Omelia nella Festa patronale di San Giuseppe Lavoratore

Gualdicciolo (RSM), 1° maggio 2021

At 9,26-31
Sal 21
1Gv 3,18-24
Gv 15,1-8

Oggi in Cattedrale a Pennabilli è stato aperto l’Anno giubilare di San Giuseppe, sposo di Maria, padre legale (putativo) di Gesù e si è dato inizio al “mese di maggio” dedicato alla Madonna con una grande supplica per la fine della pandemia, secondo l’indicazione di papa Francesco: trenta Santuari sono coinvolti nella staffetta di preghiera che si concluderà il 31 maggio nei giardini vaticani. Oggi si apre a Roma, in San Pietro, con sessanta giovani (uno di loro è di San Marino!).
Nel 1955 papa Pio XII istituiva la memoria liturgica di San Giuseppe Lavoratore per testimoniare l’importanza del lavoro nella visione cristiana.
Oggi non si può celebrare la memoria di san Giuseppe Lavoratore senza tornare alle parole di papa Francesco nella Lettera Apostolica Patris Corde, a lui dedicata. Il lavoro di san Giuseppe «ci ricorda che Dio stesso, fatto uomo, non ha disdegnato di lavorare. La perdita del lavoro, che colpisce tanti fratelli e sorelle e che aumenta negli ultimi tempi a causa della pandemia dev’essere un richiamo a rivedere le nostre priorità» (PC 6).
Un carisma, quello di san Giuseppe, che si riassume nella capacità di essere “custode” di un tesoro prezioso, perché – spiega ancora il Papa – egli ci insegna che il lavoro è «partecipazione all’opera stessa della salvezza, occasione per affrettare l’avvento del Regno, sviluppare le proprie potenzialità e qualità, mettendole al servizio della società e della comunione».
È la seconda volta che celebriamo la festa di san Giuseppe Lavoratore in pandemia. La sofferenza si è fatta più forte; dall’inizio dell’emergenza, in Italia ci sono 900mila occupati in meno. E, se anche ci dicono vi siano timidi segnali di ripresa (a marzo), la disoccupazione giovanile tocca il 33%. Anche i Vescovi – nel loro Messaggio – denunciano la preoccupazione per le disuguaglianze e chiedono di abitare una nuova stagione economico-sociale. «Nel mondo del lavoro si sono aggravate le disuguaglianze esistenti e create nuove povertà».
Perché lavoriamo? Molti possono rispondere dicendo che si lavora per portare il pane a casa. Verissimo. Ma forse lo scopo più vero e più profondo del lavoro dovrebbe essere quello di trovare il modo di esprimere noi stessi. Nel lavoro ci si percepisce utili e significativi. La mancanza di lavoro, invece, è come un’amputazione alla dignità della persona. Molte volte la mancanza di lavoro getta nella più profonda depressione.
San Giuseppe è conosciuto come un lavoratore, un artigiano. Gesù sarà chiamato «il figlio del falegname» (Mt 13,55). È certo che san Giuseppe avrà insegnato il suo mestiere anche a Gesù. Il Figlio di Dio ha lavorato come ogni uomo al mondo. Ma anche chi ha un lavoro non è detto che lo viva come qualcosa che lo renda felice e lo gratifichi. Infatti, a volte si fanno lavori che non vorremmo fare e li facciamo solo per necessità. Così il lavoro non è più il luogo dove io esprimo me stesso, ma è il luogo dove accumulo frustrazioni. Tutto questo, però, può essere capovolto attraverso una conversione dello sguardo: il lavoro ci gratifica e ci santifica non solo quando ci aiuta ad esprimerci, ma quando lo facciamo “per amore”! Allora anche la cosa più noiosa o stancante diventa bella, quando sai che la stai facendo “per amore” di chi ami. San Giuseppe è illuminante per questa logica del “fare per amore”.

Quanta luce, quanta ispirazione ci viene dalla meditazione sul Vangelo che abbiamo appena ascoltato. Gesù ci propone una nuova allegoria. Viene presa dal mondo del lavoro agricolo: la vite, i tralci, la potatura, il contadino… Gesù segnala la necessità di «portare frutto». Voi direte “frutti spirituali”… E non sono frutti spirituali il bene che si fa per la propria famiglia e il proprio Paese? E praticare un lavoro ed una professione in modo onesto non è testimonianza? Ed essere in grazia di Dio non è – per il lavoro che svolgiamo un produrre come se Gesù operasse per mezzo nostro? Noi in lui e lui in noi, uniti insieme, portiamo frutti di santità. Tutto quello che un discepolo fa unito a Gesù acquista un valore aggiunto. Si tratta di un valore di santificazione, di redenzione, di costruzione del Regno di Dio.
Conseguenza: anche il lavoro più semplice e più nascosto non perde in preziosità; anche la sofferenza per il non-lavoro (malattia o condizione di anzianità) è, in qualche modo, “lavoro”: inazione, ma lavoro interiore di santificazione. E c’è il lavoro verso la nostra crescita umano-cristiana, il lavoro-preghiera e la preghiera-lavoro.
Solo il peccato ci stacca dalla vite: allora la linfa non arriva a noi, allora il tralcio – che siamo noi – non produce frutti soprannaturali di grazia.
«Senza di me non potete far nulla!». E quello che facciamo senza di lui (il nostro attivismo) è soltanto paglia!
In questo è glorificato il Padre: che siamo discepoli di Gesù e che portiamo frutto.

Omelia nella celebrazione del 1° Maggio

Pennabilli (RN), Cattedrale, 1° maggio 2021

Gen 1,26-2,3
Sal 89
Mt 13,54-58

1.

Motivi di preghiera in questo 1 maggio: apertura solenne diocesana dell’Anno giubilare dedicato a san Giuseppe, sposo di Maria, padre legale (putativo) di Gesù; ricordo grato, e per altri versi preoccupato, del mondo del Lavoro, con la presenza di una rappresentanza di lavoratori della Val Marecchia; inizio del “mese di maggio” dedicato alla Madonna con una grande supplica per la fine della pandemia, secondo l’indicazione di papa Francesco: una staffetta di preghiera per ogni giorno di maggio, da un capo all’altro del mondo, da un Santuario mariano all’altro. A questi motivi di preghiera ognuno aggiunge i suoi personali, con la certezza che il Signore ci ascolta e ci esaudisce come ritiene sia meglio, certezza accompagnata dal desiderio di una vita più santa, a partire da oggi (“fare bene il mese di maggio”). Facciamo tesoro della grazia che ci è data e delle ispirazioni al bene che sorgono in noi.

2.

Nella odierna liturgia ci è dato di rileggere alcune battute della grande sinfonia della creazione. La Parola potente di Dio «chiama all’esistenza le cose che ancora non esistono», mette ordine nella creazione e introduce in essa pace e armonia, luce e bontà. Fa sorgere gli esseri. Fa vivere. Questa è la sua vittoria! Dio è il creatore del mondo e il Signore della storia. Così ce lo presenta la fede cristiana. Allora tutta la creazione è buona, perché è fatta da Dio. Ed è buona perché Dio ama le sue creature, vuole la vita e non la distruzione. Tutti siamo partecipi della sua bontà.

3.

Il Signore affida all’uomo la creazione, lasciandogli il compito di portarla a compimento. L’uomo è il re del creato. Ma l’uomo deve fare il re nel modo di Dio, non secondo il suo capriccio.
Il passo che narra la creazione dell’uomo ha un carattere di profondo ottimismo. L’uomo è immagine di Dio: c’è un abisso tra l’uomo e il resto del creato. L’uomo è capace di conoscere e di amare; sa che Dio gli parla ed è in grado di rispondere. Questa è la sua dignità. Questa è la sua responsabilità.
L’uomo domina la creazione: ciò dimostra la sua superiorità. «Credenti e non credenti – afferma il Concilio Vaticano II nella Costituzione Pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo (GS 12) – sono concordi nel ritenere che tutto quanto esiste sulla terra deve essere riferito all’uomo come a suo centro e a suo vertice».
Lo sviluppo della scienza, la conquista dello spazio, i progressi della tecnica possono e debbono essere una risposta all’invito del Creatore.

4.

Notate: ad un certo punto Dio sembra sospendere il ritmo vertiginoso della creazione. L’autore della Genesi introduce un misterioso dialogo, facendoci assistere ad una deliberazione e ad una solenne decisione di Dio: «Facciamo l’uomo a nostra immagine e somiglianza» (Gen 1,26). Questo plurale, interpretato in vari modi, sembra alludere ad un misterioso dialogo. La dignità dell’uomo è grande e grande la sua responsabilità: come Dio, l’uomo ama, conosce, domina. Ma di fronte a Dio dovrà rispondere di queste sue facoltà.

5.

Caliamo questi pensieri nell’attualità. Oggi assistiamo a modelli socio-economici che contrappongono sviluppo da una parte e sostenibilità dall’altra; si vuole lo sviluppo a tutti i costi, passando sopra al rispetto dovuto all’ambiente, alla salute, ecc. Così pure la dimensione globale, governata da grandi poteri, va contro l’autonomia locale delle persone che responsabilizza. È nostro compito riaffermare la dignità dell’uomo nella sua interezza, con il suo diritto alla salute, al lavoro e alla tutela del creato.
Si terrà nell’ottobre prossimo, a Taranto, la 49a Settimana Sociale dei Cattolici Italiani. In questo grande convegno – a cui parteciperà anche una delegazione della nostra Diocesi – si intende dare un contributo concreto per sostenere ed orientare un nuovo modello di sviluppo capace di ridefinire il rapporto fra economia ed ecosistema, ambiente e lavoro, vita personale ed organizzazione sociale.
Come dicevo, l’uomo è re del creato, ma non alla maniera del despota: usa della natura e dell’ambiente, ma non ne abusa. Tutto orienta al bene comune. Dopo questi mesi di pandemia ci siamo persuasi ulteriormente di come tutto sia connesso. Ora dobbiamo prenderci cura di un grande ammalato: il nostro pianeta.

6.

Il Vangelo riporta questo interrogativo dei nazaretani. «Non è costui il figlio del falegname?» (Mt 13,55). È certo che Giuseppe avrà insegnato il mestiere di falegname anche a Gesù. Il Figlio di Dio ha lavorato come ogni uomo al mondo.
Perché lavoriamo? Molti possono rispondere dicendo che si lavora per portare il pane a casa. Verissimo. Ma forse lo scopo più vero e più profondo del lavoro dovrebbe essere quello di darci l’occasione di esprimere noi stessi. L’uomo è un “piccolo creatore”. La mancanza del lavoro è come un’amputazione alla dignità della persona. Nel lavoro ci si percepisce utili e significativi. Si porta un piccolo contributo, ma importante. La mancanza di lavoro getta nella più profonda depressione. In questo senso, il tema del lavoro ha a che fare con la fede e con la santità.

7.

Ma anche chi un lavoro ce l’ha non è detto che lo viva sempre come qualcosa che lo renda felice, che lo realizzi. A volte facciamo lavori che non vorremmo fare, non ci piacciono del tutto e li facciamo solo per necessità. Così il lavoro non è più il luogo dove io esprimo me stesso, ma dove accumulo anche frustrazioni, fatiche, malumori. Tutto questo può essere capovolto attraverso una conversione dello sguardo: fare per amore! Per il pane, per la mia autorealizzazione, per il mio posto nella società, ma alla fine si lavora per amore, per amore di qualcuno. La vera domanda è se abbiamo capito che dovremmo trovare un motivo “per cui” lavorare, per cui fare le cose.
San Giuseppe è illuminante per questa logica del “per amore”!

Omelia nella IV domenica di Pasqua

Miniera (RN), 25 aprile 2021

At 4,8-12
Sal 117
1Gv 3,1-2
Gv 10,11-18

L’autore del IV Vangelo non solo è “aquila” che penetra il mistero del Verbo fatto carne, ma è artista, sapiente architetto, formidabile sceneggiatore: colloca il celebre discorso di Gesù sul Buon Pastore tra due grandi feste. Qualche capitolo prima è menzionata la festa ebraica delle Capanne, alla fine si fa riferimento alla festa della Consacrazione del Tempio. Poco dopo la festa delle Capanne Gesù ridà la vista ad un cieco dalla nascita. Quel cieco non solo ha recuperato la vista, ma “vede” in Gesù l’inviato di Dio, il Messia. Senza averlo conosciuto preventivamente quel cieco crede in Gesù: «Adesso ci vedo!» (cfr. Gv 9,25). Vede e crede. I farisei e le guide del popolo che, loro malgrado, constatano il segno di quella guarigione non vogliono credere e «restano ciechi». Si chiudono all’evidenza. Per questo Gesù è in aperta polemica con loro. Nonostante il vantaggio di cui dispongono per la conoscenza delle Scritture, sono «guide cieche». Nei giorni che precedono l’altra festa – quella della Dedicazione – nelle liturgie ebraiche si legge il capitolo 34 del profeta Ezechiele, dove si parla di Dio «pastore d’Israele», un pastore che si prende cura davvero del suo popolo. È inevitabile in quei giorni di festa fare memoria dei “cattivi pastori” che avevano permesso la profanazione del Tempio. L’oracolo di Ezechiele preannuncia l’invio di un altro pastore che esprimerà la premura del Signore, un pastore come Mosè, come Davide. Gesù annuncia che è lui quel pastore, quello vero. Notare l’enfasi su quel «Io sono»: già con questa espressione – nel Vangelo di Giovanni ricorre varie volte – Gesù proclama la sua origine divina. Dio, buon Pastore, si rivela in Gesù.
Gesù si presenta, dunque, come il Pastore “buono”, cioè vero. “Buono” qui non è inteso in senso morale o psicologico. Attenzione, sembra dirci Giovanni, a non sbagliare pastore, a non investire la propria fiducia in pastori che non sono tali.
Il testo greco – lo dobbiamo sottolineare per correttezza – parla di «Pastore bello». Semmai, proprio perché bello dentro, sarà anche buono…
Quel Pastore è bello perché ha uno stile ed una logica di vita che rendono bella la sua vita, perché caratterizzata dal dono di sé. Questa è pure la bellezza dei santi e di tutti quelli che continuano a spendersi e a donarsi senza riserve.
Nei pochi versetti proclamati nella liturgia di oggi viene ripetuta una delle più forti e affettuose dichiarazioni d’amore. Per ben cinque volte Gesù dice che «dà la sua vita». Non c’è dubbio, la preposizione adoperata nel testo ha un significato esplicitamente oblativo. Il Pastore bello dà la vita per le pecorelle, cioè a motivo di loro, perché hanno bisogno di lui; dà la vita per le pecorelle, perché si fa avanti al posto loro; dà la vita per le pecorelle, cioè a loro vantaggio. Egli redime, espia, salva.
In questa dichiarazione d’amore non è taciuto il sacrificio, il “fare posto” e l’umiltà di chi ama. Ma ancora una volta non viene tanto in rilievo il prezzo da pagare, ma il frutto e la fraternità che crescono attorno al sacrificio. Scriveva sant’Agostino: «Dove c’è l’amore, dove si ama, non si sente fatica e anche quando c’è fatica si ama questa fatica» («Ubi amatur iam non laboratur et si laboratur etiam labor amatur»). Non c’è altra bellezza che questa. L’allegoria del Pastore si evidenzia nel confronto col mercenario. Il mercenario ha sicuramente esperienza e professionalità, ma, rispetto al pastore, ha un’altra motivazione: è pastore per guadagnarsi da vivere. Le pecore non sono «le sue»; per questo si mette in gioco solo fino ad un certo punto: non gli importa delle pecore e, quando arriva il lupo, scappa. Il mercenario non è bello!
Durante una traversata sul lago di Galilea i discepoli, travolti dalla tempesta e dalle onde, hanno gridato a Gesù che dormiva sulla barca: «Non ti importa che moriamo?» (cfr. Mc 4,35-41). Gesù risponde con i fatti al loro grido: le pecorelle gli importano, eccome! Gli appartengono: chi le tocca, tocca lui. Gesù non fugge quando ci sono problemi nella nostra vita: resta accanto. Dice il Vangelo che non permette che le sue pecore siano «disperse»: un verbo allusivo alla morte che disperde e disintegra la creatura. Gesù è per noi sorgente di vita per sempre.
Il Pastore buono è bello e anche forte: vede arrivare il branco dei lupi e lo affronta. C’è bellezza nelle nostre comunità? Sì, quando c’è qualcuno che dà la sua vita. Di Gesù è detto che ha il potere di dare la vita: questo è l’unico potere di Dio. Donando la sua vita, la riprende: perché a chi dà, sarà data una misura pigiata, scossa e traboccante (cfr. Lc 6,38). Chi dà tutto, ha già ricevuto tutto!
Questa è l’interpretazione più azzeccata della dimensione vocazionale della vita. Oggi, “Giornata mondiale di preghiera per le vocazioni”, chiediamoci: dove sono chiamato a dare tutto?

Omelia nella Festa della Madonna del Popolo, patrona della Diocesi di Cesena-Sarsina

Cesena (FC), Cattedrale, 18 aprile 2021

At 1,12-14
Salmo da Lc 1,46-55
1Pt 2,4-10
Gv 2,1-11

È suggestivo che la festa della Madonna del Popolo sia incastonata nel tempo pasquale e alla Pasqua facciano riferimento le letture bibliche e i testi eucologici. Nella preghiera di inizio abbiamo chiesto al Signore, per intercessione di Maria, di renderci sempre più consapevoli di essere popolo di Dio. In particolare, abbiamo chiesto di diventare un popolo che sa amare, che corrisponde alla sua vocazione. La Chiesa è costituita come realtà che partecipa alle gioie e alle sofferenze, alle tribolazioni, alle ansie dell’umanità, chiamata ad essere sacramento di unità del genere umano (cfr. GS 1).
Ho finito da poco la Visita Pastorale e mi è capitato varie volte, negli incontri assembleari di preghiera, di chiedere: «Sapete quando è nata la Chiesa? Se dovessimo festeggiare un giorno come compleanno della Chiesa quale sarebbe?».
C’è chi ha risposto: «Quando Gesù ha chiamato gli apostoli, le colonne della Chiesa». Qualcun altro: «La Chiesa è nata a Pentecoste, quando si sono spalancate le porte del Cenacolo e i discepoli sono usciti per proclamare la risurrezione di Gesù e la remissione dei peccati». Alcuni hanno individuato un altro momento molto suggestivo: «Il momento in cui Gesù in croce, rivolgendosi alla Madonna, dice: “Ecco tuo figlio”, indicando Giovanni, e poi a Giovanni: “Ecco tua madre”». «E la prese con sé nella sua casa…».
Il vero momento in cui è nata la Chiesa è quello dell’incarnazione del Verbo. In quel momento il Verbo ha assunto l’umanità e, nell’unica persona, le due nature − umana e divina − si sono unite. In quell’attimo è nata la Chiesa, è nato il popolo di Dio. Ecco perché è bello e opportuno considerare la Madonna con questo titolo: «Madonna del Popolo», Madre del Capo, madre delle membra.
Su invito del vescovo Douglas siamo qui questa sera per rivolgere una supplica alla Madonna per la fine della pandemia. Lo facciamo con fede, consapevoli d’essere chiamati ad “essere speranza” in questo mondo ferito. Vogliamo anche considerare la Madonna secondo una prerogativa che non si sottolinea abbastanza: la Madonna come sposa, sposa di Giuseppe.

«Per quanto bella una predica sulla santa Vergine, se si è obbligati tutto il tempo a fare: Ah!… Oh! Se ne ha abbastanza». Questo commento, piuttosto graffiante, è rivolto da un’anima insospettabile: santa Teresa di Lisieux. La piccola Teresa aggiunge: «Ella, la Santa Vergine, preferisce l’imitazione piuttosto che l’ammirazione, ma la sua vita è stata così semplice!». «Perché una predica sulla Santa Vergine mi piaccia e mi faccia del bene – continua santa Teresina –, bisogna che io veda la sua vita reale (noi diremmo “con i piedi per terra”), non supposizioni sulla sua vita; e sono sicura che la sua vita reale doveva essere semplicissima… Bisognerebbe mostrarla imitabile, fare risaltare le sue virtù, dire che viveva di fede come noi, darne le prove con il Vangelo, dove leggiamo: «Non capirono [Maria e Giuseppe] ciò che diceva loro» (Teresa di Lisieux, Novissima Verba, Opere complete, pp. 1080-1084).
Le parole di santa Teresa aiutano a superare la difficoltà di chi non si avvicina facilmente alla Madonna. In effetti, una certa enfasi può infastidire. La parola devozione, anche se nobile e carica di significati, appartiene ad un linguaggio desueto. Chi saluterebbe digitando al cellulare «suo devotissimo»? È preferibile parlare di rapporto, perché Maria è una persona viva. Il rapporto con lei si esprime nello scambio e nel dialogo, dialogo che a volte si fa preghiera, invocazione – come facciamo noi stasera – e, altre volte, canto pieno di gratitudine, ma soprattutto desiderio di imitazione. Una maestra spirituale del nostro tempo racconta che, davanti al tabernacolo, mentre lodava e ringraziava Gesù per la sua presenza, in corpo, sangue, anima e divinità, le veniva dal cuore la richiesta: «Perché, Signore, non ci hai lasciato qualche cosa di Maria?». E ha sentito nel cuore questa risposta: «Non ho lasciato niente di visibile di Maria perché la voglio rivedere in te». L’imitazione può arrivare fino a farci “essere Maria”.
Imitare non è copiare: ciò che va cercato non sono né la cultura, né lo stile di un’epoca, né i clichè con i quali è stata raffigurata la Madonna. Ma quando si hanno stima e amore per una persona si tende a fare e ad essere come lei.
Proviamo a vedere Maria a Nazaret. Nazaret è ai margini della geografia e della storia sacra di Israele: «Può mai venire qualcosa di buono da Nazaret?» (Gv 1,46), sentenziò con scetticismo Natanaele, poi chiamato da Gesù a divenire apostolo. Eppure, la vicenda terrena di Gesù, di Maria e di Giuseppe vi gira attorno. Gesù vive a Nazaret, viene da Nazaret, scende a Nazaret, a Nazaret dimora. Tra le stradine, i cortili e le siepi di quel povero villaggio è racchiusa per trent’anni la vita del Messia. Da Nazaret Gesù prenderà anche il suo secondo nome: Nazareno. Possiamo immaginare quanto gli fosse stata cara: volti, vicende, tradizioni, suoni, colori, profumi… tutto quanto si imprime nella fantasia di un fanciullo e nella memoria di un giovane.
Quando Gesù sarà nel pieno della missione ambienterà le parabole sullo sfondo dei suoi ricordi: la donna che spazza la casa per cercare una monetina caduta tra le fessure del pavimento, la massaia che impasta la farina col lievito, il datore di lavoro che va in cerca di operai, il figlio scapestrato che se ne va da casa, le sofferenze di una mamma nel parto, etc. Quando vorrà proclamare l’urgenza del Regno di Dio e quanto costa la radicalità necessaria ai discepoli, proporrà di «lasciare la propria casa» (Lc 18,29; cfr. Lc 9,58).
Entriamo ora nella casa della Santa Famiglia. Osserviamo i rapporti fra le persone che vi abitano: Giuseppe, Maria e Gesù. Questo tema è stato tratteggiato molto bene dalla Lettera del vostro Vescovo. Vi lascio solo qualche suggestione. Nella casa di Nazaret il più grande – che è Gesù – è obbediente al più piccolo, Giuseppe. Maria, la mamma, osserva e custodisce ogni avvenimento nel cuore. Giuseppe è premuroso custode di tutti. Maria e Giuseppe sono sposi a tutti gli effetti. Vivono nel rispetto reciproco, ma nella più piena unità. I loro giorni e i loro destini sono intrecciati. Matteo racconta l’annunciazione a Giuseppe, Luca l’annunciazione a Maria. Non c’è contraddizione: Dio parla alla coppia.
L’indirizzo che Maria e Giuseppe danno alla loro famiglia la rende aperta, ricca di relazioni. Partecipano ai pellegrinaggi e alle feste di paese. Salgono al tempio di Gerusalemme. Condividono le vicende di famiglia con i parenti e i conoscenti: si fidano, quando pensano che Gesù dodicenne sia al sicuro tra loro. Nel rimprovero che Maria rivolgerà a Gesù c’è tanta considerazione per il ruolo di Giuseppe: «Tuo padre ed io ti cercavamo…» (Lc 2,48.) Maria e Giuseppe – come abbiamo già visto – sanno affrontare le prove con coraggio e determinazione nell’amore e nella stima reciproca: dalla imbarazzante maternità al parto in condizioni difficili, dall’inseguimento della gendarmeria di Erode alla fuga in Egitto, dal rientro nella povertà di Nazaret al lavoro che procura sudore e calli alle mani.

Appena un accenno al brano evangelico. Troviamo Maria ad una festa di nozze; ce lo racconta l’evangelista Giovanni: una festa di paese, a Cana di Galilea, con tanti invitati. A Cana viene proclamato il Vangelo dell’amore sponsale: Maria è sposa! È attenta a quello che accade attorno a lei: spicca il suo senso pratico. I veri contemplativi sono “con i piedi per terra”. Maria previene l’imbarazzo degli sposi novelli. Anche qui c’è una parola della madre verso il figlio Gesù: «Non hanno più vino» (Gv 2,3). Sa che nella vita di ognuno l’amore può venir meno come il vino alle nozze. L’amore sulla terra è a rischio, lo sappiamo bene. La diminuzione, il venir meno, il tramontare sembrano una costante per le esperienze umane. Maria, a Cana, non si rassegna e sente che le cose possono andare diversamente: dal meno al più, dal debole al forte, dal poco al tanto, dall’acqua al vino. Gesù, infine, interviene. Sarà il suo primo miracolo. Aveva esordito dicendo: «Non è la mia ora». La Madonna sposta la lancetta sul quadrante del tempo. C’è una parola della Madre anche per noi: «Fate tutto quello che lui vi dirà» (Gv 2,5).
Di cosa parla la Madonna quando parla con Gesù? Parla di noi! E Gesù, a sua volta, a lei parla di noi.

Omelia nella III domenica di Pasqua

Valle Sant’Anastasio (PU), 18 aprile 2021

At 1,12-14
Salmo da Lc 1,46-55
1Pt 2,4-10
Lc 24,35-48

Secondo la tradizione l’evangelista Luca era medico ed è, tra gli evangelisti, quello che descrive più dettagliatamente le malattie e i riferimenti al corpo; è l’unico che, quando racconta la Passione, annota che Gesù «suda sangue», perché i capillari sulla fronte si rompono nel momento dell’angoscia del Getsemani.
Quando san Luca scrive di Gesù Risorto deve tener conto di una problematica di quel tempo: le comunità di provenienza greco-romana ammettevano tranquillamente la risurrezione dell’anima; anche i filosofi, basti pensare a Platone, accompagnavano a sepoltura i defunti dicendo che andavano «nell’Ade», ad indicare un’altra vita, una vita di tipo diverso (cfr. Iliade, Eneide). Per questo san Luca, nel suo Vangelo, si preoccupa di dirci che di Gesù non è sopravvissuta solamente l’anima, ma è risorto veramente nel suo corpo. Ecco perché chiama a raccolta i cinque sensi (vista, udito, olfatto, tatto, gusto). L’udito: Gesù parla, lo si può ascoltare. E poi dice: «Toccatemi!», mostrando le sue ferite nelle mani e nei piedi. Nel Vangelo secondo Giovanni, Tommaso viene chiamato ad introdurre il suo dito nella ferita del costato. «Ascoltatemi, guardate, toccate!», ripete Gesù. Ma i discepoli sono ancora perplessi e soprattutto impauriti, pensando che si tratti di uno spirito che è comparso d’improvviso.
Per persuadere definitivamente gli apostoli, Gesù chiede qualcosa da mangiare. Gli preparano del pesce arrostito: Gesù mangia. In altre redazioni del Vangelo è scritto che «ne diede anche a loro», quindi hanno mangiato Gesù e gli apostoli. Il mangiare ha una forte valenza simbolica: mangiare insieme vuol dire fraternità, vuol dire fare famiglia; mangiare significa anche che abbiamo bisogno di qualche cosa per vivere, non siamo autosufficienti.
Gesù si mostra “mendicante” della nostra fede, del nostro amore. È stupefacente che a schiodare gli apostoli dai loro dubbi sia la cosa più semplice, più normale: la consumazione di un pasto fatto insieme. Ma c’è un modo ulteriore con il quale Gesù persuade i suoi discepoli: è quando apre a loro il cuore. Qui intervengono i sensi interni. Gesù apre il loro cuore a comprendere le Sacre Scritture. Dietro le parole che leggiamo nelle Sacre Scritture, c’è la Parola, cioè il Verbo incarnato. Inoltre, Gesù compie quanto era stato detto nelle Sacre Scritture. Tutto l’Antico Testamento non è altro che una preparazione a Gesù. Qualcuno chiama l’Antico Testamento “quinto Evangelo”, un Vangelo scritto prima, perché in esso si parla di un Messia sofferente che prende su di sé i nostri peccati, le nostre difficoltà, «come agnello mansueto condotto al macello» (Is 53,7). Gesù, quando dice «pace a voi» (Gv 20,19), in fondo consegna se stesso, perché lui è la pace.
Gesù ci indica la strada che dobbiamo percorrere per poterlo conoscere, incontrare. Una l’ho già detta: sono le Sacre Scritture, il Vangelo. Vi invito a rimettere al centro il Vangelo, a tenerlo a portata di mano, a metterlo su un cuscino con un fiore davanti come si fa con una santa immagine, a leggere anche solo una pagina al giorno, o una frase, perché nel Vangelo incontriamo Gesù. C’è un altro modo per incontrarlo: l’Eucaristia. Gesù si fa presente nel dono di un pane spezzato: «Prendete, mangiate, è il mio corpo dato per voi…» (Lc 22,19). Ecco perché è così importante la Messa domenicale. Infine, c’è un’altra presenza del Signore: è il prossimo, soprattutto quello in difficoltà. Gesù ha detto: «Avevo fame, mi avete dato da mangiare; avevo sete, mi avete dato da bere; ero malato e siete venuti a visitarmi…» (Mt 25,35-36). E gli risponderanno: «Quando mai ti abbiamo visto affamato, assetato, malato…?» (Mt 25,37-38). Gesù dirà: «Ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatta a me» (Mt 25,409.
Potremmo fare questa preghiera: «Gesù, non ti vediamo con i cinque sensi come hanno potuto fare i primi testimoni; a noi offri una conoscenza di te con i sensi interni, il principale è la fede: noi ti crediamo». Quando leggiamo il Vangelo, quando viviamo la Parola, quando facciamo la Comunione, quando compiamo un atto d’amore proviamo tanta gioia dentro di noi, sentiamo una particolare presenza.

Omelia nella II domenica di Pasqua

Pennabilli (RN), Cattedrale, 11 aprile 2021

At 4,32-35
Sal 117
1Gv 5,1-6
Gv 20,19-31

Istituzione del Lettorato al seminarista Larry Johan Jaramillo Londono

Larry fa un passo ancora più deciso verso il sacerdozio: viene istituito Lettore. A lui è affidata la lettura – nella santa assemblea – della Parola di Dio, eccetto i Vangeli, che vengono letti dal Diacono. Non si tratta di un grado nel cursus honorum, ma la designazione ad un servizio: è un ministero, è il conferimento di una grazia dello Spirito che lo rende innamorato della Parola e un tratto educativo della Chiesa che prepara il futuro sacerdote, a poco a poco, al ministero pastorale.

La sera è spesso il momento in cui diciamo: «Oggi non ho combinato nulla, o quasi…». Si prova a recuperare qualcosa, ma a vincere è ancora il senso di inutilità e, talvolta, di fallimento. Allora la risoluzione che viene più facile, quasi spontanea, è quella di rinchiudersi. Così è accaduto ai discepoli quella sera, per paura, non per devozione: paura dei giudei, paura di che cosa pensava la gente di loro e anche delusione per le proprie meschinità. Basti pensare a Pietro, che aveva rinnegato Gesù per soggezione nei confronti di una serva che si trovava per caso nel cortile del sinedrio.
Gli eventi della Settimana Santa avevano scioccato profondamente i discepoli; comprensibile era la loro delusione: avevano riposto fiducia in Gesù, ma, ucciso e fallito, non sembrava essere il Messia atteso, nel quale sperare. Eppure, Gesù entra in questo vuoto, in questo fallimento. È questo l’annuncio. Questo è uno dei mandati fondamentali che viene dato a Larry: svolgere un ministero di consolazione annunciando la Parola di Dio. «Pace a voi» è la prima parola che pronuncia il Risorto, apparendo quella sera. «Shalom»: parola piena di risonanze e di promesse compiute. Pace non significa semplicemente assenza di conflitti, ma è la somma dei beni messianici. Questa parola è risuonata con tutta la sua forza in quella sera benedetta. La parola «shalom» risuona anche adesso, in questa sera. Ogni sera, da quando Gesù è risorto, è benedetta. Che cosa cambia la situazione? L’incontro con Gesù: è lui che rende la giornata, quella sera, luogo della «shalom», che vuol dire riconciliazione, pienezza, gioia del cuore. In altre parole, «shalom» significa «io con voi»! Peccato che a volte noi non ci crediamo abbastanza.
Poi ci sono tutti i gesti che esprimono l’incontro, gesti molto concreti, coinvolgenti anche il tatto. Anzitutto Gesù si fa conoscere inequivocabilmente come il Crocifisso risorto, mostrando le sue ferite. Quando Gesù mostra le sue ferite non intende in nessun modo prendersela con i suoi amici, semmai sembra dire: «Vedete quanto vi amo, quanto vi ho amato!». San Pier Crisologo scrive in una sua omelia: «Queste ferite – attribuisce a Gesù queste parole – non mi fanno gemere, piuttosto introducono voi al mio interno». Larry sa bene dallo studio delle Scritture che la croce non è un semplice incidente di percorso da superare e dimenticare, ma è la gloria di Cristo, perché è il punto più alto dell’arte divina di amare. Gesù Risorto – perdonate l’accostamento – non è un pupazzo di plastica dove tutto è pulito, senza alcun graffio e segni di sofferenza. Del resto, è così anche nella nostra vita, le ferite non scompaiono mai, ma possono cambiare di significato.
Poi, Gesù alita, soffia sul piccolo gregge dei discepoli impauriti e compie un gesto di creazione: lo stesso che ha compiuto il Creatore alle origini. È un antropomorfismo. Il Creatore compie il gesto delle levatrici che soffiano nelle narici del neonato, quasi per dare il via alla respirazione.
A seguire Gesù invia i discepoli: «Come il Padre ha mandato me, io mando voi». Li manda anche se sono fragili e, nello stesso tempo, li manda ricchi della sua potenza. C’è da una parte la fragilità di questi “strumenti umani” che sono gli apostoli, che siamo noi, dall’altra la consapevolezza di essere avvolti dalla potenza, perché dice il Signore: «La mia potenza si manifesta nella tua debolezza» (cfr. 2Cor 12,9). Allora i discepoli andranno… Per fare cosa? Certamente per l’impegno della carità, ad istruire, ma soprattutto ad annunciare la remissione dei peccati. Chi si sente peccatore conosce la gioia di incontrare, nella Chiesa, il perdono di Dio. L’annuncio del Signore è inscindibile dalla remissione dei peccati.
Otto giorni dopo. Di nuovo Gesù compare nel Cenacolo. Da notare che i discepoli sono ancora chiusi dentro… La sua prima venuta, quella di otto giorni prima, sembra essere stata senza effetto. Secoli dopo, Gesù ancora è qui, di fronte alle nostre porte chiuse, mite e determinato. Gesù non accusa, non rimprovera, non abbandona, si ripropone, si riconsegna.
Spendiamo una parola sull’assente, Tommaso. Non sappiamo perché Tommaso sia assente – il Vangelo non lo dice – però l’assenza non è mai del tutto innocente: l’assenza dice molte cose. Forse Tommaso non era con i suoi fratelli… anche per il risvolto imbarazzante per come aveva vissuto quel fallimento. Quando torna gli dicono con entusiasmo: «Abbiamo visto il Signore!». Ma lui non ci crede. Il narratore, l’evangelista Giovanni, mette noi lettori nella condizione di sentirci come Tommaso. Il lettore – anche noi – sente la buona notizia: «Gesù è risorto! Lo abbiamo visto!». Ma il lettore non incontra Gesù in carne ed ossa. Ognuno di noi vive questa esperienza di assenza, di dubbio. Cosa dicono a Tommaso i discepoli rimasti dentro al Cenacolo? «Non te ne andare. Resta nel grembo della comunità. Ti portiamo noi, crediamo noi per te». Giovanni scrive ad una generazione di cristiani che non è più contemporanea a questi fatti (il quarto Vangelo è l’ultimo ad essere stato scritto). I lettori sono tutti dei “Tommaso”, si trovano nella sua stessa situazione. Ci viene detto, in questo modo, che la nostra fede non è direttamente in Gesù, ma è la fede in chi ci ha annunciato Gesù, la Chiesa: una catena di testimoni lunga duemila anni, di generazione in generazione, che ci lega agli apostoli, ai pescatori di Galilea. Nella professione di fede proclamiamo: «Credo la Chiesa una, santa, cattolica e apostolica». Se perdiamo il legame con l’apostolo, il vescovo, se ci sganciamo dall’unità con i vescovi e col Santo Padre, che presiede la carità della Chiesa, siamo tagliati fuori.

Vorrei concludere sottolineando come Gesù, conformemente con il suo stile, appare proprio a lui, a Tommaso, lo prende di mira, appare quasi solo per lui, in modo personalissimo, fino ad invitarlo ad un gesto di intimità: mettere la sua mano nella ferita del cuore e il dito nelle ferite delle mani. Tommaso dirà: «Mio Signore, mio Dio!», inequivocabile professione di fede nella divinità di Gesù. È la professione di fede dell’assente; l’assente che, mediante l’incontro, mediante la mediazione della comunità, diventa colui che fa la più alta professione di fede. Proprio sulle nostre assenze, sui nostri mancamenti, Gesù Risorto trova il modo di farci fare un’esperienza forte come quella di Tommaso. Gesù non vuole forzare Tommaso, ne rispetta fatiche e dubbi, sa che ognuno ha i suoi tempi, ma quello che vuole è il suo stupore, quando fa capire che la sua fede poggerà su un atto d’amore perfetto. La Domenica delle Palme papa Francesco, nell’omelia, suggeriva di mettere a confronto due parole: la parola ammirazione e la parola stupore. Lì per lì ho pensato volesse esortare all’ammirazione; invece, il Santo Padre ha detto: «Va bene l’ammirazione per Gesù; anche durante il suo ingresso a Gerusalemme l’hanno ammirato, ma quello che è più importante – ed è la grazia che chiediamo per Larry – è lo stupore». «Ripartiamo dallo stupore – ha aggiunto –, guardiamo il Crocifisso e diciamogli: “Signore, quanto mi ami, quanto sono prezioso io per te!”». Lasciamoci stupire da Gesù perché la grandezza della vita non sta nell’avere, nell’affermarsi, ma nello scoprirsi amati. Questo è l’augurio che facciamo a Larry.

Omelia nella Domenica di Pasqua

San Leo (RN), Cattedrale, 4 aprile 2021

At 10,34a.37-43
Sal 117
Col 3,1-4
Gv 20,1-9

Ieri sera, nel Santo Vangelo, abbiamo letto il più laconico bollettino di vittoria che sia mai stato scritto: Marco riporta lo sconcerto delle donne che vanno, alle prime luci del giorno, alla tomba di Gesù, portando con sé gli aromi. Si chiedono chi può togliere la grossa pietra. Vanno con questa domanda nel cuore e sono le prime a vedere la pietra rotolata via, le prime ad annunciare che Gesù è vivo. Qui è scattata la prima scintilla. Siamo nell’ultima pagina del Vangelo di Marco, ma è la prima pagina del “quinto Vangelo”, quello che dobbiamo scrivere noi. La notizia che Gesù è risorto è affidata a noi, così come la potenza della risurrezione. La risurrezione comincia con Gesù, ma è qualcosa di permanente, di nuovo che riguarda tutti noi. La Chiesa esiste per dare questo annuncio all’umanità, per gridare che c’è un “oltre” la nostra morte: la risurrezione! La Chiesa è molto apprezzata per quello che fa: l’impegno per la promozione umana, per l’educazione…Nelle scuole cattoliche sparse nel mondo ci sono tre milioni di alunni e sono aperte a tutti. Quante istituzioni caritative: ospedali, dispensari, mense… Sono tutte opere preziose, ma non sono lo specifico della Chiesa; ciò che la Chiesa fa, a volte, è una “supplenza”, altre volte è una testimonianza che il Vangelo non è avulso dalla realtà; ma ciò per cui la Chiesa è nel mondo è per gridare questa “buona notizia”.
Considerando come le donne sono state le prime ad andare al sepolcro, stamattina mi è venuto di scrivere d’impulso alle monache e alle suore della nostra Diocesi. Le donne sono sempre coraggiose, sono le prime ad affrontare il dolore. Alle donne non fa paura neppure il sepolcro. In Diocesi abbiamo cinque monasteri di clausura con diverse monache molto giovani. Le monache sono le continuatrici delle donne “mirofore”, portatrici del myron (gli aromi) a Gesù, che per prime l’hanno visto risorto. Ho scritto alle monache che sono preziosissime per la Diocesi. Col loro stile di vita sono le prime missionarie, le avanguardie del futuro, le testimoni coraggiose della risurrezione.
La Diocesi di San Marino-Montefeltro ha puntato, in questi anni, su una rinnovata iniziazione cristiana. Dopo aver dedicato due anni alla realtà del Battesimo, sacerdoti, religiosi e laici si sono ci siamo detti: «Ora tocca a noi, dobbiamo essere missionari, annunciare Gesù Risorto». È stata sdoganata la parola kerygma, parola antica e sempre nuova che significa “primo annuncio”. Molti sono cristiani solo per tradizione, senza mai aver deciso di esserlo, invece c’è bisogno di rifare la scelta. In sede di programmazione (Consiglio presbiterale, Consiglio pastorale e Uffici pastorali) abbiamo steso delle indicazioni di lavoro prevedendo assemblee, iniziative, assembramenti comunitari. Poi, questa pandemia ha bloccato tutto; il Signore ci ha fatto capire che la missione è qualcosa che nasce nel profondo: bisogna tornare all’anima dell’apostolato, altra cosa dall’attivismo. Lì per lì abbiamo faticato ad accogliere questa sterzata, perché avevamo messo in cantiere tante attività per una nuova evangelizzazione. Il Signore ci ha rimandato, come Mosè, al roveto ardente, come gli apostoli al cenacolo per essere ricolmati di Spirito Santo.

Nel Vangelo Giovanni racconta che la prima ad andare al sepolcro è stata Maria di Magdala. Lei ha un amore folle per Gesù e per le sue parole e va al sepolcro di buon mattino. Vede che la tomba è vuota. Non saprebbe distaccarsi da quel luogo, le basta avere nel suo cuore il ricordo del Maestro. Poi, corre ad annunciare agli apostoli quello che ha visto, o meglio quello che non ha visto. Due di loro, Pietro e Giovanni, corrono al sepolcro, corrono forte, c’è una sorta di gara fra i due; il primo che arriva, Giovanni, aspetta e lascia entrare l’altro, Pietro. Pietro guarda attentamente, valuta, scruta. Nota che ci sono il lenzuolo da una parte e le bende dall’altra. Il suo è un guardare ispettivo. Finalmente entra il discepolo che Gesù amava: vede e crede. Le tre “staffette” non si contrastano ma si completano e tracciano il nostro cammino di fede. Il guardare di Maria di Magdala è il guardare del cuore, della nostalgia, della memoria. Lei parlava con Gesù, anche se lui non era lì. Pietro ha un altro guardare, un guardare ufficiale, una constatazione. L’evangelista adopera verbi con sfumature diverse. Per Giovanni usa il verbo “theoreo” che vuol dire contemplare. E’ così anche il nostro cammino. Molti di noi hanno un bel ricordo di Gesù, magari hanno visto un bel film dedicato a lui; qualcun altro vuole mettere delle basi solide e si mette a studiare, ma la fede completa è quella di Giovanni, del discepolo che ama Gesù e che è amato da Gesù. «Vide e credette». Nel quarto Vangelo il verbo vedere coincide con il credere.

Più cresce la fede, più cresce la spinta missionaria. Vi auguro di essere missionari di Gesù. Non abbiate paura di annunciarlo! Ricordo che nella mia città di origine c’era un gruppo di operai al petrolchimico che mi raccontavano la fatica di essere cristiani in fabbrica; venivano presi di mira al bar, in mensa, alle “macchinette”, ma alla fine erano i più stimati per il coraggio della loro fede, per la loro testimonianza. Quando un collega aveva problemi andava a cercare proprio loro.
Non abbiate paura. Siamo testimoni della risurrezione. Verranno anche a noi momenti di paura, del resto sono venuti anche a Gesù, ma possiamo aiutarci tutti insieme, uniti al Santo Padre, uniti al Vescovo, con i nostri sacerdoti. Tutti insieme, la Chiesa di Gesù. Così sia.

Omelia nella Veglia pasquale

Pennabilli (RN), Cattedrale, 3 aprile 2021

Mc 16,1-7

Abbiamo trascorso la Settimana Santa scrutando il cuore di Gesù e i suoi sentimenti, un cuore umano e un cuore divino insieme, un cuore folle d’amore. Gli siamo stati vicini. È stato bello il Venerdì e il Sabato Santo riunirci anche la mattina per cantare le Lodi; è stato bello partecipare alla preghiera della Via Crucis. E poi quanti pensieri, quante giaculatorie, quante invocazioni, quanti atti d’amore, sempre più vicini alle sue ultime giornate terrene, dalla Domenica delle Palme alla Veglia pasquale. Ora siamo pronti a risorgere con lui, ad essere una cosa sola con lui.

Domenica abbiamo meditato la Passione Secondo Marco, l’evangelista che ci accompagna quest’anno. Marco ha raccolto una testimonianza di prim’ordine: era il segretario dell’apostolo Pietro, quindi ci dà informazioni di prima mano. È il primo degli evangelisti scrittori. Marco vuole accompagnare il lettore ad un coraggioso atto di fede: riconoscere nel Crocifisso il Figlio di Dio; non fa nulla per attenuare il nostro sconcerto di fronte alla crocifissione di Gesù, ci chiede di non fermarci ai miracoli, agli Osanna della folla, ma di avanzare con Gesù e poi, come ha fatto il soldato romano, pagano e straniero, davanti alla croce confessare: «Davvero quest’uomo era il Figlio di Dio».
Ci siamo soffermati sugli atteggiamenti umano-divini di Gesù nella sua Passione, rivelatori dei suoi sentimenti. Gesù continuava a soffrire: «Tutto è compiuto» (Gv 19,30); «ho sete» (Gv 19,28). Continuava a pregare: «Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito» (Lc 23,46); «Padre, perdonali, perché non sanno quello che fanno» (Lc 23,34); «Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato?» (Mc 15,34). E continuava ad amare: «Oggi sarai con me in paradiso» (Lc 23,43) e, alla sua mamma, ai piedi della croce, affidandola a Giovanni: «Donna, ecco tuo figlio», e a Giovanni: «Figlio, ecco tua madre» (Gv 19,26-27).

Giovedì Santo siamo andati più in profondità, considerando come Gesù sentiva forte le vicende del suo popolo, con un amore grande all’umanità permanentemente in lotta con la natura e con i propri simili, alle prese con il mistero di Dio. Gesù celebra la Pasqua, ma ha in cuore di valorizzare tutto quello che era la tradizione del suo popolo, il “passaggio” dalla primavera al tempo dei pascoli, la benedizione della transumanza. Il Signore Gesù non ha disdegnato di unirsi a questo culto antico. Poi ha fatto sue le Sacre Scritture che raccontano la vicenda del suo popolo, prima schiavo e implorante e poi finalmente liberato. Ho visto nella vicenda dell’esodo il dramma della più grande liberazione dal peccato. Ha così ristabilito la giustizia, rendendoci persuasi che la condizione umana, a causa del peccato, giace in una profonda ingiustizia. Gesù si fa il prezzo del nostro riscatto, non con oro e argento, non con il sangue di capri e di agnelli, ma con il suo sangue: Dio che per salvare lo schiavo “gioca” suo figlio… Gesù, poi, prende dal linguaggio rituale del suo popolo la parola “sacrificio”. Il culto gradito a Dio viene celebrato nel dono di sé: è lui l’Agnello pasquale! Il culto antico era la celebrazione della trascendenza di Dio, il che è pure vero, ma la trascendenza è anche lontananza. Il culto di Gesù, con l’offerta della sua vita, mostra invece la condiscendenza di Dio. Il culto antico procedeva per successivi divisioni e distacchi: il popolo, la tribù, la famiglia del sommo sacerdote, il sommo sacerdote, la vittima sacrificale, una nuvoletta di fumo… Il culto nuovo di Gesù procede in modo opposto, per successivi “abbracci” fino alla realtà più profonda dell’uomo, discesa nel dolore, nel dolore innocente, nel peccato dell’uomo, nella morte: un supremo farsi uno. Non un Dio lontano, ma un Dio vicinissimo. Nella Santa Cena, quell’ultima sera di Gesù con i discepoli, anticipa e concentra in modo sacramentale tutto questo grande mistero di amore: «Prendete, mangiate… Prendete, bevete…» (cfr. Mt 26,26-27). Siamo stati invitati alla Cena dell’Agnello, a mangiare la Pasqua con lui. Noi facciamo la Comunione, ma siamo in Comunione con il Signore? Il Battesimo ci ha resi una cosa sola con Gesù; col Battesimo siamo con lui membra della redenzione. Il mistero che si compie in Gesù si compie in ogni discepolo, in ogni battezzato che vive la vita battesimale. Non dobbiamo avere paura: Gesù ci ha parlato della logica del chicco di grano che, se non muore nella terra, rimane solo, ma se accetta di morire porta frutto (cfr. Gv 12,24). Nella predicazione a volte si usano queste parole in modo eccessivamente disinvolto, ma in rilievo non viene tanto il morire – saremmo i più sventurati di tutti se finisse così – ma il frutto: la vita, la vita piena. Il rischio dell’esodo significa liberazione, il sangue dell’agnello significa sacrificio gradito a Dio. È l’amore che dà al patire un valore redentivo. L’amore è la forza motrice della redenzione.
Da studente avevo concluso la tesi affermando che la più alta meditazione era quella del teologo, ma il professore replicò: in verità la più alta meditazione è quella del mistico! Allora cedo la parola alla Beata Angela da Foligno. Gesù le disse: «Guarda se in me vedi altro che amore», oppure a Caterina da Siena a cui disse: «Non i chiodi mi tengono fisso al legno della croce, ma il mio amore per te».
Ecco, i sentimenti di Gesù. Diciamo: «Signore, vogliamo essere uniti a te e fare della nostra vita un sacrificio: un dono, “nella tua messa, la nostra messa”». Spalanchiamo gli occhi, vediamo tanta sofferenza, tanto peccato: vogliamo con te essere membra della redenzione». Ci sono esodi di popoli interi in questo momento. Ci sono popoli che non mangiano e non hanno neppure la manna, se non le briciole di carità che ogni tanto mandiamo loro. Ci sono le preoccupazioni per questa pandemia. C’è il nostro quotidiano travaglio. «Signore, siamo una cosa sola con te. Ti diciamo il nostro “sì” perché vogliamo il bene dell’umanità, vogliamo la redenzione di tutti e la nostra per essere sempre con te». Così sia.

Omelia nella Liturgia della Passione del Signore

Pennabilli (RN), Cattedrale, 2 aprile 2021

Is 52,13- 53,12
Sal 30
Eb 4,14-16; 5,7-9
Gv 18,1- 19,42

«Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù» (Fil 2,5).
Gesù non ha staccato per un istante il suo cuore da noi: nel suo cuore tutto è amore. Insieme all’amore ci sono anche i sentimenti di timore e di angoscia. Non si possono togliere dal Vangelo i momenti di turbamento del Signore. Gesù è veramente uomo e ha provato quello che può sentire un condannato a morte per crocifissione. Proviamo ad andare in profondità al sentimento dominante che è l’amore.
Gesù stesso, quando ha anticipato l’annuncio della sua passione, morte e risurrezione, ha interpretato il suo morire come sacrificio di redenzione e riscatto. I discepoli, i primissimi che l’hanno seguito e hanno assistito al suo supplizio, sono ricorsi ad alcuni modelli linguistici per esprimere quel mistero. Il primo “modello linguistico-teologico” per parlare di questo amore che si dona totalmente fu il termine “redenzione”. Redimere significa comprare, sborsare un certo prezzo per riscattare uno schiavo. Qui Gesù non sborsa un prezzo al Padre, altrimenti sembrerebbe un padre molto cattivo. In quel Gesù che si offre sulla croce è presente e coinvolta tutta la Trinità. “Redenzione” sta a significare il prezzo, smisurato del nostro peccato. Chi poteva pagarlo? Anche il più grande degli uomini, il più santo, non avrebbe potuto. «Ecco, Signore, io vengo – dice Gesù secondo l’autore della Lettera agli Ebrei – per compiere ciò che è scritto nel libro» (Ebr 10,7). Gesù paga, per così dire, un prezzo altissimo per riscattarci, perché siamo figli, figli come lui è figlio. Prende Gesù lo schiaffo, si mette davanti a noi, che siamo suoi fratelli; prende il nostro posto. Nella Prima Lettura si parlava dell’innocente che si carica tutto il peso ed espia il nostro male fino al punto da farsi peccato. In Gesù, nel momento della passione e della croce, viene concentrato e stipato tutto il male del mondo. Lui lo porta.

C’è un’altra parola che ci aiuta a capire la portata di questo amore: è la parola “sacrificio” (modello sacrificale): Gesù è quell’agnello di cui ci parlava ieri sera la Scrittura, l’agnello dell’esodo. Il suo sangue ci salva e redime. La crocifissione è la celebrazione della grande Eucaristia, dove Gesù è ad un tempo la vittima, il sacerdote, l’altare. In che modo Gesù è sacerdote? In che modo quella crocifissione è una liturgia sacrificale? Nell’antica legge il popolo ebraico si considerava un popolo interamente sacerdotale, perché separato da tutti gli altri popoli: un popolo unico sulla faccia della terra, dedicato alla gloria di Dio. Dio lo aveva scelto: c’erano leggi molto severe per proteggere questa identità. Di mezzo a questo popolo, era stata scelta una tribù, la tribù di Levi, incaricata del culto a Dio. In mezzo a questa tribù, che non aveva un territorio proprio ma era sfusa in mezzo alle altre tribù, veniva scelta la famiglia sacerdotale, una famiglia, e da questa famiglia veniva scelto un solo sacerdote, sommo sacerdote, per celebrare il sacrificio nel Santuario. Il sommo sacerdote prendeva un agnello, una vittima da immolare. Questa vittima doveva essere consumata fra oli ed incensi, non poteva arrivare a Dio. Saliva dall’altare una nube odorosa, profumata, e null’altro. Tutto il culto era finalizzato a far percepire la trascendenza e l’irraggiungibilità di Dio. Il culto espresso in questa forma, per successivi distacchi, stava anche a dire che quel culto era di tipo formale ed estrinseco.

Che cosa accade con Gesù? Esattamente il contrario. Questa cosa può nutrire la nostra preghiera, la nostra contemplazione e ci fa capire il tesoro della liturgia cristiana. Ecco, il mistero dell’incarnazione: un Dio trascendente che si fa prossimità, si incarna nel grembo di Maria, diventa uno di noi, assume la nostra condizione umana, vive le nostre giornate, fatica come fatichiamo noi, ha mani callose, suda, piange, vive la dimensione umana in pienezza. Per successivi “abbracci” si fa sempre più uno con noi. Comincia la vita pubblica, poi avvengono la cattura, il processo, la crocifissione, il dolore, il dolore innocente, ed entra nell’oscurità della morte. Tutto questo per una condiscendenza sempre più profonda. Ecco il culto gradito a Dio, il sacerdozio di Gesù, il “sì” di Gesù alla volontà del Padre ed il suo farsi carico di ogni dolore. Gesù è la vittima, il sacerdote, l’altare, perché offre se stesso.

A noi che siamo testimoni di queste cose viene detto di partecipare a questo mistero di redenzione, di morire con Gesù per risorgere con Gesù. A nostra volta possiamo effondere lo Spirito. Bisogna capire il nesso fra amore e dolore. Ai piedi della croce ci sono Maria e Giovanni che sono testimoni di quando il centurione romano squarcia il petto di Gesù ed esce l’ultimo zampillo di sangue e di acqua. Giustamente la nuova traduzione non dice: «E Gesù spirò», ma: «E Gesù effuse lo Spirito». Da quell’umanità carica di amore esce il dono dello Spirito. Quando il cristiano soffre unito a Gesù effonde la potenza dello Spirito, diventa una piccola sorgente dalla grande Sorgente. Quando un discepolo di Gesù ama, perde la sua vita per farne dono. Ora capisco quello che dice l’evangelista Giovanni nella sua Prima Lettera, quando ci invita a fare la Pasqua, cioè a fare il passaggio: «Passiamo da morte a vita quando amiamo i fratelli» (cfr. 1Gv 3,14). Buona Pasqua!

Omelia nella Messa in Coena Domini

Pennabilli (RN), Cattedrale, 1° aprile 2021

Es 12,1-8.11-14
Sal 115
1Cor 11,23-26
Gv 13,1-15

«Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù» (Fil 2,5): è l’invito di Paolo che ci accompagna in questa Settimana Santa. Consideriamo anzitutto i sentimenti del cuore umano di Gesù: un cuore di carne. Ci sono sentimenti di amicizia, voglia di intimità, ma anche un velo di angoscia per quello che sta per succedere e per il tradimento. Il Vangelo sottolinea l’ardente desiderio di Gesù di mangiare la Pasqua con i suoi discepoli (cfr. Lc 22,15). Per capire questo desiderio dobbiamo metterci dal punto di vista di Dio. Egli vede quel fiume di vita che lui ha pensato, amato, creato, trasformarsi in un fiume di “liquami” e di peccato: violenze, seduzioni, prepotenze, ingratitudini e inganni… Dio potrebbe stare sull’argine del fiume – non sarebbe cambiato niente per lui –, ma sceglie di tuffarsi dentro nel suo Verbo: è il mistero dell’incarnazione. Gesù, in questa sera, si sente parte dell’umanità; è a causa dell’umanità peccatrice che si incarna.

Vado ad alcuni concetti che di solito non vengono trattati nella predicazione. Gesù desidera ardentemente mangiare la Pasqua, perché si sente solidale con l’umanità, con i riti dei patriarchi. Viene da un popolo che ha una storia antica: un popolo che praticava la pastorizia e successivamente conosce la vita sedentaria nei villaggi e nelle campagne. E’ un popolo che, con tante sofferenze, affronta la sfida che la natura ogni giorno gli prepara e gode per l’arrivo della primavera: il passaggio (la parola “Pasqua” nella lingua ebraica significa “passaggio”). Un passaggio nella natura, dunque, che accade di per sé. Quel popolo, quelle genti, vogliono vivere questo passaggio in sintonia con il Creatore. Per questo, prima di lasciare gli ovili per intraprendere la transumanza, immolano gli agnelli: per lodare il Signore, per dirgli: «quello che abbiamo viene da te»; per propiziazione: «Signore, fa’ che questa transumanza, questo tempo di pascolo, fino al prossimo inverno sia per noi vantaggioso, aiutaci tu che puoi tutto»; per celebrare la presenza del Signore nella loro vita. Le tribù nomadi immolano l’agnello, le tribù sedentarie lavorano un pane nuovo, senza lievito, perché comincia un anno nuovo. Questo è “il passaggio”, la Pasqua, legata al tempo e alla natura. Gesù è dentro al suo popolo, per questo ha il ricordo di queste celebrazioni.

La Pasqua che Gesù mangia con i suoi discepoli nell’Ultima Cena – già la parola “ultima” suggerisce un’allusione ai sentimenti del Signore – è quella che Mosè ha chiesto di rinnovare ogni anno in ricordo della liberazione dalla schiavitù. L’ebreo Gesù sente sulle sue spalle tutto il peso della storia del suo popolo. Vi partecipa con tutto se stesso. Nel seder pasquale (nel rito pasquale) rivive la notte dell’esodo. Anche Gesù, come ogni pio israelita, fa la cena di Pasqua, con le erbe amare che ricordano la schiavitù, con i frutti della terra, segno della promessa, e l’agnello che ricorda l’agnello che fu immolato quella notte. Con il sangue dell’agnello fu segnato lo stipite della casa di ogni famiglia ebrea. Il rito pasquale celebra Dio che non sta “sopra”, ma “in mezzo” e “davanti” al suo popolo. Il pane azzimo, senza lievito, acquista un nuovo significato: non è più festeggiare un nuovo ciclo della natura, ma la notte dell’esodo in cui non c’era tempo a disposizione per aspettare che il pane lievitasse prima di mettersi in cammino. Quando Gesù celebra la cena fa memoria di tutto questo. Ecco l’ardente desiderio. Vi partecipa secondo la ritualità e le formalità di ogni famiglia ebraica. In quel momento – ancora oggi gli ebrei celebrano la Pasqua così –, come ogni capofamiglia, Gesù prende la prima coppa di vino e intona la berachà, cioè la lode, la benedizione. La prima coppa ricorda la prima notte, la notte della creazione; in questa berachà si dicono parole di gratitudine. Poi, si fa passare il piatto rituale: da una parte le erbe amare, dall’altra i frutti della terra. La seconda coppa ricorda la notte di Abramo, quando immolò suo figlio Isacco: la mano dell’angelo lo fermò, ma l’atteggiamento del cuore di Abramo era quello della fede totale: un “sì” a quello che il Signore chiedeva. E già vedeva le stelle del cielo, che non si potevano contare tante erano…
Nella cena si mangia l’agnello, servito e diviso tra i commensali, fra canti di gioia. Si pensa a quel viaggio, a quel passaggio dalla schiavitù dell’Egitto alla terra promessa, oltrepassando il mar Rosso. A questo punto Gesù prende la terza coppa che ricorda la notte dell’esodo e pronuncia la benedizione: «Signore ci hai liberato, cammini davanti a noi…». Gesù prende l’ultima azzima, l’ultimo pane, quello che concludeva la cena e che il capofamiglia spezzava.
Nel grande silenzio che regnava a questo punto, dopo il clima di festa, di gioia, di canti, dà ad ognuno un pezzo di quel pane. È lì che Gesù rompe il silenzio e pronuncia con emozione le parole: «Questo è il mio corpo dato per voi». Infine, prende l’ultima coppa – quella che ancora oggi gli ebrei chiamano “la coppa di Elia”, che esprime l’attesa del Messia – la benedice e pronuncia le parole: «Questo è il mio sangue versato per voi, per la nuova alleanza». Qui avviene la nuova Pasqua: il suo corpo dato per noi, il suo sangue sparso per noi. C’è uno – è Gesù – che dona la sua vita in sacrificio. Avviene il passaggio “mistico” di Gesù, la Pasqua sacramentale, dalla morte alla vita, perché si entra nella vita vera, la vita di Dio, solo morendo al peccato.
In sintesi: attraverso la Pasqua antica, Dio educa pian piano il suo popolo alla speranza di un mondo sempre nuovo. Poi, l’evento storico-salvifico, la liberazione dalla schiavitù dell’Egitto, in cui Dio si è impegnato a guidare cammini di liberazione. Infine, Gesù celebra la grande Pasqua di redenzione col dono della sua vita per la vita del mondo (cfr. Gv 6,51). Questi erano, quella sera, i sentimenti di Gesù.