Omelia nella Messa per l’Insediamento degli Ecc.mi Capitani Reggenti

San Marino Città (RSM), 1° aprile 2021

L’oracolo del profeta Isaia che abbiamo udito è scritto proprio per noi. Viene messa con le spalle al muro ogni forma di spiritualità che non sa accogliere il grido dei fratelli; ogni espressione religiosa avulsa dalla realtà; ogni amministrazione della giustizia e della cosa pubblica che non metta in cima alle sue preoccupazioni il bene di tutti, a partire da chi è più svantaggiato, da chi è oppresso, da chi manca del necessario, da chi è vittima della calunnia e dei sistemi mafiosi. Il profeta ci assicura che Dio vede al di là delle apparenze e conosce gli atteggiamenti autentici. Dio si lascia conquistare soltanto da un cuore giusto, aperto e generoso. Dio all’amore risponde con l’amore; alla misericordia con la misericordia. Ciò che conta è la realtà, la concretezza della vita quotidiana in cui l’uomo lavora, ama, perdona, rispetta diritti e doveri. Tutti siamo chiamati a collaborare per il bene comune, dando ciascuno il proprio contributo.

Nella Seconda Lettura che è stata proclamata – dalla Prima Lettera di San Giovanni – troviamo una delle provocazioni più forti del Nuovo Testamento: «Siamo passati dalla morte alla vita perché amiamo i fratelli» (1Gv 3,14). Chi non ama rimane nella morte, anche se crede di vivere; costui non ha realizzato la sua vocazione più autentica. Chi ama, invece, vive davvero. Quando hai amato ed entri in te stesso puoi esclamare: «Questa sì che è vita!». Ma c’è un esodo da percorre, un passaggio da fare, una conversione a cui disporsi: questa, in ogni caso, è la decisione più importante, la più necessaria, la più utile, la più bella!
Bisogna, però, che l’amore sia reale, e non solo proclamato a parole. Si deve amare col cuore e con le mani, compiendo scelte concrete. Le conseguenze sono chiare. Se amando si possiede la vita e si è figli di Dio, occorre ottenere che anche i fratelli amino a loro volta. Così scatta la reciprocità: un tesoro buone di relazioni.
L’amore autentico non si accontenta di amare l’altro – amore che va – ma cerca che l’altro ami a sua volta – amore che viene –, perché soltanto così io e l’altro siamo figli di Dio, abbiamo in noi la vita e costruiamo la famiglia dei figli di Dio: un sociale fraterno.

Nel Vangelo Gesù racconta una parabola, la cosiddetta parabola del “buon samaritano”. È di duemila anni fa, ma chi la legge si sente interpellato personalmente. C’è un estraneo sulla strada. E ci sono altri personaggi che appaiono nella parabola: i briganti, coloro che passano oltre, l’uomo abbandonato e ferito. Di fronte a questa situazione possiamo chiederci: con chi mi identifico? Chi è il mio prossimo? Gesù non ci chiede chi sono i prossimi vicini a noi, ma di farci noi prossimi.
Oggi la vicenda del buon samaritano si ripete: vale per i discepoli di Gesù, ma vale per ogni uomo di buona volontà. Esorta ad essere parte attiva nella riabilitazione delle società ferite. In concreto, la parabola denuncia il determinismo che giustifica l’indifferenza, la tendenza assai diffusa a disinteressarsi degli altri, il chiudere gli occhi davanti all’esclusione, il non prendersi cura della partecipazione. All’amore non importa se il fratello ferito viene da qui o da là: all’amore importa rompere le catene e gettare ponti.
Una domanda quasi sussurrata all’orecchio di ciascuno di noi: passerai oltre o ti fermerai davanti ai feriti lungo la strada? L’unica via di uscita di fronte ad un mondo che soffre è fare come il buon samaritano: essere speranza in un mondo ferito.
Concludo con una preghiera, certo di trovare cuori che la pregano con me:

«Signore,
che io sappia accettare il rischio
di spalancare le braccia:
così creerò spazio in me, ma per l’altro.

Le mie braccia aperte, Signore,
dicono il mio desiderio di non restare solo
ed il mio invito perché l’altro
si senta a casa sua in casa mia.

Nello scambievole abbraccio
nessuno resterà come prima
perché ognuno arricchirà l’altro
e ambedue resteranno se stessi.
Amen».

Omelia nella Messa crismale

Pennabilli (RN), Cattedrale, 31 marzo 2021

Is 61,1-3.6.8-9
Sal 88
Ap 1,5-8
Lc 4,16-21

Cari fratelli sacerdoti,
questa sera siamo qui per stringere nuovamente il legame sacerdotale che ci configura a Cristo buon Pastore e ci unisce sacramentalmente fra noi; siamo qui per rinnovare le promesse della nostra ordinazione con trepidazione e con gioia, certi dell’aiuto del Signore; siamo qui per ripartire nello slancio missionario, che è il tema del nostro Programma pastorale di quest’anno e che si prolungherà nel prossimo, anche se il prossimo anno sarà caratterizzato soprattutto dalla considerazione del protagonista della missione: lo Spirito Santo.

La Lettura presa dall’Apocalisse produce dentro di noi tre effetti: ci rapisce, ci coinvolge e ci conferma. Ci rapisce nell’acclamazione al Cristo per la sua opera redentrice (durante la settimana ognuno di noi si lascerà sempre più emozionare davanti a questo mistero). Ci coinvolge nella professione di fede in Colui che è stato trafitto e tornerà glorioso. Ci conferma nel dono della grazia e della pace da parte di Dio Padre, dello Spirito Santo e del Cristo che è – come canta l’Apocalisse – l’Alfa e l’Omega, il principio e la fine della storia, Colui che è, che era e che viene, il Signore di tutte le cose.
Siamo ad laudem gloriae: questo è lo specifico della nostra vocazione. Il nostro sacerdozio ci fa voce di lode al Signore per ricordare a tutti il fine per cui siamo stati creati. Siamo educatori che in ogni circostanza insegnano ad alzare lo sguardo.

Nella Prima Lettura il profeta rievoca la sua vocazione e la missione che gli è stata affidata. È stato consacrato con l’unzione, ha ricevuto il dono dello Spirito per vivere una grande avventura: portare la gioia e la liberazione ai fratelli. Una missione che non viene da lui, l’ha ricevuta.
Nella sinagoga di Nazaret Gesù – mosso dallo Spirito – applica a sé le parole del profeta, affermando che definiscono la sua missione. È una dichiarazione forte: spiazza i concittadini che dall’ammirazione passeranno al rifiuto: fanno fatica a riconoscere un Dio così tanto compromesso con i poveri, con gli oppressi e con i sofferenti. Effettivamente quello che sta davanti ai loro occhi è il figlio di Giuseppe, il carpentiere che ben conoscono (cfr. Mt 13,55).
È inevitabile domandarsi perché l’evangelista ometta dal testo di Isaia la frase che parla del giudizio di Dio: «Un giorno di vendetta per il nostro Dio…» (v. 2/b). Luca concluderà, poi, l’episodio del “discorso inaugurale” di Gesù dicendo che egli «passando in mezzo a loro se ne andò» (v.30), ma, nonostante l’incredulità degli uomini, il Cristo non abbandonerà il suo cammino.
È difficile fare il profeta, difficile fare il prete. Ad Amos fu detto con schiettezza: «Vattene, vai a fare il profeta altrove». E lui replica come può: «Non ero profeta, né figlio di profeta; ero un pastore e raccoglitore di sicomori; il Signore mi prese di dietro il bestiame e mi disse: “Va’, profetizza al mio popolo”» (cfr. Am 7,12ss).
La nostra missione è davvero impegnativa. Talvolta subiamo la tentazione di entrare nei ranghi… Chi non prova qualche momento di turbamento? Non ci capita di limitarci ad una attesa rassegnata al nostro ministero? Domande necessarie prima di rinnovare le promesse dell’ordinazione.
L’incoraggiamento indispensabile per la nostra missione, quasi un viatico per la missione, viene senza dubbio dalla Parola di Dio e dall’unzione sacramentale. Ma pensando al rito dell’imposizione delle mani del nostro vescovo, vorrei che anche le mie parole fossero un incoraggiamento, una espressione sincera di gratitudine per il vostro ministero. Vorrei portare qui la voce e la testimonianza di tutta la nostra Chiesa che vede in voi dei punti di riferimento, particolarmente importanti in questo tempo. Non alludo soltanto al tempo del Coronavirus, ma al tempo difficile di scelte etiche a cui sono chiamati, in modo particolare, i sammarinesi prossimamente. Qualcuno dice che la voce della Chiesa si sente appena. A mio parere, al di là dei mille decreti, dei protocolli, delle esuberanze degli opinionisti, la vostra presenza è una voce forte: è una presenza significativa, capillare, immancabile nei momenti di sofferenza e di dolore.
Azzardo: mi sono messo a cercare nei nostri discorsi, in questo tempo, “parole nuove” che testimoniano come la fede, quando si misura con la realtà, diventi creativa, inventi “parole nuove”. Permettetemi di riferirne alcune. La prima parola è un avverbio: “Eppure…”. E’ una parola che smarca dallo sconsolato e deludente “ormai…”. “Ormai” la gente non va più in chiesa, “ormai” i nostri ragazzi hanno perso un anno di scuola, “ormai” siamo al disastro economico… Tutto vero. Ma c’è chi si lascia sorprendere e dice: “Eppure” tante famiglie pregano insieme, “eppure” ci sono giovani che si sono messi a disposizione per la solidarietà, “eppure” abbiamo imparato ad esprimere affetto e legami attraverso la tecnologia, “eppure” c’è chi ha riscoperto la forza della preghiera…
Un’altra parola: “Sostare”. Sapevamo che questo anno 2020/21 sarebbe stato l’anno pastorale dedicato alla missione. Si pensava certamente e – aggiungo – generosamente alle molteplici attività, alle mobilitazioni, alle iniziative. Ed ecco la sterzata: il Signore ci sta dicendo di puntare alla radice della missione, all’anima dell’apostolato, al “sostare” davanti al roveto ardente o, se preferite, nel cenacolo per essere colmati del suo Spirito e ricordare che «siamo opera sua» (cfr. Ef 2,10). “Sostare”: andare in profondità, che è ben altra cosa dall’intimismo. Prendo questa “parola nuova” anche nella sua forma scomponibile: “So-stare”. La tentazione della fuga, dell’amarezza, della mormorazione, è sempre in agguato. “So-stare”: con le famiglie, “so-stare” con i ragazzi, “so-stare”, quando è consentito ed è possibile, con gli ammalati, con chi è nel dolore, “so-stare” nel mio presbiterio, nella mia parrocchia, senza vagheggiare: «Immaginatio locorum – dice l’Imitazione di Cristo – multos fefellit» (l’immaginazione di posti particolari ha ingannato molti).
Un’altra parola nuova – ma ve ne sarebbero molte altre – è la parola antica, che è andata ora rivestendosi di nuove armoniche: kairòs. Vi sono note le sfumature della lingua greca per esprimere la parola “tempo”: chronos e kairòs.
Chronos è il tempo in senso quantitativo, quello che si misura con l’orologio. È il tempo che ci incalza (non ce n’è mai abbastanza!). È il tempo che insegue attimo per attimo, che distrugge, che punta al fare, che scivola addosso inesorabile. Non a caso la mitologia greca lo raffigurava come un gigante che divora la sua prole: chronos divora ciò che egli stesso genera.
Kairòs, invece, è il tempo opportuno, propizio, occasione. È “grazia e mistero”: tempo in senso qualitativo. Non serve l’orologio, serve la preghiera, il discernimento, la fraternità. Una parola – kairòs – che abbiamo imparato ad usare per affrontare questo tempo e non subirlo: tempo da valorizzare, tempo opportuno. «Peggio di questa crisi – diceva Papa Francesco l’anno scorso a Pentecoste – c’è solo il dramma di sprecarla».

È stato un anno missionario. Lo è stato, eccome! Non nella modalità del fare, ma dell’essere. Una luce, benché piccola, si vede da lontano.
Offro a ciascuno di voi un piccolo dono. Si tratta di un corporale di lino da usare nella celebrazione dell’Eucaristia. Idealmente vorrei fosse un lembo della tovaglia di questo altare, l’altare della cattedrale. Nella preparazione ho coinvolto le claustrali, che hanno dato la loro disponibilità. Nel corporale vedo una triplice simbologia. Quel lino bianco rimanda, anzitutto, al sacrificio del Signore, quasi un lembo del suo sudario (Eucaristia: celebrazione del sacrificio che Cristo fa al Padre trascinandoci con lui nel seno della Trinità); poi, è segno della convivialità eucaristica, tovaglia preparata per gli invitati alla cena dell’Agnello; infine, rappresenta lo spazio sul quale viene adagiato il corpo e il sangue del Signore, come fu adagiato nel presepio con infinita tenerezza da Maria e, dopo la Passione, nel candido lenzuolo, ma ora risorto e vivo, che – ad ogni celebrazione eucaristica – sussurra di nuovo: «Resurrexi, et adhuc tecum sum. Alleluia!».

Omelia nella S.Messa in suffragio di suor Maria Raffaella Vincenzi

Valdragone (RSM), Monastero “Santa Chiara”, 30 marzo 2021

Martedì Santo

Is 49,1-6
Sal 70
Gv 13,21-33.36-38

L’evangelista Giovanni ci riferisce gli ultimi momenti della vita di Gesù insieme agli apostoli. Loro intuiscono che Gesù è in pericolo e, in fondo al cuore, provano paura. In questo brano Giovanni riferisce due episodi: un tradimento (affare di soldi) e un rinnegamento (a motivo della paura). I discepoli che stanno con Gesù sono fragili, sono come bambini in ansia. Eppure, proprio in questo momento di tristezza e di turbamento, Gesù proferisce parole di intensa solennità: «Ora il Figlio dell’uomo è stato glorificato e Dio è stato glorificato in Lui». Gli avvenimenti tristi che ormai stanno per accadere, in realtà, sono un mistero di gloria. La Trasfigurazione è al cuore stesso – permettete il termine – della “sfigurazione” di Gesù. Noi sappiamo che dopo la morte e risurrezione di Gesù ogni dramma umano rivestirà una sorte luminosa nella quale ogni disperazione è vinta.
Ci sono realtà che, perfino tra i cristiani, non vengono mai nominate. Per esempio, normalmente non si nomina la morte e, se si nomina, si cambia presto discorso. Eppure: «Per me il vivere è Cristo – scrive san Paolo ai Filippesi – e il morire un guadagno» (Fil 1,21). Per molti invece la morte è una parola indicibile, è lapide in un cimitero, è tomba per sempre. Eppure, quando un santo muore si dice che è il suo dies natalis, il giorno della nascita, quella vera. Ma ci crediamo veramente? Se siamo persuasi che la morte è veramente il giorno del nostro Natale la nostra vita cambia. Della vita “oltre” si tace, forse con la paura di essere ritenuti sciocchi, ingenui… “Chissà”, dicono alcuni sorridendo come si sorride di oroscopi o di vaghi sogni. Eppure, ci è stato promesso: «Nella casa del Padre mio – dice Gesù – ci sono molti posti, sennò non ve l’avrei detto» (cfr. Gv 14,2). E al buon ladrone: «Oggi sarai con me nel paradiso» (Lc 23,43), così ad un ladro… E che dirà Gesù alla sua sposa? «L’attirerò a me»! E soggiunge: «Ti farò mia sposa per sempre, nella benevolenza e nell’amore, e tu conoscerai il Signore» (Os 2,21-22). «Alzati, amica mia, mia bella, e vieni, perché ecco, l’inverno è passato, è cessata la pioggia, se n’è andata; i fiori sono apparsi nei campi, il tempo del canto è tornato e la voce della tortora ancora si fa sentire nella nostra campagna» (Cant 2,10-12). Suor Maria Raffaella gioisci col tuo sposo!
Così sia.

Omelia nella Domenica delle Palme

Pennabilli (RN), 28 marzo 2021

Is 50,4-7
Sal 21
Fil 2,6-11
Mc 14,1-15,47

Nella Seconda Lettura abbiamo ascoltato l’invito dell’apostolo Paolo: «Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù», parole introduttive all’inno cristologico che Paolo incastona come una perla preziosa nella sua Lettera ai Filippesi.
Quali furono i sentimenti, i pensieri di Gesù, in particolare in questa sua ultima settimana? Furono sicuramente sentimenti di amore, ma anche di paura, quando nel Getsemani avvertì tutto il peso di quello che gli stava per succedere: non togliamo dai Vangeli i sentimenti di tristezza, di abbattimento, di spavento provati da Gesù, che mostrano tutta la sua umanità. Anche noi, in questo tempo, proviamo sentimenti di smarrimento, di timore, di sofferenza. Il sentimento più profondo di Gesù è di passare dal desiderio dell’io al desiderio del tu: è quello che Gesù chiama rinnegare se stessi, cioè il rovesciamento dentro di sé che, alla fine, porta vita, porta gioia. È la logica del chicco di grano caduto per terra che, se non accetta di morire, rimane solo; se invece accetta di morire porta molto frutto (cfr. Gv 12,24). Ecco i sentimenti di Gesù: da una parte l’umanissima paura, il timore, il turbamento, dall’altra la determinazione di vivere per, dove in rilievo non viene tanto il patimento, ma il frutto: la gioia di una vita spesa per noi, perché la nostra gioia sia piena.

Nella narrazione del Vangelo di Marco Gesù appare come un mistero, un enigma. Tutti si chiedono perplessi: «Ma chi è mai costui?» (cfr. Mc 1,27; 4,4; 6,2-3). Anche Gesù, del resto, ha sollecitato la domanda: «Cosa dice la gente di me?» (cfr. Mc 8,27). L’evangelista Marco è di una schiettezza imbarazzante riferendoci il parere della gente. I parenti pensano che sia «fuori di sé» (cfr. Mc 3,21). Vanno per riportarlo a casa (cfr. Mc 6,2-3). Le autorità dicono che è un indemoniato (cfr. Mc 3,22; Gv 10,21; 7,20). Per il popolo è un potente guaritore, uno che fa miracoli, anche se lo fraintendono molto spesso in senso politico (cfr. Mc 1,31-33.37; Gv 6,14). Per questo Gesù impone il segreto messianico: «Non dire a nessuno che sei stato guarito!» (nel Vangelo di Marco il segreto messianico viene imposto da Gesù almeno dieci volte!). Solo al momento della Passione il velo si squarcia, l’enigma viene risolto; alla domanda del sommo sacerdote: «Tu sei il Cristo, il Figlio di Dio benedetto?», Gesù risponde: «Io lo sono» (cfr. Mc 14,61). Quest’uomo sofferente, abbandonato dai suoi amici, deriso dalla folla per la sua impotenza a salvarsi e che grida a Dio la sua angoscia, è il Figlio di Dio. Marco non fa nulla per attenuare lo sconcerto che possiamo provare davanti a Cristo Crocifisso. Alla fede è chiesto un sussulto; con le nostre sole forze non riusciremmo a riconoscere in lui il Signore. Proprio in quest’ora in cui non può più fare miracoli, neppure predicare, né mostrarsi autorevole, Gesù è davvero il Messia. Con l’intero Vangelo, e in particolare con il racconto della Passione, Marco avverte i lettori che finché vedono in Gesù un Messia terreno da cui attendersi fortuna, successo, salute, ne resteranno delusi, finiranno per abbandonarlo, come hanno fatto i Dodici. Ma se, al contrario, accetteranno lo scandalo della croce, allora incontreranno davvero il Salvatore, anche nell’esperienza dura del fallimento, dell’abbandono, della sofferenza, che accompagna la nostra vita. Se ascoltiamo la Passione solo con un sentimento umano proveremo un senso di imbarazzo per una morte così ingiusta, ma se contempliamo il Crocifisso con la fede scopriremo in lui la suprema manifestazione dell’amore di Dio, fino a confessare, come il centurione romano, uno straniero, un pagano: «Veramente quest’uomo era figlio di Dio». Ecco il velo squarciato. Che cosa ha visto il centurione in quella morte da restare conquistato? Non ci sono miracoli, non si intravvedono neppure risurrezioni. Accadrà la risurrezione, ma lì non c’è nulla di tutto questo. Il centurione, uomo di guerra, che ha insanguinato l’Oriente, “boia” di professione, ha visto un capovolgimento del mondo, un capovolgimento che dobbiamo augurarci avvenga dentro di noi. Ha visto il supremo potere di Dio, il suo disarmato amore, che è quello di dare la vita. Ha visto un Dio che muore d’amore!

Omelia nella V domenica di Quaresima

Pietracuta (RN), 21 marzo 2021

Ger 31,31-34
Sal 50
Eb 5,7-9
Gv 12,20-33

Ci troviamo nel mezzo del Vangelo di Giovanni. Gli esegeti lo dividono in due grandi sezioni: la prima che comprende i sette segni, cioè i sette miracoli attorno a cui viene coagulato quello che Gesù dice e fa; la seconda è il racconto della Passione, morte e risurrezione di Gesù. Nello spartiacque è collocata questa pagina di Vangelo. L’ultimo segno, quello quasi definitivo, è stato compiuto: la risurrezione di Lazzaro, con la conclusione rammaricata dei giudei che dicono: «A costui tutto il mondo va dietro…» (cfr. Gv 12,19), mentre preparano la sua cattura. Proprio in questo momento di crisi si colloca questa pagina nella quale l’evangelista ci fa fare un tuffo nel cuore umano di Gesù. Il cuore umano di Gesù, in quel momento, è turbato (lo dirà lui stesso). Arrivano dei greci. C’erano diversi stranieri affascinati dal culto all’unico Dio: basti pensare all’eunuco che andò a Gerusalemme per il culto (cfr. At 8,26-40), a Cornelio (cfr. At 10) e ad altri personaggi che troviamo negli Atti degli Apostoli; prima di loro anche i magi, i sapienti che venivano dall’Oriente, erano in ricerca del Messia. Gesù si trova di colpo davanti ad una grande responsabilità: sta per scoccare l’ora. Varie volte nei Vangeli (almeno sette) Gesù dice: «Non è giunta la mia ora». Solo la Madonna riuscì a spostare la “lancetta”, ma fu un segno che anticipava quello che sarebbe accaduto poi: le nozze di Gesù con l’umanità. I greci vogliono vedere Gesù, anzi, alla lettera, vogliono il Gesù da vedere. Gli ebrei erano più portati ad ascoltare: erano stati educati a non farsi immagini di Dio. I greci, invece, vogliono Gesù da vedere. È probabile che gli apostoli abbiano pensato: «Che bella occasione! Signore, prendila al volo. I tuoi compaesani non ti vogliono, i giudei stanno per condannarti, ma la tua fama è arrivata anche ai lontani, ai greci. Non hai il diritto di sottrarti!».
Gesù, come gli apostoli, conosceva bene le antiche Scritture che profetavano che la missione del Messia sarebbe stata universale, per tutti i popoli della terra. Gesù, come uomo, sa che questo si compirà non come dicono gli apostoli, con la gloria umana o con i “like”. Su due piedi Gesù inventa la bellissima metafora, una mini-parabola, del chicco di grano che cade in terra; se il chicco accetta di morire nella terra, produce molto frutto, altrimenti rimane solo. Era una metafora ben comprensibile sia nella cultura ebraica che nella cultura ellenistica. Gesù è davanti al suo morire. In questa prospettiva salvifica si incammina verso la sua ora.
Non c’è nessun dolorismo: Gesù chiede a chi lo segue di mettersi nella logica del “dono di sé”. Nell’orazione introduttiva alla Messa, parafrasando abbiamo pregato così: «Signore, aiutaci a imparare da te a spendere la nostra vita, a donarla, perché siamo stati pensati, creati, voluti nella logica del dono di noi stessi e ci realizziamo nella misura in cui ci doniamo». Troviamo la pienezza svuotandoci. Guardiamo Gesù, ascoltiamo Gesù: è questa la Quaresima! Perfino le piccole penitenze che facciamo servono a ricordarci e ad esercitarci a fare della nostra vita un dono.
Quei greci per arrivare a Gesù hanno avuto bisogno della comunità: vanno da Filippo, poi Filippo va da Andrea (guarda caso due apostoli che hanno un nome greco: suppongono che sia più facile parlare con loro). Filippo e Andrea vanno da Gesù e aprono la strada: ecco la mediazione della comunità. Se qualcuno a Pietracuta vuole vedere Gesù dove va? Va ad incontrare la comunità, le famiglie, il parroco. Gesù si incontra nella Chiesa.

Omelia IV domenica di Quaresima

Novafeltria (RN), 14 marzo 2021

Festa del Ringraziamento RnS

2Cr 36,14-16.19-23
Sal 136
Ef 2,4-10
Gv 3,14-21

Nicodemo è un membro del sinedrio, il consiglio supremo degli Ebrei. È un uomo colto. Ha dedicato molti anni allo studio e alla ricerca sincera della verità. Una notte, furtivamente, va a consultare Gesù. Comincia a parlare, ma non formula nessuna domanda. Lo saluta rispettosamente come Maestro, quindi afferma senza mezzi termini: «Sappiamo che sei venuto da Dio». Ma il discorso viene interrotto da Gesù: la verità che egli porta non è una teoria, ma una vita nuova. Deve nascere un uomo nuovo, con atteggiamenti nuovi. Forse Nicodemo non capisce, o forse si sente troppo vecchio per intraprendere questa avventura. Gesù spiega che ciò che appare impossibile all’uomo non è impossibile a Dio. Nascere è un avvenimento unico, ma è anche un processo. Significa intraprendere un cammino sconosciuto e avanzare in esso. In effetti il dialogo con Nicodemo non poteva più proseguire data la sua evidente difficoltà a capire: «Come può… Può forse… Com’è possibile?». Gesù si stupisce che un insigne teologo d’Israele non conosca queste cose che in fondo sono soltanto terrene. Nicodemo avrebbe dovuto sapere dalle Scritture che nel tempo messianico ci sarebbe stata una “rinascita” ad opera dello Spirito (cfr. Ez 36-37). Comprenderà Nicodemo le cose del Cielo?

In questo dialogo notturno Gesù richiama un episodio dell’esodo (Num 21,4-9) allorché Mosè innalzò il serpente nel deserto. Nel deserto gli Ebrei erano assaliti dai serpenti che li mordevano e li uccidevano. In verità c’era un veleno più potente che li intossicava: l’insoddisfazione e l’amarezza. Invece di essere contenti del cammino di liberazione, si lamentavano continuamente delle dure condizioni del viaggio (mancavano il pane e l’acqua, si soffriva il caldo e l’assalto dei predoni, e poi c’erano i serpenti e gli scorpioni…). Si rivoltarono contro il Signore: «È un Dio crudele e inutile: ci ha fatto uscire dall’Egitto per farci morire nel deserto. L’unica cosa che finora ci ha dato è la manna, un cibo nauseabondo, leggero, senza gusto, sempre quello!».
Allora Mosè fece un serpente di bronzo e lo mise sopra un’asta, in modo che chiunque lo guardasse fosse guarito. Ma Giovanni dà un nuovo significato all’episodio, facendo del serpente innalzato nel deserto un simbolo di Cristo che accetta di essere crocifisso, perché chiunque crede in lui abbia la vita. Il baricentro del brano è il versetto 16 che, come un bengala, illumina la notte di Nicodemo ed ogni altra notte: «Dio ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna». Faccio notare la bellezza di questo verbo al passato – «ha tanto amato il mondo» – per indicare non un’attesa, una speranza futura, ma una sicurezza, un dato certo. Tutta la storia biblica – scrive un autore – comincia con un «sei amato» e termina con un «amerai». La notte di Nicodemo, alla fine, è illuminata: non è un eroe, è un furtivo visitatore notturno di Gesù ma, poiché si è sentito amato e accolto, lo ritroveremo alla fine, a chiedere il corpo del Crocifisso a Pilato e a portare circa 30 kg di una misura di mirra e di aloe (cfr. Gv 19,39).
Gesù sarà innalzato in croce dai giudei, ma nella prospettiva teologica di Giovanni è innalzato nella gloria del Padre. La croce di Gesù diventa il centro di gravitazione universale (cfr. Gv 12,32) e sorgente della vita divina per i credenti. Tutta la vita di Gesù è la rivelazione dell’identità di Dio amore e del suo rapporto con gli uomini. Gesù dirà: «Ho manifestato loro il tuo nome» (Gv 17,6). Nell’Innalzato la comunità credente vede il nome di Dio: «Dio è amore» (1Gv 4,8) e la manifestazione tangibile è nel dono del Figlio. Non un amore a parole, o un vago sentimento, ma fattuale e storico. Notare come il verbo amare viene immediatamente tradotto col verbo donare: il Padre dona il Figlio, il Figlio dona la vita, e noi? Domandiamo al Padre: «Donaci il pane che fa vivere».
Non un amore ristretto fra angusti limiti nazionali, ma universale. L’Innalzato è visibile da tutta l’umanità bisognosa di redenzione. L’Innalzato, a dispetto delle apparenze per cui si scorge solamente il fallimento, è invece la suprema manifestazione dell’amore gratuito, totale e universale di Dio verso le sue creature. Parafrasando parole rivelate da Gesù ai mistici, non resta che “guardarlo” (Teresa d’Avila). La beata Angela da Foligno ha udito questa voce: «Guarda se in me vedi altro che amore» e Caterina da Siena, di rincalzo: «Non i chiodi mi tengono appeso alla croce, ma il mio amore per te». Sarà nostra cura durante la settimana rivolgere di frequente lo sguardo al Crocifisso. Se fino ad ora Dio si manifestava nel tempio e attraverso la parola dei profeti, ora l’Innalzato è il nuovo tempio da cui Giovanni vede scaturire sangue ed acqua (cfr. Gv 19,34), figura della roccia da cui scaturisce l’acqua nel deserto.

Un’ultima osservazione, più vicina alla nostra esperienza. Anche il nostro cammino è irto di difficoltà. Ci lamentiamo. Siamo pieni di amarezza. Non siamo come vorremmo essere. E non è questo il serpente che ci morde? Se alziamo lo sguardo e offriamo le nostre fragilità al Signore, nell’amore ritroviamo il senso del nostro soffrire. Finché non facciamo spazio dentro la nostra esistenza al mistero di un Dio che non ci salva dalla croce, ma per mezzo della croce, non riusciremo ad alzare lo sguardo. Padre Pio diceva: «Tanta gente sale a San Giovanni Rotondo per domandarmi di essere liberati dalla croce, pochi mi chiedono come si fa a portare la croce…». Questo è quello che ci manca: accettare che il Signore ci salvi attraverso ciò che i nostri occhi percepiscono come fallimento. Spero che questo sia di speranza per ciascuno di noi: accogliere la croce dentro la nostra vita, misteriosa strada che il Signore ha costruito per venirci incontro con la sua Pasqua.

Omelia nella III domenica di Quaresima

Schigno (RN), 7 marzo 2021

Es 20,1-17
Sal 18
1Cor 1,22-25
Gv 2,13-25

Secondo le usanze religiose della sua gente, Gesù lascia Cafarnao per andare in pellegrinaggio a Gerusalemme per la Pasqua. In occasione di quella solennità Gesù compie uno dei gesti più significativi riguardanti la sua autorivelazione: il segno del tempio.
Al tempio confluivano folle enormi di pellegrini per la Pasqua, ed era necessario aprire negli atri un mercato di buoi, pecore, colombe per le offerte sacrificali. Dal momento che non potevano portarseli dai luoghi di provenienza, li acquistavano sul posto. Inoltre, i fedeli venivano dalle parti più lontane ed erano perciò necessari i cambiavalute.
Gesù appare come un torrente impetuoso, ma tutto ciò che rovescia è solo un segno del capovolgimento che sta per portare: un capovolgimento totale.

Gesù compie un’azione simbolica e profetica: prende funicelle – che servivano per condurre gli animali – e violentemente rovescia le bancarelle, le ceste e i soldi… e sbatte fuori tutti. Ad un’azione di questo tipo alludeva il profeta Zaccaria (Zac 14,21), ma la motivazione era diversa. Gesù non se la prende con i venditori o con i loro proventi o con gli eventuali affari illeciti, non vuole riformare il culto dando decoro al tempio e far sì che sia un luogo dove si possa pregare dignitosamente. Non si tratta di purificazione, come invece lasciano intendere i sinottici. Gesù aggredisce direttamente l’istituzione del tempio come tale ed il culto in esso celebrato. Il tempio ha finito il suo compito. Ciò è perfettamente in linea con quanto dirà alla samaritana: «Viene l’ora in cui né su questo monte né a Gerusalemme adorerete il Padre… i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità» (Gv 4,21-24). Nella nuova comunità di Gesù non c’è più il tempio perché lui è il suo tempio (cfr. Ap 21,22). Quello compiuto da Gesù è dunque un gesto messianico, decisivo, non un semplice richiamo liturgico-morale. I versetti che seguono non fanno che esplicitare ulteriormente il senso del gesto di Gesù. L’attacco al tempio – istituzione cardine di Israele – porterà Gesù alla morte. I discepoli applicheranno in tal senso il salmo: «Mi divora lo zelo per la tua casa» (Sal 69,10).

Probabilmente, già un’ora dopo, i mercanti avranno rioccupato i loro posti, il denaro avrà continuato ad essere scambiato con intatta precisione e scorrerà di nuovo il sangue dei sacrifici… Eppure, il gesto di Gesù non è rimasto senza effetto. Ancora ripetiamo: non farai mercato della fede, non farai valere la legge dello scambio, dove dai qualcosa a Dio perché lui in cambio dia molto di più a te.
Siamo abituati ad una immagine di Gesù molto edulcorata e trovarlo al tempio che butta all’aria tutto ci fa specie. Tuttavia, mi sembra di vedere Gesù a disagio mentre compie gesti di forza. Non è per questo che è venuto. I gesti di imposizione, perfino i suoi, non conquistano i cuori. Infatti, appena i giudei chiedono di giustificare quel gesto Gesù li porta su un altro piano. Essi chiedono un segno portentoso che legittimi quanto Gesù ha compiuto. La sua risposta suona come un sarcastico rifiuto: sebbene lui sia disponibile a ricostruire il tempio in tre giorni, loro non lo sono altrettanto a distruggerlo. La provocazione si spegne qui, ma Giovanni, con fine ironia, gioca sul doppio senso: «Egli, infatti, parlava del tempio del suo corpo».
Nel Verbo incarnato noi vediamo nuovamente la gloria di Dio che ha preso forma (cfr. Gv 1,14) e nella morte-risurrezione la suprema manifestazione del suo amore per gli uomini. È solo in Gesù che l’uomo incontra Dio, perché Gesù è quel tempio da cui scaturisce l’acqua viva che risana ciò che è morto (cfr. Gv 7,38; 19,34). Gesù è la vera “casa di Dio”: solo in profonda unione a Cristo i credenti rendono il vero culto a Dio.
Perché questo brano evangelico nel tempo della Quaresima, itinerario verso la Pasqua? Per cogliere la centralità di Gesù e del suo essere “sacramento dell’incontro con Dio”. Dirà un giorno: «Chi vede me, vede il Padre» (Gv 14,9). Ma questo Vangelo, come abbiamo visto, ci offre l’opportunità di guarire la concezione del tempio, ossia la nostra relazione con Dio. Talvolta, egli diventa oggetto di compravendita. I furbi lo usano per guadagnarci, i devoti per guadagnarselo. Dare e avere, vendere e comprare, sono modi che offendono l’amore. L’amore non si compra, non si impone. È fuori da questa logica dare qualcosa a Dio perché lui dia qualcosa a me. Facciamo esperienza della totale gratuità dell’amore.

Omelia nella S.Messa ad un anno dall’inizio della pandemia per le vittime del Covid-19 e le loro famiglie (Italia)

Pennabilli (RN), Cattedrale, 4 marzo 2021

Ger 17,5-10
Sal 1
Lc 16,19-31

«Niente è più infido del cuore, difficilmente guarisce. Chi lo può conoscere, il cuore?». Di fronte all’attuale pandemia, che tutti condividiamo, il cuore deve fare una scelta. La Prima Lettura mette a confronto due tipologie di scelte e le raffigura con due alberi. L’albero del tamerisco, l’albero delle steppe, che vive in luoghi aridi, nel deserto, infruttuoso, in una terra di salsedine, dove nessuno può vivere (cfr. Virgilio, Bucoliche, «non omnes arbusta iuvant humilisque myricae, non a tutti piacciono gli arbusti e le umili tamerici»; cfr. Gabriele D’Annunzio, La pioggia nel pineto: «piove sulle tamerici/salmastre ed arse»). Questo albero rappresenta «l’uomo che confida nell’uomo», nelle sue forze e nelle apparenze.
Il cuore può scegliere un’altra opzione raffigurata da un altro albero: è l’albero che nasce e cresce lungo i corsi d’acqua, che stende le sue radici verso il torrente, le cui foglie rimangono sempre verdi e, nell’anno della siccità, non si dà pena e non smette di produrre frutti. Non sono due categorie di persone, sono due possibilità dentro al nostro cuore.
Come voglio vivere questo momento? Voglio confidare nel Signore, appoggiarmi su di lui o voglio appoggiarmi su me stesso, sulle mie risorse? L’immagine dell’albero piantato lungo il fiume è anche la figura che domina il salmo che abbiamo cantato: «Beato l’uomo che non entra nel consiglio dei malvagi, la sua legge medita giorno e notte; è come albero piantato lungo corsi d’acqua, che dà frutto a suo tempo». Gesù adopera ben 8 volte questa esclamazione: «Beati… beati… beati…» nel discorso della montagna. Tutti desideriamo la felicità. Qual è la sorgente della felicità? Dove dobbiamo mettere il cuore? Nella legge del Signore, cioè nella sua Parola, in Lui. Il nostro cuore, allora, non teme se è fortemente saldo nel Signore. Ma ci pare di aver bisogno anche di tante altre cose… È vero. Ma se noi facciamo la scelta di Dio Amore, e crediamo che Dio è amore, che tutto quello che accade è uno stimolo per amare di più, allora sapremo affrontare anche le cose più difficili, anche se tutto attorno, come sta accadendo, viene meno, con le sue sicurezze. Nel Salmo 1, che costituisce il portale d’ingresso dello straordinario libro dei Salmi (il Salterio: raccolta di 150 Salmi), le due tipologie vengono raffigurate anche con la metafora della strada. C’è la strada dei giusti, che ha una meta, e c’è il vagabondaggio degli empi. La via dei giusti, cioè di coloro che confidano nel Signore, è una strada che ha un traguardo: sapere che si ha una meta aiuta molto il cuore; invece, il vagare degli empi è una strada che non porta da nessuna parte. Dice il Salmo: «È come seguire il percorso della duna dispersa nel vento».
Noi crediamo che il Signore ci è vicino. Siamo sicuri che stende la sua misericordia su tutte le vittime di questa pandemia, che aiuta le famiglie. Crediamo che il Signore dà forza a chi si occupa degli ammalati. Questa grande prova è un’occasione per crescere tutti nella fede, nella speranza e nella carità.
Nel Vangelo, di nuovo, tornano le due tipologie. Da una parte c’è un ricco che non manca di nulla, dall’altra un povero, Lazzaro, che raccoglie le briciole che cadono dalla tavola del ricco. Le sue condizioni sono di estrema miseria. Il contrasto fra la vicinanza fisica dei due e l’abisso che li separa per la loro situazione di vita è molto forte. L’abisso è profondo: il riccone lassù che banchetta e se la spassa con i suoi amici e il povero che non ha nulla da mangiare. È proprio questa sperequazione che Gesù condanna.
Nel secondo quadro della parabola, si vede che nell’altra vita la situazione si capovolge: Lazzaro vive gioiosamente in cielo, mentre il ricco soffre all’inferno. Il ricco non viene punito perché ha avuto molti beni, magari se li è anche guadagnati lecitamente, perché è un uomo intraprendente. Quello che Gesù condanna è che ha ignorato la presenza del povero alla sua porta. Ci sentiamo tutti in imbarazzo: questa osservazione riguarda ciascuno di noi, ma vale anche a livello mondiale. Ci sono popoli interi che vivono nella povertà assoluta. Il nostro Ufficio missionario ha lanciato una campagna per la Quaresima: dare almeno un kg di riso (costa un euro) al centro nutrizionale di padre Corrado Masini, missionario partito dalla nostra Diocesi. Ci viene chiesto di avere un cuore grande, secondo le nostre possibilità, non dimenticando i problemi degli altri. Con questa parabola, Gesù ci invita a rivolgerci al povero che ci è accanto. In questa epidemia capiamo sempre di più come siamo interconnessi. Perfino il distanziamento che dobbiamo tenere sta a dirci la consistenza del legame che ci unisce: “Fratelli tutti”! Così vanno intese le norme che ci vengono date. Per noi cristiani hanno un valore aggiunto, perché dobbiamo vedervi la pratica della carità: le seguiamo non solo perché ce lo dicono i DPCM governativi o perché abbiamo paura. Possiamo mettere la carità nel portare la mascherina, nel mantenere le distanze, ecc. Siamo davvero un’unica famiglia. Impariamo in questo tempo a crescere nella fede. Se avete momenti di oscurità, di buio, confidatevi con qualcuno, stringete la corona del Rosario. Preghiamo insieme! Quest’anno il Santo Padre ha messo in evidenza la figura di san Giuseppe. A volte capita di dimenticarlo. Giuseppe era innamorato: ha accettato per amore la sua sposa anche se ha un figlio che non è suo… Esercitiamo, allora, la fede nella preghiera. Se dobbiamo attraversare una valle oscura diciamo: «Tu sei con me». Poi viviamo la speranza e la carità. Anche se non possiamo incontrarci, abbracciarci… La carità allarga il nostro cuore!

Omelia nella II domenica di Quaresima

Pennabilli (RN), Cattedrale, 28 febbraio 2021

Gen 22,1-2.9.10-13.15-18
Sal 115
Rm 8,31-34
Mc 9,2-10

Con la prima domenica di Quaresima siamo entrati nella dimensione “deserto”, una dimensione che tante volte accompagna la nostra esistenza. L’avvertiamo quando i nostri passi si muovono nell’aridità. Ci sentiamo soli. Ci troviamo a combattere con le “belve” che sono dentro di noi, a volte pensieri inopportuni, altre volte fantasmi che salgono dal passato. Viene la tentazione di domandarsi: «Chi c’è qui con me? Sono solo. Dove sei Signore?». L’evangelista Marco non riporta il contenuto delle tentazioni a cui è stato sottoposto Gesù, come fanno invece Matteo e Luca. Credo che la tentazione di cui ha patito Gesù, secondo Marco, sia una tentazione radicale, intorno al primo comandamento: «Io sono il Signore Dio tuo». Come si fa a credere alla sua presenza? Cito alcune frasi di santa Teresa di Lisieux, la giovane carmelitana che, ammalata a causa della tisi, attraversò sofferenza e momenti di aridità, di deserto: «Gesù mi ha preso per mano, mi ha fatto entrare in un sotterraneo dove non fa né caldo né freddo, dove il sole non risplende, né cade la pioggia, né tira vento; un sotterraneo dove non distinguo altro che un indistinto chiarore. Dio ha permesso che l’anima mia fosse invasa dalle tenebre più fitte e che il pensiero del cielo, per me dolcissimo, non fosse più se non lotta e tormento». In questa oscurità Teresa annota che una cosa sola le è rimasta da fare: «Tutto è scomparso per me, non mi resta che l’amore». E infine, sentendosi voce di tutti quelli che sono nella prova, esclama: «Abbiate pietà di noi, Signore; la sola cosa che vi chiedo è di non offendervi mai». È bellissima questa espressione di Teresa, una preghiera inaudita rispetto ai nostri schemi usuali di preghiera. Più avanti Teresa dirà: «Sì, ci sono le nubi che coprono l’orizzonte, ma io so che oltre le nubi c’è il sole».
Oggi il racconto della Trasfigurazione ci mostra il volto luminoso di Gesù e il suo riflesso nella bellezza del vestito: «Le sue vesti divennero splendenti, bellissime», lo stesso splendore che brillerà un giorno sul volto del Risorto. Perché questa visione anticipata? Che relazione ha avuto col cammino dei discepoli? Quale relazione col nostro in questi giorni così difficili?
Rispondo con una metafora: una passeggiata in alta montagna. Avevamo lasciato da tempo il rifugio, con tante speranze di raggiungere la vetta, ma il cielo si coprì di nuvoloni, che si sono abbassati su di noi e ci hanno avvolto completamente. Dovevamo prendere una decisione: proseguire nonostante tutto o ritornare? Poi, improvvisamente, uno squarcio tra le nubi. Si è aperta davanti ai nostri occhi la visione della vetta illuminata dal sole. Abbiamo ripreso il cammino. Sono tornate ancora le nubi; per proseguire ci siamo affidati al “libretto guida” che ci indicava il percorso tra le rocce e i tempi di percorrenza.
Il racconto della Trasfigurazione si colloca proprio in questa ottica. Siamo nel deserto, proviamo anche noi la tentazione: «Dio dove sei? Perché mi lasci solo?», ma Gesù anticipa, con la sua Parola, lo splendore della risurrezione. Il “libretto guida” è la sua Parola. Per questo i tre discepoli udirono una voce: «Questi è il Figlio mio, l’amato: ascoltatelo!».
Di solito si dice che la Trasfigurazione – giustamente – anticipa come sarà, dopo la Passione e la crocifissione, lo splendore della risurrezione. Questo farà bene ai discepoli di Gesù: un anticipo necessario! Ma la risurrezione è già avvenuta ed allora è già operante, già presente al nostro vivere. È proprio nel “mentre” del nostro cammino che si riversano la grazia e la luce della risurrezione. Possiamo trovare luce dentro al nostro vissuto quotidiano, insieme alla forza della Trasfigurazione, proprio in ciò che sembra arido, brullo, difficile. Avviene come con le noci: il loro guscio è durissimo, spesso è difficile da rompere ma, quando si riesce, troviamo un frutto gustosissimo. È così anche nella nostra vita, nei nostri giorni: cerchiamo la luce!

Omelia nella I domenica di Quaresima

Pennabilli (RN), Cappella del Vescovado, 21 febbraio 2021

Gen 9,8-15
Sal 24
1Pt 3,18-22
Mc 1,12-15

Mi sono preso la libertà di unire insieme due scene: quella del Battesimo e quella delle tentazioni di Gesù, perché in fondo sono un unico quadro: sono la copertina del Vangelo secondo Marco, che racchiude i temi che poi torneranno nello sviluppo dei 16 capitoli che seguono. Gesù con la sua umanità – e quando dico “Gesù con la sua umanità” intendo dire che in Lui ci siamo tutti noi – si avvicina, nella valle del Giordano, a Giovanni per essere battezzato; scende nelle acque del fiume; risale; poi va nel deserto. C’è tutto un itinerario: non vi pare ricordi l’itinerario del popolo d’Israele? Dalle acque dell’esodo attraverso il deserto fino alla terra promessa. Nel deserto Gesù ci fa capire che è amato, che nella sua umanità segnata dai limiti, come la nostra umanità, è amato dal Padre e il Padre fa sentire la sua voce: «Tu sei figlio mio, l’amato, in te ho posto la mia gioia» (cfr. Mc 1,11). Il Padre sarà con lui nella prova del deserto. Lo Spirito Santo era sceso su Gesù e aveva avvolto con la sua fragranza la sua umanità, la sua “imperfezione”. Ricordate san Paolo ai Filippesi: «Pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio; ma spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini» (Fil 2,6-7). Lo Spirito, poi, non solo accompagna, ma spinge Gesù nella lotta. Tutta la vita di Gesù sarà guidata, sorretta, rafforzata dalla presenza dello Spirito Santo. Gesù potrà dire, al termine di questo suo cammino: «Il tempo è compiuto; convertitevi, credete a questo vangelo». Cosa vuol dire conversione in questo contesto, in questa prospettiva? Non significa tanto una conversione morale, o un miglioramento nei punti critici del carattere – certamente anche questo è importante – ma è come se Gesù dicesse: «Convertiti verso di me. Domandati dove hai puntato il navigatore della tua esistenza».
Fermiamoci un attimo a considerare la realtà del deserto. Il deserto è un luogo spaventoso, abitato da serpenti, da scorpioni e bestie feroci, dove non ci sono punti di riferimento perché il vento sposta montagne di sabbia. Il deserto è luogo di solitudine. A questo proposito vorrei ricordare quelli che vivono il deserto realmente, anche se non c’è la sabbia, in una stanza di ospedale, dove si è soli con se stessi a fare i conti con la difficoltà della respirazione, dove per fortuna ci sono angeli che soccorrono.
Dal punto di vista biblico il deserto ha una grande valenza: se da una parte significa solitudine, prova, difficoltà, dall’altra è il luogo dell’incontro con Dio. Il deserto per Gesù fu qualcosa di molto reale, in esso Gesù ha creduto che il Padre era con lui, non lo aveva abbandonato in quella solitudine. Ciò vale anche per ciascuno di noi: quando siamo nella prova, quando arrivano le tentazioni, non immaginiamo che Dio ci abbandona; oltre al fatto che Dio non permette che siamo tentati al di sopra delle nostre forze (cfr. 1Cor 10,13), la tentazione è il momento nel quale dobbiamo dire: «Signore, tu hai stima anche di me, visto che mi metti in condizione di dirti la mia fedeltà; non voglio essere come il primo Adamo che ti ha detto “no” nella prova, voglio essere come il “nuovo Adamo”, Gesù, che dice “sì” nella fedeltà, certo che il Padre lo ama immensamente. Marco non racconta, come gli altri sinottici, il contenuto delle tentazioni. Ma è evidente che la tentazione riguarda la sua relazione col Padre in quanto uomo, “gettato” in una esperienza di lotta che culminerà con la croce. E’ Satana che tenta. Ma il Padre non lo abbandona.
Il dubbio può venire: il Signore mi ama veramente? Perché permette questa tentazione? Dobbiamo aiutarci a ricordarlo: Dio ci ama immensamente, anche nella prova. È il messaggio di Gesù.
Il deserto è anche il luogo dove il popolo d’Israele ha vissuto esperienze forti, di una compagnia affettuosa del Signore che cammina col suo popolo, che non sta sopra ma sta davanti. Allora ecco l’acqua che sgorga dalla roccia, la manna che cade dal cielo, tutti i prodigi dell’esodo. Non posso non fare un riferimento ai profeti che invitano a tornare al deserto, un paradosso apparentemente. Si tratta del deserto come dimensione di fede e di intimità: tornare al luogo del primo amore, perché il deserto, nei testi profetici più antichi, viene interpretato in questa prospettiva. Il profeta Osea mette sulle labbra del Signore queste parole: «Ecco, la attirerò a me, la condurrò nel deserto e parlerò al suo cuore» (Os 2,16). Il deserto è il tempo del “fidanzamento”, nel quale si impara a fidarsi.

Permettetemi di portare una esperienza. So di una donna che in gioventù ha avuto una vita spericolata, una vita “da marciapiede”. Poi, con l’aiuto di altre persone, ha cambiato radicalmente la sua esistenza, si è messa a disposizione per il volontariato e, facendo un lungo cammino, ha sentito la chiamata interiore a farsi suora; pensava che il suo passato era ormai dimenticato e risolto, ma ha trovato veramente pace soltanto quando è riuscita ad accettare con coraggio e verità la sua storia, ha saputo dare un nome alle sue angosce profonde e ai suoi sensi di colpa, allora questi “fantasmi” si sono trasformati in “fiere buone, addomesticate” e sono diventate la forza della sua testimonianza. È stata amata fin da allora, come lo è adesso e come lo sarà nel futuro. Ha imparato ad essere figlia! Buona Quaresima, buon cammino.