Omelia nella Veglia per la vita nascente

Serravalle (RSM), 4 dicembre 2020

Sap 11,21-26
Sal 139

1.

Mi piacerebbe dire qualche cosa di nuovo sulla vita. Tante volte ho ribadito il no a tutto ciò che non è accoglienza alla vita. Insieme abbiamo affermato il nostro impegno per creare condizioni che favoriscano la maternità. Abbiamo cercato, per quanto ci è possibile, di alimentare una cultura per la vita. E tutto questo non è mai scontato.
Tuttavia, c’è della novità: è il nostro essere riuniti questa sera per cantare la bellezza della vita. Siamo qui per “dire bene” della vita, anche se ci troviamo nel momento di una grande prova nazionale, mondiale.
Inizio col ringraziare chi anima in questo senso la Diocesi e chi ha organizzato questo momento di preghiera.
Dico grazie alle mamme in attesa: il frutto del loro grembo è un segno di speranza, di futuro e di gioia per tutti. Grazie a quanti sanno adottare, ospitare, curare… testimoniare l’unicità e preziosità di ogni vita umana.

2.

Papa Francesco ci ha ricordato come tutti gli esseri umani siano uniti da legami invisibili e formino una sorta di famiglia universale, una comunione sublime che spinge ad un rispetto sacro, amorevole e umile. «Se si perde la sensibilità personale e sociale verso l’accoglienza di una nuova vita – dice papa Francesco – anche altre forme di accoglienza utili alla vita sociale si inaridiscono» (Papa Francesco, Discorso ai partecipanti all’incontro promosso dalla Federazione internazionale delle associazioni dei medici cattolici, Sala Clementina, 20.9.2013). L’amore del tutto speciale che il Creatore, Dio Padre, ha per ogni essere umano gli conferisce una dignità infinita. Ecco il fondamento della bellezza della vita. Nel Programma pastorale di quest’anno uno dei punti qualificanti consiste nell’invito a mettersi davanti al mistero della creazione, anzi di Dio Creatore. Vi chiederete perché e come. La partenza è la stessa. Dalla tomba vuota all’incontro con Gesù Risorto, dal cuore della fede cristiana alla necessità di comunicarla. «Noi non possiamo tacere – dicono gli apostoli davanti al sinedrio – quello che abbiamo visto e ascoltato» (cfr. At 4,20). Così nasce insopprimibile e incontenibile la missione di ogni battezzato. Ecco perché, dopo aver indugiato per un paio d’anni sul tema della risurrezione e del Battesimo, stiamo dedicando tempo, riflessione e preghiera al tema della missione. Ho usato impropriamente la parola tema: non è un tema, un argomento accanto agli altri, è vita in espansione.
ominciamo dal metterci in ascolto come fa Dio, perché la missione parte da lì: ce lo insegnano anche i missionari che sono nella frontiera dell’evangelizzazione. Prima ascoltano, poi parlano, si uniscono. Tutti avete presente il racconto del roveto ardente, metafora splendida e pertinente per noi che ci troviamo davanti a Gesù Eucaristia. Il roveto ardente è cuore del Creatore. Mosè sente la voce di Dio che gli rivela la sua empatia per la creatura. Dio osserva l’oppressione, conosce la sofferenza, ode il grido di dolore e solo allora – dopo aver ascoltato attentamente e aver partecipato con il suo cuore – scende ed entra nella storia per intervenire. Osserva, conosce, ode, scende: quattro verbi ed un programma. «Il Dio che si rivela a Mosè non è il Dio impassibile dei filosofi – diceva Blaise Pascal – egli soffre una passione d’amore».
Stando davanti al roveto ardente impariamo non solo ad ascoltare Dio, quello che ha da insegnarci, ma soprattutto impariamo ad ascoltare come fa Lui.
Eccoci, allora, in ascolto: com’è la situazione attorno a noi?

  1. C’è tanta paura; sono scosse alcune fondamenta della nostra società: la salute e il denaro. Se prima si correva con ansia e fretta, ora si va con il vuoto dentro e con tanta incertezza: questo vediamo attorno a noi. In questo mondo, profondamente ferito, ci si ritrova più poveri e più fragili. Lo eravamo anche prima, ma non ce ne accorgevamo. Eravamo come chi, sul treno, era impegnato in mille cose, a chiacchierare o a leggere o ad ascoltare musica con le cuffie all’orecchio… Poi, improvvisamente il treno si ferma e tutti scendono. Il treno è fermo. C’è un guasto.
  2. Non possiamo ignorare le drammatiche derive dell’ambiente e del clima.
  3. L’ascolto attento della realtà culturale di oggi, in cui siamo immersi e di cui facciamo parte, ci pone delle questioni su temi importantissimi, ahimè spesso divisivi. Dovremmo trovare il modo di dialogare su questi temi senza alzare muraglie. Sono i temi della vita, della sessualità, dell’amore, della famiglia. Tutti temi strettamente connessi con l’antropologia e quindi riconducibili alla realtà della creazione.

La Parola di Dio che abbiamo udito questa sera ci ha ricondotti ad una professione di fede: «Come potrebbe sussistere una cosa, se tu non vuoi? O conservarsi se tu non l’avessi chiamata all’esistenza? Tu risparmi tutte le cose perché tutte son tue, Signore, amante della vita» (Sap 11,25-26). La fede sulla creazione è di capitale importanza. Se non la si conosce con chiarezza, profondità, semplicità, il nostro impegno manca di un fondamento. L’impegno per la vita e per la famiglia è sicuramente basato anche sulla ragione. Tuttavia, per noi credenti è molto importante riallacciarsi alla grande verità della creazione.

3.

La verità della creazione risponde ad una triplice domanda. La prima: che cosa sta all’origine del mio esserci? Il caso? La necessità? La seconda: che cosa sta alla fine del mio esserci? Il nulla? Sono destinato a finire interamente? Talvolta, ho provato ad immaginare i sette miliardi di esseri umani in una valle come la val Marecchia che salgono sul monte Carpegna: un enorme formicaio! E sul crinale una doppia eventualità: il precipizio, il vuoto, il nulla, oppure un infinito giardino. La fede ci dice che di là dal monte c’è pienezza di vita.
Terza domanda: che senso ha allora la vita che viviamo, quella che sta frammezzo, tra l’origine e la fine?
La domanda più radicale è la prima. All’origine della persona sta l’atto di intelligenza e di volontà di un Padre che decide di pormi in essere: questa è la nostra fede. Il Padre ha pensato ciascuno di noi; fra le infinite persone umane possibili ha voluto che esistessimo io, tu, noi, non altri. Ci ha scelti. Quando da ragazzino mi hanno spiegato i misteri della vita e del concepimento, ero sbalordito al pensiero che sono nato proprio io tra migliaia di possibili fratelli!

4.

Dio non è stato spinto a creare – e a creare me – da alcuna necessità, né per avere alcun beneficio, anche se fossi Einstein o Bach. È felicissimo che i suoi figli diano il meglio, sviluppino i loro talenti, ma la sua è una decisione assolutamente gratuita e libera. Non esisto per caso, non esisto per necessità: esisto per amore. La prima conseguenza di questa verità è che non c’è nessuna persona umana che non sia degna di esistere, nessuna vita umana che non abbia significato. Ogni persona, indipendentemente da ogni altra considerazione, è degna di rispetto infinito, di ammirazione, di incanto. Abbiamo cantato: «Ti lodo, Signore, perché mi hai fatto come un prodigio» (cfr. Sal 139,14).
Nella produzione degli oggetti si può parlare di un prodotto riuscito bene o male; i prodotti non riusciti si scartano. Ma nessuno esce dalle mani del Padre non prodotto bene. A volte ci lamentiamo di noi stessi, vorremmo essere diversi: sbagliamo. Certo, c’è la sequoia e c’è la forsizia di primavera, c’è il pero e c’è il pino… Ma ciascuno è un capolavoro agli occhi del Padre che lo ha pensato e amato.
Alla seconda domanda rispondo che Dio ci ha voluto per farci partecipi della sua vita, perché fossimo figli nel Figlio. Lui quando mi guarda vede Gesù-Andrea. Così di ciascuno dei suoi figli.
Alla terza domanda rispondo che la vita che si dispiega tra l’origine e la morte è dotata di un senso formidabile. Il Padre non tradirà mai la sua paternità, né mai vi rinuncerà. Nelle sue creature vede il Figlio, Gesù Cristo. Vivere umanamente, in piena umanità, è vivere in Cristo, con Cristo, come Cristo. Non c’è una vita pienamente umana e poi una vita in Cristo. È la vita in Cristo che è pienamente umana e, la vita che ancora non ha incontrato Cristo, vive ugualmente in Lui.
Riprendiamo il Salmo 139. Preghiamolo in silenzio per qualche istante. E il cuore sia pieno di gratitudine e di gioia per la bellezza della vita!

Omelia nella festa di Sant’Andrea Apostolo

Caprazzino (PU), 30 novembre 2020

Rm 10,9-18
Sal 18
Gv 1,35-42a

Quando sono venuto tra voi per la Visita Pastorale ho dedicato una serata al Programma pastorale della Diocesi. Quel Programma era agli inizi, cominciava a configurarsi (il Vescovo non si mette a tavolino a scrivere il Programma: il progetto si costruisce insieme nei vari incontri diocesani). Perché un progetto? Non basta il fervore nella preghiera, praticare la carità, testimoniare la fede ed amare il Signore con tutto il cuore? No. È necessario che il pastore provi a tenere unite le “pecorelle”, per camminare tutti insieme verso una direzione. C’è il grande Programma della Chiesa che è l’Anno liturgico: ogni anno la Chiesa ci prende per mano e ci offre un percorso di spiritualità, di evangelizzazione, facendoci gustare la vita di Gesù e il suo “mistero”. Sempre più in profondità, come una spirale che si avvita. Vorremmo abbracciare tutto, tutto in una volta, tutto in un solo momento, il Signore Gesù, ma siamo sulla terra e dobbiamo svolgere e distendere il mistero della sua vita nel cerchio di un anno: questo è il Programma della Chiesa universale. Poi, c’è un altro Programma, quello che ci dà il Santo Padre papa Francesco: ci sta dicendo, ad esempio, che dobbiamo avere a cuore i più svantaggiati, i poveri. Lui ha il punto di vista di tutto il pianeta; parla tutti i giorni con personalità internazionali.
Anche la Diocesi ha il suo Programma pastorale e bisogna che le parrocchie cerchino di camminare in accordo con esso. Siamo partiti dalla constatazione che moltissimi sono cristiani senza aver mai deciso di esserlo. Siamo nati qui, ci hanno dato il Battesimo quando eravamo molto piccoli, ci hanno insegnato religione a scuola, abbiamo fatto la Prima Comunione e la Cresima… Ma abbiamo veramente incontrato Gesù?
Allora è scattato nella nostra Diocesi il bisogno di andare all’essenziale: credere in Gesù, vivo e risorto. Il nucleo incandescente del cristianesimo, del Vangelo, è che Gesù è risorto. Dodici uomini e un gruppo di donne che Gesù ha radunato attorno a sé hanno portato quel grido: «Gesù è vivo!». Se leggiamo il Vangelo in maniera disincantata vediamo che attorno a quella tomba vuota c’è tutto un movimento, un correre, un sussurrare e poi un proclamare ad alta voce: «È vivo!». Da allora il cristianesimo si è propagato in tutta la faccia della terra.
Abbiamo dedicato due anni a riconsiderare la risurrezione di Gesù e a farla nostra, a ricordarci che c’è un sacramento che ci fa vivere la risurrezione: il Battesimo. Dopo aver ricevuto il Battesimo possiamo dire con san Paolo: «Siamo morti tornati alla vita» (Rm 6,13). Così pensavano di sé i primi cristiani.
Quest’anno abbiamo sottolineato molto il tema della missione: annunciare Gesù, darci da fare, organizzare eventi… Poi è arrivato il Coronavirus e i nostri programmi, convegni, assemblee sono stati annullati.
Questa mattina, meditando la figura di sant’Andrea, ho notato in lui una forma di apostolato, di missione, adattissimo per questi giorni di distanziamento sociale: la missione “a tu per tu”.
Andrea – annota il Vangelo – è rimasto con Gesù in quel giorno benedetto del suo primo incontro; ha accolto l’invito: «Venite e vedrete». «È andato e ha visto» (v.39). Tutto è cominciato con quella giornata di intimità con il Signore.
Andrea non tiene per sé l’esperienza vissuta; ci furono molta luce e molta gioia per lui in quel giorno.
«Chi trova un amico trova un tesoro» (Sir 6,14): Andrea ha trovato il tesoro, la perla. Quella sosta dalla fatica di pescatore vale per lui più di una rete piena di pesci (cfr. Mt 13,44-47). Corre subito da suo fratello Simone (che Gesù chiamerà Pietro) per comunicare quello che ha vissuto e imparato: scatta una comunione d’anima. Con quali parole? Con quale grado di confidenza? Andrea ha lo slancio che vedremo nelle donne e nei discepoli il mattino di Pasqua. Non porta dei ragionamenti, non dice “verità astratte”, racconta di un incontro: «Abbiamo trovato il Messia» (v.41). Da una parte questo dimostra l’intensità dell’esperienza vissuta e dall’altra il suo entusiasmo.
Si direbbe che Andrea fosse preparato a questo incontro. Tutto lascia pensare che facesse parte di coloro – puri, semplici, aperti – che «aspettavano la redenzione di Israele» (cfr. Lc 2,38), come Anna, Zaccaria, Giovanni Battista, Giuseppe, Maria. Andrea frequentava Giovanni Battista; fu a causa della sua indicazione che si mise sulle tracce di Gesù. Potremmo pensarlo come uno di quegli “anawim” che attendono tutto dal Signore, “i piccoli” di cui parlerà Gesù (cfr. Lc 10,31; Mt 10,25,40, 42; ecc.).
Andrea è affettuoso: racconta tutto al fratello. La notizia dell’incontro, la novità, non passa come un verbale, ma scorre sui toni dell’affetto, della confidenza, dell’amicizia. Quanto sono importanti i rapporti! Davvero la missione è un atto di amicizia: è perché vuoi bene a quella persona e a quelle persone che le metti a parte della tua scoperta. Così Andrea presenta suo fratello Simone a Gesù.
Questa attitudine di Andrea ad essere “conduttore a Gesù” affiora altre volte nei Vangeli: quando porta a Gesù il ragazzo coi cinque pani e i due pesci (Gv 6,9), quando introduce presso Gesù i greci che desiderano incontrarlo (Gv 12,21-22).
Pietro si arrende e aderisce subito all’invito di Andrea: si fida di lui. Andrea è un missionario affidabile! Pietro è un impulsivo, lo si vede dai racconti evangelici, ma non è superficiale. Si fida di Andrea e basta!
È lecito immaginare che tra i due fratelli ci sia stato uno scambio di opinioni con domande e risposte. Alla fine, Andrea conduce Simone direttamente da Gesù: sarà il Maestro a parlare al cuore di Simone. È tipico del vero missionario non essere invadente e mettersi da parte come fanno, ad esempio, il Battista (cfr. Gv 3,30) e il diacono Filippo (At 8,39).
Andrea «guidò il fratello alla sorgente stessa della luce con tale premura e gioia da non aspettare nemmeno un istante» (Giovanni Crisostomo, Om 19,1).
Chiedo l’intercessione dell’apostolo Andrea perché faccia di ognuno di noi un missionario che conduce a Gesù. Possiamo fare tanto anche in questo periodo in cui non ci sono assemblee, convegni, raduni, catechesi pubbliche. Basta non avere paura di dire quella parola, di esprimere quel gesto affettuoso, quella carezza, o di compiere quel servizio nel nome di Gesù. Così sia.

Omelia nella I domenica di Avvento

Fiorentino (RSM), 29 novembre 2020

Ingresso del nuovo parroco don Achille Longoni

Is 63,16-17.19; 64,2-7
Sal 79
1Cor 1,3-9
Mc 13,33-37

Stiamo vivendo, pur nella trepidazione, una domenica speciale.
Inizio di un nuovo anno liturgico: i cristiani vorrebbero abbracciare lo Sposo, il Signore, tutto, tutto in una volta, tutti insieme, ma non è possibile quaggiù; il suo mistero è disteso nel tempo e ritorna ogni anno ciclicamente, come una spirale ascensionale.
Inizio dell’Avvento: quattro settimane che ci preparano a vivere il mistero del Natale del Signore e ci aiutano a mantenere viva la spiritualità dell’attesa.
Inizio di una stagione nuova per la liturgia: l’introduzione della nuova edizione del Messale Romano nella traduzione italiana; il nuovo Messale è il libro della preghiera che unisce tutta la Chiesa; è uno scrigno che contiene tesori di fede e di preghiera bimillenari; è in una veste nuova, perché il popolo di Dio è in cammino nel tempo e aggiunge nuove memorie e feste dei santi.
È un inizio particolare per Fiorentino, la parrocchia intitolata all’apostolo san Bartolomeo: l’ingresso del nuovo parroco, don Achille.
Compiremo insieme con lui alcune azioni che significano la sua presa di possesso: consegna delle chiavi della chiesa e del tabernacolo, imposizione della stola violacea al confessionale; introduzione al fonte battesimale e infine l’accompagnamento alla sede da dove il nuovo parroco presiederà l’assemblea. Il tutto viene preceduto dalla solenne rinnovazione delle promesse sacerdotali da parte di don Achille.

2.

L’evangelista Marco ci accompagnerà nel corso di questo anno liturgico. Oggi abbiamo letto una pericope presa dal capitolo 13. È una pericope (vv. 33-37) doppiamente importante.
È importante anzitutto perché chiude il discorso escatologico pronunciato da Gesù, concluso con un forte invito alla vigilanza ed alla perseveranza nell’attesa del suo ritorno. Per i lettori di Marco l’attesa ed il ritorno del Signore sono due parole dense di significato.
L’attesa. Pochi avevano visto Gesù Risorto, ma era una promessa per tutti: «Vieni, Signore Gesù» (Ap 22,20).
Il ritorno evocava il rientro dall’esilio, ma il popolo si era domandato: «Il Signore è tornato davvero tra noi?». Nel momento dell’esilio gli israeliti avevano sperimentato la presenza del Signore, ma ora erano sconfortati per il quotidiano piuttosto deludente.
I versetti 33-37 letti poco fa sono una chiave di lettura per tutto il Vangelo ed una ouverture al racconto della Passione, morte e risurrezione del Signore. L’attesa del Signore e il suo ritorno, per chi crede (Marco è l’evangelista del catecumeno), hanno il loro compimento nella Pasqua di Gesù.

3.

Si capisce bene allora il peso del verbo che apre la pericope: «Guardate bene». Verbo che allude ad una sorta di illuminazione: se fate attenzione (sguardo di fede), sarete illuminati riguardo all’attesa e al ritorno del Signore. Il Signore tornerà anche se non sapete quando e come: lo dovrete scoprire. Ai suoi servi il padrone «ha lasciato la sua casa e ha dato pieni poteri, a ciascuno il suo compito» (cfr. Mc 13,34). Dovrà essere una fedeltà vigile. Sono elencati quattro momenti della veglia. Corrispondono esattamente al modo in cui i romani dividevano la notte. Potremmo ritrovare qui un riferimento alla Passione di Gesù: arrestato la sera (Mc 14-17), interrogato dal sommo sacerdote nella notte (Mc 14,60-62), rinnegato da Pietro al canto del gallo (Mc 14,72), interrogato da Pilato la mattina (Mc 15,1). Tutta la Passione ruota su queste quattro scansioni temporali.
Marco non fa nulla per attenuare lo “scandalo” della Passione: è proprio lì che si manifesta il Signore. Al centurione romano sarà affidata la professione di fede: «Veramente quest’uomo era figlio di Dio» (Mc 15,39).

4.

La nostra prima esperienza di Dio è la sua assenza: Deus absconditus. Vediamo segni ma lui non l’abbiamo visto (cfr. Gv 1,18): ne abbiamo nostalgia, «se tu squarciassi i cieli e scendessi» (Is 63,19). Ma quando? Gesù è tornato e torna nella sua risurrezione.
«Voi non conoscete il momento» (Mc 13,33). Vegliate se volete cogliere “il momento”. Rimanete sulle sue tracce. Lo riconoscerete nelle pieghe dei nostri giorni. L’evangelista adopera il termine kairòs per indicare il momento favorevole in cui riconoscere il Signore e incontrarlo là dove ci dà appuntamento. Potremmo domandarci: quali sono i segni della sua presenza nella nostra vita? Che cosa ci sta dicendo su quanto stiamo vivendo?
È decisivo per la vita cristiana cogliere l’appello e la presenza del Risorto. In ogni circostanza. In quelle difficili e dolorose ancora di più… sono quelle in cui riconoscerlo crocifisso! È bello imparare a dirgli: «Sei tu Gesù!».
Ancora una precisazione. Marco si serve dell’immagine dei servi che, in assenza del loro Signore, devono eseguirne gli incarichi. Ci parla anche di un portinaio che deve attendere, vegliando, l’arrivo del padrone. Il tempo dell’arrivo è ignoto agli uni e all’altro, ma l’attesa deve restare viva. I servi sono i discepoli che hanno ricevuto incarichi da Gesù da vivere nel servizio (cfr. Mc 9,35; 10,44): la casa appartiene al Signore!
L’opera del portinaio è di primaria importanza. Se il potere dato ai servi fa pensare ad una assenza che si protrae, invece la veglia del portinaio fa presagire un sollecito ritorno: praticamente ogni momento della notte potrebbe essere quello decisivo.

5.

«A ciascuno il suo compito» (Mc 13,34). Questa parola illumina quanto stiamo vivendo oggi: l’ingresso del nuovo parroco nella comunità di Fiorentino. A tutti è richiesto l’unico atteggiamento sensato ed opportuno: saper cogliere l’attimo della presenza del Signore che viene immancabilmente. Ma ci sono compiti diversi.
A voi, cari parrocchiani, viene chiesto di essere vigilanti da «cristiani nel mondo, laici nella Chiesa». Rileggo con voi qualche tratto della Lumen gentium (Vaticano II) sulla missione dei laici nel mondo. Si parte dalla dignità ricevuta nel Battesimo con l’esercizio delle prerogative regali, sacerdotali e profetiche proprie del cristiano. È «proprio dei laici cercare il regno di Dio trattando le cose temporali e ordinandole secondo Dio. Essi vivono in mezzo agli impegni e alle occupazioni del mondo e dentro le condizioni ordinarie della vita famigliare e sociale di cui è intessuta la loro esistenza. Lì sono chiamati da Dio a contribuire dall’interno, a modo di fermento, alla santificazione del mondo, mediante l’esercizio della loro specifica funzione, guidati dallo spirito evangelico» (LG 31). Essere lievito nella pasta del mondo; animare le realtà temporali; consacrare il mondo…
A voi laici il compito di portare nella Chiesa le istanze del mondo: «Perché le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini di oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo» (LG 1).
Secondo il vostro compito siete all’interno della comunità non solo esecutori, ma collaboratori del vostro parroco. Vorrei dire di più: siete corresponsabili. Partecipate attivamente alla vita della parrocchia. Non tiratevi indietro quando viene chiesta partecipazione. Penso ai Consigli parrocchiali e ai tanti servizi: dalla catechesi alla liturgia, dalla carità all’animazione pastorale delle famiglie, dalla cura della gioventù alla custodia degli ambienti e della vostra chiesa.
E a don Achille, vostro parroco, dico: «Sii un “custode” premuroso nella “casa” del Signore. Sei stato posto da lui a vegliare su questo gregge».
«Fioriscano sempre in questa comunità, fino alla venuta del suo Sposo, l’integrità della fede, la santità della vita, la devozione autentica, la carità fraterna» (Messale Romano, Messa per la Chiesa locale, Post Communio). Siano questi i cardini della tua azione pastorale. Ti sono chieste competenze in proposito, ma soprattutto tanta prossimità e tanto cuore. Così sia.

Omelia nella XXXIV domenica del Tempo Ordinario

Solennità di N.S. Gesù Cristo Re dell’Universo

Pennabilli (RN), Cattedrale, 22 novembre 2020

Benedizione e consegna della Terza Edizione del Messale Romano

Ez 34,11-12.15-17
Sal 22
1Cor 15,20-26.28
Mt 25,31-46

Un saluto anche a tutti coloro che ci seguono in streaming e partecipano a questa liturgia solenne che avrà il suo momento culminante nella benedizione e nella consegna alle comunità cristiane della Diocesi della nuova edizione del Messale Romano.
Questa domenica, Solennità di Cristo Re, più di ogni altra è dominata dalla figura del Signore Gesù nella sua signoria, nella sua regalità. È una festa, quella di Cristo Re, istituita da non molto tempo per contestare il secolarismo invadente, le dittature, per richiamare alla coscienza dei cristiani la considerazione della trascendenza di Cristo. Egli è l’Altissimo («Tu solo l’Altissimo»), è la Luce delle genti (Lc 2,32), è il Re dell’Universo e di tutti gli sterminati mondi creati, conosciuti e sconosciuti, per i secoli eterni.
Che Cristo sia re lo affermiamo continuamente, sia nella proclamazione della Parola di Dio, sia nelle preghiere liturgiche. La Sacra Scrittura, la predicazione di Gesù, la Rivelazione, sono tutte intessute di metafore, esplicite o equivalenti, che trattano il tema della regalità. Sono metafore ed espressioni ricorrenti anche nei testi racchiusi nel Messale. Appena qualche rimando. Nel Credo diciamo: «E di nuovo verrà nella gloria a giudicare i vivi e i morti, e il suo Regno non avrà fine». Nel Padre Nostro una delle invocazioni è: «Venga il tuo Regno» e, nell’acclamazione successiva, «tuo è il Regno, tua la potenza e la gloria». Poi, nella conclusione delle orazioni, diciamo ogni volta: «Per il nostro Signore Gesù Cristo, tuo Figlio che è Dio e vive e regna con te». Quante volte! Ma spesso, abituati o distratti, non ci pensiamo. Di questa verità che ne sanno la nostra fede, la nostra preghiera, la nostra vita?
Ci aiuta la meditazione della Seconda Lettura; inizia così: «Se a causa di un uomo venne la morte, a causa di un uomo verrà anche la risurrezione; e come tutti muoiono in Adamo, così tutti riceveranno la vita in Cristo». Cristo, dunque, è il nuovo Adamo. Cristo è il nostro Re, il nostro Redentore! Notate: Cristo è nostro Re nella sua umanità. Delicatezza, sorpresa del disegno divino che vuole l’uomo salvatore dell’uomo, salvatore di se stesso e che, a tal fine, ha disposto che il Verbo eterno, il Figlio, si spogli della sua dignità e si faccia uomo: «Pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio, ma spogliò se stesso» (Fl 2,6-11). Quel Gesù, che si è spogliato delle sue prerogative per assumere la nostra umanità e farsi povero, è il Re. L’umanità assunta dal Verbo è la via di mediazione stabilita per il ritorno al Padre dei figli dispersi (cfr. Gv 11,52). Dunque, c’è una mediazione umana esercitata in due modi: quello della lotta, della riduzione a nulla di ogni principato, potestà, potenza e della vittoria sulla morte, frutto del peccato, e quello della infusione di una vita nuova in coloro che sono con Cristo e di Cristo: «Coloro, infatti, che sono con Cristo e in Cristo, risorgono con lui». La stessa mediazione si esercita anche in due tempi: quello terreno, contrassegnato appunto dalla spoliazione di sé e dalla lotta, e quello celeste, quando Cristo, avendo sottomesso tutto a sé, consegnerà il Regno a Dio Padre. Allora «Dio sarà tutto in tutti». Tutto, tutti colmi della pienezza divina, beatificante, per sempre! Stupendo è contemplare e pregare il nostro Re, Gesù, re di cuori.
San Paolo, nella Prima Lettera ai Corinti, dice che tutto questo avverrà per la risurrezione di Gesù dai morti. Abbiamo dedicato anni a mettere al centro della nostra meditazione e del nostro impegno pastorale, il “Big Bang della nostra fede”, che è la risurrezione: «Cristo è risuscitato dai morti» ed è la «primizia di coloro che sono morti». Cristo è il primo anello di una catena, il capofila. Quanti sono con Lui e in Lui riceveranno la vita, costituiranno il Regno eterno che il Figlio presenterà al Padre.
Accogliamo la Vita: Cristo! Saremo risuscitati alla sua venuta, proprio perché siamo con Lui. Anzi – sentite cosa dice san Paolo in un’altra pagina delle sue Lettere – consideriamoci già dei «morti tornati alla vita» (cfr. Rm 6,13). Eravamo morti e abbiamo già cominciato la vita nuova, ma la nostra vocazione, la vocazione di ciascuno di noi, è quella di essere «sacerdoti e regno per il nostro Dio (Ap 1,6; 5,10)».
Chiediamoci: Cristo – che è il Re – regna in noi, regna nella nostra mente? È nostro il suo modo di pensare (cfr. 1Cor 2,15)? Se è il nostro Re, siamo Cristo-dipendenti!
Regna nel nostro cuore? È nostro il cuore di Cristo (Fil 1,8)?
Regna nei nostri sentimenti? Si agitano in noi, non i nostri, ma i sentimenti di Cristo (cfr. Fil 2,5)?
Regna nella nostra vita? Viviamo con noi stessi, oppure è Cristo che vive in noi (cfr. Gal 2,20; Col 3,4)? Chi vede noi, vede Cristo?
Regna nella nostra tensione missionaria? Il nostro vivere annuncia e genera Cristo (cfr. Fil 1,28)? «Bisogna che lui regni», così sta scritto nella Prima Lettera ai Corinti, soprattutto nei cuori.

In chiusura di questo anno liturgico – da domenica prossima inizierà un nuovo ciclo liturgico e si profilano nuove grazie, nuove suggestioni, nuove ricchezze spirituali – mi sento di fare un ringraziamento all’evangelista Matteo che ci ha preso per mano, ci ha accompagnati; in particolare è l’evangelista che ci ha dato messaggi forti su Gesù come re. Di Gesù ci ha ripetuto che è il «Dio con noi, l’Emmanuele», così ci riferisce dell’Annunciazione dell’Angelo a Giuseppe (Mt 1,23), così nel congedo del Risorto sul monte: «Ecco, io sono con voi tutti i giorni…» (Mt 28,20). E soprattutto, nel cuore del Vangelo: «Dove due o più sono uniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro» (Mt 18,20).
In questa Solennità di Cristo Re san Matteo si congeda da noi con una pagina stupenda, che ora non posso commentare.
Sottolineo solo tre “effetti sorpresa” contenuti nel brano.

  1. Il contrasto fra la grande manifestazione (teofania), quando viene il Figlio dell’uomo sulle nubi e attorno a lui gli angeli, poi si siede sul trono della gloria, e davanti a lui vengono convocate tutte le genti. Di che cosa parla il Re celeste attorniato dalla corte splendente? Si richiama alle realtà più comuni del nostro vivere quotidiano: la fame, la sete, l’aver freddo, l’essere straniero, l’essere malato, l’aver sbagliato…
  2. Sorprende quando il Signore dice: «Io ho avuto fame, io ho avuto sete, io ho avuto freddo… ». Ci si aspetterebbe, essendo Gesù il giudice: «Essi avevano fame, essi avevano sete, essi avevano freddo…». Invece Gesù proclama che quelli sono carne sua: Lui si vede in loro. Dobbiamo considerare Lui in loro. È un esame difficile quello che fa e, nello stesso tempo, facile perché sappiamo tutte le domande.
  3. All’inizio il personaggio celeste viene chiamato Figlio dell’uomo, poi Re, poi appare come Giudice, alla fine si identifica con un piccolo: «… ad uno di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me». Si autoproclama un piccolo, un re in cerca di uomini!

Ringrazio per la vostra presenza. Accoglierete voi, a nome di tutti i diocesani, il gesto che farò tra poco: benedirò i volumi del nuovo Messale (una nuova edizione) e lo consegnerò simbolicamente ad ogni comunità eucaristica della nostra Diocesi. A partire dalla prima Domenica di Avvento (28 novembre) entrerà in uso sostituendo l’attuale. Questo in sintonia con le Diocesi dell’Emilia Romagna.
Il nuovo Messale è un dono di inestimabile valore, frutto di un accurato lavoro di traduzione (dal latino all’italiano), di arricchimento di testi, di aggiornamento di feste e memorie dei nuovi santi, di recente canonizzazione: mai come in questi cinquant’anni sono state fatte tante canonizzazioni di santi. Non ci stavano più nel Messale!
Il nuovo Messale è anche una grande responsabilità, perché esige nuova attenzione al modo di celebrare e di partecipare nello spirito del rinnovamento conciliare.
Presiedere, servire, partecipare alla liturgia è un’arte, ma più ancora uno stile che nasce “da dentro”!
L’aggiornamento e la nuova traduzione testimoniano come il Messale sia qualcosa di vivo che accompagna il santo popolo di Dio nel tempo. L’introduzione del nuovo Messale è un fatto che riguarda tutta la comunità e, direi, tutti (anche quelli che non vengono in chiesa), perché la liturgia ha molto a che fare con la missione evangelizzatrice della Chiesa.
Il Messale è lo scrigno che racchiude un tesoro immenso, patrimonio di duemila anni di fede e di preghiera, ma anche di audace e filiale esperienza di vita trinitaria: si prega rivolti al Padre, attraverso Gesù Cristo, nello Spirito Santo. Insieme!
Concludo con le parole di san Paolo: «Al Re dei secoli, incorruttibile, inviolabile, unico Dio, onore e gloria nei secoli dei secoli! Amen» (1Tm 1,17).

Omelia nella XXXII domenica del Tempo Ordinario

Perticara (RN), 8 novembre 2020

Festa di San Martino

Sap 6,12-16
Sal 62
1Ts 4,13-18
Mt 25,1-13

È un racconto di nozze rocambolesco: c’è molto movimento. I personaggi fanno tutti una “magra” figura, compreso lo sposo: come si fa ad arrivare alla festa così tardi? Brutta figura fanno le damigelle del corteo, che si addormentano. Brutta figura fa una parte di loro che sbadatamente non ha preso l’olio per alimentare le lampade. Altrettanto le altre cinque che, alla richiesta di aiuto, rispondono: «Andate a comprarvene». Poi quella porta che si chiude, sprangata, e le parole finali: «Chi siete? Io non vi conosco». Tali parole ricordano quelle di Pietro che, durante il processo a Gesù, a chi gli dice: «Anche tu sei di quelli… la tua parlata ti tradisce», risponde: «Io? Non conosco quell’uomo» (cfr. Mt 26,72-73). Come mai ci sono risvolti così poco edificanti in questa parabola? Gesù vuole la nostra attenzione, vuole creare interesse: c’è in ballo un annuncio decisivo.
Un elemento importante della parabola è l’olio delle lampade. L’olio è segno non solo di qualcosa di simbolico, ma anche di ciò che dev’essere acquistato a caro prezzo, con la fatica quotidiana e la laboriosità. Molto significativo per illuminare questa parabola (c’è solo nel Vangelo di Matteo) è l’ultimo brano del libro dei Proverbi, quello dedicato alla “donna forte”. L’inno dice che la donna è soddisfatta perché i suoi affari vanno bene e aggiunge: «Non si spegne mai, né di giorno né di notte, la sua lampada» (Prv 31,18). Probabilmente l’evangelista Matteo pensava proprio a questa donna del libro dei Proverbi; una donna che si alza di buon mattino e va tardi a dormire, che pensa al bene del marito, dei figli e anche a quello dei poveri, che compra i beni più preziosi, come i tappeti e la porpora, e li conserva con parsimonia. Questa donna, a parere di molti studiosi della Bibbia, è figura della sapienza stessa, è la Sapienza personificata, mentre l’olio conservato nella sua lampada è il concentrato di questa capacità sapienziale di gestire la vita. La sapienza non è una cosa che si fabbrica e nemmeno che si trova per strada, ma va ricercata con pazienza e con tenacia, nel posto giusto e al tempo opportuno. Ecco perché le vergini sagge dicono: «Andate piuttosto dai venditori e compratevene». Le sagge, infatti, sono tali perché mettono in atto le regole della sapienza, che è sempre attiva e concreta. In altre parole, abbiamo un’idea simile a quella della parabola che chiude il primo discorso di Gesù, il discorso della montagna, con il binomio saggezza/stoltezza. L’uomo sapiente è quello che costruisce la casa sulla roccia, quello stolto è quello che costruisce sulla sabbia (cfr. Mt 7,24-27). Ecco allora il grande invito che ci viene dal Vangelo oggi: essere in attesa del Signore che viene all’improvviso, nutrire la lampada. La lampada è simbolo della saggezza che oggi ha il nome della speranza. Come Diocesi quest’anno ci siamo dati come programma la missionarietà, l’essere testimoni. Nel momento della elaborazione del programma come slogan che trasmetta questa idea è stato scelto: «Essere speranza in un mondo ferito». Essere speranza, farci speranza, tenere accesa questa lampada, in famiglia, attorno a noi, con le persone che incontriamo. Mi colpiscono altri dettagli nella parabola. Gesù dice: «Il Regno di Dio è simile a dieci ragazze nella notte…». Quelle dieci ragazze siamo noi, chiamati a mantenere viva nelle nostre relazioni la speranza. Cosa c’è di più fragile di dieci ragazze nella notte? Il Regno di Dio è apparentemente una cosa fragile, come siamo noi, non è eclatante, non attira sguardi. Gesù l’ha paragonato anche ad un seme caduto per terra, a buon grano insidiato dalla zizzania, ad un tesoro nascosto. Ecco la speranza, una lampada con la quale raccontiamo il Signore che non ci abbandona e «che viene». Viene con la sua grazia, viene nella sua Parola, viene nei Sacramenti. L’olio che nutre la speranza è la preghiera, è l’ascolto della Parola, è soprattutto l’Eucaristia. Vi auguro di essere lampade che ardono, lampade viventi della speranza.

Omelia nella XXXIII domenica del Tempo Ordinario

Scavolino (RN), 8 novembre 2020

Giornata del Ringraziamento

Pr 31,10-13.19-20.30-31
Sal 127
1Ts 5,1-6
Mt 25,14-30

C’è un padrone che parte per un lungo viaggio. Ritornerà. Prima di partire affida ai suoi servi i tesori più grandi. L’evangelista Matteo è molto meticoloso quando parla di monete e di denari (faceva l’esattore delle imposte, quindi è piuttosto esperto!). Parla di una fortuna iperbolica che il padrone dà ai suoi servi. Il talento non è una moneta, ma un’unità di misura: un talento equivale a circa a 30/40 chilogrammi di oro (l’equivalente di vent’anni di lavoro!). Il padrone dà cinque talenti ad uno, due talenti ad un altro ed un solo talento ad un terzo servo. Otto talenti sono almeno 250 chilogrammi di oro: pensate che fiducia, che stima e che coraggio ha quel padrone!
Dopo molto tempo – dice la parabola – il padrone tornò. Il genere letterario “parabola” contiene esagerazioni volute dal narratore per attirare l’attenzione, per provocare. A volte Gesù dice: «Che ve ne pare?». E trapunta le parabole con questo interloquire diretto; vuole che si partecipi, ci si stupisca, ci si indigni persino!
Usciamo dalla parabola. Entriamo nella vita. Ci sono tre modi di leggere la parabola. Nel primo modo ci si ferma sul talento. La parola “talento” viene a significare le qualità di una persona: questa è la lettura esistenziale. Allora si dice che bisogna non sprecare i propri talenti. C’è, poi, una interpretazione ecclesiale: il signore che è partito per il lungo viaggio è Gesù e i servi siamo noi, la Chiesa. Che ne facciamo dei doni e delle responsabilità che ci ha affidati? Inoltre, c’è un’interpretazione escatologica, proiettata sul futuro: quando il Signore ritornerà vi sarà un giudizio: come abbiamo vissuto il tempo dell’attesa?
L’ultimo dei servi si dimostra in difficoltà con la sua fede. Ha paura di Dio e glielo dice con schiettezza: «Tu sei un uomo duro, raccogli dove non hai seminato, io ho avuto paura… Non mi è rimasto altro che sotterrare il talento che mi hai dato, l’ho lasciato sottoterra, ora te lo riconsegno. Non ho rubato!». Il padrone risponde che ha fatto troppo poco… Ed è seccato che quel servo abbia un’idea così sbagliata di lui. Quel padrone, prima di andare via per il suo viaggio, ha lasciato tutto. Ha avuto una grande fiducia. C’è poi un dettaglio importante: egli ha lasciato ad ognuno secondo le capacità. Non ha pretese; sa chi ha spalle per fare di più e chi è più gracile, come l’ultimo servo, al quale non impone un peso e una prova al di sopra delle sue forze. Nel cantiere della vita ognuno di noi deve sentire tutta la stima, tutta la fiducia di Dio Padre. Capita anche nei rapporti tra noi: se diamo fiducia ad una persona, se la stimiamo, quella persona si apre, sboccia, cresce. Ma se non le diamo fiducia, non crediamo alle sue possibilità, come fa quella persona a credere in se stessa? Chi fa il maestro, chi è datore di lavoro, chi è una persona di riferimento istituzionale deve dare fiducia per far sbocciare pienamente le persone che gli sono affidate. Un po’ come avviene alle piante.
Questa parabola è adattissima alla Giornata del Ringraziamento che celebriamo oggi. La tentazione è di lasciare a riposo la Creazione. Il Signore ci ha affidato la Creazione per farla germogliare e crescere. In questo momento difficile la preghiera ci aiuta ad essere forti, intraprendenti, caritatevoli, fraterni. Ma dobbiamo credere nella scienza e nelle capacità che il Signore ci ha dato. Ci ha dato cuore, intelligenza e mani giunte. Tutt’e tre sono indispensabili. Non credo che basti fare processioni per fermare il contagio; si deve studiare per trovare l’antidoto: non lasciare a riposo la Creazione. Il Signore vuole che collaboriamo con lui.
Il Santo Padre papa Francesco ci richiama continuamente ai grandi temi della “casa comune” e della fraternità. Ci parla di “ecologia integrale”, di “mistica della fraternità” e di “sviluppo sostenibile”.

  1. Ecologia integrale, nella quale si uniscono la bellezza del territorio e i legami sociali: la terra è la “casa comune” e l’umanità la grande famiglia dei popoli. Ci sono tre “no” che dobbiamo dire: no agli sprechi e alla dispersione; no alle disuguaglianze; no all’inquinamento. Senza acqua non c’è futuro. «L’acqua – dice il Papa – per molti è un bene inesauribile, ma non è così. L’acqua non è inesauribile».
  2. Mistica del vivere insieme: fare della fraternità universale la forma autentica della socialità. Quindi accoglienza e reciproca integrazione delle differenti culture.
  3. Sviluppo eticamente sostenibile, con scelte coraggiose e innovative, non soltanto sul piano tecnologico e gestionale, ma soprattutto sul piano sociale e politico.

Dopo questo incontro rinnovo con voi l’impegno nel campo educativo. Che le nostre parrocchie, i nostri gruppi, sappiano educare alla giusta consapevolezza delle sfide del tempo presente e a nuovi stili di vita.

Omelia nella Solenne Eucaristia in suffragio dei vescovi e dei sacerdoti def.ti della Diocesi

Pennabilli (RN), Cattedrale, 6 novembre 2020

Ap 21,1-5a.6b-7
Sal 27
Sequenza Dies Irae
Gv 5,24-29

Attraversando la navata della Cattedrale mi sono profondamente commosso pensando ai tanti vescovi che mi hanno preceduto e ai tanti sacerdoti che hanno servito il Signore e il nostro popolo. Confido, a mia volta, d’essere ricordato dalla pietà dei fedeli, quando sarò sepolto in questo luogo.
Stasera meditiamo la Parola di Dio servendoci del celebre canto del Dies Irae. Le parole latine e la melodia gregoriana del Dies Irae sono risuonate per secoli dentro le nostre chiese. Questa popolarità viene confermata dalle molteplici traduzioni in italiano, ma soprattutto dalla trascrizione musicale.
Celeberrimi i Dies Irae di Mozart, di Verdi e di Liszt. Liszt avrebbe dato tutta la sua musica per essere l’autore del Dies Irae. Le sequenze nella liturgia, oltre a questa, sono quattro: Victimae Paschali laudes nella Settimana di Pasqua, Veni Sancte Spiritus nella Messa del Giorno di Pentecoste, lo Stabat Mater nella memoria della B.V.M. Addolorata e il Lauda Sion Salvatorem (forma breve Ecce Panis Angelorum) nella Solennità del Corpus Domini. Questa composizione è stata attribuita a Tommaso da Celano (1260), il primo biografo di san Francesco, anche se la critica attuale lo considera piuttosto il redattore finale di canti che erano già circolanti nelle comunità. Quello che in questo momento mi importa è una lettura meditativa, da gustare interiormente.
Anzitutto è una sequenza ricchissima di riferimenti biblici. Inizia con la parafrasi dell’oracolo del profeta Sofonia (Sof 1,14-16): è un grido che sconvolge. «Una voce – dice Sofonia –: amaro è il giorno del Signore! Anche un prode lo grida. “Giorno d’ira quel giorno, giorno di angoscia e di afflizione”». È l’ora del giudizio. Questa prima strofa contiene anche reminiscenze classiche che vengono collegate alla risurrezione dei morti, al giudizio finale; per esempio, la citazione della Sibilla, personaggio della mitologia romana, l’allusione a Orfeo nelle Georgiche di Virgilio. Comunque, la prima parte di questo testo è una impressionante descrizione del giorno del giudizio che si presenta come una specie di summa dell’escatologia cristiana medioevale. La seconda parte è un appassionato appello alla misericordia divina. Qui i riferimenti evangelici sono particolarmente toccanti. Viene nominata Maria Maddalena (qui Màriam absolvìsti), popolarmente identificata con la peccatrice, la donna silenziosa che bagna con le lacrime i piedi del Signore e li asciuga con i suoi capelli (cfr. Lc 7,36-38): che audacia! Gesù le dirà: «Hai molto amato, sei perdonata». Viene nominato il buon ladrone (et latrònem exaudìsti), squarcio finale del Vangelo di Luca (cfr. Lc 29,39-43). E poi, implicitamente, la Samaritana attesa da Gesù al pozzo (quaerens me, sedìsti lassus: nel cercarmi ti sei seduto stanco, cfr. Gv 4,6-7). È come se l’autore di questo canto ci dicesse: «Prendi con te questi fratelli; anzi di più: vediti in loro». Queste figure evangeliche sono prospettate come esempi di chi ha beneficato della misericordia, giunta attraverso colui che il canto chiama Iesu pie: Gesù buono.
Colui che all’inizio è presentato come un giudice inflessibile (iudex ergo cum sedèbit, quidquid latet apparèbit, nil inùltum remanèbit: quando il giudice siederà, ciò che è nascosto sarà manifesto, nulla rimarrà senza giudizio), nelle strofe successive viene sempre più identificato come Salvatore misericordioso. Bellissimo il contrasto: «Rex tremèndae maiestàtis» (re di tremenda maestà), poi la preghiera di fiducioso abbandono: «Recordàre, Iesu pie».
Questo passaggio mi riporta ad un’esperienza personale vissuta nella bellissima abbazia di Pomposa. Nell’abside dell’abbazia è dipinto un giudice nella sua maestà: Gesù. Quel giorno ero in difficoltà. Nel momento della Comunione, mentre salivo verso l’altare con gli altri sacerdoti, vedevo il volto di Gesù ovale, severo ed austero. Man mano che avanzavo dicendo l’atto di dolore, per effetto ottico il volto di Gesù si allargava, quasi sorridente.
In questa sequenza c’è una risoluzione: da Rex tremèndae maiestàtis a Iesu pie. Questo spostamento di accento mostra che Gesù, giusto giudice, può venire supplicato. Con una audacia incredibile si insinua che ogni destino di dannazione segna una sconfitta dell’opera redentrice di Colui che è morto in croce per salvare gli uomini. Allora: «Recordàre, Iesu pie, quod sum causa tuae viae, ne me perdas illa die (Ricordati, Gesù buono, io sono il motivo del tuo cammino tra noi, non perdermi in quel giorno)». Sei venuto per salvare, vuoi smentire la tua azione, le tue parole? Tu che seduto stanco hai aspettato la peccatrice al pozzo di Giacobbe (cfr. Gv 4,6); tu che ci hai redenti con la croce; fa’ che tanta fatica non sia vana (Quaerens me, sedìsti lassus; redemìsti crucem passus; tantus labor non sit cassus). In questi versi esplode in modo aperto la contraddizione: colui che dovrebbe condannare, in realtà è venuto al mondo per salvare! Questo giudice, ora assiso glorioso, è la stessa persona che un tempo era seduta stanca presso il pozzo in attesa della Samaritana. Tutti noi che attendiamo di essere giudicati – secondo l’autore di questa preghiera – ci identifichiamo con la peccatrice perdonata. Un vertice del canto del Dies Irae si manifesta nel presentare il Signore stanco; è seduto e sfinito colui che è venuto a cercarci. C’è un richiamo al pastore che corre nella valle, sui monti, a cercare l’unica pecora (cfr. Lc 15,11-32). Sembra anche la figura del Padre misericordioso della parabola (cfr. Lc 15,11-32) che può soltanto attendere il figlio prodigo. Non gli ha impedito di andarsene da casa, non lo va ad acchiappare nelle discoteche del tempo, può solo aspettare: il giudice è paziente! Lui che ora è nella gloria – il Cristo – non può dimenticare la stanchezza da lui patita e non può vedere annullato lo scopo della sua prima venuta nel mondo. Allora il canto lo supplica così, con un imperativo: «Recordàre, Iesu pie (Ricordati, Gesù buono)»!
Il Dies Irae, questa grande preghiera, sotto la sua severa veste di definitività e di tremante convocazione di tutti di fronte al trono, lascia trasparire la convinzione che la condanna toccherebbe direttamente l’animo del Risorto. Non è imperturbabile. Il Giudice terribile può essere supplicato facendogli intravvedere che la condanna comprometterebbe l’immensa fatica che ha compiuta (Tantus labor non sit cassus).
La sequenza che inizia chiamando in causa il giorno dell’ira, dies ìrae, dìes ìlla, termina evocando un tempo contraddistinto da tutt’altro clima: «Lacrimòsa dies illa»: è giorno di lacrime, giorno del pianto… solo per i dannati? No. L’autore sembra alludere misticamente alle lacrime del Signore. È indubbio che questa preghiera domanda misericordia, anche per il “reo”, anche per colui che canta questo inno, che è bisognoso di misericordia in prima persona: «Voca me cum benedìctis: salva me con tutti i benedetti, i beati del Cielo». Tutto il canto vibra di sincerità. La nostra fede dice che la dannazione è un esito possibile. Un grande teologo, Urs von Balthasar, diceva che l’inferno c’è, ma è vuoto: una sua opinione… Chi può dirsi capace di conquistare la grazia con le sue forze? Qui sembra superata la tensione fra giustizia e misericordia: vince la misericordia! Evviva la misericordia del Signore.

Omelia nella Commemorazione dei fedeli defunti

San Marino Città (RSM), cimitero di Montalbo, 2 novembre 2020

Sap 3,1-9
Sal 41
Ap 21,1-5.6-7
Mt 5,1-12

Vorrei che le mie parole facessero un buon servizio alla fede e alla Parola del Signore. Se ne fossi capace, vorrei portarvi in alto, ad un punto di osservazione tale da abbracciare il passato, il futuro e il presente: il passato che ci porta, con le sue radici ancora vive, il futuro che ci entusiasma con la sua prospettiva di compimento e di gioia e il presente che ci mobilita e ci impegna.
Oggi la Chiesa è fiera di mostrarci tutti i figli di Dio che sono nell’abbraccio misericordioso del Padre: una folla immensa che nessuno potrebbe contare, come le stelle del cielo, come i granelli di sabbia sulla spiaggia del mare (cfr. Gen 22,17; Ebr 11,12). Sono coloro che ci hanno preceduto: il nostro passato. In quel grande assembramento di Cielo riconosciamo volti amati, che ancora adesso continuano a sostenerci con il loro amore. La Chiesa vuole che li ricordiamo non come persone ormai “archiviate” oppure come ombre, ma come amici, compagni di strada lungo il nostro cammino. Tutti vivi! Non consideriamoli soltanto come partiti da noi – e questo è motivo di tristezza, perché ci hanno lasciato – ma consideriamoli come arrivati: sono presso il Signore.
La giornata del 2 novembre, benché austera, non è lugubre. È una giornata che pone tutti noi davanti ad un futuro che ci entusiasma, rivolti ad «un cielo nuovo e ad una terra nuova» (cfr. Ap 21,1). Veniamo richiamati – e questo è motivo di speranza – ad una dimensione più completa della nostra esistenza; senza scappare dalle nostre responsabilità di oggi, dai nostri impegni quotidiani, guardiamo il punto di arrivo. Il senso della nostra vita non può essere schiacciato nella dimensione materiale e neppure rinchiuso sul presente. La nostra vocazione è di entrare nella luce divina per la quale siamo stati creati: il nostro futuro.
Ieri, nella festa di Tutti i Santi, c’è stato detto che la santità non è appannaggio esclusivo di quelli che hanno concluso il loro cammino terreno. Santi siamo chiamati ad esserlo anche noi. I santi sono in mezzo a noi, tutti ne conosciamo. Dobbiamo pensare di ognuno che è un candidato alla santità. I santi sono nascosti dentro le nostre famiglie, lungo le strade, all’interno delle nostre comunità, nei luoghi di lavoro, di studio, di sofferenza.
Oggi, insieme ai nostri cari, vogliamo innalzare una preghiera ed un ricordo specialissimo per chi è partito da noi a causa del virus che ci sta mettendo tanto alla prova. Queste persone le abbiamo già ricordate in Basilica con una solenne liturgia, presenti i Capitani Reggenti, a nome di tutti. Li abbiamo poi ricordati a fine estate con l’inaugurazione di una scultura commemorativa posta davanti al nostro Ospedale. Torniamo a pregare per loro e per il suffragio di tutti i defunti.
Passato, futuro, presente. Aiutiamoci adesso a guardare il paradiso. Ci aiuterà ad essere più santi. Tocca a noi scrivere pagine attuali della storia della santità, con gli slanci e le fragilità della nostra fede, con i gesti quotidiani di gentilezza, con la fedeltà non priva di audacia per inventare il futuro.
Ieri, abbiamo meditato come Gesù ha vissuto le beatitudini, pagina straordinaria dei Vangeli. Gesù conosceva un testo del profeta Isaia (cfr. Lc 4,16-20) che preannunciava le opere del Messia: «Lo Spirito del Signore è sopra di me, mi manda per annunciare ai poveri un lieto messaggio, per spezzare le catene, per asciugare lacrime, per annunciare a tutti un anno di misericordia» (cfr. Is 61,1-2). Gesù ha vissuto così le beatitudini, chinandosi sui poveri, sugli afflitti, sui perseguitati. Li ha dichiarati beati, perché lui è con loro.
Oggi, ben radicati nel presente, azzardo come potrebbe essere un altro modo di vedere e vivere le beatitudini: «Beati voi – dice il Signore – che vi private di qualcosa per donare ai più poveri; beati voi che vi servite della gentilezza per trasformare la terra; beati voi che offrite la vostra vicinanza per sostenere chi soffre e piange; beati voi che senza sosta lavorate per la giustizia, per sfamare chi è in cerca di dignità; beati voi che aprite il vostro cuore per accogliere la sofferenza del mondo; beati voi che dimorate nella verità per lasciare trasparire in voi la luce di Dio; beati voi che vi opponete alla violenza per lasciare alla pace di edificare la città; beati voi che restate saldi nella confidenza in Cristo malgrado le incertezze e i cambiamenti». Con Cristo e con il suo Vangelo faremo nascere la felicità sulla terra. Così sia.

Omelia nella Solennità di Tutti i Santi

Pennabilli (RN), Cattedrale, 1° novembre 2020

Ap 7,2-4.9-14
Sal 23
1Gv 3,1-3
Mt 5,1-12

«Ecco la generazione che cerca il tuo volto, Signore» (Sal 23). Il Vescovo riaffida alle tue mani, Signore, questo popolo che tu ami e in mezzo al quale hai posto la tua dimora.
Cari fratelli e sorelle, voi, in questo momento, per un disegno del Signore, rappresentate tutta la Diocesi, tutta la nostra famiglia, credente e in ricerca. A noi piace pensare una intimità con Gesù, stando sulle sue ginocchia come i bambini e le bambine del suo tempo, o come i discepoli camminando con lui. Ma la Chiesa conosce anche questi momenti di splendore, di solenni liturgie, dove sono misticamente presenti i santi e i beati del paradiso.

Noi che siamo ancora sulla terra ci chiediamo: «Possiamo conoscere la sorte dei martiri, dei giusti, dei santi, che nei loro giorni sulla terra hanno seguito il Signore Gesù?». La risposta viene da quel grande affresco sinfonico che è l’Apocalisse. Le prime persecuzioni avevano inflitto crudeli devastazioni alle comunità cristiane neonate. Il loro destino era forse di scomparire appena nate? La visione dell’Apocalisse dà a quelle comunità e a noi oggi una risposta di speranza dentro la prova. È un messaggio cifrato, che evoca Roma senza nominarla mai direttamente, ma applicandole le caratteristiche dell’antica Babilonia, crudele e vanitosa. Il messaggio centrale proclamato dall’Apocalisse è quello dell’Agnello che vince. Che paradosso: a salvare è un Agnello trafitto, a sua volta immolato!
Siamo qui, anche se visibilmente non abbiamo la percezione, con tutti i santi, con tutti i martiri e con i nostri cari a contemplare l’Agnello: «Beati gli invitati alla cena dell’Agnello». È l’Agnello della Pasqua definitiva, il Risorto. Ecco, lui ha capovolto l’ineluttabile cammino verso la morte in un cammino di vita piena, che è per tutti quelli che lo seguono: martiri, santi, giusti, una folla immensa che nessuno può contare.
La memoria di coloro che ci hanno lasciato non ha nulla di lugubre; al contrario è motivo di gioiosa speranza.
Giovanni, l’evangelista, ci assicura che col Battesimo siamo diventati figli di Dio: il nostro futuro è segnato per l’eternità da questa identità. Su un giornale è stato scritto che i preti non parlano più del Cielo, dei Novissimi, della vita che ci attende. Non è vero: ogni volta che veniamo in chiesa non si parla d’altro!
Giovanni ci svela le conseguenze della famigliarità con Dio. Di lui siamo figli ed è una relazione siglata da un’alleanza, da un patto irrevocabile (cfr. Rom 11,29; Ebr 6,17). Un messaggio di speranza ancora più esplicito e coinvolgente, che risponde alle domande sulla nostra sorte e su quella dei nostri cari. Domande incalzanti: che ne è di loro? Come saperlo, se sono spariti dalla nostra vista? E a noi, cosa accadrà? Se Dio, nel suo immenso amore, con patto irrevocabile fa di noi i suoi figli, non può abbandonarci. In Gesù vediamo già a quale futuro ci porta l’appartenenza alla famiglia di Dio. «Saremo simili a Lui… lo vedremo come egli è» (1Gv 3,2): non è una fiaba! Dobbiamo aiutarci in questa fede.
Concludo con tre squarci, uno rivolto al passato che ci porta, come un fiore che sboccia sullo stelo, sostenuto dalle radici; uno rivolto al futuro che ci entusiasma e uno ad un presente che ci impegna in concreto.

Un passato che ci porta. Oggi la Chiesa è felice e fiera di mostrarci tutti i figli di Dio che hanno vissuto le beatitudini del Vangelo, una folla immensa. «Come le stelle del cielo, come i grani di sabbia sul mare» (Ebr 11,12) sono coloro che hanno creduto a Gesù con tutte le forze e le povertà umane. Hanno creduto in ogni passo del loro cammino. Sono quelli che hanno amato, che hanno vissuto “il comandamento grande” (cfr. Mt 22,36-39). In questo assembramento di Cielo riconosciamo dei volti amati, che ancora adesso continuano a sostenerci con il loro amore e la loro preghiera. Non sono soltanto i grandi santi, sant’Antonio, santa Teresa, san Giovanni… Ma anche le persone care che continuano ad esserci accanto. Il Cielo non è il museo delle cere. La Chiesa ci presenta i santi non come persone archiviate, ma come amici, compagni di strada che ci “portano”.

Siamo di fronte anche ad un futuro che ci entusiasma. Dall’isola di Patmos Giovanni scrive la sua visione sul futuro della Chiesa e del mondo, ecco un cielo nuovo e una terra nuova (cfr. Ap 21,1), la vera e completa dimensione della nostra esistenza intravista in questa festa di tutti i santi. Senza fuggire dalle responsabilità, dagli impegni quotidiani, non perdiamo di vista il punto di arrivo. Lo scopo della nostra vita non è rinchiuso nel presente e non è schiacciato nella sola dimensione materiale. La nostra vocazione è entrare in quella luce per la quale siamo stati creati. Per quale fine Dio ci ha creati? Perché possiamo godere di Lui, e Lui di noi.

C’è un presente che ci mobilita. La santità non è appannaggio esclusivo di quelli che hanno concluso il loro cammino terreno. I santi sono in mezzo a noi oggi e voi ne conoscete tanti. Guardo voi e penso: «Quanti santi!». Volutamente ho aperto la meditazione con le parole del Salmo: «Ecco la generazione che cerca il tuo volto». I santi sono nascosti all’interno delle nostre famiglie, dei nostri cammini, dei nostri gruppi, delle nostre comunità, anche nei luoghi di lavoro, di studio e nei luoghi di sofferenza. Tutti chiamati alla santità nella situazione personale in cui siamo e nella situazione sociale in cui ci troviamo. Adesso tocca a noi scrivere le pagine attuali della storia della santità, con i nostri slanci e le nostre fragilità, nelle cose grandi ma anche in quelle piccole, con i nostri gesti quotidiani di gentilezza, con la nostra fedeltà non priva di audacia per inventare l’avvenire. Così sia.

Omelia nella XXX domenica del Tempo Ordinario

Serravalle (RSM), 25 ottobre 2020
 

S.Cresime

Es 22,20-26
Sal 17
1Ts 1,5-10
Mt 22,34-40

Quella che abbiamo ascoltato è la terza insidiosa disputa che i farisei, erodiani e sadducei fanno contro Gesù. Sulla scena appare uno “specialista della Legge”, che chiede a Gesù: «Qual è il comandamento più grande?». Per capire l’insidia, occorre sapere che i maestri avevano scremato dalle Sacre Scritture 613 precetti: 365 erano divieti («non fare…»), 248 erano ingiunzioni («fa’ così…»). C’erano due scuole di pensiero. Una diceva: «Il precetto più piccolo ti stia a cuore come il precetto più grande». Un’altra scuola aveva costruito una sorte di piramide: in cima il comandamento più importante, poi via via quelli di importanza minore, fino alle regole minime. Chiedendo a Gesù qual è il comandamento più grande, si fa in modo che si sbilanci per l’uno o l’altro insegnamento. Gesù spiazza i suoi ascoltatori: «Il comandamento è uno: amerai»; un verbo al futuro, come a dire che non si finisce mai di amare. Una frase di sant’Agostino lo esprime benissimo: «Quando dici basta, sei finito» (Sant’Agostino, Sermo 169, 15 [PL 38, 926]). Amerai perché sei stato amato. Può esserci qualcuno che non si è sentito amato dai suoi, ma alla radice tutti siamo stati pensati, desiderati, voluti, creati da un Dio amante della vita, che ama immensamente. Quando si producono oggetti può darsi che il prodotto venga difettoso e sia scartato, ma non ci sono scarti nella creazione di Dio. Nessuno può dire che non vale la pena esistere. Dio non fa scarti. Tu sei stato amato, dunque amerai. Dicendo così, Gesù non dice che i 613 precetti sono da buttare… Ci sono regole nella vita. Gesù va all’essenziale, semplifica, ma non riduce la tensione morale. Radicalizza le esigenze della Legge, mobilita tutto l’uomo: cuore, anima, mente. E in maniera integrale: tutto il cuore, tutta l’anima, tutta la mente. È un appello alla totalità. Amare senza misura è difficile, ma è la nostra vocazione. Siamo stati creati per amare, abbiamo questo DNA spirituale che ci determina. Più amiamo, più ci realizziamo; quando si ama, si è profondamente felici.
Nella risposta di Gesù allo specialista della Legge troviamo un altro motivo che manifesta l’originalità del cristianesimo. Gesù dice: «Amerai Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima, con tutta la mente». Poi aggiunge: «Il secondo precetto è identico al primo: “Ama il prossimo tuo come te stesso”». Questa è l’originalità di Gesù. Tutte le religioni e tutte le filosofie conoscono l’amore per la divinità; tutte le religioni e tutte le culture conoscono l’amore al prossimo, ma i due amori sono disgiunti. Invece Gesù li unisce. Allora capiamo l’insidia della domanda dello specialista della Legge, perché a volte nella vita capita di essere di fronte a scelte che attraggono ugualmente. Faccio un esempio. Stasera dico il Rosario e in tv c’è una partita di calcio. Che fare? Un sacerdote è uno specialista del Rosario… Dopo una giornata di lavoro un’oretta di relax in compagnia è piacevole. Per Gesù non è importante il Rosario e non è importante la partita, è importante che io ami, che quella scelta sia qualcosa di autentico. Questo è un esempio banale, ma a volte capita che ci si senta in tensione fra due fedeltà, la fedeltà a Dio e la fedeltà all’uomo. Gesù ha unito i due comandamenti, per cui quando amiamo compiamo un atto di culto, quando facciamo un atto di culto facciamo un atto di amore per gli altri: i due atti sono fusi insieme. Anche il lavoro può essere preghiera. E la preghiera può essere “anima” per le nostre responsabilità. Quando vado a confessarmi, lo faccio anche per il mio popolo, perché siamo un corpo solo: se entro nella luce del Signore, tutto il corpo è illuminato. Ciascuno di noi deve vivere il culto, la preghiera, con questo spirito aperto, universale. In pratica, però, si trova tempo sia per dire il Rosario che per guardare la partita, si trova tempo per andare a trovare una persona ammalata e tempo per andare a Messa, basta organizzarsi.
Cari ragazzi, tra poco vi farò delle domande, perché oggi riceverete il sacramento della Confermazione. Vi chiederò se rinunciate al diavolo e al peccato. Risponderete con forza: «Rinuncio». Poi vi chiederò se credete: in Dio Padre, in Gesù e nello Spirito Santo, nella Chiesa. E voi direte: «Credo». Poi, con molta emozione, insieme a don Simone, stenderò le mani su di voi perché scenda lo Spirito del Signore. Infine, ungerò la vostra fronte con un profumo. Si chiama Crisma: è simbolo dello Spirito di Gesù, che non vediamo, non tocchiamo, ma di cui sentiamo la fragranza. Rimarrà un po’ di umido per qualche minuto, poi evaporerà, ma il bacio che Gesù vi dà rimarrà per l’eternità. Anche se un giorno farete degli sbagli, sappiate di essere amati. Vi darò anche un piccolo schiaffo, per dire: «Cara ragazza, caro ragazzo, ora tocca a te. La comunità ti considera adulto nella fede».