Videomessaggio alla Giornata dei ragazzi delle Medie ACR

Piattaforma Zoom, 20 febbraio 2021

Cari ragazzi,
partecipo un po’ anch’io al vostro pomeriggio formidabile di giochi e di riflessioni. Voi iniziate così, insieme, la Quaresima. Ma che cos’è la Quaresima? Quaresima sono 40 giorni… A dire il vero la Quaresima è già iniziata mercoledì scorso, il Mercoledì delle Ceneri, e finirà a Pasqua.
I vostri educatori mi hanno fermato qui, in cortile, mentre sto partendo e immagino mi chiediate: «Che cos’è in pratica, per noi, la Quaresima?».  Quello che è per noi è anche per voi… Quaresima è un tempo nel quale il Signore ci chiede di convertirci. Voi subito penserete: «Vabbè, mi metterò a fare dei fioretti, vedrò di essere più ubbidiente, meno nevrastenico…». Attenzione, la conversione è tutta un’altra cosa! Convertirsi significa voltarsi decisamente, nel proprio cuore, verso Gesù. Ognuno di noi, durante questo periodo, si chieda: «Chi è Gesù per me? Gesù, sei nel mio cuore, nei miei pensieri?». Dalle mie parti ci sono molte coltivazioni di girasoli; i girasoli sono dei margheritoni gialli – forse li avete visti – che hanno questa caratteristica: bramano la luce, il sole, per cui la mattina li vedi girati a Oriente e la sera a Occidente, perché seguono, “bevono” il sole.  Ecco che cos’è la conversione; ma forse voi preferite un esempio più concreto. Sto partendo e adesso vi faccio vedere cosa faccio prima di partire: venite in auto con me un attimo, vi faccio vedere. Convertirsi è puntare bene il navigatore nella direzione in cui vuoi andare. Intanto che il navigatore lavora per elaborare il percorso, colgo l’occasione per rispondere alla domanda che immagino mi rivolgiate: «Dove vai?». «Vado a casa!». Il ritorno è molto bello. Nella Sacra Scrittura molte volte il Signore fa questo invito: «Ritornate a me». Ci sono state persone che hanno vissuto concretamente questi ritorni. Pensate, ad esempio, al figliol prodigo che aveva passato tutto il suo tempo a spassarsela e a divertirsi, dimenticandosi completamente del padre. Ad un certo punto ritorna ed è una festa. Poi, c’è il ritorno del lebbroso che è stato risanato insieme ad altri nove lebbrosi (i guariti erano dieci), ma solo lui ritorna per dire grazie. Questo è stato molto apprezzato da Gesù. C’è il ritorno di Maria di Magdala, che non è persuasa che Gesù sia nella tomba. Ritorna; ritorna sui suoi passi e ha la gioia di incontrare Gesù vivo, Gesù risorto. Quaresima è il tempo per imparare ad essere amici intimi di Gesù.
Ecco, io vi auguro che questa Quaresima sia davvero un viaggio e che siate lanciatissimi verso la Pasqua. Puntate bene il navigatore!

Omelia nella VI domenica del Tempo Ordinario

San Marino Città (RSM), 14 febbraio 2021

Lv 13,1-2.45-46
Sal 31
1Cor 10,31-11,1
Mc 1,40-45

Gesù è il protagonista. Tuttavia, voglio tracciare l’identikit del lebbroso che prega Gesù. Come lo vede la gente? Cosa pensa di lui? Come vede se stesso? Che pensa di sé? Come lo vede Gesù?
Gli effetti della sua malattia, la lebbra, ci sono ben noti. Conosciamo le conseguenze di questa patologia sulla persona e sui rapporti sociali. Conosciamo la ricaduta sulla sua vita e nella comunità religiosa: il lebbroso è un “colpito da Dio”, è un morto – così pensa la gente –, un impuro e, come tale, deve evitare il contatto con gli altri: non può entrare in Gerusalemme!
Mi interesso del lebbroso perché, essendo innominato, in qualche modo, ci rappresenta tutti. Ognuno di noi porta segni più o meno evidenti, più o meno segreti, di lebbra: mali fisici, mali psicologici, mali spirituali. Il lebbroso del Vangelo non fa come talvolta facciamo noi: noi non osiamo prendere l’iniziativa, pensando al nostro male, la nostra inadeguatezza ci intimorisce, il giudizio degli altri ci blocca… Il lebbroso, invece, si fa avanti, scavalca con audacia lo steccato che lo rinchiude. Il lebbroso ferma Gesù, che ha appena tagliato corto con i cittadini di Cafarnao in visibilio per lui, che si è messo “subito” a percorrere città e villaggi per predicare e sanare. «Maestro – gli dicono – tutti ti cercano»… Ma non è quello che cerca lui, non cerca il bagno di folla, e tanto meno passare da guaritore.
Al lebbroso poco importa essere impresentabile, non si attarda in autocommiserazione, non perde tempo a “guardarsi”. Va direttamente da Gesù, senza accompagnatori, senza presentazione, senza appuntamento. Gli avevano parlato del Maestro di Nazaret… semplicemente.
Sono stupefatto dalla forma breve della sua professione di fede: «Se vuoi, puoi…». La risposta di Gesù è altrettanto diretta, asciutta, efficace: «Lo voglio»!
La manifestazione di fiducia del lebbroso attribuisce a Gesù una potenza divina. E tale potenza viene identificata con la sua volontà. Solo Dio può agire senz’altro mezzo che la sua volontà («Disse e tutte le cose furono fatte», cfr. Sal 148,5; cfr. racconto della creazione in Gn 1).
I verbi adoperati dall’evangelista, riguardanti l’azione di Gesù, sul lebbroso ci stupiscono: più che suggerirci la compassione testimoniano la lotta rabbiosa che Gesù tiene contro la malattia e il male. L’imposizione delle mani da parte di Gesù significa potenza e il contatto trasmissione di forza: «Arrabbiato, stese la mano, lo toccò e gli disse…». E subito dopo – in crescendo – «lo rimproverò aspramente» e «lo cacciò fuori». L’evangelista è come volesse riferirci l’alterazione della voce di Gesù, la sua espressione facciale a causa della violentissima emozione che lo assale e lo sconvolge: Gesù è venuto per lottare contro tutto ciò che deturpa l’uomo, altera le sue relazioni con gli altri e lo esclude dalla comunione con Dio.
Torno al lebbroso. Mi colpisce anche la sua aperta disobbedienza al comando di Gesù: «Non dire niente a nessuno di quanto ti ho fatto; va’, invece, a mostrarti al sacerdote e offri per la tua purificazione». Gesù gli ingiunge di osservare il «segreto messianico». Cosa disattesa dal miracolato. Per un verso il kerygma è la cosa più normale e più bella. Per un altro verso avrebbe fatto meglio ad obbedire. La gente, infatti, cade nel tranello di pensare Gesù un guaritore. Si ferma alla guarigione mentre Gesù indica qualcosa di più: restituire l’immagine di Figlio di Dio, rinnovare la relazione con gli altri, ridare la comunione con Dio, tutto ciò che la Scrittura riassume con una parola: salvezza. Per questo l’evangelista Giovanni nel suo Vangelo non parlerà di miracoli, ma di segni. Il miracolo – permettete la metafora – è come un cartello stradale che indica la direzione: non devi fermarti sotto il cartello pensando d’essere arrivato. La volontà di Gesù è chiarissima: lottare contro ogni genere di malattia, ben lontani dalla convinzione, un po’ diffusa, che ci si debba rassegnare al male o che sia un castigo divino…
Tutti i gesti del Signore hanno uno scopo di salvezza, non cercano di catturare la gente, ma di aiutarla a cogliere la vittoria sul male, a salvarsi nella sofferenza, ad amare anche nella malattia.
Se potessi parlare al lebbroso gli direi che l’unica testimonianza valida non è gridare al miracolo, ma quella che indicherà Gesù prima di morire: «Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per altri» (Gv 13,35). L’importante non sono i miracoli appariscenti. È vero miracolo la capacità che ci è data di amare come il Signore ci ha amati, lavorando per la felicità dei fratelli nella quotidianità, nel prendersi cura di loro, nell’umiltà dei piccoli gesti.
La lotta degli scienziati contro la lebbra di ieri, come contro la lebbra di oggi (Coronavirus, AIDS, tumori, sclerosi multipla, ecc.) è un segno messianico, è benedetta da Dio. Gesù non solo guarisce il lebbroso, ma lo manda al tempio perché sia accertata la guarigione e sia reintegrato nella comunità. Dunque, è messianico e benedetto dal Signore anche l’impegno contro ogni forma di emarginazione (stranieri, profughi, zingari, barboni, ecc.).
«Va’ e presentati al sacerdote». Il sacerdote è necessario per la purificazione dalla lebbra dell’anima: il peccato. Dio ha dato questo potere a degli uomini (cfr. Mt 9,8). È necessario anche per avere, dopo la salute, la pienezza della vita. Il sacerdote, egli solo, può trasformare il pane e il vino nel corpo e sangue del Signore e così dare nutrimento e incremento alla vita spirituale (cfr. Gv 6). È necessario presentarsi al sacerdote e mettersi a disposizione con lui per edificare la Chiesa, per unirci tra noi e unirci a Dio. Si tratta della salvezza degli uomini. Il ministero sacerdotale è messianico e benedetto da Dio.

Omelia nella S.Messa in suffragio di mons. Luigi Giussani

Borgo Maggiore (RSM), Santuario della Beata Vergine della Consolazione, 14 febbraio 2021

Lv 13,1-2.45-46
Sal 31
1Cor 10,31-11,1
Mc 1,40-45

Celebriamo il ricordo di mons. Luigi Giussani nell’anniversario della sua morte. Non può che essere una “celebrazione pasquale”, una Eucaristia. Si tratta del passaggio alla pienezza della vita dopo un percorso di sofferenza e di morte.
«Nella ultima tappa della sua vita don Giussani ha dovuto attraversare la valle oscura della malattia, dell’infermità, del dolore, della sofferenza, ma anche qui, il suo sguardo era fisso su Gesù, e così rimase vero in tutta la sofferenza, vedendo Gesù, poteva gioire, era presente la gioia del Risorto, che anche nella passione è il Risorto e ci dà la vera luce e la gioia e sapeva che – come dice il Salmo – anche attraversando questa valle, “non temo alcun male perché so che Tu sei con me e abiterò nella casa del Padre”. Questa era la sua grande forza: sapere che “Tu sei con me”» (cfr. Joseph Ratzinger, Omelie nelle Esequie di mons. Luigi Giussani, 24.2.2005).
Il Vangelo appena proclamato ha una forte pertinenza con l’esperienza spirituale di don Giussani nel momento della sua sofferenza. Il centro del racconto evangelico è l’incontro con la persona di Gesù: ad incontrarlo è un lebbroso e chi è il lebbroso se non un morto? Il suo corpo in decomposizione è già anticipo della sua morte. Ogni volta che il lebbroso incontra qualcuno è un fallimento: «Emani cattivo odore. Mi fai paura. Rappresenti la fine che io farò». Questa del lebbroso è una delle prime guarigioni compiute da Gesù, ma è anticipatrice di quella che sarà la Pasqua del Signore. In effetti questo brano è di una crudezza assoluta; la fede non è un analgesico: prende sul serio e fino in fondo la realtà del morire. Il racconto, però, anticipa che il tuo corpo risusciterà. La salvezza arriva sino al corpo, alla determinazione ultima della concretezza.
Gli esegeti ci insegnano che ogni episodio di incontro raccontato da Marco è già incontro con il Risorto. La fine del Vangelo di Marco è incompleta: «Gesù vi precede in Galilea» (Mc 16,7). È come in un giallo: dopo che sai la finale rileggi e capisci tutto. Tu attraverserai la morte, ma in realtà risusciterai come questo lebbroso. Anima e corpo non sono separati, ma insieme formano la persona umana. Il Vangelo dice che Gesù di fronte al lebbroso ha una reazione di commozione: il verbo esprime il tremore dell’utero, l’utero di una madre che sta per dare la vita.

Gesù toccò il lebbroso: c’è un contatto fisico. Gesù accetta di assumere su di sé la malattia da cui libera il lebbroso e non si tratta soltanto della violazione di una prescrizione igienica. «Gesù non poteva più entrare pubblicamente in una città, ma rimaneva fuori, in luoghi deserti». Diventa lui lebbroso. Questa condizione è la stessa del Servo sofferente che prende su di sé le nostre iniquità: «Non ha apparenza né bellezza per attirare i nostri sguardi. Disprezzato e reietto dagli uomini, uomo dei dolori che ben conosce il patire, come uno davanti al quale ci si copre la faccia… Eppure egli si è caricato delle nostre sofferenze, si è addossato i nostri dolori; e noi lo giudicavamo castigato, percosso da Dio e umiliato» (Is 53,2-4).
Il lebbroso viene invitato da Gesù a mostrarsi ai sacerdoti e a offrire il sacrificio. Il Vangelo racconta che il lebbroso non va al tempio, non va dai sacerdoti, ma corre ad annunciare la buona notizia che è risanato. Annuncia con gioia che qualcuno l’ha reso vivo. L’annuncio ha preso il posto del sacrificio, perché l’unico sacrificato è Gesù: lui è fuori dalla città, è il «maledetto che pende dal legno» (cfr. Deut 21,23; Gal 3,13). C’è già la vittima!
Ogni lettore si sente identificato con chi è guarito: quello che prima cadeva a pezzi ora ha ritrovato la sua unità e la sua vita. I cristiani annunciano la vita ritrovata attraverso la morte di Gesù, fattosi lebbroso per noi, ed ora nella gloria.
Chiediamoci: qual è la mia lebbra? Quali le sue conseguenze?
Accostiamoci senza timore a Gesù che non ha orrore di noi: ci accetta come siamo e ci offre risurrezione.

Omelia nella V domenica del Tempo Ordinario

San Marino Città (RSM), 7 febbraio 2021

Gb 7,1-4.6-7
Sal 146
1Cor 9,16-19.22-23
Mc 1,29-39

L’evangelista Marco, come un cronista, è all’inseguimento di Gesù. Si fa fatica a tenergli dietro… Avete notato quante volte c’è l’avverbio: «E subito…»?
Noi parliamo di Programma pastorale: Gesù ha stabilito che la sua linea programmatica preveda l’ingresso nella città e in questo si differenzia, per collocarci al tempo suo, da gruppi di spiritualità che abbandonavano Gerusalemme e le città per andare nel deserto: celebre era l’insediamento esseno sulle rive del mar Morto, a Qumran. Gli Esseni adottavano la strategia della fuga. Poi c’erano gli Zeloti (qualcuno del gruppo di Gesù ne faceva parte), che adottavano una strategia di assalto: si armavano per resistere agli odiati occupanti, che erano i Romani. Gesù si distanzia da una strategia e dall’altra e adotta una strategia di ingresso. Va sulle rive del lago di Gennesaret – lo chiamavano il mare di Galilea – e chiama pescatori al suo seguito. Entra in Cafarnao, va nella sinagoga, il luogo della preghiera e dell’ascolto della Parola di Dio. Qui compirà un gesto di guarigione del rapporto che la creatura ha con il suo Creatore. La guarigione del posseduto dallo spirito impuro, in fondo, ha questo significato: il Signore guarisce i nostri rapporti sbagliati con Dio, quando lo sentiamo come presenza incombente, che minaccia, giudica, che è sempre scontenta di noi. Gesù ha un’altra visione di Dio, lo annuncerà: Dio è papà, ci ama immensamente.

Oggi celebriamo la Giornata della Vita. C’è bisogno di pane per vivere, ma c’è bisogno di amore per avere un motivo per vivere. Noi l’abbiamo questo motivo: è l’amore infinito di Dio. Poi Gesù esce dalla sinagoga e va nella casa di Simone e Andrea. Mi sorprende la disinvoltura con la quale Gesù passa da un ambiente all’altro, starei per dire con la stessa sacralità. Nella casa di Simone e Andrea non si sentivano gli inni e non c’era profumo di incenso, ma si sentiva il rumore delle stoviglie di casa, il profumo delle vivande. Gesù va per un momento di amicizia, di intimità, forse anche di riposo, perché l’incalzare dei «subito» esigeva certamente anche momenti di sosta. Gesù va e gli parlano della suocera di Simone (Pietro). Non si fa pregare due volte e va nella stanza della febbre, dove c’è la donna ammalata. Non sappiamo i particolari. Gli esegeti si sbizzarriscono, qualcuno dice: «La suocera di Pietro ha somatizzato il suo disagio perché il genero non è più come prima: viene a casa dalla pesca con le reti vuote, anzi senza reti, a volte sparisce per due o tre giorni…». Si può immaginare il suo disappunto. Lei non sa ancora che Simone ha incontrato Gesù, che ormai si sta dando braccia, gambe e cuore alla causa del Vangelo. Quindi Gesù, entrando in quella casa, poteva avere anche qualche motivo di risentimento, ma va subito dalla suocera e fa un miracolo che non è eclatante, non ci sono gesti particolari, parole, formule. Tutto accade nella stanza della febbre: semplicemente Gesù si avvicina, prende per mano, solleva e quella donna è restituita alla fierezza di servire. Ognuno di noi ha la sua stanza della febbre dove c’è qualcosa di non chiarito, di sofferto, di non comunicato, che tiene per sé e in cui non si vogliono invadenze. Lasciamo che Gesù entri nella stanza della febbre, che risani, sollevi, prenda per mano. Cafarnao è una città in cui le case sono una a ridosso dell’altra (si vede dagli scavi) e la fama si diffonde presto: «Avete sentito?». Dopo la guarigione della suocera tutti vanno incontro a Gesù e lui guarisce, risana, ma poi “taglia corto”, non vuol esser preso per un guaritore e neanche per un medico che vuole fondare una clinica. No. Gesù va nella preghiera, si ritira e, quando lo vanno a chiamare, dirà: «Andiamocene altrove, perché dobbiamo raggiungere tanti altri villaggi». La strategia di Gesù, come si vede, è ben diversa da quella degli Esseni che vanno nel deserto e fuggono da un mondo in cui, secondo loro, non c’è più niente da fare, ma Gesù si distanzia anche da quella degli Zeloti, che attaccano. Lascia la sinagoga e va per le città e i villaggi. È stata la scelta anche dei primi cristiani che hanno lasciato le sinagoghe per radunarsi nelle case e poi andare in tutto il mondo. E il Vangelo è arrivato sino a noi. Usciamo dalla prigionia e dal chiuso di noi stessi per sollevare, servire, amare. Così sia.

Omelia nella festa di Sant’Agata

Sant’Agata Feltria (RN), 5 febbraio 2021

2 Cor 10,17-11,2
Sal 123
Mt 10,28-33

1.
Voi siete qui! Così si legge nelle topografie turistiche.
Qui è tempo di epidemia: desolati, impauriti, ansiosi, in difesa, distanziati per salvare le relazioni… Quando la normalità?
È crisi sanitaria, ma anche economica, sociale ed educativa. Sul conto va aggiunta la tensione politica, l’attesa di un nuovo governo…
L’epidemia, al suo inizio, può essere raffigurata nella scena iniziale del film Chernobyl: tutti addossati sul parapetto di un ponte a guardare in lontananza l’esplosione della centrale nucleare. Uno spettacolo simile ad una serata di fuochi artificiali. Ma gli spettatori già respirano le particelle radioattive. È iniziata così: la prima fase fu la spettacolarizzazione dell’epidemia, finché ci si è resi conto che toccava tutti noi: è arrivata in casa nostra. Il treno, o la barca per dirla con Papa Francesco, sul quale viaggiavamo tranquilli e sicuri si è fermato: c’è un guasto. Non c’è differenza fra prima e seconda classe. Tutti giù ad aspettare la ripartenza: ma quando?
La sosta forzata ha fatto prendere coscienza ai viaggiatori – siamo noi – della propria costitutiva fragilità, della vulnerabilità dei sistemi, ma anche l’interdipendenza: tutti sulla stessa barca, nessuno escluso. Con quali risorse ci si è messi ad affrontare la crisi? Da subito almeno tre: intelligenza (ricerche della biologia e della medicina, organizzazione sociale, regolamenti); cuore (famiglia, volontariato, impegno degli addetti ai lavori: infermieri, medici e personale sanitario in genere…); mani giunte (preghiera con l’effetto immediato di infondere speranza, di farci sentire “fratelli tutti” e di guardare al nostro destino ultimo).
«Peggio di questa crisi è solo il dramma di sprecarla» (Papa Francesco).
Mi spiego portandomi con la mente ed il cuore al cammino, mesto e fuggitivo, di due discepoli di Gesù, all’indomani della sua crocifissione. Hanno il volto triste, sono in fuga da Gerusalemme, vanno verso un villaggio nel quale rifugiarsi… Emmaus. Uno sconosciuto si affianca a loro. Inizia un dialogo. I due gli confidano la loro disperazione: «Noi speravamo…». Lo sconosciuto è Gesù Risorto, che si è messo accanto a loro per ascoltarli. Sorprende quando prende la parola, perché non si attarda nella commiserazione, nella lamentazione… Ma lì, subito, sulla strada si mette a ripercorrere la storia della salvezza spaziando da Mosè ai profeti… E scuote i due viandanti: «Stolti e tardi di cuore nel credere alla parola dei profeti!». Gesù allarga l’orizzonte e li tira fuori dalla loro tristezza.
Gesù non fa programmi, né progetti, ma avvia e incoraggia processi. Non detta l’agenda ai due di Emmaus, ma fatto sta, che dopo la sosta nella locanda, “quei due” invertono il cammino, tornano a Gerusalemme, rientrano nel gruppo che avevano lasciato, relazionano sull’incontro avuto, ascoltano il racconto degli altri e si rendono disponibili alla grande avventura dell’evangelizzazione che da Gerusalemme interesserà tutto il mondo…

2.
Voi siete qui!
Questo è il senso del nostro radunarci come popolo qui in chiesa, nel giorno in cui ricordiamo la coraggiosa fanciulla siciliana, sant’Agata. Ma c’è di più. Ci chiediamo: «Quando torneremo alla normalità?». Ci sarà – ce lo auguriamo – ma dobbiamo considerare “normale” per chi abbraccia il Regno di Dio affrontare “prove e persecuzioni”. Nessuna esenzione: neppure per chi è fervoroso nella preghiera, per chi fa del bene, per chi è ineccepibile come cristiano… Del resto la nostra patrona Sant’Agata non ha scansato la persecuzione e la morte.
Un vero cristiano impara presto che la sua fede lo attrezza ad affrontare la crisi, a trovare “normale” gestire con forza, con fede, l’anormalità. Chiediamo le guarigioni per noi e per gli altri. E facciamo bene. Ma non perdiamo di vista il nostro destino ultimo, non dimentichiamo il paradiso. È frequente nei Vangeli (nei racconti di miracoli fatti da Gesù) il rincorrersi di due verbi, due verbi diversissimi, anche se noi li prendiamo come sinonimi: “guarire” e “salvare”. Quando Gesù ha guarito i dieci lebbrosi, soltanto uno è tornato indietro a ringraziare, a riconoscere Gesù Signore e Gesù gli ha detto: «La tua fede ti ha salvato». Dieci guariti, uno salvato. Così, quando Gesù guarisce la donna che perdeva sangue, colei che di nascosto gli aveva sfiorato le frange del mantello. Gesù la riconosce e le dice: «Donna sei guarita, la tua fede ti ha salvato».  Le guarigioni erano soltanto un segno… Lazzaro è tornato a morire, la dodicenne figlia di Giairo è tornata a morire, il lebbroso è tornato a morire. Quello che Gesù vuol dare è qualcosa di più grande: la salvezza per sempre. È bene che abbiamo buona salute, anche per avere la fierezza di servire e aiutare gli altri, ma non dimentichiamo la meta.

3.
Voi siete qui!
La comunità da qualche mese ha vissuto l’avvicendamento nella guida della parrocchia. Ogni cambiamento comporta nuovi assetti, variazioni sia nel cuore che nelle cose pratiche, uscite, rientri. Come vivere il cambiamento? Come vivere i cambiamenti in generale? Anzitutto guardare all’essenziale e l’essenziale non è il minimale, ma ciò che resta con tutta la sua vitalità e forza: siamo discepoli del Signore Gesù, Lui è presente, è al centro dei nostri cuori. In tutti noi brilla la perla del Battesimo e il tesoro che nessuno può rapirci!
E poi prendere coscienza che la parrocchia fa parte di una realtà più grande che è la Diocesi, dove le persone si alternano nel servizio, perché di servizio si tratta. I ruoli sono diversi come le forme di responsabilità, ma tutti concorrono al bene di tutti (da chi sanifica la chiesa a chi fa lo sforzo di trattenere un giudizio). Una considerazione particolare la Chiesa ha verso il laicato; vede la necessità di promuoverne il protagonismo; incoraggia le forme di aggregazione, soprattutto l’Azione Cattolica; vuole l’esercizio della sinodalità, che si lavori insieme e che ci siano i Consigli parrocchiali pastorale e degli affari economici; sente l’urgenza della formazione: fossero anche piccoli gruppi, ma assidui nella lectio divina.

Voi siete qui!
È l’anno centenario della morte di padre Agostino da Montefeltro. È in programma un grande convegno. La causa di canonizzazione sta andando avanti, mentre avete la gioia di avere tra voi le sue figlie spirituali.
Voi siete qui! Ognuno sa quello che ha in cuore (preoccupazioni, timori, fallimenti, gioie, ecc.). Qui è a casa sua, qui la possibilità di un nuovo incontro personale e comunitario con il Signore Gesù!

Omelia nella festa di San Biagio

Piandimeleto (PU), 3 febbraio 2021

Eb 12,1-4
Sal
Mc 5,21-43

Se dovessi dare un titolo all’omelia metterei questo: l’incontro che salva. La situazione che stiamo vivendo da mesi ci porta ad implorare aiuto al Signore. L’epidemia ha segnato e segna tante famiglie. Pesano i distacchi, soprattutto quelli delle persone care; angoscia la prospettiva dei vuoti con i quali dobbiamo fare i conti. Si può dire, in ognuno che ci lascia, che è tutto un mondo che scivola via. Anche la partenza di una persona anziana, soprattutto se è cara, lascia rimpianti, nostalgie, ricordi. Si prega, si chiedono preghiere, e ci si accontenterebbe anche che il Signore rinviasse di una settimana, un mese, un anno, la partenza di uno dei nostri cari.
Poi vengono domande di altro genere: «Serve pregare?», e domande più radicali: «Che è questa vita a cui siamo irresistibilmente attaccati, se poi è destinata a finire, tante volte sul più bello?». Ci fosse anche una guarigione, non sarebbe per sempre. Ci saranno altri distacchi, altre partenze.

Nella pagina di Vangelo appena proclamata incontriamo Giairo che sa del potere taumaturgico di Gesù: in Galilea si è sparsa la voce che fa miracoli. Allora Giairo prega il Maestro di mettere il suo potere a beneficio della sua figliola, che è in fin di vita (non ne sappiamo il motivo). Giairo non ha ancora la fede in Gesù, ma ha fiducia nel potere di guarigione del Maestro. Quello che conta è aver incontrato Gesù, poter riporre in lui la più assoluta fiducia. Gesù non gli chiede nient’altro, gli dice: «Non temere, continua soltanto a fidarti». Lo invita a non lasciarsi accasciare dalla realtà della morte di sua figlia, così come gli è stata crudelmente comunicata attraverso una staffetta di persone che gli vanno incontro mentre rientra a casa. Gesù gli dice anche di non aver paura di apparire sciocco continuando ad aver fiducia in lui, di non far caso neppure a quello che dicono i suoi discepoli che lo allontanano per non fargli perdere tempo e nemmeno all’ironia dei presenti nel cortile. La fede non si esaurisce nella fiducia in una grazia materiale, ma può partire da questa per arrivare a capire in profondità che la vera fede è credere a Gesù come salvatore. La fede si innesta sul vivo delle speranze umane e la grazia divina erompe sull’umano.

Il seguito del racconto è permeato da tanti motivi pasquali, che sono qui anticipati. Per esempio, il pianto e la tristezza di fronte alla tragedia della morte, la parola di Gesù che interpreta quella morte come un dormire. I primi cristiani, mossi dalla fede pasquale nella risurrezione, hanno cambiato il nome della necropoli (etimologicamente “necropoli” significa “città dei morti”) in “cimitero” (che vuol dire “dormitorio”). Poi c’è il comando di Gesù: «Ragazza, in piedi (Talità kum in aramaico)!»; kum è l’equivalente dei verbi tipici della risurrezione: alzarsi e risvegliarsi. Qui il miracolo è la rianimazione di un cadavere, ma è da intendersi come un’anticipazione della risurrezione pasquale; infatti, la ragazza, restituita alla vita terrena, di nuovo è votata alla morte. Il miracolo è segno del potere che Gesù ha sulla morte. In questo racconto la parola di Gesù ha la stessa forza, lo stesso potere, della Parola di Dio, come nella creazione. «Dio disse e tutto fu fatto» (cfr. Sal 148,5): quindi la parola di Gesù è una parola efficace, che trasforma le realtà a cui è indirizzata. La parola di Gesù fa dello sconsolato Giairo un credente e della ragazza morta una vivente. Ahimè, si può anche resistere, non avere fiducia in quella parola di Gesù. Succede. Vedi l’ottusità dei discepoli, l’ironia della gente attorno a casa, il terrore degli astanti. La parola di Gesù non toglie il dolore, non è un anestetico. Però le parole di Gesù infondono speranza. Voglio fidarmi. Spero sia così anche per voi.

Faccio un breve accenno al “miracolo dentro al miracolo”: mentre Gesù va con Giairo a casa sua incontra una donna che soffre di perdite di sangue. Aveva speso tutti i suoi averi per trovare un rimedio. Anche lei ha avuto la fortuna di incontrare Gesù e di passare dalla stima di Lui alla fede in Lui. L’evangelista Marco indugia nel racconto di alcuni particolari: il caos della folla che stringe Gesù da tutte le parti, la donna che si allunga quasi strisciando per terra per toccare un lembo della sua veste… La donna viveva in situazione di morte, è una morta vivente (per gli antichi il sangue “dentro” è vita, il sangue che scorre “fuori” è morte) e si vorrebbe quasi lasciar morire dato che tutte le cure non sono efficaci. Ormai è buio nel suo cuore, ma in un impeto di stima per Gesù tocca la frangia del suo mantello e guarisce immediatamente. Gesù, nella sua misteriosa sensibilità spirituale, avverte che il suo potere salvifico è entrato in opera, ma non ne è irritato, anche se alza lo sguardo dicendo: «Chi mi ha toccato?». I discepoli, però, sorridono perché non capiscono come possa fare quella domanda visto che è pigiato da tutte le parti. Gesù vuole insegnare – e questo vale per me e per voi – che il semplice contatto fisico non basta, per questo volge lo sguardo tutt’attorno e cerca chi lo ha toccato. Cerca un incontro personale che superi la superstizione, il gesto magico, e consenta l’irruzione della grazia e della fede. È quello che accade. La donna non può resistere allo sguardo di Gesù, perché Gesù sa cavar fuori le fibre più nascoste dell’anima e proprio dalla stima per Gesù, dal gesto un po’ superstizioso, dalle sue paure, dalla sua nudità davanti a lui e alla gente irrompe la fede, la grazia. Gesù le dice: «La tua fede ti ha salvato. Va’ in pace e sii guarita». Da notare i due verbi: il verbo “salvare” e il verbo “guarire”. Sono due cose diverse: uno può guarire, temporaneamente, per cent’anni, ma la salvezza è una cosa più grande, più profonda. La salvezza è essere in comunione sempre con il Signore Gesù.
Dico a noi cristiani: dobbiamo guardare il paradiso! Non valgono tanto le prove scientifiche, ma la fede: «Gesù credo sulla tua Parola».
Una volta alla Certosa della mia città ebbi un’esperienza di grande buio spirituale. Era il mese di luglio e il sole picchiava forte; ero stato chiamato per un rito funebre. C’era un necroforo che stava riesumando i resti di una persona e con una cazzuola da muratore tirava via la terra dal teschio. Mi fermai un attimo a guardare. Dissi a Gesù: «Credo sulla tua Parola, perché tante volte ho fatto esperienza che la tua Parola è vera». Se Gesù dice che dobbiamo guardare il paradiso, che saremo con Lui, possiamo fidarci. Chiediamo di essere guariti, ma chiediamo soprattutto la salvezza eterna. Abbiamo una eternità smisurata di gioia e di vita davanti a noi. Così sia.

Omelia nella Festa della Presentazione del Signore

Pennabilli (RN), Cattedrale

Ml 3,1-4
Sal 23
Eb 2,14-18
Lc 2,22-40

1.

Celebriamo con gioia e gratitudine, nella Festa della Presentazione del Signore, la Giornata della Vita Consacrata. Gioia per i rapporti sempre nuovi tra di noi. Gratitudine per i «doni gerarchici e carismatici» (cfr. LG 4) che il Signore dona alla sua Chiesa per costituirla, per dirigerla e per arricchirla. Diocesani e religiosi sono uniti nella diversità: viviamo gli uni per gli altri. Nessuno qui è ospite. Tutti pellegrini. Tutti famiglia. Tutti protesi a costruire il “noi”, come ci ricorda spesso papa Francesco. Tutti consacrati nelle acque del Battesimo e nell’unzione con il santo crisma.

2.

Guidati dalla Parola di Dio e dai testi liturgici non possiamo che parlare di Lui, il nostro Sposo, il Tutto della nostra vita: il Signore Gesù! Non siamo qui per parlare di noi o dei nostri problemi, che sono smisurati in questo tempo. Siamo qui per mettere Lui al centro. Contempliamo e godiamo di Gesù Lumen gentium. La meraviglia che subito suscita in cuore e abbaglia è il mistero della luce: Gesù, Mistero di Luce!
Una luce che spunta da lontano, da quel primo “fiat”: «Sia la luce. E la luce fu. Dio vide che la luce era cosa buona» (Gn 1,3). Una luce che avanza nei secoli dell’Antico Testamento, incendiando e avvolgendo ogni cosa (non sono divagazioni, è lectio divina): il roveto ardente (cfr. Es 3,2); il Sinai in fiamme (cfr. Es 19,24-40); il fulgore sul volto di Mosè (cfr. Es 34,28-35); la grande luce profetizzata da Isaia: «Un popolo che camminava nelle tenebre vide una grande luce…» (Is 9,1ss) e la profezia del “Terzo Isaia”: «Alzati, rivestiti di luce, perché viene la tua luce, la gloria del Signore brilla sopra di te» (Is 60,1); il ritorno della gloria di Dio vista da Ezechiele: «La gloria del Signore entrò nel tempio per la porta che guarda a oriente» (Ez 43,4); l’angelo dell’Alleanza del profeta Malachia e il fuoco del fonditore (cfr. Ml 3,1ss), di cui abbiamo sentito nella Prima Lettura.

3.

Una luce che irrompe e divampa nel Nuovo Testamento con Gesù, il “tutto luce”! «Veniva nel mondo la luce vera, quella che illumina ogni uomo» (Gv 1,9). «Io sono la luce del mondo – dirà Gesù –; chi segue me non cammina nelle tenebre, ma avrà la luce della vita (Gv 8,12). «Finché sono nel mondo – dice – la luce risplende» (Gv 9,5).
È la luce che, alla fine, sarà totale e totalizzante. Così lo squarcio dell’Apocalisse: «La città non ha bisogno né della luce del sole, né della luce della luna, perché la gloria di Dio la illumina e la sua lampada è l’Agnello» (Ap 21,23). «Non vi sarà più notte e non vi sarà più bisogno di luce di lampada, né di luce di sole perché Dio li illuminerà e regneranno nei secoli dei secoli» (Ap 22,5).

4.

La luce – abbiamo sentito – illumina, accarezza, avvolge ogni cosa e la fa diventare luce, la trasforma in luce, luce riflessa, fosforescenza.
Nella processione abbiamo trasportato le nostre luci. Raffigurano la luce affidataci da colui che seguiamo: «Cristo luce» (cfr. Gv 9,5). Attingiamo a Lui nostra luce e camminiamo nel mondo come un fiume di luce. San Leone Magno vedeva i suoi cristiani che tornavano dai santi misteri come dei leoni “ignem spirantes” (leoni che emettevano fuoco, luce). Gesù stesso l’ha detto: «Voi siete la luce del mondo… Risplenda la vostra luce davanti agli uomini» (Mt 5,16). Tutti luminosi ci vuole il Signore, come lucerna che illumina col suo bagliore quelli che sono nella casa (cfr. Lc 11,36).
Oggi si legge nella liturgia un’antifona che allude alla luce, ma soprattutto all’incontro fra Cristo sposo con la sua sposa: «Adorna, o Sion, la stanza delle nozze. Accogli Cristo tuo Signore. Abbraccia Maria che è la porta del Cielo e porta il Signore della gloria. Ella, la Vergine, si ferma presentando nelle sue mani il Figlio nato prima della stella del mattino…». Questa antifona nell’ufficiatura della liturgia precede e segue il Salmo 44, il Salmo delle nozze del re. La luce: il dono che il Signore fa alla sua sposa… Il cero pasquale!
La luce, quale è tratteggiata nella sua storia (Antico e Nuovo Testamento), prefigura il Mistero dei Misteri: il Mistero pasquale. È il vecchio Simeone a profetizzarlo nel suo cantico. Il Bambino presentato da Maria e da Giuseppe sarà «segno di contraddizione… Egli è qui per la rovina e la risurrezione di molti in Israele».

5.

Nella presentazione di Gesù, accanto a Maria e a Giuseppe ci sono Simeone e Anna, due persone consacrate al Signore, dimoranti nelle strutture del Tempio, ciascuna con una grande attesa nel cuore, ciascuna con la necessità irrefrenabile di divulgare, col dono divino loro concesso, l’adempimento della salvezza per tutti.
I religiosi e le religiose qui presenti (insieme a quelli connessi online) continuano la missione incominciata da Anna e da Simeone, con una giovinezza inossidabile, che perdura anche nell’avanzare dell’età. Essi hanno avuto la salvezza e hanno avuto la chiamata ad annunciarla con la loro vocazione e missione. Sono stati chiamati dal Signore e consacrati per svelare la vita che ci aspetta dopo questa vita (quest’anno abbiamo avuto tante volte presente la realtà della morte, del passaggio «all’altra riva» (cfr. Mc 8,13). Essi operano nella Chiesa con una vita improntata ad una vita futura, quella del Regno: castità, povertà, obbedienza.
Un grazie per la loro testimonianza missionaria, per il lavoro che compiono accanto a noi e compiono per noi, oltre che per tutti gli uomini. E col grazie una preghiera, perché siano sempre più quello che devono essere: anzitutto segno del Regno di Dio.

6.

Oggi è festa di tutti. Nella Chiesa c’è diversità di carismi e ministeri, ma unità di missione (cfr. AA 2).
La festa di Cristo Luce, dunque, è per tutti. La festa dell’incontro, della comunione con la luce, è per tutti. La festa delle nozze, splendenti di luce, è per tutti! La festa della Pasqua – Passione e Risurrezione – per la quale e nella quale si diventa luce, è per tutti! Anche la festa della radicalità evangelica e dei suoi consigli e della loro realizzazione è per tutti!
La festa di oggi richiama al dovere della quotidiana conquista della dedizione al Signore. Convertirsi è tendere a Lui che ci attende: non è un gioco di parole. Convertirsi è una necessità per la nostra azione pastorale; abbiamo bisogno di ritrovare slancio, coraggio, audacia. In uscita. Dal centro alle periferie. Una conversione personale, umile, ma irrinunciabile: una luce, anche se piccola, si vede da lontano; e una conversione comunitaria: una Chiesa inquieta perché protesa a tutti, nella costante ricerca del dialogo, come una madre che non si dà pace per i suoi figli, che cerca senza sosta, che sa mettersi in discussione, che fa fatica, ma ricomincia sempre.
Alla fine del nostro incontro verrà dato a tutti i religiosi e le religiose un piccolo dono: un quaderno, sul quale ognuno potrà, di tanto in tanto, segnare un’esperienza di missionarietà, una parola che gli richiama il dovere di espansione della luce. La luce non si mette sotto il moggio, ma sul candelabro! Ci sono tanti modi di irradiazione. In occasione dell’Assemblea diocesana del 22 maggio 2021 anche voi sarete collegati con la restituzione di questo quaderno. Sarà bellissimo riceverlo. Allora capiremo che non è stata la Diocesi che ha fatto un dono a voi, ma voi alla vostra Diocesi: uno scambio di doni, amore che va e amore che viene! Così sia.

Omelia nella IV domenica del Tempo Ordinario

San Marino Città (RSM), 31 gennaio 2021

Festa di San Giovanni Bosco

Ez 34, 11-12.15-16.23-24.30-31
Ger 31, 7b. 9b. 10. 20
Fil 4,4-9
Mt 18,1-6.10

1.

Se si dovesse leggere tutto intero il capitolo 34 del libro di Ezechiele – nella liturgia ne è stato proclamato solo un tratto – se ne ricaverebbe un grande senso di delusione: chi doveva vegliare sulla comunità e mettersi a servizio, finiva per pensare solo a se stesso, mentre la comunità era allo sbando. Su questo sfondo, però, c’è una bella notizia: Dio stesso si prenderà cura e si interesserà della sua gente. La comunità non è abbandonata, alla deriva. Nel brano si incontra una lunga sequenza di verbi (dieci verbi più uno alla fine), a cascata: sono i verbi della pedagogia di Dio e racchiudono tenerezza, attenzione e amore. Vanno capiti nello sfondo dell’allegoria del Pastore e delle pecore, un’allegoria un po’ desueta per molti di noi. Ecco i verbi del Dio Pastore usati dal profeta: cerca (da notare: un conto è il cercare e un conto è il ricercare), ha cura, passa in rassegna (uno per uno, quasi a tu per tu), raduna, conduce, fa riposare, va in cerca, guarisce, pasce, tiene conto della situazione (c’è la pecora stanca e c’è la pecora in gran forma). Dieci verbi. Su ognuno si potrebbe riflettere e pregare. Ma ce n’è uno ancora più forte. Dopo averci detto cosa fa Dio per noi direttamente, c’è la promessa (che è il motivo della nostra festa oggi): «Susciterò per loro un pastore che le pascerà…» (Ez 34,23). Ecco perché oggi, pensando a don Bosco, abbiamo riletto questa pagina antica. Don Bosco è stato una presenza del Signore in mezzo ai giovani.
Ogni volta che vengo tra voi per la festa di Don Bosco mi vien sempre da ricordare, guardando la sua immagine in fondo alla chiesa, che ci fu un periodo della mia vita in cui avrei voluto essere don Bosco. Non sono diventato don Bosco, però ho avuto una missione simile alla sua. I giovani hanno bisogno di amicizia e di persone che si dedicano e si spendono per loro.

2.

Nella Seconda Lettura c’è un invito alla gioia. Non è soltanto un invito, sembra piuttosto un’ingiunzione. Ma si può comandare la gioia? Si può essere felici “a comando”? «Siate nella gioia, ve lo ripeto, rallegratevi» (Fil 4,4). Quando san Paolo ha scritto queste parole era in prigione (le ha dettate ad un altro). Questa circostanza dà alle sue parole un tono particolare. La gioia di cui parla san Paolo è la gioia che dà il Signore, ma è anche la gioia che viene dal sapere che Lui c’è. Paolo, incatenato, non può fare un granché per i suoi amici, ma può svelare il segreto della sua serenità, della sua pace. In questa lettera, come nelle altre dette “della cattività” (scritte nel tempo della prigionia), Paolo confida: «Tracimo di gioia». Com’è possibile essere traboccanti di gioia in carcere, portando le catene ingiustamente? San Paolo dice: «Ho il Signore con me». Il Signore veglia su di me, veglia su di voi, veglia su coloro che sono i suoi amici. Noi lo preghiamo per chiedere ciò di cui abbiamo bisogno, ma non saremo mai inquieti, disperati. Anzi, come don Bosco dovremmo diffondere gioia, dare questa testimonianza che viene da dentro. Il Signore è qui.

Accenno ad una vicenda personale. Ho un fratello missionario che ultimamente ha avuto problemi di salute. Si è preso il Covid. Dopo circa un mese e mezzo sono riuscito, attraverso una mediazione ad incontrarlo.  Gli ho portato Gesù Eucaristia. Lui era contentissimo. Poi, chiedendo al Signore di prendersi cura di lui, gli ho dato il sacramento che si dà agli ammalati: la Santa Unzione. Ad un certo punto, quando l’infermiere è uscito, ho guardato negli occhi mio fratello, oltre la mascherina, e gli ho chiesto: «Silvio, hai paura?». Sottinteso, paura della morte. Mi ha risposto: «No! Perché paura?». E ha fatto un grande sorriso. Se una persona ha Gesù, è felice.

Abbiamo letto una stupenda pagina di Vangelo. Gesù dice che per essere “grandi” bisogna essere “piccoli” (cfr. Mt 18,3): ha scelto questa simbologia, non tanto perché i bambini sono innocenti (non sempre è vero!), ma perché hanno la caratteristica naturale dell’abbandono fiducioso, che noi adulti invece dobbiamo riconquistare. È l’abbandono fiducioso che Gesù viveva con Dio Padre, persino sulla croce. Gesù insegna anche a noi a fare come lui. Bisogna fare un bel cammino per diventare “grandi” tornando “piccoli”. Gesù l’ha detto una volta ad un sapiente, Nicodemo: «Vuoi vedere il regno di Dio? Devi tornare bambino» (cfr. Gv 3,4). Ma è impossibile tornare nel grembo della mamma – replica Nicodemo – quando si è adulti». Nicodemo non aveva capito cosa intendesse Gesù.
Chi è il più grande? Domanda ingenua che rivela come si pensi ancora il Regno di Dio come grandezza mondana, dove contano le gerarchie, le carriere, il potere, l’arrivismo. Nella risposta di Gesù c’è un grande acume didattico: chiama a sé un bambino e lo pone in mezzo ai discepoli. Nella futura comunità di Gesù, come nella nostra, ci vuole chi guida, chi prende decisioni, ma questi responsabili devono farsi piccoli e semplici come bambini, come faceva don Bosco, che stava in mezzo ai ragazzi in modo semplice, discreto, accogliente, senza vergognarsi di accogliere anche uno solo di questi piccoli, che fanno tante domande, che vogliono sempre giocare. Dice Gesù: «Guai disprezzarli! Guai allontanarli!». E poi ha una conclusione sorprendente: «State attenti, i loro angeli (gli angeli dei bambini) sono nel Consiglio ristretto di Dio, sono quelli che li difendono» (cfr. Mt 18,10). Buona festa a tutti voi e alla vostra comunità!

Omelia nella Festa di San Francesco di Sales

San Marino Città (RSM), 25 gennaio 2021

At 22,3-16
Sal 116
Mc 16,15-18

Mi sono fatto due domande. La prima: «Possibile che Gesù Risorto – così racconta il Vangelo che abbiamo proclamato – mandi in missione in tutto il mondo persone che fino ad un attimo prima dubitavano? Infatti, il v.14 parla della difficoltà dei discepoli a credere, a credere anche alle donne che erano testimoni dirette di Gesù Risorto. Eppure, Gesù dice che li manda «con i suoi poteri».
La seconda domanda è ancora più paradossale. Il Signore chiama san Paolo (Saulo era il suo nome, un nome che richiamava l’antico re d’Israele) ad evangelizzare i pagani, a diventare – per così dire – quasi il fondatore del cristianesimo, lui che era persecutore dei cristiani: com’è possibile?
Dunque, il Signore chiama un gruppo di pescatori «plebei e illetterati» (cfr. At 4,13) e dubbiosi e coinvolge Paolo, che era addirittura un persecutore, per il suo progetto missionario.
Penso che un po’ tutti proviamo difficoltà a considerare la sproporzione fra la chiamata che il Signore ci rivolge e le nostre povertà e inadeguatezze. Lui ci assicura che la sua grazia risplende pienamente nella nostra debolezza. Paolo scriverà: «Ho chiesto al Signore di liberarmi dalle mie debolezze e mi fu risposto: “Ti basta la mia grazia. La mia potenza si manifesta nella tua debolezza”» (cfr. 2Cor 12,9). Naturalmente c’è una condizione: dare fiducia allo Spirito di Gesù. Egli metterà parole giuste sulle nostre labbra, parole che possono toccare, servire, prendersi cura dei fratelli. Sarà accanto a noi nelle nostre delicate responsabilità. Auguro che ognuno possa dire come san Paolo, «non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me».

Discorso conclusivo del Convegno per i giornalisti

Qualcuno sostiene che la Chiesa non abbia detto parole significative in questo tempo di pandemia. In realtà, abbiamo la testimonianza del grande comunicatore che è papa Francesco. Per dire parole nuove, parole vere, bisogna vivere. Per quello che io sento, le parole nuove nascono dal Vangelo vissuto. Nella rivista diocesana “Montefeltro” abbiamo cercato il più possibile di trovare parole nuove. Alcune immagini ce le ha suggerite il Papa stesso. Ad esempio: «Siamo sulla stessa barca», «peggio di questa crisi c’è solo il dramma di sprecarla»… Le parole nuove sgorgano dalla vita. Quello che ci è chiesto è la vicinanza alle persone. Occorre trovare le parole giuste, che diano fiducia. Vedo il male, la difficoltà, la disperazione. Oltre a denunciare ed evidenziare il male, è importante far vedere tutto il positivo che c’è in questo tempo. È compito di noi comunicatori portare alla luce quello che paradossalmente non fa tanta notizia: «Fa più rumore un albero che crolla di una foresta che cresce».
Grazie per essere venuti. Buona giornata a tutti!

Omelia nella III domenica del Tempo Ordinario

San Marino Città (RSM), 24 gennaio 2021

Domenica della Parola

Gio 3,1-5.10
Sal 24
1Cor 7,29-31
Mc 1,14-20

Ci fu un tempo in cui il santo libro della Parola di Dio andò smarrito. L’episodio è raccontato nel secondo libro dei Re (cfr. 2Re 22-23), al tempo del re Giosia, un re ragazzino (proclamato re a soli otto anni). Sotto il suo regno è in atto un programma di rinnovamento. Si comincia dal Tempio di Gerusalemme. Il re convoca architetti, artigiani, falegnami, muratori e c’è un gran lavoro attorno alla santa fabbrica. Il re raccomanda un riordino radicale e le squadre di operai scendono fino agli scantinati del Tempio. Viene riferito al re che sono state recuperate delle carte antiche, forse è il libro dell’Alleanza. Consultano una profetessa e lei certifica che si tratta proprio del libro dell’Alleanza. Quando il re viene informato con precisione, prende coscienza che la Parola di Dio è, per così dire, “finita giù per le scale di cantina”. Il re organizza allora un grande momento penitenziale a cui invita tutto il popolo. Si darà lettura ininterrotta del libro dell’Alleanza. Ci fu grande gioia per le Sacre Scritture ritrovate.
Che cosa ci chiede il Santo Padre, papa Francesco, nella Domenica della Parola?
Attenzione: mai nella Chiesa si è dimenticata la Parola di Dio. Tuttavia, può succedere che nel nostro cuore, nella nostra vita spirituale, nella nostra pastorale perdiamo il contatto con la Parola di Dio. Per questo papa Francesco, con l’indizione di questa Domenica, chiede di riappropriarci della consapevolezza di che cos’è la Parola di Dio e di quanto sia determinante per la vita delle nostre comunità.
Abbiamo il tesoro dell’Eucaristia e abbiamo il tesoro delle Sacre Scritture: dobbiamo custodirle, leggerle, pregarle, soprattutto viverle.
Nella mia esperienza ho trovato due generi di persone. C’è chi parte dalla vita con le sue interpellanze (prospettiva esperienziale) e le risolve chiedendosi: che cosa dice Gesù a proposito di questo? Cosa dice la Parola di Dio su questa cosa che mi accade? E obbedisce alla Parola. C’è poi chi parte dal testo sacro (prospettiva kerygmatica) e prova a declinarlo nelle situazioni di vita. Per far questo legge la Parola di Gesù, dei profeti e dei Salmi (preghiere che diceva anche Gesù), fa tesoro dei brani ascoltati nella celebrazione domenicale, sottolinea una frase in particolare e, durante la settimana, fa l’esercizio di averla presente: la rumina (in senso metaforico), la pensa, cerca di iniziare la giornata alla luce di quella Parola e di viverla. Ad esempio, Gesù dice: «C’è più gioia a dare che a ricevere» (At 20,35). Sarà vero? Non c’è altro da fare che accettare la sfida. Oppure Gesù dice: «Ero forestiero e mi hai ospitato» (Mt 25,38). Allora prova a credere che Gesù è presente nell’ospite e lo accoglie come accoglierebbe Gesù.
L’una e l’altra prospettiva si basano sulla convinzione che la Parola sia efficace, che abbia una potenza propria se accolta con fede. Potrei raccontare un’infinità di esperienze in tal senso. Della Parola di Dio si dice che è «lampada per i nostri passi» (Sal 119,105).
La Parola educa, fa crescere. Alcuni vedono la Parola come la lettera che il Signore ha scritto per noi. La lettera è cara, si conserva. Si dice di santa Cecilia che portava sempre il Vangelo nel suo cuore. Altri ancora pensano la Parola di Dio come un album di fotografie; lo sfogliano e vedono come Dio sia stato presente nella storia del suo popolo: vicende, personaggi, inseguimenti. E il Signore continua a fare così attraverso la Parola che viene letta: è Lui che parla.

Consideriamo le letture di oggi. La Prima Lettura ci parla di un profeta, Giona, che si rifiutò di andare a Ninive a proclamare la conversione: fuggì verso l’Occidente anziché andare ad Oriente; poi, pentitosi, tornò ad annunciare la conversione. Tutti si convertirono. Quando Giona si è deciso a credere a quello che il Signore gli proponeva, ha visto i frutti.
Nella Seconda Lettura san Paolo afferma che c’è un tale splendore nel Vangelo che tutto il resto appare relativo. Si trova la libertà, si trova una sana “indifferenza”, per cui non si è più aggressivi, “attaccati”, bisognosi di riconoscimenti, perché si è incontrato lo splendore del sole.
Nel Vangelo Gesù passa lungo le rive di Galilea e chiama. Gesù «vede» Simone e Andrea. Quante persone avrà visto, quanta gente ci sarà stata al mercato di Cafarnao o di Betsaida… Ma Gesù vede nel profondo e vede quello che Simone non immaginava assolutamente. Gesù gli cambierà il nome in Pietro, diventerà “la roccia”, lui che era uomo d’acqua, su cui si fonderà la comunità. Gesù «vede» Andrea che a malapena conosceva le rotte del lago e diventerà un grande evangelizzatore. Andrà verso Occidente a portare la Parola di Gesù. Gesù vede e dice: «Venite». Li chiama «perché stiano con lui» (Mc 3,15), come ha fatto con noi: ci ha chiamati perché stessimo con Lui. E loro lo trovano “affidabile” e proprio per questo lasciano tutto e partono. Allo stesso modo noi troviamo Gesù affidabile, gli diamo totale fiducia e lo annunciamo.
Poi Gesù aggiunge che li fa «pescatori di uomini». Domenica scorsa leggevamo in un’altra pagina di Vangelo che Gesù diceva a due dei suoi discepoli: «Che cosa cercate?» (Gv 1,38), cioè: «Quali sono i vostri desideri profondi? Mettete l’amo dentro il vostro cuore e pescate il vostro sogno, perché vi prometto di compiere quel progetto. Sono con voi». Qui, invece, Gesù dice che l’amo va gettato verso gli altri, vanno cavati fuori dall’acqua e portati al sole, alla luce. Pensate a tutta l’attività educativa, ma soprattutto alle relazioni, anche in questo tempo nel quale ci viene chiesto il distanziamento per salvare la società. Salvare le relazioni: questo il grande compito che ognuno di noi è chiamato a svolgere. Buona settimana a tutti. Vi invito a evidenziare la frase del Vangelo che preferite e a viverla. Sarebbe bellissimo trovare un momento di condivisione: raccontare cosa ha fatto la Parola di Dio in noi, perché è Parola veramente efficace: «Dio disse e le cose furono fatte» (Gn 1,3-24). Tra poco noi sacerdoti pronunceremo delle parole straordinarie di Gesù: «Prendete, mangiate: questo è il mio corpo». E accadrà il più sorprendente dei prodigi: Gesù si farà presente nel pane, nel vino. La Parola che scende su di noi, se la viviamo, ci fa diventare Chiesa di Gesù, suo mistico Corpo.