Omelia nella Solennità delle Ceneri

Pennabilli (RN), Cattedrale, 14 febbraio 2024

Gl 2,12-18
Sal 50
2Cor 5,20-6,2
Mt 6,1-6.16-18

La Quaresima si apre con un gesto semplice e austero, ma assolutamente eloquente. Dice più di molti discorsi: è l’imposizione delle ceneri sul nostro capo davanti a tutti. Un po’ di cenere per ricordare chi siamo. Un invito alla verità su noi stessi: siamo polvere e cenere. Un’esortazione al pentimento per i nostri peccati. Una ripresa del cammino verso il Signore. Due parole, a scelta del sacerdote, accompagnano l’imposizione delle ceneri: «Ricordati, uomo, che sei polvere e in polvere ritornerai» (cfr. Gn 3,19), «Convertiti e credi al Vangelo» (cfr. Mc 1,15). Con la prima parola ci viene ricordata la nostra condizione, fragile e precaria; con la seconda viene riproposto l’essenziale: credere al Vangelo di Gesù.
È esperienza comune, prima o poi, quella di essere sopraffatti dalla constatazione del nostro limite: venir meno della salute, crisi delle nostre relazioni, distacchi, fallimenti. Non ci si pensa di solito. Il lavoro e gli impegni, il tempo travolgente, il frastuono attorno a noi, ci tiranneggiano. In questo senso la Quaresima è un tempo di libertà per riprendere in mano le redini della nostra persona, con sano realismo.
L’altra parola invita a ricentrarci su Gesù, è Lui il Vangelo: «Credete a questo Vangelo» – dice Gesù – che è Lui.
Tante religioni conoscono riti e tempi di austerità, di purificazione, di penitenza. Ad esempio, c’è qualche somiglianza tra il Ramadan, che viene praticato dai nostri amici musulmani, e la nostra Quaresima, ma è una somiglianza esterna: il digiuno, l’astinenza, la solidarietà, ecc. Ramadan e Quaresima sono due esperienze profondamente diverse. Per noi cristiani fare Quaresima comporta penitenze, elemosine, preghiere, ma sono tutte realtà nell’ordine dei mezzi, il fine è altro: rimettere Gesù al centro, fare la scelta di Dio. Siamo peccatori, è vero; il peccato – come dice la Genesi – sta accovacciato alla porta del nostro cuore (cfr. Gn 4,7). Come combattere il peccato? Come contrastarlo? Come vincerlo? A volte pensiamo di cavarcela con un po’ più di impegno, con la forza della volontà, col dominio di noi stessi, con una maggiore attenzione ai nostri atti, salvo poi cadere nei medesimi difetti, restare impigliati nei nostri vizi, constatare la nostra inconsistenza. Per questo c’è chi si affligge, si abbatte, è deluso. Mi viene in mente l’immagine dei ragazzi che vanno in giostra, quelle giostre con i seggiolini che volano in alto, in cerchio. Man mano che il seggiolino viene lanciato, si può arrivare a cogliere un peluche che si trova più in alto. Chi è bravo a sbilanciarsi fuori può arrivare a prenderlo e se lo porta a casa. Si tratta di sapersi allungare e cogliere l’attimo. Per tantissimi la delusione, perché non riescono a prenderlo. Qualcuno, allora, smette di puntare così in alto: «Non fa per me», pensa. Fuori di metafora: lasciamolo fare ai santi, a quelli che sono straordinari… Una metafora per la nostra vita interiore, ma anche per dire che l’opposto del peccato non è tanto la virtù, che pur ci vuole insieme all’impegno e all’attenzione, ma la fede: credere al Signore Gesù, affidarsi alla sua grazia. La conversione è possibile perché è un dono, un dono da chiedere e da ricevere attraverso i sacramenti: «Tutto ciò che fu visibile del nostro Redentore è passato nei segni sacramentali» (San Leone Magno), per questo l’accostarci ai sacramenti ci dà la forza, la capacità di crescere. I sacramenti arrivano dove le nostre risorse si inceppano. Si potrebbe pensare: «Se l’opposto del peccato è la fede, basta che io creda…». No. Non dobbiamo essere passivi, considerando la santità come una grazia che piove dal Cielo, come una magia; al contrario l’impegno penitenziale è teso ad esprimere la nostra fede. Signore, sei così importante nella mia vita che pongo dei segni che lo esprimano, che proclamano che veramente tu sei più importante, più importante del cibo, più importante della carriera, più importante di tutto. Davanti a tutto c’è il nostro desiderio di incontrare Gesù: lui e la potenza della sua risurrezione (cfr. Fil 3,10).
Infine, Quaresima è un cammino ecclesiale, che si fa tutti insieme e in un tempo preciso: non ci si mette a fare Quaresima in agosto… La Quaresima comincia oggi e finisce con la Veglia pasquale (culmine del Triduo pasquale). È un cammino da fare insieme, una cordata, dove a turno tutti facciamo la locomotiva e tutti, a volte, siamo anche vagone. In cima a questa cordata vedo la Vergine Maria e i Santi, che ci incoraggiano e fanno piovere grazie su di noi con la loro grande carità. Poi ci sono i cristiani, i cristiani di Pennabilli, i cristiani che sono a San Marino, i cristiani che sono in Belgio, i cristiani che sono negli Stati Uniti, i cristiani che sono ad Acerenza (la Diocesi del nostro futuro Vescovo), ecc. Siamo un corpo che cammina insieme!
Com’è bello stasera, insieme a chi non ha potuto venire, fare l’ingresso in penitenza. Terremo vivo l’impegno delle cinque domeniche che ci preparano alla Settimana Santa. Ogni domenica ci consegna un messaggio che arricchisce la nostra vita cristiana. In tutta la Chiesa ci sono le stesse letture, lo stesso pasto della Parola di Dio.
Lungo la Quaresima avremo delle “tappe di luce”. Penso ai nostri giovani che si raduneranno venerdì prossimo per la Veglia di adorazione nella chiesa di San Francesco in San Marino. Poi vorremmo entrare nella Giornata internazionale della donna con un pensiero e un grido di pace; la Commissione di pastorale sociale ha studiato l’argomento e propone: «Pace e donna: quale contributo?». La Commissione dà la parola alle donne, portatrici della vita, che gridano e sostengono la speranza. A Pennabilli vivremo il Venerdì Bello e a Monte Cerignone la Marcia missionaria di solidarietà: la nostra Chiesa sente la sua fraternità con le Chiese più povere; in particolare, quest’anno, si è deciso di aiutare, con le nostre penitenze e i nostri sacrifici, la Diocesi di Bondo, che vorrebbe costruire un Seminario per i suoi seminaristi. Ogni parrocchia, poi, organizza catechesi, preghiere, Vie Crucis. Infine, la notte fra il 30 e il 31 marzo, la Veglia pasquale, il punto d’arrivo. È il momento in cui i cristiani rinnovano il Battesimo e decidono di essere cristiani. Tutta la Quaresima non è altro che preparazione alla Veglia pasquale. Stiamo facendo molta fatica, dopo più di cinquant’anni, a far passare l’importanza della Veglia, la notte più bella dell’anno liturgico, di cui la Chiesa vive. Noi ci saremo!

Omelia nella VI domenica del Tempo Ordinario

San Marino Città (RSM), 11 febbraio 2024

XXXII Giornata Mondiale del Malato

Lv 13,1-2.45-46
Sal 31
1Cor 10,31-11,1
Mc 1,40-45

Questa pagina di Vangelo è una pagina pasquale. Si potrebbe dire che tutto il Vangelo è pasquale, però questo brano è speciale, perché è speciale la malattia di cui Gesù si prende cura. Un lebbroso è uno che ha la morte nel corpo. Nell’antichità la lebbra era l’emblema della maledizione (cfr. Lev 13,1-2). Oltre la malattia, il lebbroso si porta dietro uno stigma: «Sei un maledetto!». Le persone vedono nella decomposizione del corpo quello che succede nell’anima: il peccato fa nel cuore ciò che la lebbra fa nel corpo. Qualcuno pensa che quello che gli succede sia il risultato del suo peccato. Il lebbroso sente la reazione dell’altro, una reazione di fastidio, di rigetto, di disagio forte. Il lebbroso è un fallimento fatto persona: questa la mentalità dell’epoca. Oggi, invece, la lebbra si cura. Un santo, padre Damiano De Veuster, missionario nelle isole Hawaii, accettò di abitare in una piccola isola in cui erano relegati i lebbrosi. Visse con loro per dieci anni, ridimensionando l’opinione che fosse una malattia così tanto contagiosa, ma soprattutto permise di avviare sperimentazioni e cure. Il lebbroso, al tempo di Gesù, è un uomo isolato, la quint’essenza della non relazione: non può vivere relazioni, perché ogni relazione deve passare sotto un giudizio severo, negativo, da parte degli altri. «Tu emani cattivo odore», gli dicono. Questa frase venne rivolta a Gesù quando volle salire al sepolcro dell’amico Lazzaro: «Non andare, Signore, già manda cattivo odore» (cfr. Gv 11,39). Il lebbroso già emanava un odore sgradevole, ma più sgradevole è avere davanti agli occhi ciò che ci è più ripugnante: fare questa fine. Il lebbroso mette davanti la morte, perché è un morto che cammina. Così la cultura antica.

Perché questa pagina di Vangelo è una lettura pasquale? L’evangelista Marco propone l’episodio come una guarigione emblematica. Il corpo, dentro la tomba, finisce proprio così, come il corpo di un lebbroso. Marco è di un realismo e di una crudezza assolute, perché mostra che la fede cristiana non è l’insegnamento di una regola del buon vivere, ma qualcosa di ben più grande. Il Vangelo dice che la tua vita non può finire così. Il Vangelo, di fronte alla tragedia mortale del lebbroso, dice “no”: il tuo corpo risorgerà. Non diciamo, come i sapienti di Atene quando san Paolo fece l’annuncio della risurrezione, della vita per sempre, del paradiso, che più corrisponde all’implorazione del nostro cuore. «T’ascolteremo un’altra volta su queste cose» (cfr. At 17,33), gli avevan detto. Proclamazione di totale scetticismo. Questo è l’annuncio che la Chiesa deve fare oggi. Va benissimo il nostro impegno – lo dico agli amici dell’USTAL-UNITALSI, qui presenti, che si dedicano al volontariato e fanno visita agli ammalati –, ma non dimentichiamo che l’essenziale è l’annuncio della risurrezione.

L’incontro di Gesù con il lebbroso è come l’incontro finale che avremo con il Signore Gesù. Ogni episodio del Vangelo di Marco, ce lo dicono gli esegeti, in realtà è un incontro col Risorto. È un Vangelo brevissimo, appena 16 capitoli, e si chiude senza finale (finisce con l’avverbio greco “car” che si può tradurre con “perché?”). Poi, è stata scritta una breve aggiunta canonica, ma, di per sé, il Vangelo termina con le due discepole che vanno alla tomba di Gesù, constatano che è vuota, e accolgono l’annuncio evangelico: «Andate in Galilea, là lo incontrerete» (cfr. Mc 16,1-8). È un detto di tipo simbolico. È come se Marco riavvolgesse le vicende della vita di Gesù e le leggesse dal punto di vista della risurrezione; l’incontro del lebbroso con Gesù è l’incontro di un malato con Gesù Risorto, un “ritorno al futuro”. Per questo il brano è fondamentalmente pasquale e viene promesso il recupero della nostra corporeità. La pienezza della persona, anima e corpo, sarà avvolta dalla vita e dalla gloria della risurrezione. I Padri della Chiesa dicevano: «Il punto di arrivo della salvezza è la salvezza del corpo». La promessa è del corpo. Gesù non si sottrae al farsi avanti di questo lebbroso; la lebbra non impedisce a Gesù di lasciarsi toccare, anzi il Vangelo dice che Gesù provò dentro di lui una sorta di compassione: viene usato un verbo greco che indica un movimento viscerale, come quello che avviene nel grembo materno. Gesù, in quel momento, vibra come una madre che sta per dare la vita. Tocca il lebbroso: c’è il contatto fisico. Questo era vietato non solo per motivi igienico-sanitari, ma per anche per motivi religiosi: si contraeva impurità rituale. Gesù lo sa. Prende su di sé la malattia, l’impurità: diventa lui impuro.

Alla fine del brano viene detto che Gesù non entrava più in città, ma abitava in luoghi deserti. Il motivo, di per sé, è che non vuole passare per un guaritore. Lui è il Salvatore: un conto è guarire, un conto salvare. Se guarisce è per dimostrare che può salvare, che può dare senso a tutto. Marco allude al farsi lebbroso di Gesù: d’ora in poi non entra più in città, anche lui ora va in luoghi deserti.
Il lebbroso viene inviato al tempio, dove i sacerdoti hanno l’incarico di verificare se veramente la malattia è superata (un po’ come, durante il Covid, si veniva mandati a fare il tampone…). Non si andava a mani vuote, occorreva portare una vittima sacrificale. Questo “salvato” non va al tempio, ma grida la bella notizia della guarigione. Prima del culto, sembra dirci l’evangelista, c’è la testimonianza: «Io, l’escluso, il maledetto, colui che manda cattivo odore, l’inavvicinabile, ora sono salvato…. C’è stato uno che si è avvicinato, si è preso cura di me, non ha provato ribrezzo, mi ha toccato». Questo è il kerygma: «La gioia del Vangelo riempie il cuore e la vita dei discepoli che hanno incontrato Gesù» (EG 1). Gesù ti salva.

E l’offerta sacrificale? L’offerta sacrificale c’è già: è Gesù. In effetti, sta incominciando la crisi nel rapporto di Gesù con i capi del popolo; si profila la crocifissione. Lui è la vittima. Dirà san Paolo: «Lui si è fatto peccato al posto nostro per darci la vita» (cfr. 2Cor 5,21). Il lettore del Vangelo di Marco può dire: «Il lebbroso sono io che sono stato salvato».
Domandiamoci: quali sono le mie lebbra? Che cos’è che mi tiene fuori dalla relazione? Forse il mio carattere, forse un errore che ho commesso, forse il partire sempre da me, dal mio punto di vista… Questo mi fa stare lontano dagli altri. Lasciamoci toccare da Gesù che è l’unico capace di non abbandonarci mai. Questo cambia la nostra vita. Così sia.

Omelia nella IV domenica del Tempo Ordinario

Pennabilli (RN), Cappella del Vescovado, 28 gennaio 2024

Dt 18,15-20
Sal 94
1Cor 7,32-35
Mc 1,21-28

L’evangelista Marco ci fa entrare nella giornata tipo di Gesù, le sue “24 ore”, che incominciano con una scelta: entrare in città. La possiamo configurare come “strategia di ingresso”, da contrapporre alla “strategia della fuga” praticata dagli Esseni, comunità di uomini religiosi che hanno abbandonato la città, sono andati nel deserto di Qumran e là hanno organizzato la loro vita in attesa della Gerusalemme celeste. Gesù prende anche la distanza dagli zeloti, un gruppo operativo al tempo di Gesù, che adotta la “strategia della aggressione”: cacciata dei romani occupanti e liberazione della Terra Santa. Ecco, Gesù, invece, entra nella città e condivide la vita di tutti i giorni delle persone del suo tempo. Entra a Cafarnao, in Galilea, la cosiddetta “Galilea delle genti”, territorio abitato da una popolazione meticcia, di razze diverse, di credenti al Dio di Israele e credenti di altre religioni, luogo di confine e di confino. Cafarnao, nella Galilea, è l’agglomerato più consistente della Galilea. Ed è anche la città delle contraddizioni.
Resto sorpreso dalla scelta di Gesù. Ma sono ancora più sorpreso nel vedere che Gesù, nonostante le necessità di questa città, persone da curare, persone da soccorrere, ignoranti da istruire, malati da guarire, va in sinagoga. Mi aspetterei che il Messia, si prodighi da subito a curare ferite, a spezzare catene. Invece va in sinagoga. Si può pensare che sia normale, perché è sabato. Qualcuno dice che va in sinagoga perché sta insegnando il primato della preghiera. Ma forse c’è un altro motivo: Gesù, lo si evince dal racconto, va nella sinagoga perché è il luogo in cui può annidarsi una relazione ferita con Dio, dove ci può essere la divisione, dove può nascondersi il male e quindi c’è la necessità di una purificazione, di una liberazione. E in effetti è così. Gesù entra in sinagoga, dove tutto è tranquillo e in ordine, per favorire la preghiera, per il canto dei salmi, per la riunione, e salta fuori che, proprio lì, si annida il Divisore, il Diavolo. Mi sarei aspettato il primo incontro-scontro di Gesù con il Diavolo in qualche bettola di Cafarnao, oppure fra gli scaricatori del porto, oppure fra i soldati della guarnigione romana o al mercato in mezzo alle chiacchiere della gente. Invece no, in quel luogo così santo, così austero, si nasconde Satana. Quando Gesù entra, Satana non può che esplodere. La voce del Diavolo, cioè del Divisore, viene fuori proprio nella sinagoga, dove era nascosto inosservato. Sinagoga è una parola greca composta: syn, che sta per “con” e il verbo ago, che significa convocare, riunire, condurre. Quindi, la sinagoga dovrebbe essere per definizione il luogo dell’unità, invece lì si insinua la divisione della creatura dal suo Creatore. Che cosa fa Gesù in sinagoga? Gesù insegna e riempie di stupore i suoi ascoltatori. I rabbi, invece, insegnano e magari ricevono pure il battimano della gente, ma poi la gente torna a casa, per i fatti propri. Quando Gesù insegna, succede che si cambia vita (l’abbiamo visto, domenica scorsa, con le due coppie di fratelli chiamati da Gesù sulle rive del lago). Gesù, in sinagoga, denuncia la divisione e appare clamorosamente in quella creatura posseduta da Satana. Lo spirito impuro viene chiamato anche Satana, parola di derivazione ebraica che significa “accusatore”. Lo spirito impuro pronuncia due frasi che sono quasi un insegnamento al rovescio, paradossale. La prima: «Che vuoi da noi? Che c’è tra te e noi? Cosa c’entri con noi?»: desiderio di mantenere una distanza, come a dire «Ognuno stia a casa sua: tu sei il Santo di Dio e noi facciamo i fatti nostri». “Diavolo” – altro nome dato allo spirito impuro – da una parola greca, diabàllo, che significa divisione, rottura. L’altra frase che dice Satana è: «Sei venuto a rovinarci?». La domanda è conforme allo stile del diavolo che, come nel paradiso terrestre, insinua con Eva e Adamo, che Dio è concorrente dell’uomo, tarpa le ali e, con le sue “10 parole”, i comandamenti, impedisce alla nostra personalità di esprimersi, di essere veramente libera. È un inganno. In verità, Dio non rovina: chi segue Gesù ha il centuplo, il centuplo interiore e il centuplo di ciò di cui la sua vita ha bisogno (cfr. Mt 19,29). Ricordate quando Gesù, nelle prime battute nell’Ultima cena, parlando con i discepoli, fa questa domanda: «Da quando voi avete seguito me, vi è forse mancato qualcosa?». E gli rispondono: «Nulla, Signore» (cfr. Lc 22,35). Allora, se questo è rovinare, io dico: «Signore, rovinaci!».
A Gesù basta una parola: «Taci, esci da quell’uomo». C’è uno scossone in quella persona; la parola di Gesù lo rovescia, lo ribalta. Qui si vede l’entrare del Regno di Dio, della Signoria di Dio. Questo è il primo round di un combattimento corpo a corpo nel quale il Messia vince Satana. Chi legge deve pensare: «Non devo avere paura di Satana, perché Gesù l’ha vinto e lo vince, ma soprattutto non devo avere paura a mettermi nelle mani di Gesù, perché lui libera, salva». Questa, in fondo, è una pagina straordinaria di cristologia. C’è un racconto, un fatto di cronaca, un esorcismo, che ha suscitato grande stupore nella città di Cafarnao, però è eminentemente una pagina di cristologia: contiene “un discorso su Gesù”. Quando lui arriva, smaschera la divisione che c’è nel cuore umano, la divisione che l’uomo ha nella relazione con Dio, perché lo teme, ne ha paura. Sarà capitato anche a tanti miei colleghi di sentire persone che dicono: «Padre, è da tanto che non mi confesso, perché ho paura di Dio, ho paura del suo castigo». Ecco, Gesù è venuto per unire, per liberare, per spezzare catene, per smascherare le false immagini di Dio.
Compiuto il prodigio, le persone che sono in sinagoga non possono trattenere il loro stupore: «Ma chi è costui? Non parla come i nostri maestri, dà un insegnamento con autorità». La parola usata è exousia. L’autorità, infatti, può essere intesa in due modi: autorità come autoritarismo e autorità come autorevolezza, l’autorità che fa crescere, che fa sbocciare, che fa “venir fuori” (exousia significa “cavar fuori”). In quell’ossesso Gesù fa venir fuori una persona riscattata e libera: un figlio di Dio. Il Diavolo parla al plurale: «Che c’è fra noi e te, Gesù di Nazaret? Sei venuto a liberarci?». Invece Gesù usa il “tu”. Qualche autore ritiene che probabilmente Satana è entrato nell’ossesso con altri demoni.  Qualche altro dice che – questa forse è l’idea preferibile – parla a nome della sua vittima. Il diavolo è ingiusto aggressore e parla anche a nome dell’aggredito, perché gli toglie la libertà, lo possiede, lo schiavizza; Gesù sa distinguere l’ingiusto aggressore, che è Satana, dall’aggredito.
Invito a pensare, durante la settimana, a quelle zone di noi stessi che hanno bisogno di essere liberate, risanate e ad aprirci a Gesù senza paura, con confidenza, perché lui non cerca altro che la nostra gioia. Potrebbe anche essere formulata così la domanda: «Di che cosa ho paura?». Buon lavoro su noi stessi per migliorare la nostra relazione con Dio.

Omelia nella III domenica del Tempo Ordinario

Valdragone (RSM), 21 gennaio 2024

Domenica della Parola
Seconda Giornata Eucaristica

Gio 3,1-5.10
Sal 24
1Cor 7,29-31
Mc 1,14-20

Quella mattina sulle rive del lago accade una cosa straordinaria e il mondo non lo sa. Che ne potevano sapere i pescatori di Cafarnao o di Tiberiade che in quel momento iniziava la missione pubblica di Gesù!
L’evangelista Marco scrive questi fatti dopo la risurrezione di Gesù e vede in quell’alba sulle rive del lago il Big Bang della risurrezione, cioè lo splendore della signoria, della regalità, di Dio. Questa è la prima cosa che voglio far risuonare e noi siamo fortunati ad essere lambiti, raggiunti, travolti da questa bella notizia: Dio si interessa di noi, ci vuole bene e ci benedice. Un giorno Gesù prenderà in mano il pane… Voi sapete cosa c’è dietro il pane e la sua storia: la fatica, la seminagione, il marcire nella terra, lo spuntare, il crescere, il maturare, il macinare, l’impastare e poi quel pane. Ecco, il Signore benedice quel pane fino a farlo diventare luogo della sua presenza.
Su quel pane si concentra anche la nostra benedizione. Perché noi vogliamo benedire Dio, vorremmo che tutti potessero proclamare quell’Amen nel cuore della Messa, e vorremmo coinvolgere tutti nella lode. Per questo mettiamo tutto l’impegno, nelle nostre comunità, perché le celebrazioni siano belle, perché l’Eucarestia sia partecipata – come avete detto nei report inviati in centro Diocesi – con canti appropriati, con lo splendore dei riti, l’eleganza che rende bella la nostra chiesa (posso testimoniarlo!). Dunque, in quel pane si concentra il massimo della benedizione, quella discendente, che è la benedizione di Dio, e quella ascendente, la nostra, che gli rende grazie e dice bene di Lui.
Quand’è che Gesù comincia la sua attività pubblica? Quand’è che sale lo splendore del Regno di Dio? Sembrano dettagli per specialisti. No, sono realtà che urgono nel cuore di chi scrive: dopo che Giovanni fu arrestato è stato messo a silenzio colui che è la voce. Dunque, c’è un vuoto, una mancanza, un’assenza. E su questa mancanza, su questa assenza, scende e viene Gesù, il Verbo di Dio. Si direbbe quasi che, in questo momento, Gesù scopra la sua vocazione, o meglio, la espliciti; ed è proprio la sua vocazione proprio nel momento in cui c’è una mancanza. Ricordate il profeta Isaia? Nella visione ode la voce del Signore: «Chi manderò e chi andrà per noi?». Sembra quasi che Dio cerchi braccia e il profeta audacemente risponde: «Eccomi, manda me» (Is 6,8). La vocazione ha di questi slanci! Si vede un bisogno, si vede una difficoltà, si vede una mancanza. Questo è un appello: «Tocca a te!».
Gesù annuncia il Regno di Dio e la conversione. Ho sentito molto, in questi mesi – lo condivido con voi che siete i miei fratelli – la necessità di una conversione. Quando celebriamo l’Eucarestia, appaiono due identificazioni. La prima: il pane che spezziamo, il calice della benedizione che condividiamo, per opera dei sacerdoti diviene sull’altare corpo, sangue, anima e divinità di Nostro Signore Gesù Cristo. La nostra fede si impegna; i sensi non ci aiutano, perché continuano ad apparire gli accidenti: il pane col suo colore, nella sua forma, ecc. Noi crediamo a questa presenza e abbiamo costruito cattedrali meravigliose, tabernacoli d’oro per custodire questa presenza. Dove sta la conversione? La conversione è nel credere che – cito san Paolo –, «poiché c’è un solo pane, noi, pur essendo molti, siamo un solo corpo. Tutti, infatti, partecipiamo dell’unico pane» (1Cor 10,17). La conversione che devo fare, alla quale vorrei invitare anche voi, sta nel considerare che nell’Eucarestia noi diventiamo Corpo di Gesù, suo Corpo mistico. E, se metto tutto l’impegno per credere nella presenza reale di Cristo sull’altare (prima identificazione), voglio impegnare tutta la fede anche nel credere che noi siamo suo Corpo, suo Popolo. Mentre la prima identificazione è opera del Signore, opera della sua Parola, questa seconda identificazione richiede la nostra corrispondenza, la nostra responsabilità; esige l’unità e la comunione tra noi come fratelli, l’uscita dal nostro io, il superamento di ogni egoismo e individualismo. Allora il sacramento del Corpo e del Sangue di Cristo è tale perché la Chiesa (e in essa ognuno di noi), si faccia dono agli altri, sacramento di unità, di pace, per quanti sono accanto e per quanti sono lontani. Allora l’incorporazione a Cristo non può essere, non può ridursi, non può immiserirsi ad un fatto individuale o individualistico, emotivamente gratificante. L’Eucaristia non può essere soltanto fonte di belle riflessioni, di belle parole. Non parole, l’Eucaristia, invece, è – dico tre sostantivi, ognuno dei quali ha una sfumatura diversa – incentivo, spinta e slancio all’azione. In questo senso dico che l’Eucarestia è programma, via, imperativo, oltre che grazia che ci è donata. Cristo si è fatto Eucaristia per noi, perché noi ci facciamo Eucaristia per gli altri. Quando Gesù sulle rive del lago dice: «Convertitevi e credete al Vangelo» (forse è un’estensione indebita, un’applicazione impropria, ma in questo contesto credo sia lecita), penso la conversione come inversione dall’intimismo alla consapevolezza della nostra responsabilità. «Il Regno di Dio è vicino, convertitevi e credete al Vangelo». Sì, Signore, noi come Pietro, Andrea, Giacomo, Giovanni, crediamo alla tua Parola e crediamo possibile la conversione.
I primi versetti del Vangelo di oggi e i versetti che raccontano la vocazione degli apostoli sono strettamente connessi, perché il racconto della vocazione e della risposta degli apostoli non è altro che l’attuazione di quella conversione che il Signore chiede. «Convertitevi e credete»; si tratta di un’endiadi, figura retorica per dire con due parole lo stesso concetto: convertirsi e credere coincidono. Ti converti, credendo a Gesù, credendo a Gesù avviene la conversione. Così sia.

Omelia nella II domenica del Tempo Ordinario

Maciano (RN), 14 gennaio 2024

1Sam 3,3-10.19
Sal 39
1Cor 6,13-15.17-20
Gv 1,35-42

Questo brano mi rimanda al tempo della mia ricerca vocazionale; mi sono visto non solo nel discepolo Andrea, ma anche nel discepolo “innominato”: ogni lettore del Vangelo può rivedersi in lui. In questa pagina di Vangelo vediamo una raffica di sguardi, inseguimenti, inviti. Nella lettura liturgica ci siamo fermati al versetto 42, ma nei versetti seguenti c’è una sorta di reazione a catena: Andrea, Pietro e Giovanni vanno a raccontare l’incontro a Filippo; poi Filippo lo racconta a Natanaele…
Giovanni Battista, che ci ha accompagnato lungamente nel Tempo dell’Avvento, puntando il dito acclama: «Ecce, Agnus Dei», vedendo passare Gesù. Il suo sguardo su Gesù è profondo e intuitivo. Giovanni fissa Gesù Lo guarda, lo fissa e invita i suoi discepoli a seguirlo. Andrea e l’innominato sono della cerchia di Giovanni Battista, che ha trasmesso loro questa ansia di attesa del Messia.
Gesù si volta e volge il suo sguardo su di loro; altrettanto farà con Pietro e con Natanaele, che gli dirà: «Mi hai visto sotto il fico, ma io non ti ho visto…» (cfr. Gv 1,48). E Gesù concluderà dicendo: «Vedrai cose più grandi di queste» (Gv 1,50).
Dopo gli sguardi ci sono gli inseguimenti, con Gesù che passa. I discepoli vedono Gesù di spalle. Si può ricordare la pagina del libro dell’Esodo in cui Mosè implora: «Signore, che io possa vedere il tuo volto». Dio mette la mano davanti alla cavità della roccia dove si trova Mosè e Mosè può soltanto vedere il Signore di spalle: non si può vedere Dio e restare in vita. Invece, qui Gesù “si voltò”, “si è fatto volto” perché lo possano inseguire. Anche gli apostoli tra loro si inseguono in una sorta di staffetta attorno a Gesù.
Poi ci sono gli inviti: «Maestro, dove abiti?». «Venite e vedrete».
A proposito di Giovanni Battista si può notare il contrasto fra come lui presenta Gesù e come Gesù ama essere incontrato. C’è una leggera vena di ironia: le parole di Giovanni Battista rappresentano un fotogramma ad altissima definizione, che ritrae Gesù con termini biblici e teologici elevatissimi. Lo chiama “l’Agnello”. Probabilmente la parola “agnello” per noi non significa tantissimo; forse abbiamo fatto l’abitudine alle parole del sacerdote che, in vari momenti della Messa, evoca l’Agnello di Dio, ad esempio nel Gloria, o quando alza l’Ostia santa per la Comunione, quando si invoca tre volte “l’Agnello di Dio che toglie i peccati del mondo”. La parola “agnello” ai contemporanei di Gesù ricordava la notte dell’esodo, quando Mosè aveva detto: «Uccidete un agnello e con il suo sangue segnate gli stipiti delle vostre case: quel sangue sarà sangue che salva, che mette al sicuro». I primi discepoli, quando sentono la parola agnello, pensano immediatamente all’agnello di cui scrive il profeta Isaia, l’agnello che prende sulle spalle le nostre iniquità, che viene trafitto a causa nostra, al posto nostro, e diventa l’agnello che redime (cfr. Is 53). Lo stesso tema è trattato nel libro del profeta Geremia: l’agnello mansueto, che viene condotto al macello (cfr. Ger 11,19). L’agnello era atteso per il momento definitivo, escatologico; sarebbe stato colui che avrebbe rinnovato il mondo: agnello vittorioso. Nell’Apocalisse la figura dell’agnello ritorna sedici o diciassette volte. Giovanni, nel suo Vangelo, vede in Gesù Crocifisso, nell’era in cui al tempio si sacrificavano gli agnelli, il vero Agnello immolato, a cui non è spezzato alcun osso (cfr. Es 12,46), secondo il rituale. Quello che ha detto il Battista è vero, va meditato, è importante per la formazione e il cammino di fede, ma Gesù si pone subito su un altro livello, quello dell’interpersonalità. Allora vengono fuori non soltanto gli scambi di sguardo, ma gli inviti: «Maestro, dove dimori?». “Dimorare” significa molto di più dell’indirizzo di casa, anche perché Gesù ha lasciato Nazaret e da quel momento è itinerante. «Dove dimori?», significa «dove sosti?», «dove dormi?», per dire l’amicizia che Gesù vuole creare con i suoi discepoli. E loro vanno dietro a lui.
A questo punto c’è una pausa, un silenzio: non ci viene detto nulla di quella giornata nella quale i due restano con Gesù: l’amicizia ha i suoi spazi e i suoi tempi di intimità. Siamo noi a dover occupare quello spazio, abitare quel silenzio.
La domanda di Gesù è: «Che cosa cercate?». Sapeva bene che cosa cercassero. Probabilmente i discepoli erano imbarazzati, avendo alle spalle il loro maestro, Giovanni Battista, mentre andavano ad incontrare un perfetto sconosciuto, presentato con parole così solenni e “ad alta definizione”. Gesù fa una domanda sui loro desideri e li conduce, per così dire, nel loro giardino interiore. Non è una domanda sui precetti, ma sul loro desiderio: parola ricca e densa di significato. Gesù vorrebbe che, fra i tanti desideri, facessero spazio dentro di loro per cogliere il Desiderio, perché lui è capace di colmarlo. “Desiderio” è parola latina composta dalla preposizione “de” e dalla parola “sidera” (le stelle). Questa parola nasce da un’intuizione ancestrale: l’uomo proviene dalle stelle, da cielo, è fatto di cielo. Ma sulla terra fa esperienza della lontananza. Da qui la tensione verso l’origine e l’infinito. Gesù si propone come colui che compie il nostro desiderio più profondo.
Dopo che sono stati una giornata con lui – «erano le quattro del pomeriggio (l’hanno ricordato per tutta la vita)» – si vede l’entusiasmo col quale i discepoli tornano da quell’incontro, ma anche il loro cambiamento. A Pietro, Gesù cambia addirittura il nome dopo averlo appena visto: «Tu non sei Simone, ma Pietro», che vuol dire “la pietra”, il fondamento della futura comunità.
Ricordo che ad un incontro col gruppo dei giovani universitari e lavoratori, a cui partecipavano anche ragazzi in ricerca, con vari desideri (tra cui anche quello di trovarsi la fidanzata!), un giovane affermava di essere “credente, ma non praticante” e un amico camerunese scoppiò a ridere. Non capiva come fosse possibile essere credenti e non praticanti (era diventato cristiano da adulto), cioè, essere cristiani ma non abitare con Gesù.
Quali sono i luoghi dove Gesù dimora?
Innanzitutto, come ho già detto, nel nostro giardino interiore. Un altro è nell’esperienza della famiglia e della comunità. Pensiamo al rapporto fra Maria e Giuseppe. Gesù lo dirà nel Vangelo: «Dove due o più sono uniti nel mio nome, io abito in mezzo a loro, “dormo” in mezzo a loro» (cfr. Mt 18,20). Gesù dimora nella nostra chiesa parrocchiale, casa tra le case dove il Signore ha posto il suo nome, dimora nel Tabernacolo dove lui rimane come presenza, azione e autodonazione. Ma c’è una dimora alla quale tutti dobbiamo puntare: è la dimora nella quale Gesù ha preparato dei “posti”. Abbiamo paura dell’ignoto, ma le parole di Gesù sono bellissime: «Vado a prepararvi un posto e quando sarò andato vi chiamerò e dimorerete con me insieme al Padre» (cfr. Gv 14,2-4). Che questa settimana torni spesso questo dialogo: «Maestro, dove abiti?». «Che cosa cerchi?». Alla fine del Vangelo di Giovanni vedremo che Gesù cambierà la domanda rivolgendosi alla Maddalena; non dirà più «che cosa cerchi?», ma «chi cerchi?».

Omelia nella Messa esequiale per don Marino Gatti

Mercatino Conca (PU), 27 dicembre 2023

1Gv 1,1-4
Sal 96
Gv 20,2-8

1.

Rinnovo le più sentite condoglianze a don Erminio e ai familiari di don Marino. Condoglianze che formulo anche ai parrocchiani di Mercatino Conca, di Montealtavelio e di Piandicastello per i legami di paternità e di figliolanza che li uniscono a don Marino.
Senza nulla togliere al dolore dei familiari e senza sottovalutare la nostalgia delle sue comunità, sento che la partenza di don Marino tocca profondamente il nostro presbiterio, la nostra famiglia sacerdotale. Sì, il presbiterio è davvero la nostra famiglia. Don Marino è uno della famiglia che ci ha lasciato, improvvisamente e in punta di piedi. Ci siamo salutati e abbracciati, ma non sapevamo che sarebbe stata l’ultima volta, a fine novembre, durante il corso di Esercizi Spirituali a Ginestreto (PU). Mai avrei pensato che don Marino potesse partecipare, date le sue condizioni già precarie; invece, insieme a don Erminio, è venuto in mezzo a noi portando tanta gioia e contentezza. Dunque, un prete fedele anche agli appuntamenti di famiglia: così si costruisce la famiglia, anche con la presenza… il resto sono chiacchiere!
Momenti come questo, benché mesti, hanno l’effetto di fonderci ancora di più tra noi presbiteri. Al di là delle differenze di età, di formazione, di provenienza, riscopriamo il legame umano e soprannaturale che ci unisce in virtù del sacramento dell’Ordine, in virtù del comune amore sponsale al Signore Gesù che ci ha sedotti (e noi ci siam lasciati sedurre) e in virtù della dedicazione della nostra vita al servizio del Vangelo, dell’Eucaristia e del ministero della Riconciliazione. Ho sentito da molti confratelli che, durante il periodo natalizio, tanti sono andati a rinnovare il sacramento della Riconciliazione. Non abbiate paura ad andare a questo sacramento: la cosa principale non è l’elenco dei peccati che confessiamo (il Signore li sa già, sa anche quelli che non sappiamo), ma è bello professare la sua misericordia, sentirsi amati.
Come vorrei che quanti hanno apprezzato e amato don Marino – soprattutto giovani – si ponessero con verità la domanda: «Signore, io come posso servirti?». E chi sente la vocazione al sacerdozio rispondesse “sì”, con generosità e coraggio, e che tutti sentissimo quanto è necessario, utile e bello il ministero sacerdotale. Sono da lodare la dedizione del volontario, la dedizione al servizio dei poveri e alla promozione umana, ma chi pensa all’anima, chi pensa alle anime? Chi si fa prete e abbraccia, per amore, il sacro celibato non è solo… ha una famiglia, ha e riceve tanto amore, vive paternità vera e gode dell’affetto filiale. Sentite quale rapporto univa sant’Agostino alla sua comunità, in una testimonianza scritta alla morte di un amico: «E poi – scrive – c’erano altre cose che avvincevano il mio animo: le conversazioni e le risate insieme, lo scambio di affettuose gentilezze, la lettura in comune di libri piacevoli, fare insieme cose ora insignificanti ora importanti, contrasti passeggeri, senza rancore, come succede ad ogni uomo anche con se stesso, e con quei contrasti, peraltro così rari, rendere più gustosa l’abituale concordanza di vedute; insegnarci cose nuove a vicenda, sentire acutamente la nostalgia per gli assenti e accoglierli con gioia al loro ritorno: questi e altri simili segni, sgorganti da cuori che amano e si sentono riamati, ed espressi col contegno, con le parole, con lo sguardo e con mille graditissimi gesti, fondono insieme come fiamma gli animi e di molti ne fanno uno solo» (Sant’Agostino, Confessioni, IV,8).

2.

Quella di don Marino è stata un’esistenza missionaria. Rivolgo il mio sguardo, per quanto possibile, ad una vita come la sua nella quale si intrecciano iniziativa di Dio e corrispondenza umana, uno sguardo su un’esistenza veramente presbiterale con i suoi aspetti e le tappe caratteristiche. Nel Vangelo si dice di Gesù che la sua missione era di andare di villaggio in villaggio ad annunziare il Regno e a fare del bene (cfr. Mc 1,32; 6,6; At 10,38). E un prete è inviato, come Gesù, a passare da un luogo all’altro, da una comunità all’altra per permettere così a Gesù di continuare nel tempo il suo ministero.
Don Marino è membro della comunità Papa Giovanni XXIII; a Pietracuta apre una Casa famiglia e diventa sacerdote-padre affidatario; è fra coloro che aprono il centro diurno “Il nodo”. Il mondo diventa la sua “famiglia” con il servizio per sei anni in Mozambico. Rientrato in Diocesi è per decenni responsabile del Centro Missionario Diocesano. I campi di raccolta in Diocesi e i campi di un mese all’estero diventano appuntamento fisso per molti ragazzi e ragazze che negli anni, con don Marino, condividono lo spirito missionario. È parroco dal 1993 a Mercatino Conca, Piandicastello e Montealtavelio. A Mercatino, con don Oreste, vuole la Casa della Pace: giovani che rientrano dalle missioni per “contaminare” questa valle e farla crescere con le loro esperienze. Accoglienza, sorriso, determinazione, a volte anche cocciutaggine – sempre elegante – sono i tratti che hanno caratterizzato il suo servizio pastorale. Era fiero di mostrare nel suo studio i cimeli africani (pelle di serpente compresa, appesa alla parete), donati poi alla Diocesi per l’Ufficio missionario. È stato insegnante di religione nelle scuole medie fino alla pensione, con un occhio speciale ai giovani: “I giovani Valconca” (fiore all’occhiello della vallata). Sempre partecipe alle vicende lieti e tristi dei parrocchiani. «Che bello!»: suo modo frequente di intercalare.

3.

La liturgia della Parola ci fa meditare rispettivamente sull’incipit della “Lettera dell’Amore” – così viene chiamata la Prima Lettera di Giovanni – e sul Vangelo della risurrezione. Potevano esserci letture più appropriate?
Il Vangelo ci riporta alle prime luci dell’alba della Pasqua: Maria di Magdala, Pietro e Giovanni corrono al sepolcro e dal sepolcro, di ritorno, corrono per annunciare – dopo aver verificato la tomba vuota e i lini e il sudario accuratamente deposti – che Gesù è vivo! Lo annunciano per fede, con la fede, nella fede. Quale altro messaggio importa annunciare se non questo: ci riguarda, ci dà speranza, plasma la vita di noi “vivi tornati dai morti” (così san Paolo chiamava i cristiani nella Lettera ai Romani: Rom 6,13).
Permettete citi un detto ferrarese che i nostri vecchi assicurano d’aver sentito, a loro volta, dai loro vecchi. È un detto ironico, ma anche vero: “I preti cantano sul morto”. All’epoca i funerali erano una risorsa per i poveri preti di campagna, questa l’ironia (cantano perché guadagnano qualcosa). In verità, erano, sono, siamo annunciatori della risurrezione: abbiamo il coraggio di cantare in barba alla morte. Se togliete questo annuncio alla nostra predicazione, togliete tutto. Il resto è buona educazione o cortesia.
Qualcuno potrebbe pensare che da duemila anni non è cambiato granché sulla faccia della terra: Cristo non ha salvato nessuno, la risurrezione è un mito senza altro fondamento che la speranza umana di sopravvivere alla morte, si continua a peccare. È vero, il Signore non ha eliminato la morte, neppure il peccato, neppure la sofferenza. Ma, entrando fino in fondo nel dolore, nella disperazione e nell’annientamento, ha inaugurato un altro modo di attraversarli: l’ha fatto continuando a fidarsi del bene che era presente nella croce. È risorto perché ha creduto nella presenza del Padre, persino nel momento in cui sembrava assente: «Chi non ama rimane nella morte». «Passiamo da morte a vita amando i fratelli» (cfr. 1Gv 3,14). «Quello che abbiamo veduto e udito noi lo annunciamo anche a voi, perché anche voi siate in comunione con noi. E la nostra comunione è con il Padre e con il Figlio suo, Gesù Cristo. Queste cose vi scriviamo perché la vostra gioia sia piena» (1Gv 1,4). Così sia!

Omelia nella Festa del Battesimo di Gesù

Pennabilli (RN), Monastero Agostiniane, 7 gennaio 2024

Is 55,1-11
Da Is 12
1Gv 5,1-9
Mc 1,7-11

Ancora luce! Dopo la luce di Betlemme, che ha illuminato quella grotta, dopo la luce universale dei magi, che vanno a portare l’omaggio dei popoli, la luce del pieno giorno, Battesimo del Signore, quando Gesù viene ad inaugurare la sua missione. È un momento di grande solennità: siamo di fronte al mistero del Battesimo del Signore.
Di solito, nelle parrocchie, si festeggiano i Battesimi, ma non bisogna distrarsi dalla festa del Battesimo di Gesù, che rimane un grande mistero. “Mistero”, parola da ben comprendere. Ad esempio, quando si prega il Santo Rosario, si meditano i cosiddetti “misteri”, cioè i fatti della vita del Signore. Nel linguaggio comune la parola “mistero” richiama qualcosa di oscuro o di strano; invece, i fatti della vita di Gesù si chiamano “misteri” per indicare che non si tratta semplicemente di “cronaca” (il Battesimo di Gesù è raccontato da tutt’e quattro i Vangeli): lì accadde qualcosa di misterioso, cioè carico di luce. La parola “mistero” deriva dal verbo greco “myein” che indica il silenzio che si impone davanti a qualcosa di spettacolare, che riempie di meraviglia, per cui le parole sono inadeguate a tradurlo, come quando siamo davanti al sole e ci viene da chiudere gli occhi. Davanti ai fatti della vita del Signore siamo rapiti in qualcosa di sorprendente.
«Gesù venne da Nazaret…». Viene a fare la fila con noi peccatori. Lui non aveva bisogno del Battesimo, semmai è il battesimo di Giovanni che aveva bisogno di Gesù per rendere quelle acque capaci di rigenerazione. Gesù, il Figlio di Dio, va al fiume e si mette in fila per essere “immerso nell’acqua”. Ma l’evangelista Marco passa subito al secondo movimento, la risalita dall’acqua. In quel momento si compie quella che era l’invocazione dell’umanità e di ogni cuore, espressa dal profeta Isaia: «Oh, se tu squarciassi i cieli e scendessi…» (cfr. Is 63,19). L’umanità si arrampica per avere un contatto con la divinità. Basti pensare al percorso dei popoli antichi, prima di Gesù, alla grande filosofia, alla metafisica. I Cieli rispondono all’invocazione e si aprono, ma non c’è nessun fenomeno particolare, nessun sole che danza nel cielo: è linguaggio apocalittico, simbolico, per dire il mistero straordinario, luminosissimo, del Dio che viene. Il Natale nell’oggi della liturgia – che è poesia e contemplazione – si espande nell’epifania, nel battesimo al Giordano e nelle nozze di Cana: tre fatti di manifestazione, di epifania, di teofania (Dio che si rivela). L’evangelista Giovanni indica tre segni: i cieli che si aprono, compiendo l’attesa, la profezia; lo Spirito che da questo grembo squarciato viene effuso e avvolge la persona di Gesù, riconosciuto come Messia (la colomba ricorda un altro battesimo, il diluvio universale); la voce, che ripete un versetto di Is 42: «Tu sei il figlio mio…», che si può tradurre anche con «tu sei il mio servo» (la parola è la stessa nella lingua di Isaia). Gesù, dunque, viene caricato di una missione. «Tu sei l’amato…». «In te ho posto il mio compiacimento»: tu sei la mia gioia. Qui viene preannunciato, nel linguaggio narrativo, il grande mistero che è il cuore della nostra fede cristiana, la Trinità, Dio Amore, Trinità di Persone. Ricordo che, ad un incontro, un grande biblista francese ci parlò dei quattro modi di leggere le divine Scritture. Il primo corrisponde all’infanzia, quando leggiamo le Scritture fermandoci alle rappresentazioni e alla fantasia. Poi c’è il modo adolescenziale di leggere le Scritture, con la preoccupazione storico-critica. Il terzo modo è quello degli adulti, che leggono il Vangelo e si chiedono: «Che me ne viene? Cosa devo fare?», una richiesta di attualizzazione. Infine, la lettura del saggio, dell’adultissimo, che è una lettura contemplativa: egli guarda, contempla, si lascia coinvolgere. Con l’immagine della Prima Lettura, penso la Parola di Dio come l’acqua del fiume che scorre, scende, penetra il terreno e porta frutti, vita.
È cosa buona, utile e necessaria pensare, oggi, al nostro Battesimo, ma siamo rapiti dalla luce del Battesimo del Signore. Splendore!

Omelia nella Messa della Notte di Natale

Pennabilli (RN), Cattedrale, 25 dicembre 2023

Quest’anno, con gli agghiaccianti avvenimenti che si susseguono, il mio messaggio è un invito alla riflessione, all’impegno e alla preghiera. Può il nostro Natale essere felice di fronte all’infelicità del prossimo che è infelicità di fratelli nostri?
Ci interroghiamo sul senso del Natale se mettiamo in relazione le tragedie che il mondo attraversa con l’inno che gli angeli cantano sulla grotta di Betlemme: «Gloria a Dio nel più alto dei cieli e pace in terra agli uomini che egli ama».

  1. Riflessione

La nascita di Gesù, del Figlio di Dio divenuto figlio di Maria, è stata voluta per iniziativa di Dio, dopo la fonte di ogni male che è il peccato, per estinguere l’odio e la morte, e instaurare la riconciliazione tra Dio e gli uomini, degli uomini tra loro, degli uomini con tutto il creato.
Gesù, venuto tra noi come uomo, a nome degli uomini, dà gloria a Dio e, venuto da Dio, reca a noi uomini l’assicurazione dell’amore di Dio e della pace. È nato per distruggere alla radice la causa di ogni discordia, inimicizia, opposizione, odio e morte e per ristabilire rapporti di comunione, di perdono, di riconciliazione. Per questo egli è nato. Per questo ci ha dato la sua vita: egli è nato per la vita! Scrive san Paolo: «Con lui ha dato vita anche a voi, che eravate morti per i vostri peccati…» (Col 2,12). Di più: «In Cristo Gesù, voi che un tempo eravate lontani, siete diventati i vicini… Egli, infatti, è la nostra pace, colui che ha fatto dei due un popolo solo, abbattendo il muro di separazione che era frammezzo, cioè l’inimicizia… facendo la pace» (Ef 2,13-25). Gesù è nato per questo, anche se il male percorre ancora così crudelmente la terra, insanguinando l’umanità. Perché? Azzardo una risposta: molti non hanno accolto il messaggio di Gesù; molti non hanno voluto continuare la sua opera e la sua missione; molti si sono allontanati da lui; molti ancora portano il suo nome, ma senza la passione e lo slancio necessari.

  1. Impegno

Occorre aderire a lui, a cominciare dalla riconciliazione con lui, accettandone il dono e tornando a riconciliarci con noi stessi, sanando le ferite di una rottura che ci lacera al nostro interno.
È urgente e costruttivo partire dalla riconciliazione tra noi, ritrovandoci sul piano della comune dignità, della comune origine (siamo fratelli tutti) e del comune traguardo. È necessario riscoprirci uguali, bisognosi gli uni degli altri. Perché contrapporci? Perché volerci male? Perché non collaborare? Cristo è nato per averci suoi collaboratori nell’impegno autenticamente umano di operare la pace. Incominciamo con l’educarci a sentimenti di generosità dentro di noi e a manifestarli attorno a noi nell’ambito del nostro quotidiano. Introduciamo nella famiglia, nella società e nell’umanità tutta uno stile umano di vedere, giudicare e agire per fare della nostra società un organismo convergente al bene, al bene di ognuno e di tutti. Per una superiore qualità della vita. Nell’amore, per una civiltà dell’amore.

  1. Preghiera

Ma forse di tanto non siamo capaci… Allora la nascita di Cristo ci invita alla preghiera per avere con la luce la forza della riconciliazione, la quadruplice riconciliazione: con Dio, con noi stessi, con gli altri, col creato.
Preghiera, perché sia lui il Signore a riportarci sulla via del ravvedimento, del riavvicinamento, del dialogo; perché sia lui ad ispiraci, a guidarci, a supplire alle nostre fragilità; perché sia lui la nostra pace.
Preghiamo anche per quelli che dimenticano la propria e altrui umanità, affinché comprendano la necessità delle elementari esigenze della giustizia e dell’amore.
Alla preghiera ci invita il Natale di Gesù. Per questo è nato. Preghiamo perché il dono della gioia e della grazia del suo Natale sia dato alle famiglie, ai piccoli, agli anziani, agli ammalati, ai poveri, a tutti senza distinzione. Pregare per far posto nel cuore all’ospitalità, alla cura vicendevole.
A noi e a tutti, o Signore Gesù, concedi la tua riconciliazione. Lavoreremo con te a dar gloria a Dio e a dare pace agli uomini che tu ami. Buon Natale.

Omelia nella S.Messa per l’Insediamento degli Ecc.mi Capitani Reggenti

San Marino Città (RSM), basilica del Santo Marino, 1° ottobre 2023

XXVI domenica del Tempo Ordinario

Ez 18,25-28
Sal 24
Fil 2,1-11
Mt 21,28-32

Eccellentissimi Capitani Reggenti,
Onorevoli Signori,
carissimi tutti,
al centro della breve pagina evangelica appena proclamata, colpisce l’espressione forte di Gesù rivolta a coloro che si ritengono giusti, non bisognosi di ravvedimento e di misericordia: «In verità vi dico: i pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel Regno di Dio». Ben venga la sberla, se scuote il perbenismo spirituale e la presunzione. Gesù, abilmente e amabilmente, provoca con l’idea del sorpasso! Ci sono persone ritenute “fuori strada”, lontane, “bocce perse”, che alla fine sorprendono, si fidano e passano avanti.

Ancora una volta Gesù ricorre al metodo parabolico: esemplifica perché capisca chi ascolta. Notate: per coinvolgere introduce la parabola con un «che ve ne pare»?
È il caso di due figli ai quali il padre ha rivolto l’invito a lavorare nella vigna. Il primo dichiara francamente che non ne ha voglia, ma poi va. Il secondo dice “sì” e poi non va. La parabola è indirizzata, di per sé, ai capi del popolo giudaico, non disposti ad accogliere il messaggio di Gesù ed è un estremo tentativo di scuoterli e di attrarli allo splendore della grazia. Dio vuole la salvezza di tutti!
Il racconto vale anche per noi, mette a confronto due atteggiamenti: in ognuno di noi ci sono i due figli, un cuore che dice “sì” e uno che dice “no”. Un cuore diviso.
Ancora una volta il Maestro ci ripete che le buone parole e le buone intenzioni da sole non bastano. Occorre la concretezza delle decisioni buone. «Non chi dice “Signore, Signore” entrerà nel Regno dei Cieli – dice Gesù – ma colui che fa la volontà del Padre mio» (Mt 7,21). Compiere le opere della giustizia e della solidarietà: questo vale! Nella parabola del giudizio finale Gesù riterrà fatte a sé le opere di misericordia: «Avevo fame e mi avete dato da mangiare, avevo sete e mi avete dato da bere, ero forestiero e mi avete ospitato…» (cfr. Mt 25,31-46). Ci è stato chiesto nella Seconda Lettura (dalla Lettera di San Paolo ai Filippesi) di «avere gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù». Sono sentimenti di condivisione e di partecipazione. A proposito di giustizia, ricordo il pensiero di Papa Francesco: «Guerre, attentati, persecuzioni per motivi razziali o religiosi, e tanti soprusi contro la dignità umana vengono giudicati in modi diversi a seconda che convengano o meno a determinati interessi, essenzialmente economici. Ciò che è vero quando conviene a un potente, cessa di esserlo quando non è nel suo interesse. Tali situazioni di violenza vanno moltiplicandosi – conclude il Papa – dolorosamente in molte regioni del mondo».
Siamo tutti scossi dalla tragedia dei migranti e ora voglio ricordare un’altra tragedia che ferisce il cuore degli uomini e dei cristiani in particolare: è la sorte di migliaia e migliaia di Armeni che sono scacciati dalla loro terra nell’Artsakh per rifugiarsi nell’Armenia. Non ho le competenze per orientare una riflessione così delicata, che tocca una complessa situazione internazionale, ma sono coinvolti e provati uomini, donne, bambini e anziani cristiani. Chiedo giustizia per loro, la cui vita e storia vale certamente più di ogni progetto politico e di ogni vantaggio economico.

Tornando alla parabola dei due figli, possiamo infine domandarci: che cosa è successo nel figlio che si è pentito ed è andato al lavoro nella vigna? Ha cambiato il suo modo di pensare il padre, la vigna, l’obbedienza. Il padre: non è più visto come un padrone, affarista e oppressivo, che pensa solo al lavoro e al guadagno, ma come un padre che cerca una relazione bella con i figli. La vigna è il vasto orizzonte che appassiona il padre e del quale vuol rendere partecipe e corresponsabile il figlio: «Tutto ciò che è mio è tuo» (Lc 15,31). L’obbedienza: non una risposta servile, un’esecuzione formale, ma una corrispondenza d’amore. In fondo, quel padre sogna una casa non abitata da servi, ma da figli corresponsabili. Non gli interessano tanto gli atti obbedienti, ma un cuore obbediente. E noi cosa pensiamo della relazione dei figli con il Padre e del vasto campo del nostro impegno e delle nostre responsabilità? La risposta al nostro cuore.

Omelia nella Festa di San Marino

San Marino Città (RSM), Basilica del Santo Marino, 3 settembre 2023

Sir 14,20-15.4
Sal 47
At 2,42-48
Mt 5,13-16

Eccellentissimi Capitani Reggenti,
Onorevoli Autorità politiche e militari,
fratelli e sorelle,
carissimi tutti,
con la festa dei suoi santi la Chiesa non riconosce al tempo la potenza di distruggere ciò che è stato creato dalla verità, dall’intelligenza e dalla passione per gli uomini.
Oggi noi non siamo qui a ricordare il passato. San Marino non è il passato. Nella comunione dei santi è una presenza. Come ogni uomo che è andato da questo mondo al Padre, continua la sua opera – è stato detto all’inizio di questa liturgia –, un’opera che noi dobbiamo continuare. Anzitutto, riconosciamo la straordinaria esperienza di fede di cui Marino è stato protagonista, perché le sue sorgenti non erano in lui, ma presso il mistero di Dio, nel profondo della morte e risurrezione del Signore Gesù. Abbiamo cantato poco fa con il Salmo: «Le mie sorgenti sono in te città di Dio». Con un personale e affettuoso rapporto con il Cristo, Marino è diventato l’intelligenza di sé e della vita, quell’intelligenza di cui ci ha parlato il libro del Siracide nella Prima Lettura, con un linguaggio pieno di immagini e di suggestioni. Marino è divenuto capacità di carità, di comunione, di solidarietà, proprio come descritto nell’icona della comunità primitiva degli Atti degli Apostoli, e poi è divenuto luce, formando insieme una comunità e un popolo. È questa la ricca tradizione che riceviamo ancora una volta dal santo Patrono e Fondatore. È come se san Marino ci riconsegnasse la sostanza profonda della sua esperienza di cristiano e di uomo, creatore di una Repubblica che ha sfidato i secoli, nella coraggiosa difesa della propria libertà interna ed esterna.
Con doverosa premura, e anche con piacere, annuncio che la figura di Marino, come santo Fondatore e Patrono della nostra Repubblica e come testimone del Vangelo, è oggetto di una iniziativa promossa congiuntamente dalle Commissioni nazionali per l’UNESCO di Italia, Croazia e Repubblica di San Marino. Si sta predisponendo, in queste settimane, la candidatura del manoscritto più antico della Vita Sancti Marini et Leonis nei documenti inseriti nel registro “Memoria del Mondo” dell’UNESCO, che raccoglie e promuove il patrimonio documentario mondiale. Il manoscritto, conservato nella Biblioteca universitaria nazionale di Torino, reca la più antica testimonianza esistente della vita di san Marino e di san Leone, ovvero la narrazione dell’itinerario umano e spirituale che condusse i tagliapietre di Arbe, fra la fine del III e gli inizi del IV secolo, dalla Dalmazia alle coste italiane del Mar Adriatico. Il racconto dell’insediamento sul monte Titano di Marino e la creazione di una comunità secondo gli ideali di fede, laboriosità, convivenza civile, indipendenza, libertà, sono alla base dell’esistenza stessa della Serenissima Repubblica di San Marino. Tali principi, assai avanzati per l’epoca, sono conformi a modelli sociali e politici codificati poi in epoche successive, anticipando orientamenti oggi definiti e raccolti negli atti istitutivi di importanti organismi internazionali delle Nazioni Unite.
La testimonianza di fede di san Marino diventa per noi un’occasione di verifica della nostra fedeltà a quelle radici, ma anche un rilancio della nostra missione. Missione è parola grande, impegnativa, che segna la nostra vita e rinvia al nostro compito, compito di ogni cristiano, mandato da Cristo nel mondo per annunziare, fino agli estremi confini, il suo Vangelo.

Ci uniamo, in questo momento, a papa Francesco che celebra l’Eucaristia in Mongolia, terra lontana per noi, ma terra di fratelli e di sorelle per tutti. Rinnoviamo la nostra opera di pace e di fraternità. È la luce che dobbiamo portare ed è la luce che siamo, secondo le parole del Signore Gesù: «Voi siete la luce del mondo… Voi siete sale della terra». Certo, ci si smarrisce un po’: «Io, luce e sale?». Eppure, il Vangelo ce lo conferma. Non possiamo vivere nel nostro particolare senza aprire quotidianamente le finestre della nostra intelligenza e del nostro cuore alle immani tragedie che accadono nella vita di interi popoli: possiamo vivere in una situazione privilegiata di carattere culturale, sociale, economico e politico, senza sentire il grido di sofferenza di tante persone, di tanti popoli?

Carissimi, all’inizio di un nuovo anno pastorale, dopo la pausa estiva, attrezziamoci per essere sempre più adeguati alla missione affidataci. Avevamo concluso l’Assemblea diocesana, nel giugno scorso, riconfermando il proposito di essere “costruttori di comunità nei cantieri della vita”. In quell’occasione abbiamo raccolto esperienze di vita, pensieri, propositi. Grazie a chi ha voluto condividere, grazie a chi si è messo in ascolto attento, grazie a chi è disposto a riprendere il cammino insieme: Sinodo. Sinodo nella sua fase di discernimento.
Permettetemi un ricordo particolare, un ringraziamento, una benedizione ai miei sacerdoti. Quest’anno, con loro, andremo al cuore della comunione, rimettendo al centro delle nostre comunità, con rinnovato slancio, con consapevolezza e fervore, l’Eucaristia, che è presenza (se ne fossimo veramente convinti, quanto coraggio prenderemmo!), azione (il Signore non è immobile nell’Eucaristia, non è gioiello in cassaforte) ed auto-donazione, permanente e vivificante, del Signore. Un programma di sempre, ma sempre nuovo, da affrontare con rinnovato slancio. Anzitutto: custodire l’integrità della fede; promuovere la santità della vita; custodire l’unità fraterna; vegliare sull’autenticità della devozione: questo chiediamo al Signore, con l’intercessione del nostro Patrono e Fondatore Marino. Così sia.