Saluto al parroco don Marco Scandelli e al collaboratore don Stefano Mirt nella XXXII domenica del Tempo Ordinario

Borgo Maggiore (RSM), Santuario Madonna della Consolazione, 7 novembre 2021

Mc 12,38-44

Carissimi tutti,
vi saluto mentre vi preparate a vivere un’esperienza particolare: il trasferimento dei vostri sacerdoti.
Rivolgo un saluto colmo di gratitudine a don Marco e a don Stefano.
Il cambio del pastore – il sacerdote – fa pensare a colui che è il Buon Pastore, il Signore Gesù. Noi passiamo, lui resta.
Tuttavia, la vostra partecipazione dimostra quanto sia importante la figura del prete. Una consapevolezza condivisa anche da chi non è praticante o è di altra convinzione. Per i credenti il sacerdote è soprattutto colui che presiede la Divina Eucaristia. A lui il Cielo obbedisce, il Signore Gesù nelle sue mani si dona, getta la sua vita, si fa presenza con la sostanza del suo corpo, sangue, anima e divinità. Attraverso l’assoluzione sacramentale il sacerdote dà il perdono di Dio. Da questo punto di vista il prete è la persona più ricca che ci sia: per l’imposizione delle mani (cioè per il sacramento dell’Ordine), per la grazia sacramentale, ha il potere stesso di Gesù. Capisco quanto diceva Francesco d’Assisi ai suoi frati: «Se incontrate per strada un arcangelo e un prete poverello, salutate prima il prete poverello» (cfr. FF 176; 790). Nel contempo il sacerdote è la persona più povera che ci sia, perché non dice parole sue, non ha poteri suoi, ma semplicemente mette a disposizione del Signore le sue mani, i suoi piedi, il suo cuore, la sua intelligenza per essere una sua presenza. Rimane intatta la sua umanità, con le sue caratteristiche, i suoi pregi e i suoi difetti. «Preso fra gli uomini (della loro stessa natura), è costituito a favore degli uomini per le cose che riguardano Dio» (cfr. Eb 5,1). Da un buon gregge vengono buoni pastori! (cfr. Sant’Agostino D 46,29). Questo ci responsabilizza.
Ogni cambiamento segna sempre un punto critico, di sofferenza e di distacco, ma può diventare motivo di crescita per tutti.
Nella mia vita ho cambiato otto volte il servizio pastorale; non dico che il sacerdote soffre più degli altri, se faccio il paragone con i miei fratelli (nella mia famiglia) devo riconoscere che hanno sofferto e soffrono molto più loro di me. In otto cambiamenti ho trovato ogni volta una casa migliore dell’altra… Il Signore mi ha chiamato al sacro celibato, ho rinunciato ad avere una famiglia mia; ma quanti affetti, quante amicizie… Lo dico per incoraggiare chi eventualmente è chiamato. Davvero il Signore dà il centuplo, insieme a qualche persecuzione e a qualche distacco (cfr. Mt 19,29).
Quest’anno siamo stati accompagnati nella liturgia domenicale dall’evangelista Marco. Questa è la domenica in cui Marco chiude la sezione narrativa del suo Vangelo. Poi, domenica prossima, ci riferirà il discorso di Gesù sulla fine. Chissà quanti altri episodi, quante altre parabole e parole di Gesù l’evangelista Marco avrebbe avuto a disposizione. Ma, per congedarsi da noi, suoi lettori, sceglie tra i ricordi l’invito commosso di Gesù a guardare la vedova povera (cfr. Mc 12,38-48). Gesù invita i discepoli, e Marco invita noi, a fare come la vedova povera, che dà tutto, tutto quello che ha per vivere. Ci raccomanda questa anonima del Vangelo come modello del vero discepolo, pieno di fiducia nel Padre, al quale dà tutto senza riserve (è poco quello che dà, ma è tutto per lui!): «due spiccioli che fanno un soldo», che sono l’amore a Dio e l’amore al prossimo, un unico amore.
Gesù è davvero commosso, perché vede nella vedova povera quello che sta per vivere nella Passione. Ben sette volte, in una pericope così breve, adopera il verbo gettare (il verbo greco è molto più ricco di quello italiano): gettare è un’allusione molto chiara alla scelta di Gesù di offrire la sua vita. Il verbo “gettare” non è disprezzo della vita, ma decisione risoluta di dare tutto senza nulla trattenere per sé.
Diciamo grazie all’evangelista Marco che ci ha accompagnato lungo questo anno. Marco è l’evangelista del catecumeno, che prende per mano e al quale fa vedere l’umanità di Gesù con molti particolari per farlo riconoscere come Figlio di Dio. Nell’iconografia Marco viene raffigurato con un leone. Nel prossimo anno liturgico – ormai imminente – saremo accompagnati da un altro evangelista, Luca, raffigurato dall’iconografia come un bue. Se il Vangelo di Marco è il Vangelo del catecumeno, con l’insegnamento e l’accompagnamento, l’evangelista Luca – come scriveva Dante Alighieri – è lo scriba mansuetudinis Christi, cioè colui che ci rivela e ci manifesta la tenerezza e la misericordia di Gesù. Vi auguro un buon anno liturgico. Sia lodato Gesù Cristo.

Omelia nella S.Messa in suffragio dei Vescovi e dei Sacerdoti defunti

Pennabilli (RN), Cattedrale, 5 novembre 2021

2Tm 2,8-13 p. 855
Sal 24 p. 856
Gv 17,24-26 p. 892

Anzitutto grazie perché avete voluto dedicare quest’ora alla preghiera per i vescovi e i sacerdoti defunti, che hanno servito la nostra Chiesa e ci hanno assicurato la trasmissione della fede. Noi sacerdoti contiamo molto sulla solidarietà dei figli spirituali.
Nel raccoglierci questa sera a pregare per i vescovi, i canonici e i sacerdoti defunti della nostra Chiesa di San Marino-Montefeltro sono impressionato dalle parole che san Paolo scrive a Timoteo. Anzitutto belle le parole del saluto iniziale che abbiamo omesso e sono presupposte. Un saluto che torna in tantissime lettere di Paolo e gira attorno a tre parole: grazia, pace, misericordia (cfr. 2Tm 1,2). Si direbbe che l’Apostolo pensi quanto un sacerdote abbia più bisogno di altri dell’indulgenza, della misericordia e del perdono di Dio. Noi sacerdoti, noi vescovi, abbiamo ancora più bisogno di altri dell’indulgenza, della misericordia e del perdono di Dio. Penso che i miei sacerdoti siano persuasi, come me, della pertinenza della mia affermazione. Siamo uomini che possono sbagliare e peccare; siamo uomini circondati di infermità, come scrive l’autore della Lettera agli Ebrei (cfr. Eb 5,2), dell’infermità degli altri e la nostra, che ci viene da dentro; siamo uomini che devono offrire sacrifici per sé e per le proprie colpe (cfr. Eb 7,27). Siamo, però, uomini scelti da Dio e rivestiti del Sacro Ministero col Sacramento dell’Ordine, favoriti di particolari grazie e straordinari poteri; uomini in obbligo di cantare sempre, aiutati dalla fede, la gratitudine a Dio per i suoi doni; ma proprio per tutto questo siamo più responsabili di errori, mancanze, debolezze e possiamo incorrere in più severi giudizi del Signore (cfr. Sap 6,7). A chi è stato dato molto – diceva Gesù – verrà chiesto molto (cfr. Lc 12,48). Vescovi e sacerdoti defunti hanno, pertanto, necessità di ampi suffragi e preghiere (se non li ricordiamo in questa circostanza, chi si ricorderebbe di loro?). Possono essere stati sviati, nella vita presente, e abbagliati dal loro ruolo; possono aver concepito il loro ufficio non come un servizio, ma come un’occasione di potere (cfr. Mc 10,42-45); possono essere stati tentati e illusi dalla coreografia della loro autorità, dei loro titoli, dal desiderio e dal compiacimento di una effimera e vana gloria; possono essersi lasciati ingannare come mercenari (cfr. Gv 10,9ss) dall’attrattiva dell’interesse, dal guadagno del denaro (cfr. 1Pt 5,2-3); possono non avere imitato, fortiter et suaviter (cfr. Sap 8,1), come sarebbe stato doveroso, il modello del Buon Pastore (cfr. Gv 10); possono non aver saputo leggere i segni dei tempi, non adeguando la pastorale alle loro comunità; possono aver trascurato lo slancio missionario, accontentandosi dell’abitudinario e della routine pastorale; possono aver commesso omissioni che hanno scandalizzato i fedeli; possono aver ceduto umanamente, per debolezza, alle lusinghe del male; possono non aver atteso, da subito, alla correzione e alla modifica del loro temperamento, trascurando via via la loro formazione fino a non saper mostrare un’umanità vera, invitante, attraente, bella. Era bella l’umanità di Gesù! Quante incongruenze. Quante mancanze. Quante fragilità. Signore, abbi pietà!
Tuttavia, mi piace applicare ad ogni vescovo e ad ogni sacerdote le parole che san Paolo rivolge a Timoteo. Lo chiama: «figlio mio». Timoteo era, per così dire, l’Ausiliare di Paolo. L’ha fortemente voluto accanto a sé. Paolo conosceva di Timoteo molti particolari, sapeva il nome della nonna, il nome della mamma e tante altre notizie…
Paolo, in questa sua Lettera, gli dedica qualche frammento di un inno battesimale sul Cristo Risorto in cui viene ricordata l’origine davidica di Gesù. Al di là dei limiti, delle catene della mediocrità e del peccato – anche un vescovo e un sacerdote possono sentirne il peso – la Parola di Dio che vescovi e sacerdoti proclamano non è incatenata. Noi siamo incatenati, ma la Parola no! A Timoteo, Paolo scrive: «Se moriamo con lui (con Gesù Figlio di Davide), con lui anche vivremo; se perseveriamo, con lui anche regneremo; se lo rinneghiamo, lui pure ci rinnegherà; se siamo infedeli, lui rimane fedele, perché non può rinnegare se stesso». Gesù e il suo Vangelo sono più grandi delle nostre incongruenze.
C’è nella Lettera anche un messaggio per noi che ora lavoriamo nella vigna del Signore. Chi vive ciò che medita e medita sul mistero di Cristo Gesù, rispecchia poco a poco nella sua vita Gesù: «Se leggi il Vangelo e lo vivi ti trasforma in un altro Gesù». Timoteo – e ognuno di noi può vedersi in lui – dovrà essere un “memoriale vivo”, cioè un ricordo vivente della Risurrezione del Signore. Quanti lo vedranno vivere e agire capiranno che Gesù Risorto trasforma l’esistenza del cristiano, del vescovo, del sacerdote e la colma di luce, di pace e di gioia. Così tutti possiamo raggiungere la salvezza che il Signore ci offre. L’esortazione di Paolo non potrebbe proporre a noi – vescovo, presbiteri, diaconi e fedeli – un programma più affascinante.
Concludo con la preghiera audace di Gesù al termine dell’Ultima Cena: «Alzati gli occhi al cielo, Gesù pregò dicendo: “Padre, voglio che quelli che mi hai dato siano anch’essi con me dove sono io”» (Gv 17,24). Sono rincuorato da questo imperativo. Ci insegna ad essere, a nostra volta, audaci nella preghiera. Pieni di fede e di speranza. Così sia.

Omelia nella Festa di Tutti i Santi

Pennabilli (RN), Cattedrale, 1° novembre 2021

Ap 7,2-4.9-14
Sal 23
1Gv 3,1-3
Mt 5,1-12

  1. Tutti chiamati alla santità

Domenica 26 ottobre si è celebrata la beatificazione di una giovane ragazza di Rimini: Sandra Sabattini. Qualcuno di voi probabilmente l’ha conosciuta e incontrata.
Vorrei darvi testimonianza di quello che ho vissuto partecipando alla celebrazione. Siamo in sagrestia e cominciano ad arrivare le autorità a fare omaggio al cardinale Marcello Semeraro, delegato del Papa: il prefetto, il sindaco, il questore e tanti miei confratelli: l’arcivescovo di Pesaro, il vescovo di Urbino, il vescovo di Forlì, ecc. Appena usciti dalla sagrestia ci rendiamo conto che c’è una folla immensa. Si passa nel cortile di fianco alla Cattedrale, si arriva nella piazza piena di gente e mi viene spontaneo dire al vescovo di Rimini, mons. Francesco Lambiasi (siamo molto amici): «Guarda, qui c’è una ragazzina che ci sta mettendo tutti in fila!». Così siamo entrati in Cattedrale. Ho pensato: «Questa è la rivincita dei giovani!». Rimini ha tanti santi e beati giovani del nostro tempo, oltre a Sandra: Alberto Marvelli, Carla Ronci… Siamo tutti chiamati alla santità. La santità è una necessità per il cristiano.

  1. Santità: opera della grazia

Il Vescovo di Rimini legge la richiesta formale a papa Francesco perché «Sandra sia scritta nel numero dei beati». Ad accogliere la richiesta è il cardinale Marcello Semeraro, rappresentante del Papa come prefetto della Congregazione per la Cause dei Santi. Intanto che il cardinale pronuncia in latino la formula di beatificazione, allargo lo sguardo sulla folla presente in Cattedrale e mi commuovo: «Chissà quante Sandre sono qui tra noi». L’eroismo nel quotidiano. Ma è meglio non chiamare la santità eroismo, perché potrebbe mettere soggezione a tanti di noi: è un frutto della grazia!

In questi giorni sono molto preso dal Programma pastorale: voglio viverlo io per primo, non si tratta di un’organizzazione. Penso alla relazione tra il Padre e il Figlio. L’amore del Padre è infinito, eterno dono, che addirittura “non è”, perché tutto fuori di sé. Il Figlio è suprema accoglienza dall’eternità, da sempre. È grande amare, ma è altrettanto grande lasciarsi amare. In questa relazione d’amore c’è l’effusione dello Spirito, la terza Divina Persona. È emozionante pensare che ci è stato dato lo Spirito Santo, che cioè siamo collocati dentro a questo circuito di luce, di vita, di amore. Dunque, la santità è opera della grazia.

Mi piace sfogliare il diario di Sandra. La prima battuta è: «Sono piena di niente». Ed è per essere piena di Tutto.

  1. Ritmo, regola, rito

Intanto il postulatore legge una sintesi della biografia di Sandra; è breve, perché la vita di Sandra è stata breve – Sandra è morta in un incidente stradale all’età di 22 anni –, ma si capisce che è stata intensissima e normale: studio, sport, canto, amicizie, Associazione Papa Giovanni XXIII, preghiera e silenzio davanti all’Eucaristia, fidanzato, università, servizio… La volontà di Dio sempre, subito, con gioia. Le tre erre: ritmo, regola, rito! Il programma che possiamo fare nostro.

  1. Vita piena e possibile

Ci viene regalata una biografia di Sandra. Guardo le foto. La più bella in assoluto è quella scattatagli dal fidanzato in un momento di gioia: è la foto scelta per lo stendardo (il manifesto ufficiale) e per la stola data a noi sacerdoti. Vi si coglie bellezza, sorriso, luce negli occhi, persino movimento. C’è anche la foto di Sandra al mare in costume. Ci sono le foto da bambina che gioca con un Pinocchio di legno; da ragazzina sul podio dopo una gara sportiva (corsa di velocità); da universitaria, quando trova il tempo di aiutare un’amica disabile, e tante altre… Testimonianze di una vita intensa, animata da grandi e sostenibili, perchè possibili, ideali.

  1. Un unico amore

Un’altra foto mi colpisce in modo particolare: Sandra col suo kway in piazza con un pacco di giornali sul braccio da distribuire. Si intravvede il titolo di prima pagina: “Handicappati e lavoro” (si diceva così negli anni ‘70), segno della sua dedizione agli altri, ai meno fortunati, testimonianza dell’unico precetto che racchiude insieme amore a Dio e amore al prossimo. Alla scuola di don Oreste Benzi: carità che non si ferma all’elemosina, ma che diventa ascolto, apertura al sociale, impegno. A dieci anni aveva chiesto al Signore: «Ti prego, fa’ che io possa aiutare persone più bisognose di me» (Diario 15.1.1975).

  1. Il segreto

Anche di altri santi “moderni” esistono raccolte di fotografie (celebre la raccolta di santa Teresa di Lisieux, la prima ad avere un servizio fotografico suo, anche lei disinvolta, c’è persino una foto in cui partecipa ad una recita vestita da santa Giovanna d’Arco…). Le foto di Sandra descrivono una santità possibile, attraente, espressione del nostro tempo, bella! La santità è qualcosa di desiderabile: bellezza, gioia, pienezza di vita.
Sono tornato da Rimini commosso e pieno di desideri di santità. Forse solo suggestione? Detto così sembra facile, ma bisogna andare oltre alle fotografie, oltre alle cerimonie per vedere il segreto della santità. Qual è il segreto della santità di Sandra? Le foto colgono un attimo (un fotogramma), ma che cosa c’è sotto?
Consiglio di leggere il diario di Sandra per coglierne il segreto. Ecco qualche riga.
«Potremmo dire – scrive il 20 febbraio 1983 – che siamo ciò che preghiamo (per dire che la preghiera non è essere fuori dalla realtà). Mi sento come colui al quale, stolto, vengono date delle perle. La vita è un continuo morire giorno dopo giorno, ma è anche un continuo rinascere alla vita vera. Siamo intransigenti sul dovere di amare, non cediamo, non veniamo a compromessi, ridiamo di coloro che ci parleranno di prudenza, di convenienza, di giusto equilibrio e soprattutto crediamo nella bontà dell’uomo, perché nel cuore di ciascuno ci sono tesori d’amore. La più grande disgrazia che ci possa capitare è di non essere utili a nessuno e che la nostra vita non serva a niente. Vivere è saper amare».
Queste le ultime righe del diario, scritte due giorni prima di morire: «Non è mia questa vita che sta evolvendosi ritmata da un regolare respiro che non è mio, allietata da una serena giornata che non è mia; non c’è nulla a questo mondo che sia tuo. Sandra, renditene conto. È tutto un dono su cui il donatore può intervenire quando e come vuole. Abbi cura del regalo fattoti, rendilo più bello e pieno per quando sarà ora».
Sia lodato Gesù Cristo.

Omelia nella XXXI domenica del Tempo Ordinario

Maiolo (RN), 31 ottobre 2021

Dt 6,2-6
Sal 17
Eb 7,23-28
Mc 12,28-34

Ancora una volta un trabocchetto a Gesù: «Maestro, qual è il comandamento più grande?». Sembrerebbe una domanda innocua… Ma il trabocchetto è questo. All’epoca c’erano due scuole rabbiniche con posizioni diverse tra loro. I precetti sono 613. Una scuola dice: «Il precetto più leggero ti sia caro come il precetto più pesante», come dire: «Vivili tutti», non si dà parvità di materia. Un’altra scuola, invece, si arrovella per stabilire una sorta di hit-parade su quale sia il comandamento più grande, glissando sui comandamenti più leggeri. Il rabbi che fa la domanda vuole che Gesù si schieri, dichiari da che parte sta. Ma Gesù sorprende perché va ben oltre, va in profondità. Se vuoi capire i comandamenti non cavarli fuori dal contesto nel quale il Signore li ha consegnati. Come abbiamo ascoltato nella Prima Lettura, furono consegnati a Mosè dopo la grande esperienza dell’esodo: la liberazione dalla schiavitù. Un popolo intero prende la via del deserto e, giunto al monte Sinai, riceve da Dio stesso le “dieci parole”, quelle che noi chiamiamo “i dieci comandamenti”. Con le “dieci parole” il Signore fa alleanza, stringe un patto di amicizia col suo popolo e con noi. Dando le “dieci parole” Dio ha detto: «Adesso siete un popolo libero. Vi do la legge, ma non come un giogo che si mette sulla schiena agli animali. Vi do “dieci parole” con le quali potete rispondermi. Io vi ho fatto un atto di amicizia, di liberazione; adesso voi potete confermare che anche voi mi siete amici». Il contesto ci porta a collocare le “dieci parole” nella interpersonalità, cioè nel rapporto. Da qui il significato dei due verbi che seguono: “Ascolta” e “ama”, cioè entra dentro a questa relazione. Basta amare! Ma è difficile, è una parola che è andata un po’ sbiadendo nel tempo. Gesù dice che ami veramente se ami con tutto te stesso, cioè nella totalità. Gesù parla di cuore, mente, anima e forza. Sottolineo l’aggettivo dimostrativo: tutto il cuore, tutta la mente, tutta l’anima, tutta la forza. Gesù non fa calare la tensione morale semplificando, tutt’altro! Radicalizza. L’originalità sta nel fatto che il Signore congiunge i due comandamenti: amare Dio e amare il prossimo. I due amori non sono in antitesi: sono un unico amore. Ascolto mio marito che torna dal lavoro o dico il Rosario? Se dai ascolto a tuo marito e gli prepari una buona cena, hai sicuramente osservato il comandamento dell’amore. Mi dedico al lavoro che non posso rimandare oppure vado in chiesa? La domanda che ci rivolge Gesù è: «Stai amando?». Se dici il Rosario senza amore, oppure se fai quel lavoro senza amore, non serve a niente. Sant’Agostino ha una frase lapidaria: «Ama e fa’ ciò che vuoi». Questa frase va letta nel contesto. Scriveva infatti: «Devo prendere la parola o devo tacere? Devo alzarmi o devo star seduto? Ama e fa’ ciò che vuoi: a guidarti nella scelta sia l’amore».
Mi ha colpito la catechesi di papa Francesco di mercoledì scorso (27 ottobre 2021, ndr). Sta commentando la Lettera ai Galati. «A volte chi si accosta alla Chiesa ha come l’impressione di trovarsi davanti ad una fitta mole di comandi e di precetti». «Ma questa non è Chiesa – continua – non si gode la bellezza della fede in Gesù Cristo partendo da troppi precetti, troppi comandamenti. È una visione morale che, sviluppandosi in molti rivoli, può far dimenticare l’originaria fecondità dell’amore, nutrito di preghiera che dona pace e gioia». Ami veramente? Fai quella cosa per amore? Fai tutto per amore.
Ora permettetemi di dire qualche parola su san Pio V, la cui reliquia abbiamo deposto nell’altare. Pio V è un piemontese, nato nel 1504 (erano trascorsi appena dodici anni dalla scoperta dell’America). In famiglia non si erano accorti che quel ragazzo che andava a lavorare in campagna aveva grandi talenti. Ma c’è chi se n’è accorto. A quattordici anni Michele Ghislieri – questo il suo nome prima di essere papa – comincia le scuole e in dieci anni completa tutti gli studi, compresa l’università. L’hanno mandato a scuola dai domenicani, che nella Chiesa, all’epoca, sono la famiglia religiosa più impegnata nella cultura. Il nostro beato Domenico Spadafora era un domenicano ed era contemporaneo di Michele. Domenico Spadafora viene a fare il missionario nei territori della Val Foglia e della Val Conca, a Monte Cerignone, Michele diventa insegnante di teologia, gode la fama di grande teologo e di austerità. Viene chiamato a Roma per lavorare a quello che allora si chiamava il Sant’Uffizio (la Congregazione per la Dottrina della Fede). Era un periodo difficile per due motivi: nella Chiesa serpeggiava l’eresia; la prima preoccupazione, pertanto, era l’integrità della fede. Il secondo problema era l’ignoranza religiosa. Ho letto il resoconto delle visite pastorali del vescovo di Ferrara all’epoca (beato Giovanni Tavelli da Tossignano): c’erano preti che non sapevano neppure le formule dei sacramenti. Nel frattempo, Michele diventa vescovo e poi cardinale. Quando gli mandano dei soggetti pericolosi, come prima cosa cerca di chiarire se sono stati mandati a processo per vendetta o per invidia. È un inquisitore giusto e buono, al punto che il papa lo manda a fare il vescovo in provincia, a Mondovì (Piemonte). San Carlo Borromeo, arcivescovo di Milano, alla morte del Papa fa sì che Michele venga eletto papa. Prende il nome del predecessore, quello che l’aveva mandato via da Roma: Pio IV. Sant’Ignazio di Loyola e altri santi di Roma sono entusiasti del nuovo papa Pio V, che non vive come un principe e ha mantenuto il suo vestito da domenicano, l’abito bianco (da allora i papi hanno sempre adoperato il vestito bianco, ndr). Pio V è stato papa per sei anni, ma ha dato alla Chiesa una forte sterzata. Ha fatto scrivere il Catechismo e l’ha indirizzato ai parroci: Catechismus ad parrocos, che fino a cinquant’anni fa è stato in uso nella Chiesa. Ha riorganizzato la santa liturgia e iniziato a fare le visite pastorali nelle parrocchie. I quadri lo rappresentano con un volto severo e austero, con la testa calva, il naso ricurvo e una barba candida. Di lui si diceva che era “pelle e ossa”.
Che cosa chiediamo nella preghiera a san Pio V? Chiediamo di essere saldi nel Vangelo e nella fede, di crescere nel fervore e nella devozione. E lui cosa dice a noi? Ci rivolge le parole di san Paolo ai Tessalonicesi: «Siamo stati amorevoli in mezzo a voi, come una madre che nutre e cura le proprie creature. Così affezionati a voi, avremmo desiderato darvi non solo il Vangelo, ma la nostra stessa vita, perché ci siete diventati cari» (1Ts 2,7-8). «Io sono in mezzo a voi – ci dice Pio V – con questa paternità-maternità».
Il vostro patrono è san Biagio, santo del IV secolo, ma adesso avete anche san Pio V che vi accompagna e vi protegge dal Cielo. Così sia.

Omelia nella XXX domenica del Tempo Ordinario

Fratte (PU), 24 ottobre 2021

S. Cresime

Ger 31,7-9
Sal 125
Eb 5,1-6
Mc 10,46-52

Cari ragazzi,
è un giorno molto importante per voi. Suppongo lo ricorderete per molto tempo. Spero ricordiate anche me, il Vescovo Andrea, che vi ha dato la Cresima.
Tutti ascolteremo da voi le risposte, forti e chiare, alle domande che vi rivolgerò: «Credete nel Padre, nel Figlio, nello Spirito Santo?». Dovrete rispondere solo voi; l’assemblea dirà l’Amen finale.
Tante volte ci troviamo ad essere cristiani senza mai aver deciso di esserlo. Ecco perché la nostra fede va “a scarto ridotto”, con poco entusiasmo, come una candela con uno stoppino che a volte arde e a volte è spento. Oggi, voi ragazzi, decidete di essere cristiani. Siete giovani: tante volte nella vita dovrete ripetere il vostro “sì” a Gesù, se volete essere suoi discepoli.
Tra poco, insieme al vostro parroco don Giorgio, farò un segno che compivano gli apostoli: stenderò le mani su di voi invocando lo Spirito Santo. Lo Spirito Santo non è visibile e nemmeno raffigurabile; abbiamo alcune metafore per spiegarlo: è come un vento che soffia, come un respiro che dà vita, come lingua di fuoco che illumina. Lo Spirito scenderà anche su tutti noi, già cresimati, per farci rivivere il sacramento ricevuto. Poi traccerò sulla vostra fronte un Segno di Croce con un olio profumato, il Crisma (da cui la parola Cresima e la parola Cristo, l’unto e il profumato per eccellenza). Da qui deriva la metafora più bella per parlare della terza Divina Persona, lo Spirito Santo: il bacio. Il Padre è la prima Persona che nominiamo tracciando il Segno della croce ed è l’Amante, colui che ama, che parte per primo, che è all’origine; poi, mettendo la mano sul cuore, nominiamo il Figlio; anche lui è da sempre, è amore che sa accogliere: è importante prendere l’iniziativa di amare, ma altrettanto importante è lasciarsi amare. Il Figlio è il “tu” che sta di fronte al Padre ed è, per definizione, l’eternamente Amato. La terza Divina Persona, quella che chiamiamo Spirito Santo, che nominiamo sfiorando le spalle prima di congiungere le mani, è il Bacio. Questa è la metafora che a me piace di più.
Dopo avervi profumato la fronte concluderò con un piccolo schiaffo per dire: «Da adesso tocca a te testimoniare Gesù e il suo Vangelo». Le proposte di Gesù sono “in salita”. Ad esempio, Gesù dice: «Perdonare settanta volte sette». Con le nostre sole forze non è possibile. Oppure dice di «superare le tentazioni» e di “tagliare” per far crescere. La strada di Gesù è una strada in salita, com’era la strada che partiva da Gerico e saliva a Gerusalemme, una strada con più di mille metri di dislivello. Gerico è 400 metri sotto il livello del mare, Gerusalemme a 700 metri sopra. Gesù, insieme alla folla, sale verso Gerusalemme. Una strada molto in salita perché sapeva cosa lo attendeva. Gerico ci fa pensare anche alla città che un tempo Giosuè conquistò facendo suonare le trombe, lanciando il grido di battaglia. A Gerico, sulla porta della città, seduto fra gli altri questuanti, c’è il cieco Bartimeo. Ha sentito parlare del giovane profeta Gesù, perciò vuole incontrarlo: considera quella la sua ultima chance per essere guarito. Ma a Gerico c’è sempre un “muro”: in questo caso il muro della folla che circonda Gesù e quello dei discepoli che, come guardie del corpo, lo accompagnano; poi c’è la folla dei pellegrini che salgono a Gerusalemme. C’è, soprattutto, il muro della sua personale condizione: è un barbone ed è murato dentro al suo buio perché è cieco. Non possiede altro che un logoro mantello, che però è la sua casa, gli serve per coprirsi la notte e come attrezzo per raccogliere le monetine che i passanti gli gettano. Bartimeo non ha che un’arma: alzare la voce. Allora, come Giosuè, dà fiato alle trombe e lancia il suo grido: «Gesù, Figlio di Davide, abbi pietà di me». La folla lo ignora. Passa. Quelle persone stanno seguendo Gesù, ma non si accorgono di quel cieco che grida. Alcuni lo sgridano perché lo trovano impertinente: «Perché disturbi il Maestro?». Ma lui insiste e il suo grido raggiunge il cuore di Gesù. Ecco la vera preghiera. È un grido: «Signore, salvami! Guariscimi dalla cecità che mi impedisce di incontrare, di ritrovare la strada della vita». Gesù che fa? Si ferma. Lo fa chiamare. Bartimeo, stupito e confuso, esita tanto che devono spingerlo: «Coraggio, alzati, chiama te!». Esita perché Gesù gli sta chiedendo di abbandonare la sua “postazione strategica”. Poi Bartimeo si decide, getta via il mantello, balza in piedi e si presenta a Gesù. Solo allora sarà guarito. Anzi, non avendo più nulla – dice il Vangelo – «prese a seguire Gesù», diventa un suo discepolo. Notate: si mette a seguire Gesù ancor prima di vederci, sulla fiducia, sulla parola del Maestro, tant’è vero che Gesù riconoscerà che non è lui a fare il miracolo: «La tua fede ti ha salvato». Sia così anche per noi.
Non lasceremo questa nostra chiesa senza aver detto al Signore Gesù il nostro proposito di seguirlo!

Omelia nella XXIX domenica del Tempo Ordinario

Fiorentino (RSM), 17 ottobre 2021

Is 53,10-11
Sal 32
Eb 4,14-16
Mc 10,35-45

Talvolta qualche confratello vescovo mi confida la sua preoccupazione quando celebra il sacramento della Cresima, perché ha l’impressione che, non solo i ragazzi, ma anche gli adulti, non sappiano chi è lo Spirito Santo. Qualcuno pensa ad una vaga entità, ad una nube misteriosa ed evanescente. Lo Spirito Santo è la terza Divina Persona della Trinità. Crediamo in un solo Dio, ma quando noi cristiani lo nominiamo diciamo che è “Padre, Figlio e Spirito Santo”. Con il Segno di Croce indichiamo un abbraccio: è Dio Trinità d’amore che vuole coinvolgerci nella danza fra le tre Divine Persone.
In questi giorni, celebrando le Sante Cresime in altre comunità, parlando ai ragazzi, ho immaginato una sorta di intervista (può considerarsi anche una forma di preghiera) in cui mi rivolgevo a ciascuna delle Divine Persone. Ho iniziato dalla prima Divina Persona, quella che noi, con parola umana, chiamiamo Padre (non perché ci sia una classifica, ma perchè è il primo da cui cominciamo). Il Padre è eterno amore, dono di sé, totale svuotamento di sé per essere tutto “fuori di sé”, perché ama immensamente. Quando mi rivolgo al Padre e chiedo: «Tu chi sei?», lui risponde: «Io non sono. Non cercare in me un’essenza perché sono completamente rovesciato “fuori di me” per amare. Mi trovo nel “tu” che mi sta di fronte”. Vado dal “tu” che gli sta di fronte, che è il Figlio, e ripeto la domanda: «Tu chi sei?». Lui mi risponde: «Sono totale vuoto, perché sono totale accoglienza, assoluta concavità. Non esisto per me. La forma del mio amore è quella di lasciarmi amare». Resto un po’ perplesso… È grande amare, prendere l’iniziativa, donarsi, spendersi, ma è altrettanto grande lasciarsi amare: è necessario un vuoto infinito per accogliere un amore infinito. Per questo diciamo che il Figlio è Dio come il Padre, infinito, eterno e onnipotente come il Padre. Mi avvicino alla terza Divina Persona, lo Spirito Santo, e gli chiedo: “Tu chi sei?”. Lo Spirito Santo mi risponde che è l’amore col quale il Padre ama e l’accoglienza del Figlio fatti Persona. Che io conosca o non conosca, che io creda o non creda, è vero lo stesso. Il Padre ci fa capire lo Spirito Santo attraverso Gesù che è venuto in mezzo a noi, si è fatto uomo: Gesù di Nazaret. Gesù è vissuto concretamente a Nazaret con la sua mamma Maria e con il suo padre legale Giuseppe: nel concreto della sua vicenda umana ha vissuto quella relazione che dall’eternità vive con il Padre e con lo Spirito Santo. Vale anche per noi – chiamati a vivere con lo stile di Dio Trinità d’Amore – dedicare tutta la nostra vita alla relazione; è il lavoro più importante, più prezioso, più utile, più necessario, più bello. Ecco perché dovremmo essere attenti, vigilanti, riposati, belli, in forma, perché l’obiettivo della vita, come è stato per Gesù, è amare: lì c’è la pienezza della realizzazione.
Gesù ha amato fino in fondo, fino a dare la vita completamente, senza risparmiarsi. Nella Prima Lettura viene profetizzato lo stile di Gesù, lo stile del Servo sofferente. In ebraico si usa la stessa parola per dire “servo” e per dire “figlio”.
Il Vangelo ci parla di due giovani, Giacomo e Giovanni. Erano figli di Zebedeo, che aveva un’azienda ittica. Avevano incontrato Gesù – anzi è stato lui ad incontrare loro – e avevano preso a seguirlo. I due fratelli fanno a Gesù una domanda: «Maestro, vogliamo che tu faccia quello che ti chiederemo». Saranno sembrati impertinenti, ma l’evangelista Marco ha voluto riportare la loro richiesta, anche se sarebbero diventati colonne della Chiesa (sono apostoli), molto importanti nella comunità dei primi cristiani (Matteo, che scrive dopo Marco, risparmia la brutta figura a Giacomo e Giovanni, mettendo la stessa domanda sulle labbra della mamma dei due apostoli). Gesù accetta la domanda, ma aggiunge: «Avete idea di quello che state chiedendo?». «Vogliamo entrare nella tua gloria e stare uno a destra e uno alla sinistra del tuo trono», rispondono Giacomo e Giovanni.
La gloria di Gesù è la crocifissione: «Quando sarò innalzato da terra attirerò tutti a me» (Gv 12,32). Il suo trono sarà la croce, punto di gravitazione universale. A destra e a sinistra vi saranno due ladroni!  La gloria di Gesù non è la celebrità, non è la fama: la gloria che il Padre gli dà è amare fino in fondo. Quando Gesù è nel Getsemani, sapendo cosa stava per succedere prega: «Padre, allontana da me questo calice; però si compia non come voglio io, ma come vuoi tu: devo amare fino in fondo (cfr. Mc 14,36)». Gesù allude ad un Battesimo, che altro non è che l’immersione in questa dinamica.
Gesù effonde sui discepoli – siamo tutti noi – il suo Spirito, mette in loro la capacità di amare fino in fondo.
Cari ragazzi, la Cresima è questo. Tra poco verrete davanti e vi chiederò se volete essere cristiani. C’è tanta gente che si trova ad essere cristiana senza mai aver deciso di esserlo. Oggi tocca a voi decidere se volete esserlo (ma tante volte dovrete dire di nuovo il vostro “sì”). Insieme a don Achille stenderò le mani per invocare su di voi lo Spirito del Signore e vi ungerò la fronte con un olio profumato che si chiama crisma. Prendetelo come un bacio che Gesù vi imprime. Poi vi darò un piccolo schiaffo (è una carezza!) per dire che adesso siete grandi, adesso tocca a voi!

Omelia nella XXVIII domenica del Tempo Ordinario

Novafeltria (RN), 10 ottobre 2021

Giornata Unitaria dell’Azione Cattolica

Sap 7,7-11
Sal 89
Eb 4,12-13
Mc 10,17-30

Gli occhi di Gesù brillano di commozione. C’è “un tale” che vuole fare strada con lui. Nel Vangelo di Marco i verbi di moto hanno un significato particolarissimo. Da una parte denotano il farsi vicino di Dio attraverso Gesù, dall’altra i passi di Gesù testimoniano la sua decisione di salire a Gerusalemme, ben sapendo cosa significhi, cosa accadrà. Dunque, c’è “un tale” che vuole andare con lui. Gesù lo guarda con infinito amore: «Gesù, fissatolo, lo amò». Ma c’è un problema di comunicazione, un fraintendimento. Gesù parla di un vuoto, di una mancanza che può essere radicalmente colmata. Quel giovane crede di colmare il vuoto con le cose di cui dispone e persino con le sue virtù. Gesù sta sviluppando con lui un bellissimo rapporto, al punto tale che il giovane può aprirsi, può raccontare qualcosa della sua infanzia nella quale ha osservato tutti i comandamenti. Gesù continua: «C’è una cosa che ti manca. Il fatto che tu abbia un vuoto dentro di te è provvidenziale: Dio ti ha creato con questo vuoto perché diventi occasione per cercare la vera pienezza». Il giovane aveva a cuore l’osservanza scrupolosa dei comandamenti: era il suo vanto! E tuttavia confessa che è in ricerca. Per un vero israelita osservare i comandamenti non significava di per sé andare davanti a Dio con la collezione delle proprie medaglie al valore, dei meriti, per aver diritto al Regno di Dio. I comandamenti sono stati dati nel contesto dell’Alleanza: ogni comandamento proclama che Dio si è fatto tuo alleato, che ti ama immensamente. Ogni comandamento osservato non è altro che la celebrazione dell’Alleanza. Ma quel giovane ha fatto dei comandamenti il suo trofeo. È talmente bravo che fa persino soggezione; è posseduto da quello che possiede! Allora Gesù gli chiede una cosa molto semplice: «Seguimi. Colma quel vuoto con la mia presenza, con il mio amore». Il problema, di per sé, non è la ricchezza, se usata bene. Ricordo un Natale di alcuni anni fa, in cui mio fratello missionario venne in vacanza in Italia; abbiamo attraversato la città piena di luminarie, bancarelle, persone che compravano regali e gli dissi: «Silvio, ti dà fastidio questo sfarzo?». Rispose: «No, è bello, magari ci fosse anche in Africa!». Dunque, il problema non è la ricchezza. Anche la mancanza di ricchezza può renderci ansiosi, invidiosi, iperattivi, nel tentativo di avere di più. Il problema è la mancanza di libertà. Solo quando il nostro cuore è finalmente sgombro possiamo metterci davanti a Gesù e dirgli: «Ti accolgo, ti voglio bene, ti seguo».
Che cosa mi manca? Quel giovane avrebbe dovuto dire: «Mi manchi solo tu». Invece, «se ne andò via triste. Aveva molti beni».
Vi invito, questa settimana, a farvi tornare alla mente e al cuore la domanda: «Che cosa mi manca?». «Se ci sei tu, Signore, tutto il resto diventa assolutamente relativo. Non mi cruccia più non avere questo o quello, trovarmi scarso su un punto e difettoso in un altro: “Se ci tu, Gesù, c’è la pienezza: c’è tutto”».
Vi faccio notare i tre verbi con i quali si è espresso il giovane ricco: «Che cosa devo fare per avere il Regno di Dio». «Che cosa devo»: il volontarismo, l’atteggiamento di chi presume di avere risorse, forza (tanto da presumere di poter fare da sé). «…fare…»: il pragmatismo, il moltiplicare le opere, le preghiere, le penitenze. «… per avere»: non si merita, ma si riceve in dono il Regno di Dio. Seguendo Gesù, diventiamo liberi e lo si diventa anche davanti alle ricchezze, col disappunto a causa delle insufficienze, del “guardarsi” che a volte paralizza (vedendo i propri limiti si smette di impegnarsi, ci si sottrae).
Quando ci fu il terremoto a Ferrara, la mia città di origine, dopo il sopralluogo un ingegnere mi chiese di lasciare immediatamente la casa canonica perché non era strutturalmente sicura; avrei dovuto prendere ciò che mi serviva e andare via subito… Pretendeva che “facessi fagotto” velocemente con le cose essenziali. Fu un momento molto imbarazzante perché credevo di essere libero da tante cose, invece volevo i miei libri, le fotografie, i vestiti… Propongo, questa settimana, di provare a privarci di qualcosa e farne dono a qualcuno, per dire a Gesù: «Solo tu puoi colmare il vuoto che c’è nel mio cuore».

Omelia nella Messa di Investitura dei Capitani Reggenti

San Marino Città (RSM), 1° ottobre 2021

Is 43,1-5°; Sal 139; Mt 7,24-29

Eccellenze,
Signore e Signori,
abbiamo ascoltato le parole di Dio dal Libro del profeta Isaia: «Non temere, perché io ti ho riscattato, ti ho chiamato per nome: tu mi appartieni… Tu sei prezioso ai miei occhi, perché sei degno di stima e io ti amo… Non temere perché io sono con te».
Parola dettate ad Israele, l’antico popolo dell’Alleanza.
Parole proclamate a noi in questo tempo difficile e complicato.
Parole sussurrate al cuore inquieto di chi cerca senso e verità.
Parole di un Dio che non è stanco della sua creatura. Al contrario. Ogni uomo è prezioso, unico, speciale. Dio dice di più: «Sei degno di stima»; e più ancora: «Sei amabile e amato»!
C’è in questo oracolo del profeta Isaia un crescendo: gran cosa esser prezioso, più ancora esser degno di stima, infinitamente di più essere amabile, amato, riconosciuto capace di amare. Questo annuncio fa uscire dalla tristezza, infonde speranza, sospinge a ricominciare nuovamente a costruire e ad amare. È una sfida: vorrei proporla ad ogni mio fratello in modo che creda ascoltando, speri credendo e ami sperando (cfr. Agostino, Ep. 120,8).
Nel brano evangelico il Signore Gesù invita a costruire l’edificio solido della nostra convivenza umana su rapporti autentici. Non bastano le dichiarazioni di intenti, occorrono convinzioni profonde e scelte coraggiose e pratiche. Il buon architetto – ed ognuno di noi lo è – costruisce sulla salda roccia della coscienza.
La coscienza morale è una facoltà conoscitiva che dice al cuore, senza errore, se il pensare, il parlare e l’agire sono concordi ai valori assunti come anima della propria esistenza e della propria missione.
La coscienza allora – come la bussola che segna infallibilmente il Nord – denuncia se le scelte sono conformi o non conformi ai valori che portiamo dentro. Fortunato chi si mette in ascolto della coscienza, guai a chi non l’ascolta. Ne verrà gratificazione o rimorso.
La coscienza – come uno scrigno che custodisce gelosamente gioielli preziosi – racchiude verità fondamentali sul bene e sul male, gli insegnamenti dei sapienti e l’etica universale: «Non fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te», o come suggerisce il Vangelo in forma positiva: «Fare agli altri quello che vorresti fosse fatto a te» (cfr. Mt 7,12). Guai ai cuori e alle intelligenze distratte, superficiali e senza contemplazione. Decisiva l’educazione della coscienza. Una coscienza ben formata non offre mai alibi all’individualismo, al disimpegno e al relativismo. La coscienza fa sentire la sua voce sul bene di tutti e di ciascuno.
La coscienza – come una molla sempre in tensione – non si ferma all’esigenza minima del precetto, ma spinge al meglio, al di più, a compiti intraprendenti di bene per sé e per gli altri.
Il brano evangelico conclude: «Quando Gesù ebbe terminato questi discorsi, le folle erano stupite del suo insegnamento: egli, infatti, insegnava loro come uno che ha autorità». Così è per noi.

Omelia nella XXIII domenica del Tempo Ordinario

Pennabilli (RN), Monastero Agostiniane, 5 settembre 2021

Celebrazione conclusiva della Summer School
“Il giardino. I giovani, il pianeta, il futuro”

Is 35,4-7
Sal 145
Gc 2,1-5
Mc 7,31-37

Una sorpresa: la pagina evangelica di oggi dà un colpo d’ala al nostro lavoro di questi giorni. È tornata di frequente la consapevolezza che tutto è connesso e che l’uomo è sempre più cosciente di questo. Anche le scienze umane confermano questa radicale vocazione dell’essere.

L’evangelista Marco ci riferisce la guarigione che Gesù opera ad un sordomuto. L’anonimo personaggio evangelico è muto perché non sente. Questo è significativo di come noi umani funzioniamo: elaboriamo tutto ciò che sentiamo, tutto ciò di cui siamo nutriti e tutto ciò che ci accade. Parliamo perché ascoltiamo. Viviamo perché siamo in relazione. Se non siamo capaci di ascoltare come il sordomuto, non riusciamo a “dire bene” o a “dire cose belle” (come lascia intendere l’aggettivo greco). La nostra stessa vita è parola. Ma non è mai perfetta. Il nostro modo di essere, il nostro stile, il nostro stare con gli altri, parla. Siamo su questa terra per parlare (comunicare). Le prime grida di un bambino dicono la sua voglia di esprimersi, una voglia che continua tutta la vita. Noi tutti vorremmo esprimerci al meglio, ma spesso non vi riusciamo. A volte le frustrazioni più grandi derivano dal non essere stati capaci di dire il nostro desiderio più profondo e più vero.
Il sordomuto è metafora dell’uomo “incompleto”, una creatura di Dio che porta una ferita: non riesce ad ascoltare e a parlare, condizione che non lo fa essere in relazione. Di fronte a quest’uomo “incompleto” Gesù si presenta come colui che porta a compimento la creazione.
Non è un caso se il Vangelo di oggi inizia con l’indicazione di un territorio pagano. Marco vuol farci capire che Gesù non è solo il Messia di Israele, ma è Messia per tutta l’umanità: il suo messaggio è per tutti. È appunto in questo territorio che gli conducono il sordomuto. Quel sordomuto è emblema di tutti noi. Anche a noi accade di non riuscire ad ascoltare profondamente. Così viene presentata a Gesù la nostra condizione. Che cosa viene chiesto a Gesù? Di imporre le mani al sordomuto: chiedono un gesto che esprima contatto, contatto fisico. Dopo anni di Covid abbiamo imparato quanto questo sia decisivo e rischioso. Capiamo meglio le usanze in Israele: il contatto fisico diventa contagio; chi tocca un essere impuro, malato, disabile, contrae, in qualche modo, la sua impurità. Gesù, allora, diventa “contagiato”, coinvolto, “sordomuto”. Gesù diventa la malattia di coloro che guarisce, fino a questo punto si spinge la sua empatia. Tra le righe Marco allude al sordomuto per eccellenza: il Crocifisso. La croce è il silenzio di colui che non riesce più a parlare, il silenzio di un Dio, il silenzio di colui che attraversa fino in fondo l’incomunicabilità umana. Gesù muore per rendere di nuovo al sordomuto la capacità di relazione.

Chiedono a Gesù di imporre le mani al sordomuto. Gesù fa molto di più: «Accogliendolo in disparte», lontano dalla folla, gli «caccia le dita negli orecchi». Quell’uomo non parla perché non è stato mai accolto. Il verbo “accogliere” è molto importante: esprime ciò di cui quell’uomo aveva più bisogno. È una necessità che abbiamo tutti…
L’accoglie in disparte: lo toglie dalla folla e dalla rete paralizzante e assordante delle false relazioni. Sono le relazioni sbagliate che ci rendono sordi e poi incapaci di dire, di essere noi stessi; tante volte viviamo relazioni che ci imprigionano.
Tutti abbiamo bisogno di essere presi da parte da Gesù, tolti dal nostro tessuto paralizzante. Questo è la preghiera! Tutti i giorni abbiamo bisogno della preghiera e di questa esperienza: essere accolti nell’intimità da Gesù. «Tu – dice Gesù – sei solo mio; non devi rendere conto agli altri; non devi dimostrare niente a nessuno. Tu sei solo mio e sei prezioso per me, talmente importante che io darò la vita per te, pur di restituirti alla pienezza delle tue relazioni».
Gesù gli cacciò le dita negli orecchi (gesto imbarazzante!). Veramente qualcosa di molto intimo. Ed è questa esperienza di intimità con il Signore che apre la possibilità di ascoltare. La fede non è una teoria, non è una dimostrazione dell’esistenza di Dio, non un elenco di divieti… La fede è questo incontro intimo che guarisce nel profondo.
Con la saliva gli toccò la lingua (così il testo greco: «sputò toccandogli la lingua»). La saliva che cos’è? La saliva è la secrezione dell’intimità ed è ciò che cambia di valore a seconda della relazione che si ha con una persona. Il bacio che cos’è se non uno scambiarsi la saliva? Gli innamorati amano quello scambio di liquido intimo che è il bacio. Ma se invece la saliva è di un estraneo dà fastidio. Fra Gesù e il sordomuto c’è qualcosa come un bacio. Non ha nessuna valenza erotica, ma ha tutto il significato dell’intimità che guarisce. Allora si scioglie la lingua e il sordomuto, col cuore guarito, può parlare.
Effatà è parola in aramaico (la citazione dall’aramaico rende l’evento più vicino, come per dire al lettore: «Sta succedendo adesso a te») che significa «apriti». Prendiamo questo imperativo di Gesù come programma di vita: essere attivi nel costruire relazioni autentiche, dare importanza ad ogni persona, mettersi in ascolto profondo fino a sentirsi coinvolti. I rapporti veri sono il dono più bello che possiamo fare e ricevere.

Omelia nella Festa di San Marino

San Marino Città (RSM), Basilica del Santo Marino, 3 settembre 2021

Sir 14,20-15.4
Sal 47
At 2,42-48
Mt 5,13-16

Eccellenze, Autorità civili e militari,
carissimi tutti,
ogni anno ci viene riproposta una pagina stupenda del libro del Siracide. Protagonista è l’uomo che cerca la sapienza. Si potrebbe dire che parla del santo Marino e di ciascuno di noi: chi non cerca la sapienza? Questo cercatore viene descritto nell’atto di inseguirla in tutti i modi: come un segugio che si apposta sui sentieri, spia, sta ad ascoltare, tende l’orecchio… Sorpresa! Ad un certo punto, è la sapienza che gli va incontro. La sapienza viene descritta con i tratti di una madre, perché è premurosa, ha la dedizione di una vergine sposa. La cerchiamo davvero ogni giorno come la cerca il protagonista di questa pagina, come l’ha cercata san Marino? Nella preghiera iniziale abbiamo chiesto di crescere nella consapevolezza di essere continuatori della sua opera.

Abbiamo bisogno di sapienza. Le vie che dobbiamo percorrere sono tutte in salita e piuttosto ardue. Emergono fatti che non sono che la punta di un iceberg. Metto davanti al nostro santo Marino e, attraverso lui, al Signore qualcuna delle problematiche che oggi ci mettono alla prova.

Le migrazioni: non sono un fatto emergenziale, ma un fenomeno di strutturale mobilità umana legata a vari fattori che ostacolano il diritto di vivere nella propria terra; un fenomeno destinato a ridefinire l’aspetto politico, identitario, culturale. Quale soluzione? La si può trovare solamente insieme, facendo appello alla coscienza internazionale. L’interdipendenza – ci ricorda papa Francesco – ci obbliga a vedere il pianeta come patria e casa comune e l’umanità come un popolo. Ce lo ricorda il Vangelo appena proclamato: siamo chiamati ad essere luce per sconfiggere le ombre di un mondo che tende a chiudersi. Preghiamo per le sofferenze e il dolore del popolo afghano; siamo col fiato sospeso in attesa dei prossimi sviluppi: situazione complessa per l’intreccio di tribù ed etnie diverse, condizionata dalla nuova ricchezza delle terre rare e dalla coltivazione e i traffici di droga.

Un’altra emergenza: siamo ancora coinvolti nella pandemia da Covid-19. 4 milioni di decessi, 200 milioni di contagi. I numeri sono approssimativi… se pensiamo a tanti paesi dove i calcoli sono impossibili. In Africa solo l’1% della popolazione è vaccinato. Non è che un esempio. Siamo sulla stessa barca. C’è una cultura da conquistare giorno per giorno per arrivare al “noi”.

Ci sono, poi, problematiche che affiorano nella società – a San Marino, in Italia e nel mondo – gravi interrogativi di carattere etico-antropologico, quali aborto, eutanasia e nuove frontiere sperimentali sull’uomo. È l’essere umano che è in gioco e il rapporto-alleanza che Dio ha stabilito con lui.
Ci sono cattolici impegnati sul fronte sociale, sui diritti umani e sui grandi temi dell’ecologia. Alcuni cattolici accentuano l’attenzione alla salvaguardia dei valori etici non negoziabili; talvolta sembra che tra le due prospettive affiori un solco. Agli uni e agli altri sento il dovere di ribadire come il Vangelo dell’amore di Dio per l’uomo, il Vangelo della dignità della persona e il Vangelo della vita sono un unico e indivisibile Vangelo. Non ci si può considerare cattolici e non riconoscere che la vita umana è sacra perché, fin dal suo inizio, comporta l’azione creatrice di Dio e rimane per sempre in una relazione speciale con il Creatore, suo unico fine. Solo Dio è il Signore della vita, dal suo inizio alla sua fine naturale. «Prima di formarti – dice la Sacra Scrittura – nel grembo materno ti conoscevo, prima che tu uscissi alla luce ti avevo consacrato» (Ger 1,5): l’esistenza di ogni individuo, fin dalle sue origini, è nel disegno di Dio e non ne uscirà mai, perché la vita va oltre, è per sempre.
Sono davanti ad un’assemblea del santo popolo di Dio che deve essere rassicurato su questi temi alla luce della Parola del Signore. Per il credente, come per il non credente, ci sono altrettanti argomenti di ragione che portano a non ammettere che anche un solo momento del meraviglioso processo della vita possa essere lasciato in balia dell’arbitrio dell’uomo.

Considerare, discernere e agire su questi temi di società è parte essenziale della fede cristiana e nostra “identità umana”. Si tratta di dare un’anima al sociale. Il nostro impegno non può essere ridotto a pratiche formalmente funzionali. L’indice di sviluppo oggi non si valuta solo dall’economia, ma soprattutto dal rispetto dei diritti umani, dal rispetto dell’altro: il diverso, il fragile, il nascituro…
Permettetemi di riprendere l’appello che ho pronunciato alla città di San Leo nella festa del Patrono. Mi riferisco all’attuale situazione pastorale delle nostre comunità: «Dobbiamo riprendere con rinnovato entusiasmo le attività pastorali dopo le chiusure e le restrizioni. Le nostre chiese, pur con le necessarie precauzioni, ora sono spalancate. Altrettanto le sale di comunità per gli incontri e la catechesi. Invito tutti, ragazzi, giovani e adulti, a riaccostarsi alla vita pastorale ordinaria. Ora è il tempo di riprendere la vita consueta, senza buttare via quello che c’è stato di bello, nonostante tutto, come i collegamenti online, le liturgie domestiche in famiglia e tra famiglie… L’incontro e la relazione sono sostanza dell’esperienza cristiana, non sono un dettaglio. Vedo l’esitazione di alcuni e la dispersione di tanti. Metto in conto anche la pigrizia e il disamore. Qualcuno si aspettava uno slancio di fede e un accrescimento di fervore in tempo di pandemia. Un’ingenuità? La pandemia, invece, ha evidenziato i segni profondi della secolarizzazione, ha smascherato l’abitudine e l’andazzo. Ebbene, ritorniamo. Dalla dispersione all’unità: essere popolo di Dio. Chi ha fede più solida aiuti i più deboli, i genitori accompagnino i figli al rientro, le associazioni mostrino la vitalità e l’audacia del loro carisma. Questo momento storico assomiglia al ritorno del popolo di Israele dopo l’esilio. L’invito al ritorno fu descritto con accenti lirici dal secondo Isaia (cfr. Is 40). Ma i profeti post-esilici, molto realisticamente, non hanno risparmiato parole severe a chi si è attardato, o peggio, adattato nel contesto dell’esilio. Il profeta Aggeo se la prende per quanti, pur rientrati nei confini, pensano ai loro affari o trascurano la casa di Dio (cfr. Ag 1,2-7). Ripartiamo. Riprendiamo. Ricominciamo. Non è questione di numeri, ma di qualità, di fervore!
A tutti rilancio le parole evangeliche: «Voi siete il sale della terra; ma se il sale perdesse il sapore, con che cosa lo si potrà rendere salato? […] Voi siete la luce del mondo; non può restare nascosta una città collocata sopra un monte».
La Repubblica di San Marino, che ha una tradizione millenaria, può essere «casa costruita sulla roccia», sui valori del Vangelo: cura dei più deboli, amore-amicizia nella reciprocità, visione dell’uomo come realtà capace di amare, di ricominciare, di perdonare, di accogliere i più deboli, con l’apertura ai valori dello Spirito: onestà, verità, fiducia…
Marino, uomo santo, che vuoi l’uguaglianza, la libertà, nello spirito della fraternità per tutti: prega per noi.