: … non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi e ha mandato il suo Figlio come vittima di espiazione per i nostri peccati». (1Gv 4,10). È con questa fede pasquale che siamo accorsi in tanti, e con profonda commozione, a portare il nostro saluto a don Armando, una delle figure più espressive della nostra Chiesa diocesana.
È conosciuto il suo cammino in mezzo a noi: parroco a Maiolo, poi a Borgo Maggiore; vicerettore e rettore del Seminario; parroco a Novafeltria e poi a Talamello; incaricato della pastorale famigliare. Molti lo ricordano come insegnante.
In circostanze come questa si è soliti sentire frasi di questo tipo, amplificate sui media: «Vivrai nel nostro cuore…», «Sarai sempre con noi… », «Sei vivo nell’insegnamento che ci hai lasciato… »: troppo poco! Queste frasi sono troppo povere rispetto a quello che noi crediamo. Memori di quanto dice Gesù a Marta e a Maria: «Tuo fratello risorgerà» (Gv 11,23), noi diciamo: «Don Armando, tu vivi in Gesù Risorto».
La morte non consente quell’ultimo chiarimento, né quell’ultima parola, né quell’ultima stretta di mano. Non si torna indietro. Ma la fede apre infinite altre possibilità e totalità di desideri.
Don Armando è stato molto amato dal Signore. Il Signore gli ha fatto dono di una intelligenza lucida e brillante, di una fede robusta e sicura. L’ha dotato di un temperamento forte e creativo, capace fino alla fine di vampate di entusiasmo. Il Signore l’ha chiamato al sacerdozio e, in questo stato di vita, non ha cercato carriera, né riconoscimenti, né titoli. Schietto fino all’impertinenza, ma in coscienza di verità. Il cristiano, il sacerdote, ciascuno di noi è grande perché «generato da Dio», non per opere compiute o per vanto di meriti. «Noi siamo opera sua» (Ef 2,10): questo il nostro vanto. Nel contempo sappiamo di essere circondati di infermità, segnati dai nostri limiti, condizionati dal nostro carattere. Voi avete conosciuto don Armando, la sua umanità, il suo zelo, la sua intraprendenza e la sua cultura. Chi non si è fermato alla scorza, è rimasto sorpreso dalla sua tenerezza: questa è stata la mia esperienza con don Armando. Mi viene in mente quello che diceva santa Teresa d’Avila di san Pietro d’Alcantara: «Quando io lo conobbi, era molto vecchio e così estenuato che sembrava fatto di radiconi d’albero» (S. Teresa d’Avila, Vida 27,17). E poi, se avevi la fortuna di stabilire un rapporto, di guardarlo negli occhi, scoprivi la tenerezza. Era una sorpresa! Chi gli è stato vicino, familiari, parrocchiani, sacerdoti, colleghi di scuola, amici, gli ha voluto bene. Don Armando è stato molto amato dal Signore.
E quali sono stati gli amori di don Armando? Chi è amato, ama a sua volta. Non so dare una precedenza: un amore non esclude l’altro. Comincio con l’amore alla sua chiesa, il santuario del Crocifisso (aveva legato il suo nome anche alla chiesa di Michelucci a Borgo Maggiore RSM, essendo parroco quando venne completata, ma io l’ho conosciuto recentemente). Me ne parlava spesso e sempre come la prima volta, della chiesa e, nella sua chiesa, del confessionale. Fu lì, in un colloquio intimo, che accolsi definitivamente le sue dimissioni e gli proposi di lasciare la parrocchia, colloquio che si chiuse con un abbraccio.
Un altro grande amore di don Armando: la gioventù. Quanta immaginazione, quanto entusiasmo, quante iniziative. Così dagli anni dell’insegnamento scolastico agli ultimi giorni col catechismo organizzato insieme ai genitori (ottima intuizione pastorale). E poi il coro… Sarebbe stato disposto a salire da Rimini per continuare a coltivarlo e garantire un servizio liturgico nel quale non mancasse il canto.
Non posso tacere, con un pizzico di ironia, i suoi assalti al Vescovo per destinare Casa Tomasetti alle iniziative giovanili. Non per sé, ma per i ragazzi. La realistica situazione (la sua età, il numero ridimensionato degli animatori e anche della popolazione giovanile) non l’ha dissuaso dall’insistere. Tuttavia, la Casa era ed è abitata dalle suore di cui ugualmente vedeva la provvidenziale presenza per la cura del Santuario e l’adorazione eucaristica, suore che fu proprio lui ad invitare.

La lettura evangelica ci ha parlato di una manifestazione (epifania) di Gesù come Messia, epifania della sua grandezza, della sua potenza, ma anche della sua misericordia: moltiplica pani e pesci. Il Messia ha compassione. Vede la gente come pecore senza pastore (cfr. Mc 6,34). Che cosa fa? Si mette ad insegnare: «Non di solo pane vive l’uomo» (Mt 4,4). È il primo servizio richiesto all’apostolo: indicare orizzonti e insegnare a trovare il senso della vita. E subito dopo la compassione per il pane che manca. Gesù insiste: «Voi stessi date loro da mangiare» (Mc 6,37). «Cominciate – aggiunge – col mettere davanti quel poco che avete: cinque pani e due pesci. E poi distribuite con me. Prestatemi mani, braccia e cuore per essere una mia presenza». E che altro è un prete se non questo? Un operaio evangelico, non a ore, non a cottimo, ma sempre… Tutto. Preghiamo per le vocazioni sacerdotali che vanno diminuendo. Chi ci spezzerà il pane della Parola e del sacramento? Preghiamo perché tanti giovani sappiamo accogliere e rispondere all’appello del Signore per un sacerdozio entusiasmante, gioioso, per una donazione senza risparmio. Val bene la pena di impegnare la vita per un tale ideale. Talvolta, l’ideale val più della vita stessa. Questa mia insistenza sulla preghiera è per ricordare una delle responsabilità che don Armando rivestiva in diocesi: l’Apostolato della preghiera. Preghiamo non solo per il suffragio di don Armando, ma per ottenere il premio alle sue fatiche, alla dedizione da lui dispiegata per tanti anni. Il Signore non può dimenticare, lui che non lascia passare un bicchier d’acqua fresca procurato ad un assetato (cfr. Mt 10,42). Il Signore non dimentica il più piccolo dei favori fatti a lui. Nessuno può separare dal Signore chi gli è debitore di un atto di amore: il Signore lo ripaga, lo contraccambia, lo ricompensa con un dono ancora più grande: «Oggi sarai con me in paradiso» (Lc 23,43). Così sia.

Omelia nella Solennità dell’Epifania

San Leo (Cattedrale), 6 gennaio 2019

Is 60,1-6
Sal 71
Ef 3,2-3.5-6
Mt 2,1-12

(da registrazione)

È sempre bello celebrare l’Eucaristia nella cattedrale di San Leo, ma è bello soprattutto vedere i vostri volti, la vostra partecipazione, accompagnata e incoraggiata dal coro che dà slancio alla preghiera.
Abbiamo sentito l’annuncio della Pasqua, sarà il 21 aprile, centro di tutto l’anno liturgico. Il Natale e tutte le altre feste non sono altro che una espansione, un approfondimento, un riverbero della grande festa della Pasqua. L’Epifania, in modo particolare, è il preludio della Pasqua di Gesù che si manifesta a tutti i popoli della terra. Abbiamo ripetuto nel canto: «Ti adoreranno, Signore, tutti i popoli della terra» (cfr. Sal 71). Il profeta Isaia intravvedeva, tanti secoli prima, l’invasione di Gerusalemme – non un’invasione minacciosa – di uno stuolo di cammelli e dromedari provenienti da Madian e da Efraim, portatori di doni, oro e incenso, per proclamare la gloria del Signore. L’Epifania è festa pasquale in cui si compiono le attese dell’Antico Testamento. È una festa missionaria. In ogni comunità si invitano persino i bambini ad aprirsi ad una prospettiva missionaria. È anche festa dei bambini, contro tutti gli Erode di turno che vedono i bambini come clienti interessati o, peggio, gli Erode che violano la loro purezza. In questo giorno diciamo ai bambini che li amiamo davvero, li rispettiamo, li ascoltiamo e vorremmo fargli il dono più grande: l’amicizia di Gesù!
Il Vangelo racconta come i Magi, maestri di astronomia, giungano a Betlemme e, pieni di gioia – così dice il Vangelo –, onorano Gesù come Signore e Salvatore. Eppure, i Magi, come i pastori, non sempre sono stati ben visti.
Che cos’hanno in comune i pastori e i Magi? Il fatto di mettersi in cammino. «Andiamo fino a Betlemme», si dicono l’un l’altro. I Magi giunsero da Oriente, da lontano. Il Signore si fa trovare da quelli che lo cercano. La ricerca di Dio esige un esodo personale, faticoso e a tratti doloroso, perché bisogna rimettere in discussione se stessi, le proprie convinzioni, i pregiudizi, le abitudini, le priorità.
Chi è colui che non trova il Bambino Gesù? Erode. Non perché non cerchi il Cristo. Lo cerca eccome! Consulta i suoi esperti, incarica i Magi di una missione ricognitiva, ma è troppo attaccato al suo palazzo, al suo trono. Lo cerca, ma sconvolto – dice il Vangelo – dalla paura di dover cambiare. Sente minacciato il suo potere che lo fa ricco e rispettato. Che hanno ancora in comune pastori e Magi? Hanno in comune la saggezza di lasciarsi guidare. I pastori non giungono a Gerusalemme perché buoni, ma perché sono obbedienti alla voce degli angeli. Così i Magi non sono partiti dalla loro terra per spirito di avventura, ma perché hanno visto la stella e l’hanno seguita fedelmente.
Ecco una parola per noi. Chi ha la presunzione di essere l’unica guida di se stesso, oppure di cercare Dio da solo, non trova nulla. Se avremo l’umiltà di lasciarci guidare – la stella è il Vangelo, gli angeli sono le nostre guide – avremo la gioia di trovare e potremo dire con sant’Agostino: «Quaesivi et inveni (ho cercato e ho trovato)».
Vi consegno due verbi: prendeteli come parola di vita, che vi accompagni tutta la settimana: «Alza il capo e guarda». Due verbi bellissimi. Ricordo distintamente il discorso che Benedetto XVI tenne sulla piazza di Pennabilli, quando venne il 19 giugno 2011. Adoperò una metafora adatta al cuore e all’intelligenza dei giovani. Parlò di finestre aperte sull’infinito. Vorrei concludere con un commento un po’ singolare al Salmo 8, lode cosmica a Dio che sale anche dalla bocca dei bambini e dei lattanti. Un midrash dice: «Come mai l’autore del Salmo chiama a raccolta le creature della natura, nomina le stelle, gli animali e non nomina il sole? Perché Davide lo compose nel cuore della notte, nella notte d’Oriente quando il cielo, nella sua oscurità, rivela l’infinità delle stelle. Davide si era alzato, svegliato dalla brezza che accarezzava l’arpa che teneva nella sua stanza. Andò alla finestra. “Oh, il cielo!”. Il cielo appariva in tutta la sua bellezza: le stelle, le ombre, gli animali che si muovevano nel bosco. Davide prese l’arpa e compose il Salmo 8». L’autore del midrash conclude, in modo un po’ bizzarro, dicendo: «Se comperate una casa, o la prendete in affitto – mi raccomando – prendetela con finestre grandi». Un’allusione alla nostra ricerca di infinito, al nostro sguardo che deve essere ampio. Ecco la fatica dello studio per gli studenti, per tutti noi un invito a buone letture, all’attenzione verso le creazioni artistiche, ad imparare a ragionare criticamente su quanto vediamo in televisione, al turismo intelligente. Il turismo intelligente – come qui a San Leo – è una bella finestra aperta all’infinito. Ancora di più lo studio serio delle Sacre Scritture, come fate nella vostra parrocchia. «Alzate il capo e guardate». Così sia.

Omelia nella Solennità di Maria Ss.ma Madre di Dio

San Marino Città (Basilica del Santo), 1 gennaio 2019

Giornata Mondiale della Pace

Nm 6,22-27
Sal 66
Gal 4,4-7
Lc 2,16-21

(da registrazione)

Risplende davanti a noi, la Madre di Gesù, venerata dai cristiani e amata da tutti; madre e sposa dolcissima, riconosciuta dall’umanità come Colei che realizza il compito di congiungere Cielo e terra. Nel centro del presepio porge ai pastori, che vanno a Betlemme, Gesù, il Messia. A Lei il compito di unire sogno e realtà. «Oh se tu squarciassi i cieli e scendessi», cantava e sognava il popolo di Israele (Is 64,1). Con l’obbedienza di Maria l’invocazione è stata esaudita. Il Verbo si è fatto uomo nel suo grembo: «Il nato da donna» (Gal 4,4). Attraverso lei il Cielo e la terra ormai sono legati con il filo mirabile e tenacissimo della speranza. Unire attese e realtà, aspettative e realizzazioni, non è forse, in qualche modo, il compito di politici, amministratori e quanti si spendono per il bene comune?
Voglio pensare alla loro come ad una missione, una risposta ad una chiamata, una vocazione. Invito i politici presenti a riconsiderare l’ispirazione iniziale che li ha spinti a questo servizio, a ripensarne i motivi ed eventualmente a rafforzarli o purificarli, e a rispondere con rinnovato entusiasmo alla chiamata.
Non mi rivolgo solo a loro, ma a tutti, perché a tutti è chiesto di fare la propria parte per il bene comune e per il bene più grande: la pace. Siamo qui a pregare per la pace, a pregare cristianamente per la pace, non perché non ci sia più niente da fare e non sia rimasta che questa “risorsa estrema”, ma perché la preghiera rafforza i nostri propositi di costruttori di pace.
La Giornata Mondiale della Pace che oggi celebriamo fu voluta e istituita da san Paolo VI, 52 anni fa (era il ’68!), «come augurio e come promessa (all’inizio del calendario che misura e descrive il cammino della vita umana nel tempo) che sia la pace, con il suo giusto e benefico equilibrio, a dominare lo svolgimento della storia a venire».
Titolo del Messaggio di questo 2019: «La buona politica per una vera pace». Come dire: il potere a servizio della giustizia e della speranza. Un sogno? I politici autentici sono persone che sanno sognare e sognano coi piedi ben piantati per terra. Sognano, perché hanno ideali, fanno progetti, prefigurano il futuro. Coi piedi per terra, perché nel servizio al bene comune e alla pace non c’è posto per le promesse impossibili da mantenere, per i numeri manipolati ad arte, per “la malizia” di progetti insostenibili. «Il bravo politico – è stato scritto – è, o almeno dovrebbe essere, l’uomo che colma le distanze, l’ingegnere dei bivi che si incontrano, l’idealista che sa fare i conti con la vita quotidiana. Immerso nel presente senza esserne travolto, visionario eppure guidato dalla ragione, pragmatico ma con il coraggio della sfida».
Nella Giornata di riflessione e di preghiera per il mondo della politica, che celebreremo in onore di san Tommaso Moro il 22 giugno prossimo, prenderemo esempio da un impegnato nella politica per la pace, il sindaco di Firenze Giorgio La Pira.
Nel suo Messaggio per la pace papa Francesco «chiama la politica (e chi la interpreta) al servizio, o meglio al dovere, della pace. Quella artigianale, che cresce poco alla volta grazie all’impegno reciproco di tutti, che rifiuta l’intransigenza e la rabbia sterile, che conosce le fragilità umane e se ne fa carico». Di seguito – nel suo Messaggio – papa Francesco elenca le virtù umane di una politica al servizio dei diritti umani e della pace (cfr. n.3): la giustizia, l’equità, il rispetto reciproco, la sincerità, l’onestà, la fedeltà. Virtù nelle quali si possono ritrovare i politici di qualunque appartenenza culturale o religiosa. Poi, papa Francesco smaschera e condanna i vizi da cui può essere minacciata la buona politica (cfr. n.4): la corruzione, la negazione del diritto, il non rispetto delle regole comunitarie, l’arricchimento illegale, la giustificazione del potere mediante la forza, la xenofobia e il razzismo, il rifiuto di prendersi cura della Terra, il disprezzo di coloro che sono costretti all’esilio.
Segnala, infine, come la buona politica promuova la partecipazione dei giovani e susciti fiducia nell’altro. «Fiducia dinamica – scrive –, che vuol dire: “Io mi fido di te e credo con te” nella possibilità di lavorare insieme per il bene comune». Bisogna resistere al clima di sfiducia che si radica «nella paura dell’altro o dell’estraneo e si manifesta attraverso atteggiamenti di chiusura o nazionalismi che mettono in discussione quella fraternità di cui il mondo globalizzato ha tanto bisogno» (cfr. n.5).
Dunque, no alla guerra e alla strategia della paura. Il Papa conclude ricordando la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, un grande progetto di pace, di cui ricorre il 70° anniversario. «La pace, in effetti, è frutto di un grande progetto politico che si fonda sulla responsabilità reciproca e sulla interdipendenza degli esseri umani» (cfr. n.7).
«Artigiani della pace»: lo saremo tutti con la conversione del cuore! Pace con se stessi, rifiutando intransigenza, collera e impazienza; pace con l’altro: il famigliare, l’amico, lo straniero, il povero, il sofferente, osando l’incontro e l’ascolto; pace con il creato, riconoscendo il dono di questa nostra terra così bella e la parte di responsabilità che spetta a ciascuno di noi. Un magnifico programma!
Rinnoviamo il nostro “sì” sull’esempio della Madre di Dio, Regina della Pace. Così sia.

Omelia nella celebrazione del “Te deum” di fine anno

Pennabilli (cattedrale), 31 dicembre 2018

VII giorno fra l’ottava di Natale

1Gv 2,18-21
Sal 95
Gv 1,1-18

(da registrazione)

Vorrei che Pennabilli sentisse la responsabilità di essere il “centro diocesi”. Sono accadute tante cose in questo anno. In modo particolare penso alle due assemblee diocesane, quella di chiusura dell’anno pastorale sul tema “Tra la gente con la gioia del Vangelo” e quella di inizio anno tutta dedicata al kerygma, alle ordinazioni diaconali e alle professioni religiose, all’immissione di nuovi ministri… Avvertiamo anche il peso di situazioni difficili. È un po’ come nel presepio: è notte – e non si può accorciare la notte –, ma si possono accendere luci. Una luce è stata accesa a Betlemme e lì, a Betlemme, Dio ha cominciato un giorno nuovo. Dio non plasma più l’uomo con la polvere dall’esterno, come fu in principio, ma lui stesso si fa polvere plasmata, Bambino di Betlemme. C’è un ammirabile scambio: Dio è diventato di carne e, da allora, c’è una scintilla del Verbo, in ogni carne. Qualcosa di Dio è stato comunicato in ogni uomo. Dobbiamo dire grazie perché c’è santità, almeno incipiente, in ogni vita. Non si deve più dire: qui finisce l’uomo, là comincia Dio; qui finisce la terra, là comincia il Cielo, perché ormai, Cielo e terra si sono abbracciati. Dio e l’uomo si sono uniti e, almeno in quel Neonato, uomo e Dio sono una cosa sola. Dopo il suo Natale, il Natale del Signore, viene ora il tempo del nostro Natale. Infatti, Cristo è nato perché ognuno di noi rinasca, nasca di nuovo e nasca diverso. La risurrezione di Gesù è la grazia per la nostra risurrezione.
Dice il Vangelo che alcuni pastori vegliavano nella notte. La nostra notte non è meno oscura della loro. Tuttavia, accade anche per noi quello che è accaduto a loro, l’annuncio di un avvenimento: «Vi annuncio una grande gioia: è nato per voi il Salvatore» (Lc 2,10-11). E la gloria del Signore li avvolse di luce.
I pastori hanno ascoltato quell’annuncio e si sono messi in cammino: «Andiamo fino a Betlemme, vediamo questo avvenimento». Hanno osato. Mi piacerebbe mescolarmi tra loro e, per così dire, sentire il loro chiacchiericcio a proposito di questo viaggio nella notte. Qualcuno dice: «Ci sono buoni motivi per non metterci in strada: buio, pericoli, briganti, perché rischiare? Poi, forse, si tratta di una burla». Qualcun altro soggiunge: «Perché faticare, perché fare tanta strada? Stiamo bene qui, al riparo nel nostro ovile. Perché lasciare il certo per l’incerto? E per trovare che cosa? Un bambino? È la cosa più naturale del mondo; ogni bambino che nasce è un miracolo». Insisto nell’immaginare il dialogo fra i pastori. Qualcuno aggiunge: «E se, come dicono, quel bambino è il Signore, come presentarsi a lui? È prudente tornare sui nostri passi. La sua santità ci confonde; quella disarmante povertà contesta le nostre bramosie». Qualcun altro aggiunge ancora: «Se quel bambino è davvero il Messia, l’Agnello pasquale, ci indicherà sentieri aspri, in salita». Sì, vorrei dire a loro e dico a tutti noi: «Verranno giorni, per noi cristiani e per quanti stanno con lui, nei quali si dovrà tirar fuori tutta la grinta possibile per seguirlo. Bisognerà fare una scelta di campo, decidere da che parte stare. Non basterà più l’appartenenza scontata, non reggeranno più le adesioni a lui senza radici profonde». Ancora una domanda al termine di questo anno: «Chi sei per noi, Signore Gesù?». Per te ci mettiamo nuovamente in cammino. Accompagnaci nel nuovo anno che si apre. Così sia.

Omelia nella S. Messa per la festa della Santa Famiglia

Ferrara (chiesa della Sacra Famiglia), 30 dicembre 2018

1Sam 1,20-22.24-28
Sal 83
1Gv 3,1-2.21-24
Lc 2,41-52

(da registrazione)

Nel brano del Vangelo che è stato proclamato c’è la prima registrazione di una parola pronunciata da Gesù. La prima parola di Gesù, secondo Luca, entrata nel Vangelo canonico è una domanda: «Perché mi cercavate?». Gesù ama molto interrogare e, in questo, dimostra un’arte squisita, perché stimola ad intervenire. Nei Vangeli ci sono tante altre domande di Gesù, in contesti diversi. Ad esempio, Gesù provoca i farisei dicendo: «Il battesimo di Giovanni è dal cielo o è dalla terra?» (cfr. Mt 21,25). A proposito del tributo: «Di chi è l’iscrizione?» (Mt 22,20). Ai discepoli chiede: «Che cosa cercate?» (cfr. Gv 1,38). A Maria di Magdala: «Chi cerchi?» (Gv 18,4). E al cieco Bartimeo domanderà: «Cosa vuoi che io ti faccia?» (Mc 10,49). Agli apostoli, dopo il discorso di Cafarnao: «Volete andarvene anche voi?» (Gv 6,67).
Tutto questo vale anche per noi che vogliamo metterci a seguire Gesù. Gesù ci fa domande. Ci educa attraverso le sue domande. Dobbiamo prevederle: lasciamoci mettere in questione volentieri, non si tratta di un esame, ma sono necessarie per andare in profondità. «Perché mi cercate?» (cfr. Gv 6,25-26). Si potrebbe pensare che già il cercare Gesù, di per sé, sia una cosa meritevole e buona, soddisfacente, sufficiente. Ma c’è, nella domanda di Gesù, anche un velo di rimprovero, come per risvegliarci. In effetti, ci sono modi e modi di cercare, ci sono motivazioni e motivazioni per cui cerchiamo Gesù. Anche Erode cerca il bambino, ma per ucciderlo. Lo cercano i beneficiati dopo la moltiplicazione dei pani, per avere il pane assicurato a buon mercato. Ci sono anche quelli che lo cercano per curiosità, per vedere qualche sua performance miracolosa, ma ci sono quelli che lo cercano con umiltà e soltanto per amore. Penso, ad esempio, alle donne la mattina di Pasqua, quando vanno al sepolcro e vengono rassicurate da un angelo che indovina lo scopo del loro pellegrinaggio all’alba. «Il crocifisso che voi cercate non è qui. È risorto! Cercatelo altrove» (cfr. Mt 28,5). Sono stato qualche giorno fa a Napoli nella cella in cui viveva uno dei più grandi geni dell’umanità, san Tommaso d’Aquino, grande teologo e filosofo medioevale. Aveva due segretari a disposizione quando dettava la teologia e la filosofia… Nella sua cella c’è un’icona dalla quale – si racconta – gli giunse la voce di Gesù: «Tommaso, tu hai scritto molto bene di me. Che cosa vuoi?». E Tommaso: «Nulla, Signore, voglio soltanto te». Questa risposta è bellissima. Provando a rispondere alla domanda che Gesù ci fa: «Che cosa cercate? Perché mi cercate?», vorrei rispondergli con voi: «Ti cerchiamo, Signore, per averti, per conoscerti di più e intimamente, per amarti, per avere la certezza, sempre crescente, che tu sei vicino a noi. Non ti consideriamo un “babbo natale”, cioè uno al quale si ricorre per avere salute, benefici, successo, vantaggi». Lui ci risponderebbe: «Per questi vantaggi va a cercarti altri dei. Io sono disteso sulla paglia, dentro ad una mangiatoia di legno; morirò attaccato ad un legno, ma sono con te, nella vita, nella tua famiglia». Queste domande e queste risposte vanno e vengono proprio all’interno delle nostre famiglie. Famiglie reali. C’è chi in famiglia non vede l’ora di andarsene e magari scappa da casa. C’è chi in famiglia lamenta solo la stanchezza. C’è chi tira a campare perché l’amore non c’è più, è sbiadito. C’è chi è alle prese con responsabilità educative impossibili. C’è chi teme di essere di peso. Poi, ci sono le difficoltà esterne alla famiglia: l’assedio di una cultura che la compatisce, le politiche famigliari insufficienti, il pensiero che dalla crisi si esce meglio da soli che con persone a carico. Ricordo che un anno avevamo come motivo della nostra festa parrocchiale questo slogan: «Famiglia, culla di Dio». Uno slogan suggestivo. Certo, Dio ha infiniti altri modi, luoghi, spazi nei quali manifestarsi, fare domande, attendere risposte, farsi presente. Ma nella Bibbia la rivelazione di Dio si intreccia spesso con storie di famiglie. Anzi, la Bibbia stessa, come un album, è piena di immagini che testimoniano le storie di Dio con le famiglie, da quella di Abramo fino a quella di Maria e Giuseppe. Anche la mia famiglia, come ogni famiglia, con le sue debolezze e le sue crisi, è un luogo privilegiato nel quale il Signore rinnova il dono della sua presenza. E noi siamo qui, questa sera, proprio per questo, per fare festa alla creazione divina che è la famiglia. All’inizio Dio creò l’uomo e la donna, una carne sola, per formare una famiglia e, da allora, non ha mai smesso di stare accanto all’uomo e alla donna che formano una famiglia. Il Signore fa delle relazioni famigliari addirittura il paradigma della sua manifestazione. Dio si dice, in alcune pagine della Bibbia, sposo. In altre, addirittura, madre, in altre ancora padre. Da allora, ogni famiglia, abbraccia il Signore nei bambini che nascono: «Chi accoglie uno di questi piccoli – dice Gesù – accoglie me» (Mt 18,5). Una casa aperta e solidale, che offre amore ed ospitalità, anche senza saperlo, accoglie il Signore (cfr. Ebr 13,1). La famiglia, lo ripeto, è culla di Dio, perché dove c’è amore, c’è lui. «Dove due o più sono uniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro» (Mt 18,20). Sua delizia è abitare con i figli degli uomini (cfr. Prv 8,31).