Pennabilli (RN), Cattedrale, 31 marzo 2021
Is 61,1-3.6.8-9
Sal 88
Ap 1,5-8
Lc 4,16-21
Cari fratelli sacerdoti,
questa sera siamo qui per stringere nuovamente il legame sacerdotale che ci configura a Cristo buon Pastore e ci unisce sacramentalmente fra noi; siamo qui per rinnovare le promesse della nostra ordinazione con trepidazione e con gioia, certi dell’aiuto del Signore; siamo qui per ripartire nello slancio missionario, che è il tema del nostro Programma pastorale di quest’anno e che si prolungherà nel prossimo, anche se il prossimo anno sarà caratterizzato soprattutto dalla considerazione del protagonista della missione: lo Spirito Santo.
La Lettura presa dall’Apocalisse produce dentro di noi tre effetti: ci rapisce, ci coinvolge e ci conferma. Ci rapisce nell’acclamazione al Cristo per la sua opera redentrice (durante la settimana ognuno di noi si lascerà sempre più emozionare davanti a questo mistero). Ci coinvolge nella professione di fede in Colui che è stato trafitto e tornerà glorioso. Ci conferma nel dono della grazia e della pace da parte di Dio Padre, dello Spirito Santo e del Cristo che è – come canta l’Apocalisse – l’Alfa e l’Omega, il principio e la fine della storia, Colui che è, che era e che viene, il Signore di tutte le cose.
Siamo ad laudem gloriae: questo è lo specifico della nostra vocazione. Il nostro sacerdozio ci fa voce di lode al Signore per ricordare a tutti il fine per cui siamo stati creati. Siamo educatori che in ogni circostanza insegnano ad alzare lo sguardo.
Nella Prima Lettura il profeta rievoca la sua vocazione e la missione che gli è stata affidata. È stato consacrato con l’unzione, ha ricevuto il dono dello Spirito per vivere una grande avventura: portare la gioia e la liberazione ai fratelli. Una missione che non viene da lui, l’ha ricevuta.
Nella sinagoga di Nazaret Gesù – mosso dallo Spirito – applica a sé le parole del profeta, affermando che definiscono la sua missione. È una dichiarazione forte: spiazza i concittadini che dall’ammirazione passeranno al rifiuto: fanno fatica a riconoscere un Dio così tanto compromesso con i poveri, con gli oppressi e con i sofferenti. Effettivamente quello che sta davanti ai loro occhi è il figlio di Giuseppe, il carpentiere che ben conoscono (cfr. Mt 13,55).
È inevitabile domandarsi perché l’evangelista ometta dal testo di Isaia la frase che parla del giudizio di Dio: «Un giorno di vendetta per il nostro Dio…» (v. 2/b). Luca concluderà, poi, l’episodio del “discorso inaugurale” di Gesù dicendo che egli «passando in mezzo a loro se ne andò» (v.30), ma, nonostante l’incredulità degli uomini, il Cristo non abbandonerà il suo cammino.
È difficile fare il profeta, difficile fare il prete. Ad Amos fu detto con schiettezza: «Vattene, vai a fare il profeta altrove». E lui replica come può: «Non ero profeta, né figlio di profeta; ero un pastore e raccoglitore di sicomori; il Signore mi prese di dietro il bestiame e mi disse: “Va’, profetizza al mio popolo”» (cfr. Am 7,12ss).
La nostra missione è davvero impegnativa. Talvolta subiamo la tentazione di entrare nei ranghi… Chi non prova qualche momento di turbamento? Non ci capita di limitarci ad una attesa rassegnata al nostro ministero? Domande necessarie prima di rinnovare le promesse dell’ordinazione.
L’incoraggiamento indispensabile per la nostra missione, quasi un viatico per la missione, viene senza dubbio dalla Parola di Dio e dall’unzione sacramentale. Ma pensando al rito dell’imposizione delle mani del nostro vescovo, vorrei che anche le mie parole fossero un incoraggiamento, una espressione sincera di gratitudine per il vostro ministero. Vorrei portare qui la voce e la testimonianza di tutta la nostra Chiesa che vede in voi dei punti di riferimento, particolarmente importanti in questo tempo. Non alludo soltanto al tempo del Coronavirus, ma al tempo difficile di scelte etiche a cui sono chiamati, in modo particolare, i sammarinesi prossimamente. Qualcuno dice che la voce della Chiesa si sente appena. A mio parere, al di là dei mille decreti, dei protocolli, delle esuberanze degli opinionisti, la vostra presenza è una voce forte: è una presenza significativa, capillare, immancabile nei momenti di sofferenza e di dolore.
Azzardo: mi sono messo a cercare nei nostri discorsi, in questo tempo, “parole nuove” che testimoniano come la fede, quando si misura con la realtà, diventi creativa, inventi “parole nuove”. Permettetemi di riferirne alcune. La prima parola è un avverbio: “Eppure…”. E’ una parola che smarca dallo sconsolato e deludente “ormai…”. “Ormai” la gente non va più in chiesa, “ormai” i nostri ragazzi hanno perso un anno di scuola, “ormai” siamo al disastro economico… Tutto vero. Ma c’è chi si lascia sorprendere e dice: “Eppure” tante famiglie pregano insieme, “eppure” ci sono giovani che si sono messi a disposizione per la solidarietà, “eppure” abbiamo imparato ad esprimere affetto e legami attraverso la tecnologia, “eppure” c’è chi ha riscoperto la forza della preghiera…
Un’altra parola: “Sostare”. Sapevamo che questo anno 2020/21 sarebbe stato l’anno pastorale dedicato alla missione. Si pensava certamente e – aggiungo – generosamente alle molteplici attività, alle mobilitazioni, alle iniziative. Ed ecco la sterzata: il Signore ci sta dicendo di puntare alla radice della missione, all’anima dell’apostolato, al “sostare” davanti al roveto ardente o, se preferite, nel cenacolo per essere colmati del suo Spirito e ricordare che «siamo opera sua» (cfr. Ef 2,10). “Sostare”: andare in profondità, che è ben altra cosa dall’intimismo. Prendo questa “parola nuova” anche nella sua forma scomponibile: “So-stare”. La tentazione della fuga, dell’amarezza, della mormorazione, è sempre in agguato. “So-stare”: con le famiglie, “so-stare” con i ragazzi, “so-stare”, quando è consentito ed è possibile, con gli ammalati, con chi è nel dolore, “so-stare” nel mio presbiterio, nella mia parrocchia, senza vagheggiare: «Immaginatio locorum – dice l’Imitazione di Cristo – multos fefellit» (l’immaginazione di posti particolari ha ingannato molti).
Un’altra parola nuova – ma ve ne sarebbero molte altre – è la parola antica, che è andata ora rivestendosi di nuove armoniche: kairòs. Vi sono note le sfumature della lingua greca per esprimere la parola “tempo”: chronos e kairòs.
Chronos è il tempo in senso quantitativo, quello che si misura con l’orologio. È il tempo che ci incalza (non ce n’è mai abbastanza!). È il tempo che insegue attimo per attimo, che distrugge, che punta al fare, che scivola addosso inesorabile. Non a caso la mitologia greca lo raffigurava come un gigante che divora la sua prole: chronos divora ciò che egli stesso genera.
Kairòs, invece, è il tempo opportuno, propizio, occasione. È “grazia e mistero”: tempo in senso qualitativo. Non serve l’orologio, serve la preghiera, il discernimento, la fraternità. Una parola – kairòs – che abbiamo imparato ad usare per affrontare questo tempo e non subirlo: tempo da valorizzare, tempo opportuno. «Peggio di questa crisi – diceva Papa Francesco l’anno scorso a Pentecoste – c’è solo il dramma di sprecarla».
È stato un anno missionario. Lo è stato, eccome! Non nella modalità del fare, ma dell’essere. Una luce, benché piccola, si vede da lontano.
Offro a ciascuno di voi un piccolo dono. Si tratta di un corporale di lino da usare nella celebrazione dell’Eucaristia. Idealmente vorrei fosse un lembo della tovaglia di questo altare, l’altare della cattedrale. Nella preparazione ho coinvolto le claustrali, che hanno dato la loro disponibilità. Nel corporale vedo una triplice simbologia. Quel lino bianco rimanda, anzitutto, al sacrificio del Signore, quasi un lembo del suo sudario (Eucaristia: celebrazione del sacrificio che Cristo fa al Padre trascinandoci con lui nel seno della Trinità); poi, è segno della convivialità eucaristica, tovaglia preparata per gli invitati alla cena dell’Agnello; infine, rappresenta lo spazio sul quale viene adagiato il corpo e il sangue del Signore, come fu adagiato nel presepio con infinita tenerezza da Maria e, dopo la Passione, nel candido lenzuolo, ma ora risorto e vivo, che – ad ogni celebrazione eucaristica – sussurra di nuovo: «Resurrexi, et adhuc tecum sum. Alleluia!».