Belforte all’Isauro (PU), 10 agosto 2020
2Cor 9,6-10
Sal 111
Gv 12,24-26
Saluto i miei confratelli sacerdoti, chi serve all’altare, le Autorità, il coro e tutti voi.
Abbiamo cantato: «Il Signore ama chi dona con gioia». A tutti piace essere amati: alla sposa dallo sposo e allo sposo dalla sposa, al maestro dagli alunni, al parroco dai parrocchiani… In virtù dell’essere amati, proprio perché amati, esprimiamo il meglio di noi stessi e il meglio di noi è: donare. Siamo stati creati per donare. Sant’Agostino dice che Dio «ama per amarci». Non è una tautologia, ma un’analisi psicologica che sant’Agostino fa. Amandoci, Dio suscita amore nella creatura. Se la creatura ci sta e corrisponde, Dio può amarla ancora di più e la creatura amerà, a sua volta, ancora di più. Qui sta tutta la dinamica dell’amore, con la conseguenza del dono e la sorpresa della gioia.
Veniamo, e ne siamo ancora coinvolti, da una grave epidemia. Di per sé non vengono pensieri di gioia, semmai di ansia, paura, solitudine, attese e diagnosi, sofferenze e lutti. Più di qualcuno ha fatto l’esperienza del crollo attorno a lui, quasi un terremoto, e del crollo in lui. Tante certezze sono andate in frantumi. Si è capito che di tante cose si può fare a meno, siamo stati portati all’essenziale, guardando ogni giorno alle piccole cose, piccole e grandi gioie: una telefonata, una serata a guardare insieme un film o a sfogliare un album di vecchie foto, il ritrovare la dimensione della preghiera fatta insieme, lo scoprire che la famiglia è piccola Chiesa domestica.
«Il Signore ama chi dona con gioia». Qualche volta – ammettiamolo – è stata una gioia un po’ “tirata”, perché abbiamo sorriso per non impensierire, per incoraggiare o per sdrammatizzare. Ma l’amore scende dove si dona, dove si ama, dove si sa dare un significato al soffrire. Preciso: donare non è fare un’elemosina, ma mettersi in gioco, perché nel dono c’è qualcosa di sé che viene ceduto. Il dono è qualcosa di me presso di te. Ogni tanto guardo l’anello che porto al dito e mi viene da pensare a papa Francesco che me l’ha donato. C’è qualcosa di papa Francesco in me.
«Il Signore ama chi dona con gioia… e lo benedice». Collego questa frase della Sacra Scrittura ad un’altra che suona così: «C’è più gioia a dare che a ricevere» (At 20,35). Gioia, dono, amore: tutte parole divine. La sera, quando siamo stanchi per le preoccupazioni, per le tante incombenze, spegniamo la luce e in un attimo ripercorriamo la giornata. Vediamo tante perle come in una collana, tenute insieme da quel filo che è la consapevolezza d’aver amato. Tutto questo ci insegna Lorenzo, un giovane che ama con intraprendenza, che ama “facendo”, fino al dono di sé. Lorenzo fu scelto dalla comunità di Roma per occuparsi della carità.
Il Salmo che abbiamo letto poco fa ci ha detto che è «beato l’uomo che teme il Signore». Preciso: il timore del Signore non è la paura. La mano di Dio non ha il dito puntato, ma è una mano tesa a soccorrere. Allora chi teme il Signore, cioè ha considerazione del Signore, a sua volta si fa mano che soccorre, che aiuta. Il Salmo ci ha detto: «Felice l’uomo che dà in prestito, che amministra i suoi beni con giustizia, che dona largamente ai poveri…». Così la tradizione ci ha tramandato l’esperienza cristiana di san Lorenzo, un santo della carità, attento alle povertà, disposto a mettersi in gioco. Il convincimento che sta alla base di ciò che Lorenzo fa non è altro che la certezza che il Regno di Dio è il tesoro, la perla, la realtà di valore assoluto. Per il tesoro vale la pena dare via tutto, se necessario (cfr. Mt 13,44-45). Questo ci dice con la sua vita Lorenzo. Amare è il più grande degli affari e per amare, Lorenzo, si fa povero. Come potrebbe donare se stesso se attaccato alle cose o ai soldi? A quel punto il Signore sorprende, perché dice a Lorenzo e ad ognuno di noi (per questo uso il “tu”): «Tu, sei mio tesoro e mia perla, sei degno di stima, prezioso ai miei occhi (cfr. Is 43,4); per te il Signore perde tutto e da ricco che è si fa povero, per arricchirti con la sua povertà (cfr. 2Cor 8,9). Tu sei il suo “affare”, e lo dice a ciascuno di noi: non si può che essere stupiti davanti a questo. Che cosa dobbiamo fare? Dobbiamo pensare di ogni fratello e di ogni sorella che ci è accanto che è “affare” di Dio, tesoro e perla. Chiediamo la grazia di saper andare oltre le apparenze, di vedere l’altro come Dio lo vede. Proviamo a pensare alle persone con cui è più difficile relazionarsi, alle persone che “a pelle” ci sono antipatiche… Consideriamo come Dio le ama, superando l’ostacolo più grande che sono i pregiudizi che vengono dalla diversità della razza, della cultura, della politica e anche quelli ecclesiastici. Lorenzo, quando gli fu chiesto di consegnare i tesori e le ricchezze della Chiesa, secondo la tradizione, mostrò i poveri: ecco il tesoro della Chiesa! Per questa sua ironia verrà condannato ad una morte atroce. Finirà come il chicco di grano di cui ci ha parlato il Vangelo. Siamo al capitolo 12 del Vangelo di Giovanni. Gesù capisce che la congiura contro di lui è alla stretta finale. È il momento più drammatico della sua vita, il suo Getsemani: «L’anima mia è turbata» (Gv 12,27). Gesù ha paura della morte, è sconvolto al pensiero dell’abbandono, delle sofferenze, del fallimento. È angosciato e prega Dio «con forti grida e lacrime» (Ebr 5,7) di risparmiargli quella prova. Fu ascoltato? Certamente. La preghiera è sempre ascoltata, anche se non a modo nostro. Fu esaudito per la sua pietà, non con il liberarlo dalla morte, ma liberandolo dal desiderio di salvare se stesso. Anche Gesù ha passato un’ora di oscurità. In quella notte il Padre lo illumina, gli fa capire che la sua passione non è il compimento di un destino crudele, ma il compimento della sua vocazione. Gli ricorda che il chicco di grano seminato per terra deve morire per portare frutto. Se vuole essere “l’uomo per gli altri” deve esserlo fino in fondo. Non deve ritirarsi, gettare la spugna nell’ora della prova. Il Padre gli fa capire che non può spezzare il cerchio del peccato, delle violenze, dei fanatismi, dell’odio che si abbattono su di lui come Agnello innocente e, nello stesso tempo, avere una vita tranquilla e onorata. «Venne allora una voce dal cielo: “L’ho glorificato e lo glorificherò”» (Gv 12,28). Gesù aggiunge: «La voce del Padre è per voi» (cfr. Gv 12,30).
Anche noi siamo tentati di fidarci più dell’istintivo amore di noi stessi che della parola del Vangelo. Ci succede di pensare: «Mi sta bene la fedeltà al Signore, purché non disturbi la mia quiete, non mi chieda di andare contro corrente, di andare incontro a prese in giro, contrasti, critiche. Sono pronto all’impegno comunitario, basta che il Signore non pretenda di sconvolgere le mie abitudini, i miei ritmi, i miei programmi… Mi piace fare qualcosa per gli altri (volontariato, servizi, ecc.) finché gli altri sono educati e riconoscenti, finché non irrompono nella mia vita e non mi lasciano più un momento per me stesso». Queste sono le grandi tentazioni. Impariamo da san Lorenzo a superarle. Così sia!