Omelia XXXII domenica del Tempo Ordinario

(da registrazione)

Scavolino, 10 novembre 2019

Giornata del Ringraziamento

2Mac 7,1-2.9-14
Sal 16
2Ts 2,16-3,5
Lc 20,27-38

La pericope evangelica proclamata oggi è tratta dalla parte finale del Vangelo di Luca; in particolare, ci troviamo in una sezione in cui gli avversari di Gesù si fanno avanti e gli rivolgono delle contestazioni. Celebre è la seguente obiezione: «È lecito o no pagare il tributo a Cesare, cioè riconoscere uno straniero occupante, prepotente e pagano? Riconoscergli addirittura il dovere di pagargli le tasse?» (cfr. Mt 22,17). «Rendete a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio» (cfr. Mt 22,21).
Un’altra disputa era su quale fosse il comandamento più grande nella scala dei precetti.
Oggi si fanno avanti i Sadducei, un movimento politico-culturale-religioso in gran parte composto da persone addette al culto nel tempio – erano per lo più sacerdoti, ricchi e staccati dal popolo –, che avevano per fondamento il Pentateuco (i primi cinque libri della Bibbia). Erano dei “tradizionalisti” dal punto di vista religioso (anche nell’antichità ci sono sempre state anime che si contrappongono). I Sadducei si introducono nell’interlocuzione col Maestro Gesù mediante una parabola. Sono loro che la raccontano a Gesù. Una parabola, di per sé, è un paradosso. C’è una donna che viene data ad un uomo. L’uomo muore e, secondo la legge del Levirato, bisognava che il cognato sposasse la donna, per assicurare al primo uomo che si era sposato una discendenza. Nella parabola sette fratelli, uno dopo l’altro, sposano la vedova, ma muoiono tutti e sette senza lasciare figli. La domanda pretestuosa dei Sadducei a Gesù – teniamo conto che i Sadducei non credevano nella risurrezione – è: «Quando saremo nell’aldilà questa donna di chi sarà? Chi sarà il suo proprietario? Il primo marito?» (cfr. Lc 20,33). Evidentemente, i Sadducei volevano dimostrare l’incongruenza della fede nella risurrezione. Gesù risponde, come sa fare lui, con due argomenti, anche se la risposta all’obiezione è unica. Uno di essi è rivolto soprattutto ai Sadducei. Secondo il loro pregiudizio, i Sadducei ritenevano che la risurrezione sarebbe stata la continuazione, un po’ migliorata, della condizione terrena. «No – dice Gesù – la vita di risurrezione è una novità nella quale tutto è trasformato, tutto è nuovo, e anche la realtà del matrimonio, in un certo senso, è superata». Essendo gli uomini immortali – il che non significa asessuati –, non hanno più bisogno di contrarre matrimonio per la procreazione.
Detta questa argomentazione, Gesù recupera anche un altro motivo di fede nella risurrezione e lo fa citando un versetto dell’Esodo, un libro che anche i Sadducei riconoscono come un libro ispirato, nel quale si dice che Mosè salì sul monte e vide un roveto che ardeva senza consumarsi mai (cfr. Es 3,2). Era simbolo della fedeltà di Dio, che stava per siglare l’Alleanza con Mosè e l’aveva già siglata con Abramo, con Isacco, con Giacobbe. Gesù spiazza i Sadducei dicendo loro: «Che poi i morti risorgono, lo ha indicato anche Mosè a proposito del roveto, quando chiama il Signore: “Dio di Abramo, Dio di Isacco e Dio di Giacobbe”. Dio non è dei morti, ma dei viventi; perché tutti vivono per lui» (Lc 20,37-38). Tutta la forza dell’argomentazione sta nella particella “di” (in italiano): Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe… e potremmo continuare fino ad arrivare ai nomi dei nostri genitori. Dunque, la forza dell’argomentazione sta proprio nella prospettiva dell’Alleanza: il Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe, perché Dio del patto dell’Alleanza, è il protettore e il salvatore dei patriarchi, come di tutto Israele. La fedeltà di Dio cessa di fronte alla morte? Per Gesù la morte non può essere più forte di Dio. Essa perde il suo potere dinanzi all’impegno di fedeltà che Dio ha preso nei confronti dei “suoi”, di coloro che egli ama. Per Gesù ne va di Dio, della sua onnipotenza e fedeltà.
C’è un ulteriore sviluppo. Nella tradizione cristiana, il testo che avete sentito leggere, qualche volta ha provocato una certa svalutazione della sessualità e del matrimonio. Si tendeva infatti ad identificare la vita di risurrezione con uno stato di vita angelico: quando risorgiamo diventiamo angeli, quindi gli esseri umani devono, fin dalla terra, essere angelici. Ma l’essere come angeli non significa che la natura dell’uomo venga trasformata nella natura degli angeli. L’uomo risorto non è disumanizzato: noi risorgeremo maschi e femmine davanti a Dio. Ciò che dice il testo, «non possono più morire, perché sono uguali agli angeli e, essendo figli della risurrezione, sono figli di Dio» (Lc 20,36), è il superamento del rapporto sessuale nel futuro dove la vita è piena e l’uomo ormai è immortale. Al tempo di Gesù l’unione fra l’uomo e la donna era visto proprio come un braccio di ferro con la morte. La morte è sconfitta dalla vita nuova che nasce.
Mi piace citare alcune frasi di San Giovanni Paolo II a questo proposito: «La parola di Gesù indica che c’è una condizione di vita prima del matrimonio in cui l’uomo, maschio e femmina, trova ad un tempo la pienezza della donazione personale e della soggettiva comunione delle persone grazie alla glorificazione di tutto il suo essere nell’unione perenne con Dio».
Dice Gesù: «Tutti vivono per lui, il Signore. Egli non è un Dio di morti, ma di viventi» (cfr. Lc 20,38). Gesù punta tutto su un Dio capace di vincere la morte, perché egli è tutt’ora Dio dei patriarchi che, anche se morti, vivranno. Per l’evangelista Luca questa deduzione ha ormai valore di certezza. È nella risurrezione di Gesù che il Dio dei patriarchi dimostra di essere veramente il Dio dei viventi.
Vivere per lui: cosa vuol dire questa espressione? Ve la consegno perché questa settimana vi torni alla mente e nel cuore. Primo significato: vivere per mezzo di lui. L’evangelista Luca non fa che confermare quanto appena detto. Dio è colui che dà la vita. Secondo significato: tutti vivono per amore di lui. In questo senso si può leggere la frase alla luce del pensiero di Paolo. L’esistenza del battezzato è una vita per Dio, fin da ora, e in Cristo e per Cristo è garanzia della risurrezione futura. Ma la frase può anche essere situata nella linea del martirio, come abbiamo sentito nella Prima Lettura (cfr. 2Mac 7,1-2.9-14) con la narrazione della storia dei sette fratelli, presi insieme alla madre, e costretti a cibarsi di carni suine proibite. Ogni uomo che vive su questa terra riceverà da Dio la vita di risurrezione, come è accaduto ai patriarchi. Dio non lascerà nella morte chi ha dato la sua vita per lui.
Rileggendo il brano nella lingua in cui è stato scritto (il greco), mi ha colpito un particolare. Quando i Sadducei parlano a Gesù della famigerata donna, che è stata vedova di sette mariti, usano questa espressione: “prendere” la donna, “avere” la donna, “possedere” la donna, “di chi sarà” quella donna. Nella risurrezione non apparteniamo ad altri che a Dio e, fin da questa terra, apparteniamo a lui solo. Nessuno ha diritto di dire “la prendo”, “la voglio”, “la uso”, “la possiedo”. Se c’è un’appartenenza all’altro – è bello appartenere a qualcuno – non è un’appartenenza di dominio e di possesso, ma un’appartenenza per amore, nell’amore, d’amore. Un messaggio che è importante nella nostra società in cui accadono tanti episodi di prepotenza sulle donne, in una società in cui prevale una cultura che tende a dissociare il corpo dalla persona, una cultura in cui la sessualità, talvolta, viene vissuta senza relazioni autentiche.
Grazie Signore, per questa pagina di Vangelo in cui ribadisci con forza che risorgeremo, che c’è una vita oltre la morte; grazie, perché asserisci che nessuno di noi è possesso di qualcuno, ma che siamo tutti tuoi figli. Solo tu sei il Signore.

Omelia nella S.Messa in suffragio dei Vescovi e dei sacerdoti defunti

Pennabilli (Cattedrale), 8 novembre 2019

Rom 6,3-9
Sal 22
Gv 20,19-29

Quando, ormai sei anni fa, venni per la prima volta a Pennabilli, mi fece impressione vedere il mio nome scolpito sulla lapide che è affissa sotto il portico del Vescovado. Vi confesso che ancora, di tanto in tanto, mi fa pensare alla mia morte. Ma mi viene anche da pensare alla lunga catena di vescovi che si sono succeduti nel tempo. Io sono il 66°. Quattro di questi 66 vescovi sono ancora vivi, gli altri sono defunti.
È commovente pensare al ricordo che i fedeli hanno, anche a distanza di anni, dei loro pastori. Pastori: li chiamo con questo nome rifacendomi al Salmo 22, che è stato cantato durante la liturgia della Parola. È il Salmo che canta Dio, pastore del suo popolo, con i vantaggi che venivano al gregge dalle sue cure. I pastori hanno bisogno del suffragio, della preghiera della Chiesa. Non vorremmo dimenticare nessuno, sia i vescovi sepolti qui in Cattedrale, che quelli che riposano altrove. Vogliamo pregare anche per coloro che dei vescovi sono stati i diretti collaboratori, i sacerdoti.
Ecco l’importanza dei vescovi nella vita della Chiesa: Gesù in persona «chiamò a sé quelli che volle e costituì dodici apostoli» (cfr. Mc 3,13-14). Negli Atti degli Apostoli si parla della loro collocazione nel popolo di Dio ad opera dello Spirito Santo. «Su tutto il gregge lo Spirito Santo vi ha posti come vescovi a pascere la Chiesa di Dio» (cfr. Gv 20,28).
Il Concilio Vaticano II – non dobbiamo mai dimenticarci di questa pietra miliare nelle nostre riflessioni, perché è il dono che il Signore ha fatto alla Chiesa moderna –, completando il magistero del Vaticano I, aggiunge al primato del papa la collegialità dei vescovi. Primato e collegialità sono la suprema autorità della Chiesa.
Lasciatemi spigolare qualche frase dal capitolo 3 della Costituzione Dogmatica sulla Chiesa Lumen Gentium, dove si parla in modo particolare dei vescovi. Anche qui ricorre continuamente l’immagine del pastore e del gregge. I vescovi – dice il Concilio – agiscono da maestri di dottrina, sono sacerdoti del sacro culto, ministri della guida (LG 20). Nella loro persona, circondata dai sacerdoti, è presente in mezzo ai fedeli Gesù Cristo, di cui sono quasi sacramento del suo sacerdozio. I singoli vescovi – continua il Concilio – sono il visibile principio e fondamento di unità delle loro Chiese (LG 23). E potrei continuare, ma voglio fare una piccola sottolineatura; vi parrà secondaria, ma a me emoziona particolarmente. Ogni vescovo, si potrebbe dire, imprime qualcosa della propria fisionomia alla Chiesa che gli è stata affidata. Il vostro parroco, che è anche studioso della storia, potrebbe dirvi qual è stato il contributo di ciascun vescovo, perché ognuno, in modo più o meno incisivo, ha lasciato un’impronta. Mi viene da applicare ai vescovi, ai 62 vescovi defunti il cui nome è scritto in quella lapide, quello che scrive san Paolo nella Prima Lettera ai Corinzi: «A ciascuno è data una particolare manifestazione dello Spirito per l’utilità comune, per la edificazione della comunità» (cfr. 1Cor 12,7).
In questi giorni ricordiamo l’abbattimento del muro che attraversava Berlino e la mente non può non andare a san Giovanni Paolo II. Ebbene, lui nel suo primo viaggio in Polonia, nel 1979, osservava: «Se Dio mi ha chiamato con queste idee, ciò è avvenuto affinché abbiano risonanza nel mio ministero». Come oggi papa Francesco porta la vita, la storia, le fatiche, le singolarità della Chiesa latino-americana. E se il Signore l’ha chiamato con queste idee vuol dire che lui deve avvalersene e noi dobbiamo accoglierle. Ma c’è anche un’altra verità, per la proprietà transitiva: ciascun vescovo riceve tanto dal suo gregge. Potrei raccontare tante testimonianze personali di quanto ho ricevuto in questi anni, quanto amore, quanta luce, quanta affezione, quante idee, quanti propositi, anche quante battaglie… Preghiamo, allora, per i nostri pastori defunti; preghiamo a motivo della loro importanza, come ci ha detto il Vaticano II, ma anche a motivo dei loro limiti. Anche se non sono più tra noi, abbiamo il dovere di ricordare le loro fatiche, il loro amore. Dunque, preghiamo con riconoscenza, con comprensione per i loro limiti e con indulgenza. Essi hanno annunziato la Parola di Dio. Consideriamo apertamente il loro tenore di vita e imitiamone la fede. I vescovi, successori degli apostoli – lo dico in questo ultimo giorno dell’Ottavario dei defunti – sono soprattutto testimoni della risurrezione. Vorrei precisare: di per sé non sono maestri di una dottrina, di una filosofia, ma annunciatori di un fatto, un fatto che diventa, poi, la loro dottrina. Preciso ulteriormente: troppo poco è dire che sono testimoni del fatto della risurrezione, perché non si tratta tanto del fatto quanto del Risuscitato, della persona di Gesù. Ecco, allora, come ci aiuta la lettura evangelica di questa sera: ci ripropone e ci rituffa nella Pasqua di Gesù, o meglio ancora, nell’incontro di Gesù con gli apostoli. Loro sì che erano chiusi in una tomba, la tomba del cenacolo, dove si trovavano a porte chiuse, mentre fuori era buio – ma il buio era soprattutto nel loro cuore –, prigionieri della paura. L’apparizione pasquale non solo dà loro coraggio, ma li invia in missione; infatti, lascia in dono una fortissima premura che li mette in movimento e così la risurrezione di Gesù, il fatto e la persona di Gesù, si diffonde sotto forma di apostolato.
Concludo con una breve sottolineatura per quanto riguarda la Prima Lettura. Il Battesimo fa parte della missione apostolica. Voi direte: «Che cosa c’entra accennare al Battesimo mentre si parla di apostoli, vescovi e sacerdoti?». C’è molta pertinenza in realtà, perché Gesù agli apostoli e ai loro successori ha detto: «Andate e battezzate» (cfr. Mt 28,19). Qui la meditazione, se ci fosse tempo, si allargherebbe, si approfondirebbe, dalla risurrezione di Gesù alla nostra risurrezione, passando attraverso il sacramento del Battesimo che ci fa partecipi del mistero pasquale di Gesù.
Siamo in una liturgia mesta – nel ricordo dei defunti e dell’ultimo dei nostri sacerdoti defunti, don Armando Evangelisti – ma non è una liturgia triste. Vi risuona l’Alleluia, perché ogni liturgia è l’annuncio di Gesù Risorto. Allora continuiamo a seguire i nostri pastori, avendo anche misericordia delle loro fragilità, debolezze e inconsistenze, perché non si va a scuola per “governare”, ci si trova chiamati dal Signore. Seguiamo i nostri vescovi in questa vita nuova. Ci hanno preceduto, seguiamoli.

Omelia nella XXXI domenica del Tempo Ordinario

Montegrimano Terme, 3 novembre 2019

S. Cresime

Sap 11,22-12,2
Sal 144
2Ts 1,11-2,2
Lc 19,1-10

(da registrazione)

Cari ragazzi,
inizio con una esperienza personale che forse vi farà sorridere. Anni fa, con un gruppo di giovani, sono stato in America per la Giornata Mondiale della Gioventù. In quei giorni siamo stati nella valle di San Francisco. Abbiamo potuto contemplare una delle meraviglie dell’America nella visita al Parco delle Sequoie. È difficile descrivere questi alberi giganti, se non con dei numeri. Molte sequoie arrivano a cento metri di altezza e al peso di parecchie tonnellate, paragonabile a quello di cinque grandissimi dinosauri. Pur mettendoci tutti in fila (eravamo quindici o sedici), uno accanto all’altro, non riuscivamo ad abbracciare un albero, tanto era grande. Eppure, quell’albero così grande è nato da un piccolo seme. Quell’altezza, quel peso, quella grandezza erano racchiuse in un piccolo seme. Accade per quell’albero, quello che accade a noi con il Battesimo. Quasi tutti, in questa chiesa, abbiamo ricevuto il seme del Battesimo. Domando a voi, ma per primo a me: in quale cassetto ho racchiuso quel seme? Perché non si sviluppa, non diventa gigantesco come sarebbe il suo destino? Se potessimo intervistare quel piccolo seme, lui ci direbbe che non desidera altro che svettare nel cielo più alto, nella valle di San Francisco, per guardare dall’alto la famosa prigione di Alcatraz.
Il mio augurio, cari ragazzi, è proprio questo: che il piccolo seme che è stato messo in voi il giorno del Battesimo si sviluppi, cresca, diventi quel che deve diventare.
Come possiamo fare?
Per prima cosa bisogna conoscere quel seme. Ecco perché, per molti anni, avete seguito un cammino di formazione. Pensate che ho steso un programma di formazione per i sacerdoti, anche per quelli più anziani. Siamo tutti discepoli (in lat. discipulus è colui che impara, che è nell’atteggiamento di lasciarsi ammaestrare). Dico ai miei sacerdoti: «Non possiamo essere maestri, se non siamo discepoli. Più siamo discepoli, più siamo maestri». Pertanto, la formazione continua. Spero che, dopo la Cresima, anche voi continuiate ad incontrarvi, magari con meno ansia e con metodi meno scolastici e più esperienziali. Durante l’adolescenza si muoveranno in voi non solo gli ormoni della crescita, ma tante domande, persino le più radicali: sull’esistenza di Dio, sul perché ci sono le guerre… e poi sui cambiamenti che avvengono dentro di voi e vi fanno provare sentimenti nuovi, inaspettati. Anche noi adulti abbiamo bisogno di formazione. Ad esempio, per martedì prossimo abbiamo chiesto l’autorizzazione al dirigente scolastico per far arrivare ai genitori delle Scuole Superiori e delle Scuole Medie di Sassocorvaro l’invito ad una serata dedicata al problema educativo, alla quale è invitato non solo chi solitamente frequenta la parrocchia, ma tutti i genitori, per fare con loro un patto educativo. Sarà una serata di riflessione in cui si potranno fare domande e ci si potrà confrontare. Nessuno, in realtà, ha la soluzione, ma è importante parlare della gioventù di oggi, tanto intelligente, con tante risorse e talenti, ma con modalità di espressione e modi di vivere che preoccupano. Il tema dell’incontro che si terrà alle ore 21 nel teatro di Mercatino Conca, sarà l’emulazione come risorsa educativa. Fin da quando si è piccoli si tende ad imitare, prima i genitori, poi il confronto avviene con i coetanei e si guarda ai campioni dello sport, ai personaggi della tv, ai compagni più grandi. L’emulazione da risorsa (imitando s’impara) può diventare pericolo.
Il protagonista dell’episodio narrato dal Vangelo di oggi è Zaccheo, celebre personaggio, pubblicano e capo dei pubblicani (quelli che svolgevano l’attività di riscuotere le tasse, i commercialisti di oggi). Il denaro di per sé non allontana da Dio; se viviamo sulla terra dobbiamo guadagnare, mettere i risparmi in banca, compiendo un atto di fiducia, la banca naturalmente corrisponde, sperando che tutto si mantenga a livello di fiducia reciproca.
Zaccheo sale sull’albero perché vuole vedere Gesù che passa. È piccolo di statura, ma si ingegna per vedere Gesù (si ingegnava molto anche negli affari). Il suo sguardo è curioso. Si tratta di una buona attitudine. C’è la folla, ma Gesù alza lo sguardo, gli interessa la persona, il singolo. Cosa c’è di più efficace di uno sguardo? Cos’è più fulminante di un’occhiata? C’è lo sguardo pieno di sdegno, lo sguardo compassionevole della persona che si china su chi è caduto, lo sguardo romantico di un innamorato, ecc. Chissà come sarà stato lo sguardo di Gesù… Lo sguardo di Zaccheo dall’alto, dalla cima dell’albero, vede passare Gesù e quello di Gesù, che è grandissimo ma si è fatto piccolo, si alza verso Zaccheo. I due sguardi si incrociano e succede una meraviglia: d’ora in poi Zaccheo guarda chi gli sta davanti non come persona di cui approfittare, su cui fare la cresta per arricchire se stesso, ma come fratello. I soldi servono, tant’è vero che Zaccheo dice: «Ecco, Signore, io do la metà di ciò che possiedo ai poveri e, se ho rubato a qualcuno, restituisco quattro volte tanto» (Lc 19,8). Quando cambia lo sguardo – il che vuol dire che cambia il cuore – allora anche il denaro e la ricchezza diventano cose positive. Così il nostro andare a lavorare, il risparmiare, lo facciamo per il bene della nostra famiglia.
Concludo con l’augurio che il nostro cuore sia così caldo, così esposto alla luce dello sguardo di Gesù da farci germinare e diventare “una sequoia” che porta tanti frutti.

Omelia nella Solennità di Tutti i Santi

Pennabilli (Cattedrale), 1° novembre 2019

(da registrazione)

Ap 7,2-4.9-14
Sal 23
1Gv 3,1-3
Mt 5,1-12

Due cose mi rallegrano questa mattina. La prima è il canto dei ragazzi, squillante e festoso. Davvero oggi è una festa grande: si parla dei santi che sono nel Cielo, ma anche della vocazione di noi che siamo sulla terra. La seconda cosa, che non ho smesso di fare da quando è iniziata la Santa Messa, è stata quella di pregare il Signore per me e per ciascuno di voi personalmente, perché possiamo tornare sulla piazza dopo questo incontro con il Signore rincuorati e ringiovaniti. I più maturi di noi ricorderanno, infatti, quando prima della Messa si ripetevano le parole del Salmo: «Introibo ad altare Dei, ad Deum qui laetificat iuventutem meam (mi accosterò all’altare di Dio, a Dio che rende lieta la mia giovinezza» (cfr. Sal 42). Altro che cure cosmetiche, palestre, sport…
Vorrei che tornassimo sulla piazza, e poi alle nostre case e nei prossimi giorni al nostro lavoro, con questo pensiero dentro di noi, pensiero che dovremmo ripeterci gli uni agli altri: «Siamo chiamati alla santità». Verrebbe da rispondere, con rassegnazione: «La santità non fa per me, vivo nella mediocrità». Invece no. Questi appuntamenti festosi devono metterci in cuore la nostalgia della santità.
Nel 2013 ci fu a Rovigo la canonizzazione di una mistica, proclamata beata, che avevo avuto la possibilità di conoscere. Ricordo che tornai a casa, quel giorno, con una nostalgia in cuore, un desiderio di santità. Quand’ero un ragazzino ho pensato persino che lo sarei diventato. Poi, nel cammino della vita, si scoprono in se stessi le falle, le inconsistenze, le debolezze, il peccato. Ma bisogna reagire a questa impressione negativa, perché veramente il Signore si è impegnato per noi. Da quando papa Francesco ha pubblicato l’Esortazione Apostolica “Gaudete et Exsultate” sulla chiamata alla santità nel mondo contemporaneo, non abbiamo alibi. La santità è sempre straordinaria, perché è dono di Dio, che non desidera altro che effondere il suo Spirito su ciascuno di noi. Ognuno di noi adesso pensi: «Io sono stato baciato dal Signore; il Signore ha infuso in me il suo Spirito nel giorno del mio Battesimo e nella Cresima». Nel contempo la santità è ordinaria, perché corrisponde alla nostra vocazione, a quello che il nostro cuore, in fondo, desidera. Chi non desidera bellezza, bontà, santità, luce? C’è una fedeltà quotidiana nel tempo – dice il Papa nella sua Esortazione Apostolica – che la qualifica come “santità della porta accanto”, perché non si fa notare con doni straordinari, con manifestazioni soprannaturali che eccedono la natura e neppure con segni eclatanti. Allora la santità è straordinaria e ordinaria ad un tempo.
La beata Maria Bolognesi, che ho conosciuto, era di Ariano Polesine e, come tutti i ferraresi di quegli anni, ha subito la piena del Po, ha faticato, ha fatto catechismo, ha sofferto molto. Ci sono anche cristiani che, aiutati dallo Spirito Santo, per un disegno del Signore, sono dotati di carismi speciali. Qui in Cattedrale, ad esempio, abbiamo le reliquie di san Pio V, che è stato un uomo eccezionale, dirompente nel suo tempo. Eravamo nel pieno umanesimo e lui era un uomo austero. Non ha voluto neanche il vestito da Papa, ha voluto mantenere il saio da monaco domenicano (il vestito bianco, indossato da allora da tutti i papi, che dismisero i vestiti sfarzosi dei papi rinascimentali). Poi c’è la reliquia di san Giovanni Paolo II. Il Signore gli ha dato doti particolari, sia di umanità, sia di intelligenza, insieme alla capacità di parlare le lingue. Non tutti hanno le sue qualità, le sue doti, ma tutti possono mettere a disposizione del Signore quello che sanno fare. Tra questi cristiani vanno considerati i martiri, che non indietreggiano davanti alla suprema testimonianza della fede, e poi tutti coloro che vivono per il Vangelo nel dono totale di sé, modelli per noi e costruttori della comunità.
Vi faccio tanti auguri per tutto, che stiate sempre bene, che tutto vada bene, che non abbiate contrasti, ma prima o poi succede a tutti che è chiesto un passaggio forte nel percorso della vita, un vero e proprio eroismo, anche se non andrà sui giornali o in piazza San Pietro per la canonizzazione. Penso che ogni cristiano, prima o poi, si imbatte in una situazione di eroismo, di accettazione, di lotta, di servizio, di dimenticanza di sé. A volte si tratta soltanto di “oltrepassare un pianerottolo” per dire “buongiorno”. Ci può essere un abisso fra una famiglia e l’altra, fra una persona e l’altra, fra un cuore e l’altro. Talvolta occorre veramente un passaggio interiore, così decisivo che lo paragono ad un viaggio missionario come quelli di san Francesco Saverio (uno dei miei miti quand’ero studente), che ha percorso tutto l’estremo Oriente. San Francesco Saverio parlava solo in latino (non conosceva le lingue), battezzava tutti, aveva un grande carisma per la missione.
In questo scorcio di anni, la Diocesi è tutta impegnata a considerare come lo splendore della risurrezione di Gesù scenda nella nostra vita, nel cosmo. Abbiamo paragonato l’evento della risurrezione, che è impegno di Dio, opera di Dio, che tocca la terra e il cosmo attraverso Gesù, ad un “Big Bang” per la nostra fede, un evento che da Gesù promana e avvolge tutta la creazione, tutta l’umanità. È in atto, che siamo consapevoli o meno, che a crederci siano in tre o quattro oppure un miliardo di persone, una colata di Cielo. Diversi anni fa andai in Africa a trovare mio fratello missionario. Un giorno mi accompagnò sul vulcano Nyragongo, nel cuore del Kivu, all’equatore. Man mano che salivamo, condotti da una guida, si scioglieva la suola delle nostre scarpe. Siamo tornati giù di corsa, perché più si avanzava più la terra era incandescente e in alto si vedevano rigoli di fiamma, di fuoco, di lava che scendeva. Ma io parlo di colata di Cielo, un torrente fragoroso, carico di grazia, che attraverso mille ruscelli è arrivato anche a noi, è arrivato a bagnare la nostra testa: l’acqua del Battesimo. Ogni parola, ogni immagine sono inadeguate per esprimere quello che accadde quel giorno, di come fummo avvolti da quella colata di Cielo. Cose grandi, ma fatte proprio per noi. Riascoltiamo allora quelle parole: «Io ti battezzo (ti tuffo, ti immergo) nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo». Riecheggiano le parole che Dio Padre pronunciò su Gesù, che noi sbrigativamente passiamo in rassegna senza lasciarci sconquassare (cfr. Mc 1,11). «Tu sei figlio mio», dobbiamo dircelo nei momenti difficili, quando siamo giù di corda. Andrà male tutto, non riusciamo a rialzarci, ma siamo figli di Dio. E poi Dio arriva a dire «sei l’amato», l’unico, anche se sulla terra siamo in sette miliardi di persone. E infine, ciò sembra paradossale, Dio dice «tu sei una gioia per me». Si può aggiungere splendore al sole con un cerino? Eppure, è scritto così: noi possiamo aggiungere gioia allo splendore del Cielo!
Ecco quello che è accaduto il giorno del nostro Battesimo. È stato come se i nostri genitori, il nostro parroco, ci avessero dischiuso l’anima, come quando si apre una conchiglia e si trova una perla. Siamo fatti di Cielo.
Vorrei mettermi davanti, fare da capofila, per una grande e nuova iniziazione cristiana, perché, in verità, siamo diventati cristiani senza averlo deciso. Alcuni l’hanno deciso nel corso della vita, l’hanno deciso consapevolmente, drammaticamente, perché tra essere cristiani e non esserlo c’è un salto. Invito tutti noi a pensare al nostro Battesimo. Come dice uno scrittore contemporaneo, dobbiamo “far funzionare il Battesimo”, perché il Battesimo funziona solo se lo accendi. Chiedo l’impegno pastorale in tutte le parrocchie a preparare bene il Battesimo, che sia un momento di festa, ma anche di consapevolezza. Propongo di rincontrare i genitori dopo il Battesimo, accompagnarli nei primi anni di vita famigliare, anche se non sono sposati in Chiesa. Il Battesimo non si nega mai! Anche l’incontro con una persona che viene in parrocchia a prendere un certificato, è occasione per riagganciare un rapporto, per chiedere come quella persona sente Dio, come lo vive. Ecco, allora, tutta una Diocesi che si rituffa nel Battesimo. Penso la Diocesi come una piscina dove si tuffano e riemergono cristiani entusiasti, capaci di testimonianza, obbedienti alla volontà di Dio. Sia lodato Gesù Cristo.

Omelia nella Celebrazione eucaristica in occasione del Convegno liturgico diocesano

Valdragone (Casa San Giuseppe, RSM), 27 ottobre 2019

(da registrazione)

Sir 35,15-17.20-22
Sal 33
2Tm 4,6-8.16-18
Lc 18,9-14

C’è una cosa che apprezzo in tutt’e due i protagonisti della parabola narrata da Gesù, il fariseo e il pubblicano: decidono di salire al tempio. Fuori di metafora, decidono di pregare, preparano la preghiera. Penso che la maggior parte della nostra preghiera sia decisa dalla preparazione. Quei due amici che salgono al tempio sono d’esempio per ciascuno di noi, ci insegnano a preparare la nostra preghiera. Ricordo che una volta accompagnai i seminaristi ad un ritiro con padre Andrea Gasparino, che negli anni ‘70 era un grande maestro spirituale. Lui parlò dell’importanza della preparazione della preghiera. Prima di fare la prima meditazione lasciò passare un giorno intero, perché fossimo in grado di accoglierla.
Il problema è come si esce dal tempio. Vediamo due esiti. Il pubblicano entra col peso dei suoi peccati, si mette davanti al Signore e non parla di sé, perché sa che è perdente in partenza. Alza lo sguardo da sé e lo mette tutto in colui che gli sta di fronte, il Signore. Il suo cuore è aperto e il Signore può infondere tutta la sua misericordia. Torna a casa diverso, cambiato, trasformato. Il fariseo, invece, va davanti a Dio pieno di sé, esibendo la bontà di tutte le sue opere. Parte bene, intona un solenne “Te deum”, ma non riesce a lasciare da parte il suo io, così ingombrante. Me lo figuro come una persona austera, santa, che faceva penitenze, mentre il pubblicano gozzovigliava e faceva la cresta sulle imposte, a servizio dei Romani.
Concludo con un testo che lessi alcuni anni fa, di una mistica palestinese, Myriam Bouardy. Myriam riferisce che in una sua esperienza soprannaturale si era trovata all’inferno. Con suo grande stupore aveva visto persone che avevano praticato la castità, persone impegnate nel sociale, liturgisti… Mancava loro l’umiltà. Il Signore, poi, l’ha trasportata in paradiso. Myriam era inorridita, perché aveva incontrato chi era stato un bevitore, chi un bestemmiatore… Ma aveva visto una cosa che non c’era all’inferno: l’umiltà. Sia lodato Gesù Cristo.

Omelia XXX domenica del Tempo Ordinario

Maciano, 26 ottobre 2019

(da registrazione)

25° anniversario di ordinazione presbiterale
di don Maurizio Farneti

Sir 35,15-17.20-22
Sal 33
2Tm 4,6-8.16-18
Lc 18,9-14

Gesù ci racconta una parabola per chiarire la situazione di alcuni, che sono convinti d’esser giusti e disprezzano gli altri. Dunque, la domanda che ciascuno dovrebbe rivolgersi è: «Come sto davanti a Dio?». Gesù, come un abile cameraman, fa una “zoomata” su due personaggi, due uomini che salgono al tempio per la preghiera (il tempio di Gerusalemme, il luogo – dice la Bibbia – dove Dio ha scelto di far abitare il suo nome). Il tempio era luogo privilegiato per l’incontro con Dio, come lo sono oggi le nostre chiese.
Ogni volta che salgo al tempio, cioè alla chiesa, mi rivolgo al Signore dicendo: «Salgo per te? O sono forse vittima dell’abitudine? In chiesa parlo, mi distraggo, penso ad altro?». In chiesa si viene per prendere posto sotto la coperta della preghiera, una coperta sempre troppo corta: o ci si scoprono i piedi (fuori di metafora, si han tante cose da fare) o ci si scoprono le spalle.
In quale dei due protagonisti ci rivediamo?
Il fariseo, eretto, prega in se stesso, si prega addosso. Il centro della sua preghiera non è il Signore, ma lui. Si avvicina a Dio per attirare l’attenzione di Dio su di sé, per farsi ammirare. Il fariseo ha condotto e conduce una vita onesta, osserva le leggi, non smette nella preghiera di elencare tutte le sue opere, sembra uno che intona un solenne “Te Deum”. Parla molto il fariseo, ma unicamente di se stesso. Non si preoccupa di ascoltare il Signore, è soddisfatto di sé, non ha bisogno del Signore. E così se ne torna a casa tale e quale era uscito. Non c’è rinnovamento nella sua vita spirituale. In chiesa ha portato solo la sua vanità.
L’altro personaggio, il pubblicano, si tiene a distanza. Sa che non ha nulla da offrire al Signore. Riconosce i suoi sbagli. Il suo atteggiamento esprime la sua fede. Anche se non osa alzare gli occhi al Cielo, Dio gli è vicino e il suo cuore è rivolto a Dio, non verso se stesso. La sua preghiera, trapuntata di pochissime parole, manifesta la consapevolezza del suo stato ed esprime la sua fiducia nella bontà del Signore. «Mio Dio, abbi pietà del peccatore che sono» (cfr. Lc 18,13). Risultato: è diventato un altro uomo. È un altro uomo, effettivamente, quello che esce dal tempio. Torna a casa sua “aggiustato”, cioè reso giusto, da Dio. È diventato suo amico, ridiventato figlio.
Diciamo grazie al Signore, perché attraverso questi due personaggi ci insegna la vera preghiera e attira la nostra attenzione verso la sua presenza, che è più importante del nostro “io” così ingombrante. «Signore, tu sei nelle nostre chiese, ci inviti e ci attendi, prepari per noi la tavola della tua Parola e quella del tuo pane, l’Eucaristia, che ci mostra il tuo amore senza condizioni, il tuo cuore sempre spalancato verso chi si avvicina a te».
«Questa sera, Signore, ci riempi di gioia per il dono di un tuo sacerdote tra noi, don Maurizio. È tuo e lo dai a noi come segno della tua premura di buon pastore».
Don Maurizio ricorda, insieme con noi, venticinque anni di ministero; ministero tra i giovani, per tanti anni, e poi in diverse comunità, con tante responsabilità diocesane, e qui, ora, in mezzo a noi. Mi sembra di trovare nei venticinque anni del ministero di don Maurizio, come un filo d’oro che li congiunge. È il pensiero ricorrente di considerarsi un discepolo al quale Gesù ha affidato il suo stesso donarsi, fino a percepire il brivido della Passione. Il prete – penso che don Maurizio condivida con me questa esperienza – è la persona più ricca che ci sia sulla terra: risana, benedice, perdona, consacra, ed è la persona più povera, perché pronuncia parole non sue, programma e forze gli vengono da oltre.
Ci sono stati giorni – prego il Signore che non abbiano a tornare – nei quali don Maurizio ha fatto l’esperienza di essere senza forze, senza possibilità di fare e di dire, senza possibilità di fare progetti. In quei momenti, anche a me è toccato di essere aiutato da una meditazione di musica di una grande maestro del Seicento, Dietrich Buxtehude. Contemplando le piaghe del Cristo Crocifisso, questo autore affida al Coro, prostrato ai piedi di Gesù inchiodati alla croce, il versetto di Isaia che dice: «Ecco, i piedi che evangelizzano, piedi inchiodati». Dunque, la vita del prete non è l’attivismo del propagandista, ma la dedizione dell’innamorato.
Il mio augurio a don Maurizio, con tutto il cuore: «Ad multos annos (così per tanti anni ancora)»!

Omelia nella S. Messa di ringraziamento per la professione religiosa di suor Giulia Cenerini

Pennabilli (Cattedrale), 26 ottobre 2019

(da registrazione)

Gen 12,1-4a
Sal 15 (16)
Gv 15,9-17

Carissimi,
quasi non si oserebbe commentare le parole del brano di Vangelo proclamato in questa liturgia di ringraziamento per il dono della chiamata che il Signore ha rivolto e confermato a suor Giulia. Si tratta di un dono per lei, ma è un dono anche per tutti noi, perché è tutta una comunità ad essere incoraggiata nella sua vita di consacrazione battesimale. Dio non si è stancato di noi! Diciamo il nostro “grazie” anche per le vocazioni al ministero sacerdotale e per tutte le altre vocazioni alla vita consacrata.
C’è un comandamento che Gesù dice suo e dice nuovo, inedito: il comandamento dell’amore reciproco. L’attenzione non può che cadere su quel “come”: «Amatevi come io vi ho amato». Non perché noi possiamo amare quanto ha amato Gesù – troppo piccolo è il nostro cuore rispetto al suo –, ma perché possiamo collocarci nella sua stessa lunghezza d’onda. Dobbiamo pensarci dentro al dinamismo di un amore trinitario. Il Battesimo, infatti, ci ha collocati in quell’ambiente divino – un “come” smisurato – non per suscitare in noi sentimenti di inadeguatezza, e quindi di tristezza, ma per suscitare gioia, perché, dice Gesù, «la mia gioia in voi sia piena» (Gv 15,11). Dunque, quello che può apparire un precipizio – ci verrebbe da pensare che il Signore ci colloca così in alto da farci venire le vertigini – in realtà è uno stare dentro a quel grembo da cui veniamo, appunto la Trinità. Dal seno della Trinità siamo stati pensati, amati, voluti, desiderati e quindi creati. «Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi» (Gv 15,16). Perché? Perché «portiate frutti», dice il Signore.
Proviamo a spendere una parola di approfondimento sul tema della vocazione. Nella cultura corrente quando si dice “vocazione” si finisce per indicare non tanto la chiamata di un altro, ma una inclinazione; ad esempio si dice di avere la vocazione a fare il poeta, oppure a fare il calciatore, quasi che la vocazione fosse una propensione, con l’esigenza di autorealizzarsi. Volendomi realizzare, metto in atto tutte le risorse per raggiungere quell’obiettivo. La tradizione cristiana sembra concepire la vocazione in tutt’altro modo, perché la intende come un appello ricevuto da un altro, da Dio, anzi da tutt’Altro, colui che mi fa uscire da me stesso. La vocazione, talvolta, può andare anche all’incontrario dei propri progetti, o almeno come li si è immaginati; essa è anche sinonimo di rinuncia, di sacrificio, di croce, perché bisogna dimenticarsi, rinnegare se stessi. Ricordate cosa dice Gesù a Pietro: «Un altro ti cingerà e ti condurrà dove tu non vorresti» (Gv 21,18). Tuttavia, le due concezioni, così diverse, non necessariamente sono in antagonismo. C’è un punto in cui le due sottolineature si incontrano. Il racconto della vocazione di Abramo, che abbiamo sentito proclamare, può essere letto, effettivamente, sotto questi due aspetti. C’è, da una parte, l’iniziativa divina: Dio chiama, prende la parola per primo, invita Abramo a lasciare la sua terra, il suo parentado. È un imperativo: «Parti», e c’è una promessa: «Io ti benedirò». Ma la promessa non è in forma condizionale; Dio non dice: «Se tu partirai, io ti benedirò». La Parola si impone. Abramo non ha chiesto nulla, ma quella Parola non è efficace se non incontra una libertà interiore, perché non è – quello di Dio – un ordine fatto ad uno schiavo, che non ha altra scelta che obbedire. Abramo è libero di rifiutare. Se accetta l’appello divino è perché, senza dubbio, percepisce, seppure oscuramente, risuonare dentro di lui un desiderio che fino ad allora era rimasto nascosto, magari implicito, accartocciato. Abramo ha bisogno di questo imperativo che viene dall’esterno per risvegliare quel desiderio. La chiamata è liberatrice, perché sblocca energie interiori, dispiega orizzonti impensati, ma che già erano, in qualche modo, presenti in colui che è chiamato. Allora si esce da sé, ma per incontrare un Altro. E non è questo, in fondo, il desiderio che ciascuno porta dentro di sé?

Omelia durante la celebrazione del Mandato agli operatori pastorali

Pennabilli (Cattedrale), 22 settembre 2019

(da registrazione)

Carissimi,
è un momento molto bello, di famiglia, e la prima parola che mi viene spontanea, la stessa che ho detto l’anno scorso, è: «Grazie!». Grazie, a nome di tutte le comunità e a nome di tutta la Diocesi. Ognuno di voi si impegna, lavora, soffre, vive il sacerdozio regale, la profezia, la regalità.
C’è una parola che è tornata spesso l’anno scorso, una parola che ha suscitato stupore: il dire che noi abbiamo scoperto la risurrezione nella morte. Apparentemente è lapalissiano dire “risurrezione nella morte”: se c’è risurrezione, bisogna che ci sia prima la morte. Ma non è in questo senso che dobbiamo intendere l’espressione e neanche in senso masochistico, intimistico: siccome siamo in situazione di prova, di morte, allora ci consoliamo con questa speranza. No, la risurrezione è un messaggio di liberazione, di luce, di salvezza.
Dove trovare la risurrezione, potenza di Dio? La troviamo annidata dentro le situazioni di fallimento, di fragilità, di morte. Situazioni che sembrano montagne impossibili da spostare. La fede sposta le montagne; la fede nella risurrezione ci fa vivere il fallimento, la fragilità, la prova con una grande speranza. Mi diceva una persona che lavora alla Congregazione per la dottrina della fede che fra i temi candidati per il prossimo Sinodo ci sarà quello della vita eterna. Considerare la vita eterna non significa sminuire l’impegno sulla terra, ma noi siamo quelli che credono nella risurrezione, ultraterrena ma presente già nella nostra vita; siamo quelli che osano immaginare di “spostare montagne”. Gesù ha detto che basterebbe la fede di un granellino di senape per spostarle. Beninteso, non dobbiamo spostare il monte Carpegna, ma le montagne dentro di noi e attorno a noi (nella società).
Ricordo un vecchio “spiritual” (i blues composti dagli schiavi che lavoravano nelle piantagioni di cotone) che dice più o meno così: «Dove hai trovato quella veste bianca tu che sei sempre sporco, impolverato, sudato? Questa veste bianca l’ho trovata alle porte dell’inferno». C’è risurrezione nella morte! Questo è il kerygma. Lo dico con le parole semplici, incisive, puntuali, brevi di papa Francesco: «Dio ti ama immensamente. È vivo. È vicino. Ti libera. Ti salva». Questo kerygma è stato anzitutto sillabato da Gesù. Gesù si è trovato davanti una montagna insuperabile che era la sua Passione. Ha pregato di essere liberato (cfr. Ebr 5,7). La Scrittura dice che fu liberato… Ma come? È morto! È stato liberato perché ha saputo vivere da figlio quella prova: ha spostato la montagna, è risorto. E Gesù dice a noi, a nostra volta, di fare questo annuncio. Un tempo si diceva “con le parole e con le opere”. San Francesco preferiva dire: «Qualche volta anche con le parole».
La nostra situazione è stata raffigurata molto bene con un’immagine, il dipinto di Caravaggio: “Paolo caduto da cavallo”. Ecco la nostra Chiesa. Essendo caduta da cavallo, ha le ossa rotte. Ne ho parlato con Sveva, la nostra eremita, che mi ha detto ironicamente: «Avrebbe dovuto fare a meno di andare a cavallo!». Fuori di metafora: una Chiesa che va a cavallo, tronfia e dominatrice, terrena, diventata talvolta potenza, può cadere facilmente. Nel dipinto di Caravaggio, Paolo è dipinto con le mani in alto, gli occhi socchiusi, che si intravvedono appena: è nell’atteggiamento dell’umiltà, che fa presagire tutto quello che l’apostolo farà. San Paolo ha tutt’altro che le ossa rotte. Così penso la Chiesa, al di là degli incidenti di percorso. Il Papa ha aperto il percorso delle sue catechesi parlando delle potenze di questo mondo che si sbriciolano. Ma la Chiesa guarda Gesù.
Mi preme sottolineare che kerygma e Battesimo non sono in sovrapposizione e non sono due realtà giustapposte. Il kerygma sfocia quasi automaticamente, per sua natura, nel sacramento del Battesimo. E il sacramento è annuncio. Dunque, non viviamo un altro tema rispetto all’anno scorso. C’è una continuità intrinseca. Il Battesimo non fa altro che sancire, manifestare, la nostra configurazione al Figlio.
Nel prefazio della S. Messa (la preghiera che introduce il canto del Santo), oggi, abbiamo ascoltato queste parole: «Così hai amato in noi ciò che tu amavi nel Figlio». C’è una sorta di scambio: quando il Padre guarda ciascuno di noi, riconosce nientemeno che Gesù, perché siamo entrati nella Trinità nel Figlio. È un modo di esprimersi figurato, imperfetto, analogico, ma è così. Il Padre vede Gesù in ciascuno di noi. Per questo Gesù ha potuto dire: «Anche un bicchier d’acqua dato al più piccolo dei fratelli è stato dato a me» (cfr. Mt 10,42). Ciò è accaduto per l’incarnazione.
Come hanno detto gli amici che hanno presentato il Programma pastorale, il Battesimo va fatto “funzionare”: una parola non appropriata, ma che fa capire bene. Ancora meglio usare le parole di Gesù: «Non si accende una lucerna per metterla sotto il moggio, ma sopra il lucerniere perché faccia luce a tutti quelli che sono nella casa» (Mt 5,15). Inoltre, invito a ricorrere alla grazia del Battesimo. Quando abbiamo davanti difficoltà o decisioni che non sappiamo prendere, occorre ricordarci del Battesimo. Bisogna riscoprirlo. Ma c’è anche una dimensione comunitaria. Qui riuniti siamo un popolo di battezzati, che annunciano di essere figli di Dio.

Concludo con alcuni avvisi “pratici”.

  1. Ci diamo tutti appuntamento alla vigilia di Pentecoste, sabato 30 maggio, per un momento di verifica. È giusto avere la possibilità di esprimersi, anche di rivolgere critiche, purchè siano costruttive (nel quaderno del Programma pastorale troverete una decina di pagine con la sintesi di tutto quello che è stato detto nell’assemblea diocesana del giugno scorso).
  2. Una grande novità, per non tenere “in folle” il nostro motore, è un modo nuovo di parlare della formazione degli adulti. Abbiamo usato il termine “laboratori della fede” (anche se già ci sono in molte parti della Diocesi) per dare l’idea che non dev’essere una lezione cattedratica, ma un’esperienza di comunità da creare, plasmare o rinnovare. Ringrazio l’Ufficio Catechistico Diocesano che ha preparato delle schede di lavoro, un piccolo strumento contenente una preghiera d’inizio, alcune note del Catechismo della Chiesa Cattolica sul Battesimo, spunti di riflessione e un impegno pratico per il mese.
  3. Concludo dicendo che dovete voler bene, apprezzare, gli Uffici Pastorali. Non si tratta solo di distribuire e affiggere manifesti, pur necessari perché abbiamo bisogno di comunicare. Ringrazio tutti gli Uffici Pastorali per il loro puntuale e generoso servizio.

Grazie per il vostro ascolto e per la vostra partecipazione.
Buona preghiera e buona continuazione

Omelia XXIV domenica del Tempo Ordinario

Pietramaura, 15 settembre 2019

(da registrazione)

Es 32,7-11.13-14
Sal 50
1Tm 1,12-17
Lc 15,1-32

C’è tutta una Diocesi, la nostra, che non è soltanto in afflizione per il ridimensionamento delle forze, ma accoglie con tanta gioia e con un senso di novità il grande annuncio: «Il Signore ci ama immensamente, è vivo, è accanto a noi per aiutarci». Queste parole sono il kerygma, l’annuncio iniziale. L’anno scorso ne abbiamo parlato molto in Diocesi; lo abbiamo paragonato al Big Bang dell’inizio del cosmo. Il Big Bang della nostra fede è proprio questo: Gesù è risorto ed è la prova che Dio ci ama immensamente. Un fatto che recupera la nostra vita.
Quest’anno dobbiamo fare un passaggio ulteriore. Il kerygma non è una frase sparata nel cielo delle nostre anime, ma è una realtà. Dov’è che la possiamo toccare, accarezzare? Nel santo Battesimo. Per la stragrande maggioranza di noi il Battesimo è un ricordo lontanissimo; magari ne è rimasta solo una fotografia ingiallita o una catenina; qualcuno ricorda il padrino o la madrina, e il prete che l’ha battezzato. Nei registri della parrocchia sono riportati i nomi dell’anagrafe ecclesiastica, ma per molti non è nulla di più. Quest’anno dobbiamo impegnarci al massimo per recuperare la bellezza, la vitalità del Battesimo che è in noi, come un germe che deve crescere, svilupparsi.
Qual è la prima verità del Battesimo? Il Battesimo fa diventare figli di Dio. Tutte le religioni dicono che gli uomini sono figli di Dio, perché Dio è il creatore e noi siamo la sua creatura. Noi cristiani parliamo di adozione filiale, dove il termine adozione è ancora povero, pallido, perché dà l’idea di qualcosa di giuridico: abbiamo deciso che tu, nonostante sia nato da altri, d’ora in poi sia figlio di questa coppia. L’adozione filiale, invece, è la nostra partecipazione alla vita di Dio; dunque, una cosa grandiosa.
Durante quest’anno penseremo spesso che siamo diventati figli nel Figlio. Questa formula vuol dire che, quando Dio Padre vede ciascuno di noi, vede Gesù. Questo è vero anche in senso alternato. Quando il Padre abbraccia il Figlio Gesù, in Gesù vede ciascuno di noi. Questo vale per tutti.
Tutto il cap. 15 del Vangelo di Luca è una fotografia che Gesù ha fatto del Padre, il Padre misericordioso che guarda da lontano che il figlio ritorni. Il figlio torna, non per amore ma per fame. Al padre basta un incipiente atto di amore. Se il figlio cammina, il padre corre. Se il figlio muove i primi passi verso, il padre è già lì. Allora è festa.
Gesù dice: «C’è più gioia in cielo per un peccatore che si converte di novantanove giusti che non hanno bisogno di conversione». Pensate, noi portiamo gioia al paradiso; sarebbe come dire che portiamo luce al sole, una contraddizione in termini.
Viviamo questa settimana pregustando la bellezza del Battesimo, che è la vocazione ad essere figli nel Figlio. Domenica prossima gli operatori pastorali, i catechisti, gli insegnanti di religione, i volontari Caritas, tutti i cristiani, sono invitati in Cattedrale a Pennabilli alle ore 16 per la Giornata del Mandato. Il Vescovo conferisce l’incarico a tutti, assicurando loro che li accompagna la grazia del Signore. In quel contesto verrà annunciato e spiegato il Programma pastorale per il nuovo anno. Noi cerchiamo di correre, ma non come uno che non ha meta (cfr. 1Cor 9,26). La meta l’abbiamo. Quest’anno è riappropriarci del nostro Battesimo. Così sia.

Omelia in occasione dell’Ordinazione presbiterale di don Luca Bernardi

Pennabilli (Cattedrale), 14 settembre 2019

(da registrazione)

Ger 1,4-9
Sal 95
Ebr 5,1-10
Gv 21, 15-17

«Ich bin catholischer priester»: sono le parole esatte che san Massimiliano Kolbe scandì davanti al comandante delle S.S., quando si offrì per prendere il posto di un altro nel bunker della morte ad Auschwitz. Una parola che si è andata ad infrangere una seconda volta davanti allo stupore massiccio e incredulo del comandante: «Ich bin catholischer priester» (io sono un prete cattolico); parole pronunciate con fierezza, parole pronunciate per amore. Fierezza e amore.
La fierezza della fede non è arroganza, ma gioia di appartenere a Gesù Cristo; bellezza di una scelta e di una missione che riempiono il cuore. Sii fiero di essere un prete cattolico, don Luca, ultimo di una schiera di preti che hanno educato, servito, amato questa terra. Oggi, più che in altre epoche, esser prete appare un’avventura – quasi un’imprudenza, secondo qualcuno – pensando alla tua giovane età e alla durezza dei tempi. Ma c’è stata una bella preparazione: la tua famiglia, Ferrara e questi ultimi anni di studio e di tirocinio. Poi, c’è la gioia del popolo di Dio. Anche questo è un segno. C’è, soprattutto, il sigillo del Signore che ti ha chiamato e, come al profeta Geremia, dice a te: «Prima di formarti nel grembo materno, ti conoscevo, prima che tu uscissi alla luce, ti avevo consacrato… Non dire: “Sono giovane, ma va da coloro a cui ti manderò”» (Ger 1,5.7).
Questa sera diventi un prete della Chiesa cattolica. Non allontanartene mai. Sia sempre salda la tua unità con il Sommo Pontefice e con il Vescovo, in comunione con i tuoi fratelli presbiteri, a servizio di questa Chiesa, forse tra le più piccole, ma a pieno titolo sposa del Signore.
«Io sono un prete cattolico»: parole pronunciate per amore. Quello del Signore Gesù. Qui non si parla tanto della virtù della carità, pur tanto bella e necessaria, ma del fatto che tu, attraverso il sacramento, sei fatto carità. Starei quasi per dire “nonostante te”, senza negare la tua libertà e la tua collaborazione alla grazia.
Ce ne parla la Lettera agli Ebrei. Un accenno. Il sacerdozio di Cristo, a differenza di quello di Aronne (Antico Testamento), conosce un movimento discendente, quasi un piano inclinato. I Padri parlavano di condiscendenza. Contempliamo, anzitutto, il “sì eterno” del Verbo nell’unità col Padre («Ecco, io vengo per fare la tua volontà» cfr. Sal 39,8), l’incarnazione, la vita nascosta a Nazaret, la familiarità con la gente, il cammino rigato di sudore e di polvere verso Gerusalemme, la Passione, il dolore innocente; infine, il dono totale di sé sulla croce («Tutto è compiuto» Gv 19,30). Gesù, sospeso fra cielo e terra, diviene altare, vittima e sacerdote. Sacrificio cruento. «Padre, liberami da quest’ora – aveva detto Gesù –, aggiungendo poi, «ma è per quest’ora che sono venuto» (Gv 12,27). Non tutto è compiuto: resta per noi, incantati e stupefatti da tanta condiscendenza, da considerare l’estrema offerta: in virtù della risurrezione il suo donarsi, il suo perdersi, il suo cedersi nel Pane eucaristico. Noi adoriamo la sua presenza nel dono di quel pane spezzato e di quel vino versato. Oltre, la nostra meditazione non saprebbe spingersi. A quali altre profondità rintracciare la kenosis – l’umiliazione condiscendente – del Verbo fatto uomo, del Figlio obbediente, del Risorto che si fa pane di vita. Diremmo: siamo al capolinea! Più in basso di così non poteva spingersi, fattosi grumo di materia, farina impastata con l’acqua.
C’è una sorpresa: Gesù, in una eccedenza ineffabile di carità, cede la sua stessa capacità di cedersi, dona la sua stessa capacità di donarsi, perde la sua stessa capacità di perdersi. A chi la cede? A chi la dona? In chi la perde? Nel prete. In te, don Luca, che questa sera pronuncerai efficacemente le sue parole: «Questo è il mio corpo dato per voi…». La carità di Cristo è perduta in te. O meglio, tu sei costituito carità in Lui: bellezza incredibile del sacerdozio cattolico.
Da qui conseguenze, responsabilità, programmi di vita… Il prete è l’approssimazione più grande che si possa attuare quaggiù, sulla terra, della presenza visibile del Cristo.
«Scelto fra gli uomini… Costituito per gli uomini nelle cose che riguardano Dio» (cfr. Ebr 5,1). «Nessuno può attribuirsi questo onore, se non chi è chiamato da Dio» (cfr. Ebr 5,4).
Egli, il Cristo, «offrì preghiere e suppliche con forti grida e lacrime a Dio che poteva salvarlo dalla morte e, per il pieno abbandono in lui, venne esaudito» (cfr. Ebr 5,7). In che modo si compì l’esaudimento di quella preghiera «con forti grida e lacrime», se poi è morto sulla croce? In questo fu esaudito: nel poter vivere da figlio quella prova e divenire causa di salvezza. E ora? «Un corpo mi hai dato» (Ebr 10,5), dice il Verbo entrando nel mondo. Non angeli vengono mandati, ma uomini di carne per compiere la missione. Ha scelto uomini, ha scelto te, don Luca, e ti ha scelto insieme al nostro presbiterio, con il nostro popolo. Applichiamoci a far entrare in questa carità tutta la nostra persona: anzitutto un prete uomo.
Ci sono preti che sembra non abbiamo mai avuto una vita d’uomo. Non sanno pesare le difficoltà di un laico, di un padre di famiglia o di una madre con il loro vero peso umano. Sembrano, alcuni preti, non percepire veramente, realmente, dolorosamente, che cosa sia una vita di uomo o di donna.
Quando dei laici cristiani incontrano finalmente un prete-uomo che li capisce, che sa entrare nella loro vita, nelle loro difficoltà, non ne perdono più il ricordo. Ad una condizione: che non sminuisca la propria identità, che non diventi semplice compagno, ma resti padre.
Il nostro popolo ha ugualmente bisogno che il prete-uomo viva di una vita divina. Pur vivendo tra la gente – come suol dirsi: «con l’odore delle pecore» (Papa Francesco) – deve in qualche modo rimanerne al di fuori. Ecco alcuni segni che fanno percepire la presenza divina che è in lui, la carità che è effusa. Un elenco rapidissimo, alcune pennellate.
La preghiera. Ahimè, forse hai visto in noi, preti “di molte preghiere”, ma di poca preghiera.
La gioia. Quante volte ti siamo apparsi affaccendati, angosciati, tirati come la pelle di un tamburo, quasi che il lavoro nella vigna del Signore fosse insopportabile.
La forza. Il prete vero è colui che tiene, che tiene botta! Sensibile, vibrante, a volte intimorito, mai però demolito (non cullare mai pensieri rinunciatari o dimissionari; missionari sì, ma non dimissionari).
La libertà. La gente vuole il prete libero da ogni formalismo, liberato soprattutto da ogni pregiudizio.
La discrezione. Dev’essere colui che tace; non mi riferisco al segreto di Confessione, è ovvio, ma alla riservatezza (si perde la fiducia in chi ci fa troppe confidenze o si perde nel chiacchiericcio). Ben altra cosa sono la condivisione e la comunione d’anima.
Caro don Luca, hai appena iniziata la tua formazione – anche se hai già fatto sei anni di Seminario – ora continuala sul campo: viceparroco a Dogana, nel Centro Diocesano Vocazioni, tra i giovani e nell’AGESCS. Lasciati prendere da quella “legge di gravità” che ti trascina istintivamente verso i più poveri, i più fragili, i più piccoli. Cresci nel sentire con la Chiesa: non parlare mai con leggerezza della Chiesa, come se fossi uno di fuori. Fa’ che il tuo cuore risponda sempre col trasporto di oggi alla domanda che il Risorto ti rivolge: «Luca, mi ami più di costoro? […] Mi ami? […] Mi vuoi bene? Allora… Pasci!». Così sia.