Omelia nella S. Messa in suffragio di S.E. Mons. Luigi Negri

Pennabilli (RN), Cattedrale, 11 gennaio 2021

Ebr 13,7-9
Sal 22 (23)
Gv 17,24-26

Carissimi,
vogliamo anzitutto obbedire al Signore che si rivolge a noi con la Lettera agli Ebrei e ci invita a fare memoria di coloro che ci hanno annunciato la Parola di Dio; con questo spirito facciamo memoria dell’Arcivescovo Luigi. È un dovere che compiamo con gratitudine, anzi lo sentiamo come un bisogno, un bisogno del cuore. «Ricordatevi dei vostri capi»: lo ricordiamo per la generosità e la profondità con cui ci ha annunciato la Parola di Dio. Vogliamo imitarne la fede, sua grande lezione, e fare nostra anche la sua ricorrente raccomandazione a non lasciarci sviare da dottrine che ci allontanano da Cristo. Sono parole sue: «Cristo è con noi e, se Cristo è con noi, nessuno potrà mai mettere in dubbio questa sua presenza piena di forza e di affetto. Uniamo la nostra vita alla sua, riconosciamolo presente tutti i giorni della nostra esistenza, consegniamogli la nostra vita».
Un vescovo è legato alla sua Chiesa come uno sposo alla sposa. La regge in luogo di Dio; in lui, assistito dai suoi presbiteri, è presente il sommo sacerdote Gesù. Egli, il vescovo, «è il visibile principio e fondamento di unità della sua Chiesa particolare», così il Vaticano II; ma prima, tra i padri, mi piace citare san Cipriano: «La Chiesa è nel vescovo e il vescovo nella Chiesa» (Ep 66,8,3). E prima ancora, Gesù stesso: «Chi li ascolta [i Vescovi], ascolta Cristo, chi li disprezza, disprezza Cristo e colui che lo ha mandato» (cfr. Lc 10,16 in LG 20). Se il Vescovo è forma gregis (1Pt 5,3) non può non modellarla in qualche misura su tratti della sua persona, del suo Spirito. Ogni vescovo contrassegna la sua Chiesa e ogni Chiesa rimane contrassegnata dal suo vescovo.
Dico grazie, insieme con voi, al Signore per le tracce profonde lasciate da mons. Luigi in questa nostra Chiesa. Sarebbe bello ripercorrere la vicenda umana e spirituale di mons. Luigi e riprendere in mano i contenuti e le opere del suo ministero, partendo dalla formazione ricevuta, approfondita poi nella preparazione al sacerdozio, agli studi continuati dopo, all’incontro con il carisma di Comunione e Liberazione. Sarebbe necessario studiare il suo insegnamento, la sua attività, la sua presenza e testimonianza in questo momento così singolare della vita della Chiesa. Sarebbe interessante, necessario, tutto questo. Credo di interpretare il desiderio di ognuno nell’impegnarci tutti, con l’aiuto di persone competenti, ad organizzare una lettura approfondita del suo apporto alla nostra Diocesi e alla Chiesa italiana.
Dopo l’impressione forte alla notizia della sua morte – eravamo qui in Cattedrale (si celebrava il Te deum di fine anno) –, dopo la commozione ai funerali a cui tanti di noi hanno potuto partecipare a Ferrara o a Milano, dopo le tante considerazioni sui media sulla figura di questo vescovo intellettuale e umanissimo, schietto e appassionato, intrepido e fanciullo, bussa al cuore l’esigenza di una preghiera più intima ed una considerazione più spirituale che interpreti la sua vita, la sua missione e la sua partenza da noi.
Mi piace farlo inquadrando la persona e la vicenda dell’Arcivescovo dentro al brano evangelico che è stato appena proclamato. Si tratta di appena tre versetti nella grande preghiera sacerdotale di Gesù. Il contesto è quello dei “discorsi di addio”. Vi trapelano la commozione di Gesù, lo sbigottimento dei discepoli e l’intreccio di temi impegnativi. Siamo invitati ad entrare nell’intimità che Gesù ha con il Padre – è la sua preghiera – a comprendere in lui il nostro destino e a contemplare grandi orizzonti. Si tratta di tre versetti – ho detto – che hanno a che fare con il sacerdozio di Gesù, ma anche col sacerdozio partecipato dai discepoli. Gesù parla di sé, parla della missione di ogni discepolo e della missione propria del sacerdote. Tre versetti, tre le parole che si rincorrono, si intrecciano: gloria, conoscenza, amore. «Padre, voglio che quelli che mi hai dato siano anch’essi con me dove sono io, perché contemplino la mia gloria». A cosa aspira un cristiano, più o meno consapevolmente, se non alla contemplazione della gloria? Magari non lo dice con l’ardimento e le parole di Mosè: «Signore, mostrami la tua gloria» (cfr. Es 33,18), ma in verità questo è tutto il suo desiderio e la sua inquietudine.
L’Arcivescovo Luigi ha vissuto questa ricerca. Poi la scoperta, diventata certezza, roccia: «Tu fortitudo mea» (il motto del suo stemma episcopale). Ma ha sempre apprezzato e incoraggiato, soprattutto nei giovani, l’attitudine alla domanda, alla ricerca. E in questo è stato maestro. Conosceva le tappe dell’itinerario: la ricerca interiore, l’inquietudine, l’inseguimento della verità come bellezza, fino alla bellezza più bella: Gesù Cristo. «Quaesivi et inveni (ho trovato ciò che cercavo)». Nell’itinerario c’è da mettere in conto la caduta, il peccato. Due le risoluzioni dell’Arcivescovo Luigi. La prima: la carità pastorale che, opportunamente e inopportunamente, si fa avanti per smascherare l’inganno e contrastare il pericolo. La seconda, assolutamente non moralistica: la preghiera, quella che diciamo ad ogni Messa: «Signore, non guardare i nostri peccati, ma alla fede della tua Chiesa». «La nostra esistenza – sono ancora parole sue – consegnata al Signore non perde la sua consistenza umana, ma la ritrova ad una profondità più definitiva». «Signore, non guardare ai nostri peccati, ma alla fede della tua Chiesa». Chiesa, salda roccia, sicura imbarcazione: non uscire mai dalla barca di Pietro per avventurarsi in solitudine in un guscio di noce. Ci ha insegnato il valore profondo dell’appartenenza, anche quando può essere difficile.
«Padre giusto, il mondo non ti ha conosciuto, ma io ti ho conosciuto e questi hanno conosciuto che tu mi hai mandato». Conoscere e far conoscere il mistero di Cristo dall’incarnazione alla risurrezione. Questo chiede Gesù nella sua preghiera sacerdotale. In che cos’altro può riassumersi l’impegno di un sacerdote e di un vescovo? «Per conto mio – scriveva san Paolo – mi prodigherò volentieri, anzi consumerò me stesso per le vostre anime» (2Cor 12,15). E conclude chiedendo tenerezza: «Se io vi amo più intensamente dovrei essere riamato di meno?». “Affezione”: parola ricorrente nel parlare e nello scrivere dell’Arcivescovo Luigi; affezione attesa a dispetto della sua apparente austerità. Ecco la missione a cui chiama Gesù: donarsi, nella collaborazione con lo Spirito Santo, per aprire le menti all’intelligenza, alla contemplazione del mistero e all’accoglimento della carità di Dio Padre nel suo Verbo che si rivela elargendo la sua presenza. È l’obiettivo della missione, quello che in forme diverse ognuno vorrebbe operare nella laboriosità dell’azione, nella testimonianza, ma anche nel prezzo della quotidiana fedeltà. «Impeto missionario»!
Se le nostre considerazioni devono concludersi in una preghiera la formuliamo così per l’Arcivescovo Luigi: che possa godere definitivamente della contemplazione della gloria di Cristo che tanto ha amato, e cioè della visione del suo volto, dell’effusione del suo amore con quello del Padre e dello Spirito, per sempre. È possibile? Certo! La preghiera di Gesù è efficace. Gesù rivolgendosi al Padre si impone ed esige: «Voglio, Padre». Sappiamo che egli viene esaudito per la sua pietà (cfr. Ebr 5,7). Così sia.

Omelia nella Festa del Battesimo di Gesù

Maiolo (RN), 9 gennaio 2022

Is 40,1-5.9-11
Sal 103
Tt 2,11-14;3,4-7
Lc 3,15-16.21-22

La narrazione del Battesimo di Gesù è comune a tutti gli evangelisti, Giovanni compreso, che fa narrare l’accaduto al Battista.
Questi i fatti. Giovanni Battista è al fiume Giordano dove pratica questo segno di purificazione e di conversione. Accorre tanta gente. Giovanni non ha paura: ha uno stile di vita simile a quello degli antichi profeti. Invita alla conversione anche con parole forti e dure. Non teme Erode, a cui contesta le “scelleratezze” e la relazione incestuosa con Erodiade. Questa aperta contestazione al potere causerà guai al Battista. Al fiume Giordano scende anche Gesù, mescolato tra la folla. Gesù non è andato con gli Esseni, puri e duri, che hanno abbandonato la città per ritirarsi in luoghi deserti nella regione del Mar Morto (Qumran).
Perché è così importante il Battesimo di Gesù? Il motivo per cui questo episodio viene narrato è perché costituisce un punto fondamentale nella vita di Gesù: qui inizia la sua missione, viene presentato ufficialmente, accreditato davanti al popolo di Israele che si interrogava sull’arrivo del Messia (cfr. Lc 3,15) – per questo si celebra il Battesimo del Signore dopo l’Epifania – è come una manifestazione: quel bambino nato a Betlemme, cresciuto a Nazaret, che va sulle rive del fiume, è il Messia, è il Signore. Non possiamo che essere stupefatti davanti a lui, così umile, così semplice e così grande. Anche i Magi si erano sbagliati in un primo momento, perché cercavano il Messia nella grande città, Gerusalemme; lo cercavano a palazzo, avevano consultato i sapienti e i sommi sacerdoti, invece Gesù era in un borgo di campagna, a Betlemme, in un rifugio di fortuna, seduto sulle ginocchia di sua mamma, come tutti i bambini.
Mentre Gesù arriva sulle rive del fiume con tutti, viene presentato come il Messia.
Luca aggiunge alla cronaca questi dettagli. C’era tanta folla. Nella pagina precedente Luca ci informa che là erano andati perfino i soldati e i doganieri (i pubblicani), per chiedere come cambiare vita, come rinnovarsi. Gesù va in mezzo a loro, sa cogliere il positivo che c’è nel cuore di ogni persona. Anche nei peccatori c’è una scintilla divina, basta solo che si aprano. Andiamo volentieri al sacramento della Riconciliazione perché il Signore vuol dirci che ci ha creato come un prodigio (cfr. Sal 139,14), che abbiamo un potenziale enorme dentro di noi e che lui crede in noi. Luca è l’evangelista che ci racconterà del figliuol prodigo, della donna silenziosa che va ai piedi di Gesù per chiedere perdono e di Gesù in croce che dice al ladrone pentito: «Oggi sarai con me in paradiso».
Secondo dettaglio di Luca: Gesù pregava. Matteo, Marco e Giovanni non lo dicono. Perché era in preghiera? Voleva indicare a tutti il primo passo per la conversione: la preghiera. La preghiera intesa come rapporto col Padre. Niente di più semplice e di più decisivo. Quando un peccatore si mette in preghiera, si mette in relazione, non guarda più se stesso, alza lo sguardo, si sente amato, si sente stimato; allora darà il meglio di sé. La fiducia sblocca, fa sbocciare. Un’altra sottolineatura di Luca: al fiume Giordano, in mezzo alla folla, ai soldati e ai doganieri accade la prima Pentecoste. Negli Atti degli Apostoli ci verrà raccontata la mattina in cui nel Cenacolo ci fu l’effusione clamorosa dello Spirito Santo, il Big Bang che ha dato origine alla Chiesa. Con questa gioia nel cuore continuiamo la celebrazione eucaristica con la professione di fede nella forma battesimale per ricordare quando, nel nostro Battesimo, lo Spirito Santo è sceso su di noi.

Omelia nella Solennità di Maria Santissima Madre di Dio

San Marino Città (RN), Basilica del Santo, 1 gennaio 2022

55a Giornata Mondiale della Pace

Nm 6, 22-27
Sal 66
Gal 4,4-7
Lc 2,16-21

È bello aprire il nuovo anno lasciando scorrere su tutti noi come un fiume la benedizione che Dio ha affidato ad Aronne per Israele, una benedizione che è per tutti.
Accogliamola non come un semplice augurio, ma come benevolenza del Signore su di noi, sui nostri pensieri, sui nostri affetti, sui nostri propositi e sulle nostre responsabilità, proprio come rugiada sull’erba, come tenerezza nel volto del Signore, tanto desiderato. Abbiamo pregato: «Mostraci, Signore, il tuo volto» (Sal 79). Nella pienezza del tempo quel volto ha preso forma. È il volto umanissimo di Gesù di Nazaret. In apparenza «non ha splendore né bellezza da attirare gli sguardi» (cfr. Is 53,2) – è un bambino nella sua povertà – si fa vedere «mentre il silenzio avvolge tutte le cose e la notte è a metà del suo corso» (cfr. Sap 18,14), accolto da un’umile ancella, riconosciuto dai pastori che senza indugio sono accorsi a Betlemme (cfr. Lc 2,16). L’incarnazione è in linea con lo stile stesso di Dio che silenziosamente si cala, si dona, assume, trasfigura. La gloria di Dio prende forma e il Verbo si fa carne. Siamo nel cuore del mistero cristiano da contemplare, ma anche da accogliere e tradurre in stili di vita, almeno su due direzioni. La prima: Dio si fa uomo perché l’uomo diventi Dio, si divinizzi. Dunque, dopo il suo Natale il nostro Natale. Accogliamo il dono di essere «partecipi della natura divina» (2Pt 1,4), di essere “adottati” dal Signore, non come rinnegamento dell’umano, o come disimpegno o fuga dalla realtà. Tutt’altro! Il Signore non toglie nulla alla nostra umanità. Tutto dona. La seconda direzione è questa: ogni uomo che viene al mondo è fatto di Cielo, altissima è la sua dignità, per questo Gesù, nell’affidarci il suo “comandamento nuovo”, dirà: «Amatevi gli uni gli altri come io ho amato voi» (Gv 15,12). Ancora una volta ci sorprende: il comandamento, fino a lui, riguardava perlopiù la sfera del sacro, del culto, ora il dettato del comandamento nuovo riguarda l’amore per l’altro, l’altro fatto di carne come me, fratelli tutti. Da notare: Gesù non dice «amatemi, come io ho amato voi», come esigerebbe la grammatica, ma «amatevi». Amarlo non tanto nelle belle immagini; ma amarlo nella carne del fratello, non solo in quello giovane che risplende di bellezza, ma anche nel fratello debole, consumato, che è anziano, ammalato o coperto di piaghe. L’uomo è gloria di Dio.
È su questo sfondo di bellezza e di speranza che vogliamo vivere il primo giorno dell’anno, che dedichiamo alla pace.
Oggi ho il privilegio di consegnare a chi ci governa e a chi si prende cura dell’amministrazione pubblica il Messaggio di Papa Francesco per la 55° Giornata Mondiale della Pace. Il Messaggio ci ripropone la promozione della cultura dell’incontro e questo ci chiede di porre al centro di tutta l’attività educativa, la principale e fondante, e di tutta l’attività politica, sociale ed economica, la persona umana. Papa Francesco riconosce che «nonostante i molteplici sforzi si amplifica l’assordante rumore di guerre e conflitti, mentre avanzano malattie di proporzioni pandemiche, peggiorano gli effetti del cambiamento climatico e del degrado ambientale, si aggrava il dramma della fame e della sete e continua a dominare un modello economico basato sull’individualismo». Per superare questa situazione papa Francesco indica tre vie da percorrere «per una pace duratura».
La prima è il dialogo fra le generazioni. «La crisi globale che stiamo vivendo – scrive – ci indica nell’incontro e nel dialogo fra le generazioni la forza motrice di una politica sana». «In questa chiave – continua – vanno apprezzati e incoraggiati i tanti giovani che si stanno impegnando per un mondo più giusto e attento a salvaguardare il creato».
La seconda via riguarda l’istruzione e l’educazione. «Negli ultimi anni è sensibilmente diminuito, a livello mondiale, il bilancio per l’istruzione e l’educazione». Al contrario, le spese militari sembrano destinate a crescere in modo esorbitante. «È dunque opportuno e urgente – scrive papa Francesco – che quanti hanno responsabilità di governo elaborino politiche economiche che prevedano un’inversione del rapporto tra gli investimenti pubblici nell’educazione e i fondi destinati agli armamenti». Terza via è la promozione e la disponibilità del lavoro. Da questo punto di vista la pandemia da Covid-19 ha aggravato la situazione. In particolare, «l’impatto della crisi sull’economia informale, che spesso coinvolge i lavoratori migranti, è stato devastante». Continua Papa Francesco: «La risposta a questa situazione non può che passare attraverso un ampliamento delle opportunità di lavoro dignitoso. (…) La politica è chiamata a svolgere un ruolo attivo, promuovendo un giusto equilibrio tra libertà economica e giustizia sociale, trovando sicuri orientamenti nella dottrina sociale della Chiesa».
Affrontare la crisi vuol dire avere il coraggio di avviare una rivoluzione spirituale capace di calarsi nelle dinamiche della vita reale. Ognuno di noi, per la sua parte, ne è promotore: fare pace, cioè essere costruttori, operatori della pace, intraprendenti; essere in pace, cioè impegnati a bonificare i rapporti reciproci: non è facile, ma la pace nasce vicino a noi, attorno a noi; essere pace: questo è il mio augurio per tutti voi.

Omelia nella IV domenica di Avvento

Pennabilli (RN), Cappella del Vescovado, 19 dicembre 2021

Mi 5,1-4
Sal 79
Eb 10,5-10
Lc 1,39-45

Il racconto evangelico della Visitazione è brevissimo, ma denso di significati. Li suddivido in quattro “grappoli” di pensieri e osservazioni.
Il primo “grappolo” è dedicato alla struttura letteraria del brano e, più in generale, di tutto il Vangelo dell’infanzia secondo Luca. L’evangelista adopera il metodo del confronto, un metodo in voga al suo tempo (cfr. le opere classiche intitolate “Vite parallele”). Qui siamo davanti a “vite parallele”: anzitutto ci sono due vocazioni, la vocazione di Zaccaria, il cui racconto è precedente alla pericope odierna, e la vocazione di Maria. La prima, quella di Zaccaria, accade nel tempio. Zaccaria, da quell’esperienza esce muto, perché non crede alle parole dell’angelo. Maria, invece, riceve l’annunciazione in una casa, la casa di Nazaret, e ne esce proclamata «piena di grazia» (Lc 1,30). Elisabetta riconoscerà in lei la beatitudine di chi crede alla Parola del Signore (cfr. Lc 1,45). Poi incontriamo il confronto fra le due mamme, ambedue senza maternità: Elisabetta perché ormai avanzata in età e la fanciulla di Nazaret perché è vergine, giovanissima. Tutt’e due si trovano miracolosamente incinte mediante una gravidanza “impossibile”. Infine, c’è il parallelo tra i due nascituri, i due bimbi, nel grembo rispettivamente di Elisabetta e di Maria. Questi confronti, queste vite parallele, sono state pensate da Luca per evidenziare l’identità di Gesù. L’incontro delle due mamme assomiglia tanto all’incontro di due zolle di terra che, scontrandosi, si innalzano e accade uno scoppio di gioia, di luce, di benedizione. L’una canta davanti all’altra e insieme magnificano il Signore.

Il secondo “grappolo” consiste nelle considerazioni che solitamente vengono fatte dalla devozione, con la gioia nel vedere il clima spirituale che vi è nella casa dove le due mamme si incontrano. Lì c’è la premura di Maria, che fa un lungo viaggio in un terreno montuoso, e c’è l’accoglienza festosa di Elisabetta. C’è tanta cortesia, ma soprattutto si praticano le virtù. C’è la reciprocità, perché l’una e l’altra insieme condividono quello che Dio sta facendo in loro: davvero il Signore è all’opera! Poi, quella casa è inondata di Spirito Santo, quasi un anticipo della Pentecoste.

Dobbiamo leggere questo brano di Vangelo ad altre profondità, è il terzo “grappolo” di considerazioni. Siamo di fronte ad una rivelazione altissima, e cioè ad un evento che sconfina, che va oltre il tempo, oltre lo spazio, un evento cosmico; eppure, paradossalmente accade puntuale, in un preciso luogo, in una realtà minuscola della terra. Il “miliardario di stelle” tra due umili creature. È la visita di Dio al suo popolo: una visitazione non per interposta persona – direbbe l’autore della Lettera agli Ebrei – ma proprio nel suo Verbo che si fa cucciolo d’uomo (cfr. Ebr 1,2). Tutto questo in un clima di gioia, di esultanza. Luca adopera un linguaggio mutuato dall’Antico Testamento. Ad esempio, di Maria si dice «benedetta tu fra tutte le donne»: espressione usata nell’Antico Testamento per due eroine di Israele, precisamente per Giaele (cfr. Gdc 5,24), la guerriera, e per Giuditta (cfr. Gdt 13,10), colei che verrà chiamata la tota pulchra, appellativo che la liturgia applica a Maria. L’esultanza di Giovanni nel grembo, che viene paragonata ad una danza, è un rimando abbastanza esplicito alla danza del giovane Davide quando trasporta l’Arca dell’Alleanza a Gerusalemme. «Davanti a Jahvè io danzo», dirà Davide a sua moglie che lo vede così entusiasta, così fuori dal protocollo. Giovanni Battista danza perché sente arrivare l’Arca della nuova Alleanza, Maria, che custodisce nel suo grembo il Verbo incarnato.

Un quarto “grappolo” di pensieri sono perlopiù suggestioni che propongo per vivere meglio il Tempo di Natale. La prima suggestione: che sia un Natale spirituale, un Natale attento alla presenza dello Spirito Santo che, come fu nella casa di Ain Karim (la casa di Zaccaria ed Elisabetta), come fu nella casa di Nazaret, come fu fra i pastori invitati ad andare alla grotta, allo stesso modo aleggia su di noi. Se crediamo alla sua presenza su di noi, è perché il Cielo si è aperto su di noi. L’amore del Padre per il Figlio, del Verbo per il Padre, si è calato su di noi, siamo tuffati dentro e coinvolti nella vita trinitaria, benché non ne siamo sempre consapevoli: il Natale di Gesù è il Natale nostro, perché anche noi nasciamo a questa vita straordinaria.
Seconda suggestione: che sappiamo fare nostra la spiritualità della visitazione. Il tema della visitazione attraversa tutta la Sacra Scrittura, ma quello che forse interessa più a noi è che raggiunge la nostra vita: ci sentiamo visitati dal Signore. Quando non lo sentiamo presente, avvertiamo una profonda nostalgia di lui; lo percepiamo come un grande mistero che ci inquieta, ci turba, come è successo all’Innominato nei Promessi sposi, quando nel dialogo con il cardinale Federigo Borromeo, esclama: «O Dio, se lo vedessi, se lo sentissi». E il Cardinale risponde: «Ma chi più di te! Questa inquietudine, questo mistero è lui, ha un volto, questo mistero è un “io” che si comunica a te» (cfr. A. Manzoni, I promessi sposi, cap. XXIII).
Terza suggestione: che facciamo nostra la spiritualità del viaggio. Guardando Maria pellegrina ci mettiamo in cammino con i più poveri. Discorso impegnativo: accostarci al dolore altrui costa fatica. Abbiamo già tante fragilità, dolori, sofferenze personali… Il Natale ci fa compagni di viaggio in questa recrudescenza della pandemia: «tutti sulla stessa barca», disposti ad andare oltre le contrapposizioni di questi giorni. Formiamo tutti una carovana alla ricerca di Dio: c’è chi fa fatica a credere, chi crede di credere e chi tiene accesa una luce. Buon Natale!

Meditazione teologica all’Istituto Superiore di Scienze Religiose “A. Marvelli”

Rimini (RN), Sala Manzoni, 16 dicembre 2021

Provo molta gioia nel trovarmi insieme a voi. Sono qui soprattutto per esprimere la mia gratitudine al professor Natalino Valentini. Colgo l’occasione per esprimere la considerazione e la stima che ho per l’Istituto Superiore di Scienze Religiose “A. Marvelli”. Porto questa gratitudine e questa considerazione a nome della Diocesi di San Marino-Montefeltro che è parte integrante dell’Istituto stesso.
Vorrei esservi di aiuto per vivere questo momento di raccoglimento in preparazione al Natale, in atteggiamento sinodale.
Sento il desiderio di camminare con i poveri; penso alle persone in difficoltà economica, ma anche alle povertà delle persone che soffrono, che sono alla ricerca di Dio e della verità: mi sento uno di loro. Mi piace pensare che Gesù, ad un certo punto, avrebbe potuto andare verso il deserto di Qumran, dove c’erano i puri e i duri che aspettavano la venuta del Messia, gli Esseni, e invece è sceso al fiume Giordano facendo la fila con peccatori, piccoli, cercatori di Dio: c’erano pubblicani, esattori delle imposte, gente comune, soldati…

La meditazione di questa sera è sulla Parola di Dio. Partirò dal racconto della Natività secondo Luca (cfr. Lc 2,1-14), poi farò una breve incursione nel Prologo di Giovanni (cfr. Gv 1,1-18), infine citerò un breve testo dal Libro delle Consolazioni di Isaia (cfr. Is 40-55).

1.

Attorno all’albero di Natale – consentitemi la metafora – sono spuntati tanti altri cespugli. Succede come di fronte ad una pianta del giardino: ci si ferma a gustare il profumo di un fiore, o a stupirsi dei colori del foliage (in autunno), o a raccogliere un frutto… Dettagli. E si ignora completamente la profondità delle radici, la robustezza del tronco, l’abbraccio della chioma.
A Natale succede ogni anno qualcosa del genere, ma si deve pur dire la verità sul Natale, tutta la verità; e dirla con schiettezza. Allora siamo dolcemente invitati a riaprire i conti col mistero di Dio e col mistero dell’uomo: Dio e uomo sono profondamente in sintonia. “Dolcemente” – dico – perché tutto è accaduto e accade con lo stile del Dio della Bibbia: «Il suo accadere non ha apparenza né bellezza da attirare sguardi» (cfr. Is 53,2); «mentre un profondo silenzio avvolge ogni cosa» (cfr. Sap 18,14); con «l’umiltà della sua ancella» (cfr. Lc 1,48).
Di solito – giustamente – si dà molto spazio alle scienze dell’uomo, all’economia, ai destini del pianeta… Ci sta. Tuttavia, abbiamo vissuto momenti, soprattutto nel corso di questa pandemia, nei quali siamo stati messi con le spalle al muro, costretti nuovamente ad una riflessione sulla dimensione più profonda di noi stessi, il nostro mistero, su Dio, sull’anima. Filosofi, monaci e poeti non hanno mai smesso di scrutare queste profondità. Ma l’uomo pragmatico spesso se ne disinteressa, preso com’è dall’organizzazione sociale, dalle dinamiche della finanza, dalle scadenze della sua agenda, ecc. Anche il Natale dei buoni sentimenti, delle tradizioni popolari, delle riunioni familiari, delle dispute su come salvarlo non deve farci perdere la sua dimensione di mistero.

2.

Siamo di fronte al mistero di Dio e ci rendiamo conto che è un mistero mai pienamente posseduto. Mi chiedo: «Dio che non si rivela pienamente ci toglie forse qualcosa con questo suo silenzio?». Direi di no. Anche il senso del mistero è una forma di conoscenza, comunque apre un vasto campo di ricerca. Blaise Pascal ci ha lasciato pagine struggenti sull’argomento: «Quando considero la breve durata della mia vita, sommersa nell’eternità che la precede e la segue, il piccolo spazio che occupo e financo che vedo, inabissato nell’infinita immensità degli spazi che ignoro e che m’ignorano, io mi spavento e stupisco di trovarmi qui piuttosto che là, non essendoci nessuna ragione perché sia qui piuttosto che là, oggi piuttosto che domani. Chi mi ci ha messo? Per ordine e per opera di chi questo luogo e questo tempo furon destinati a me?» (Pensieri, 220).
Siamo immersi in un mistero e il mistero è essenziale per la dignità umana. Dire che siamo avvolti in un mistero non è affermare un handicap, ma è riconoscere che siamo aperti sull’infinito. Quando ci meravigliamo ancora, quando siamo capaci di stupirci, allora siamo veramente uomini.
Ma il fatto più eclatante è che questo mistero si rivolge a noi. Il mistero parla. Il mistero ci interpella. Il mistero ha un “io”. «E quando si scruta l’abisso – scriveva Nietzsche – anche l’abisso ci scruta» (questa frase è contenuta in Al di là del bene e del male, un saggio filosofico in cui Nietzsche anticipa i temi del suo pensiero, IV parte, 1886).

3.

Il mistero si è rivelato nel modo più inatteso e coerente con se stesso: «“Vi annuncio una grande gioia, che sarà di tutto il popolo…”. I pastori dicevano l’un l’altro: “Andiamo dunque fino a Betlemme, vediamo questo avvenimento”. Andarono senza indugio, e trovarono Maria, Giuseppe e il bambino adagiato nella mangiatoia»: questo il segno! Il Natale è il mistero che prende un volto, è Dio che si fa cucciolo di uomo.
Il Natale è l’invadenza del Cielo. Impossibile sottrarsi! Bisogna, in qualche modo, misurarsi con questo mistero.

4.

Continuo la riflessione sul Vangelo di Luca. C’è un racconto che sottostà a tutti i racconti della nostra vita e che tutte le vicende presuppone: è il racconto della nostra nascita, un racconto che ci viene dato da coloro che ci hanno accolti, chiamati per nome e coperti di baci. Di tale racconto abbiamo bisogno per conoscere la nostra identità, tant’è vero che, chi non l’ha avuto, ne soffre; chi non sa nulla dei propri genitori li cerca instancabilmente, avvertendo la necessità di sentirsi persona, fin dall’inizio, chiamata per nome.
Questo racconto fondante, su cui si costruiranno gli altri eventi dell’esistenza, ci è trasmesso implicitamente perlopiù nella festa di compleanno: festa che ci richiama, appunto, all’origine, a chi ci ha generato fisicamente, riconoscendoci come persone, e accogliendoci con affetto.
Anche di Gesù abbiamo il racconto della nascita in un giorno preciso della storia. Pur non potendo determinarlo con esattezza cronologica, sappiamo che duemila anni fa è stato generato, accolto, amato, ha ricevuto il nome da Maria e da Giuseppe.
Nel Natale noi celebriamo, anzitutto, l’origine storica della vicenda di Gesù Cristo: tutto ciò che sarebbe avvenuto di Gesù negli anni successivi ha avuto inizio a Betlemme nella cornice insolita del presepio, cioè di una mangiatoia per gli animali. Ha avuto inizio in un modo sostanzialmente uguale a quello con cui comincia, o dovrebbe cominciare, ogni esistenza umana: una piccola e fragile creatura, accolta con gioia e chiamata con amore per nome.

5.

Tuttavia, il brano evangelico di Giovanni – il Prologo – parla di un’altra origine che si riferisce allo stesso Bambino («E il Verbo si è fatto carne»), che riporta assolutamente “al principio”. “Al principio” colui che prenderà carne e sarà Gesù, già era da sempre presso Dio ed era Dio. Giovanni offre il racconto delle origini che spiega ogni cosa e dà “la ragione” ultima di tutto ciò che esiste: «In principio era il Verbo, il Verbo era presso Dio, il Verbo era Dio. […] Tutto è stato fatto per mezzo di lui e senza di lui niente è stato fatto di tutto ciò che esiste». La gioia per un bimbo che nasce a Betlemme richiama in Giovanni la gioia e lo stupore per ciò che nasce e che è nato all’origine del mondo, per tutto quanto è sulla terra e nei cieli.
Questa pagina suscita gratitudine perché ogni essere, ciascuno di noi, è dono, trae vita dall’Eterno. «In lui era la vita e la vita era la luce degli uomini. […] E la luce splende nelle tenebre».
Potremmo dire che, se il Natale di Betlemme fa vivere il compleanno di Gesù, il Prologo di Giovanni presenta il compleanno del mondo, la sua natura di mondo “sensato”, perché quello di cui stiamo parlando, il Bambino di Betlemme, è il Logos, il Verbo di Dio (Logos significa “senso”).
Dunque, il Prologo di Giovanni pone in relazione l’origine di tutte le cose con la venuta di Gesù nel mondo, così da permetterci di intuire come il nostro povero tempo caduco sia salvato mediante la nascita del Figlio di Dio. Il nostro tempo può essere salvato partendo da lui. Un testo di sant’Ireneo dice più o meno così: «Cosa fa il Verbo? Viene nel mondo per prendere ciò che è suo (tutto è stato fatto per mezzo di lui!)» (cfr. Sant’Ireneo, Lettera da Cochabamba, prefazione al libro V). Il Verbo, Gesù Cristo, si riappropria di ciò che gli appartiene e lo redime.

6.

Il messaggio del Natale è pieno di speranza per il nostro piccolo cuore di persone provate, stanche, impaurite e talvolta deluse dalla vita. Il messaggio del Natale dice che, se partiamo da lui, dal Verbo incarnato, Gesù Figlio di Dio, le vicende umane non sono più né piccole né inutili, i nostri affanni non sono un sospiro vano, dal momento che Gesù se ne è fatto carico nascendo a Betlemme. Colui che è da sempre e nelle cui mani è stato posto il nostro destino, colui che per bocca dei nostri genitori ci ha chiamato con amore per nome, fin da quando siamo nati, ha voluto legarci alla sua storia, perché non ci sentissimo più soli a lottare in questa oscurità, ma avessimo la certezza che la luce vince le tenebre e che sempre da lui possiamo ripartire.

Non possiamo accontentarci delle luci che illuminano le strade… In ciascuno di noi vi è una nostalgia inappagata che ci sospinge verso una luce più splendente, l’unica in grado di squarciare il buio che c’è in noi. Ogni domenica, nel Credo, preghiamo così: «Per noi uomini e per la nostra salvezza discese dal cielo».

7.

L’ultimo testo che propongo è tratto dal Libro delle Consolazioni del profeta Isaia. C’è qualcosa che aumenta la gioia del Natale: il continuare a venire di Dio nel mondo. Dio non è reso attuale solo nella celebrazione del Natale, Gesù si fa presente ad ogni istante della nostra concreta realtà quotidiana, con lo stile di cui dicevo all’inizio, quello del Dio della Bibbia. La sua venuta nella storia si verifica ancora adesso: il Signore viene e sta sempre di nuovo per venire in chi lo attende e lo accoglie. Perciò il Natale, oltre ad essere un compleanno storico, oltre a richiamare un evento cosmico, è insieme incomparabilmente intimo e personale.
Mentre leggevo questo testo di Isaia era appena capitata la sciagura di Ravanusa, in Sicilia e avevo davanti agli occhi quella montagna di macerie.
Alla luce del Vangelo di Giovanni ricomprendiamo meglio l’invito alla gioia: «Prorompete insieme in canti di gioia, rovine di Gerusalemme, perché il Signore ha consolato il suo popolo, ha riscattato Gerusalemme» (Is 52,9). Come mai il profeta pensa che le rovine possano prorompere di gioia, quelle rovine che vediamo in noi e attorno a noi, le rovine che umiliano, le rovine del senso della vita che molte persone hanno perduto e non ritrovano, le rovine interiori dell’angoscia, della paura, della diffidenza, della tristezza, di questa pandemia che non finisce mai? Il profeta sa con certezza che il Signore viene, viene a prendere ciò che è suo per farlo nuovo! La luce del Natale ricostruisce le nostre rovine! Gloria al Padre, al Figlio, allo Spirito Santo.

Omelia nella III domenica di Avvento

Pennabilli (RN), Cappella del Vescovado, 12 dicembre 2021

Sof 3,14-18
Is 12
Fil 4,4-7
Lc 3,10-18

«Attingerete acqua con gioia alle sorgenti della salvezza». Mettiamoci anche noi in coda con le persone che vanno al fiume Giordano dal Battista. Siamo, talvolta, molto presi dalle molte cose da fare, dai tanti impegni. Il fiume Giordano non ha finito di lambire, da allora ad oggi, le nostre grettezze, le nostre mediocrità, la nostra indifferenza. E Giovanni scuote. Giovanni, il profeta rude che prepara la via al Signore, annuncia: «Ecco, il Messia è alle porte!». Allora bisogna destarsi, lasciarsi coinvolgere. Gesù un giorno rimprovererà Marta, tutta presa dal suo daffare, dalle sue occupazioni e preoccupazioni. Gesù le dirà: «Marta, Marta, tu ti preoccupi di troppe cose. Fa’ come tua sorella Maria che ha saputo stare seduta ai miei piedi per ascoltare la Parola» (cfr. Lc 10,41). Gesù, ad un certo punto della sua predicazione, dirà: «A chi paragonerò mai questa generazione?». La paragona a quei ragazzi che suonano il flauto sulla piazza e i loro amici non danzano, intonano un lamento e nessuno reagisce… (cfr. Mt 11,16-17). Noi invece vogliamo lasciarci coinvolgere. Interessante vedere come l’evangelista Luca presenti le categorie di persone che vanno da Giovanni. C’è la folla, la gente comune, ci sono i doganieri – quelli che il Vangelo chiama i pubblicani – e ci sono anche i soldati. Tutte persone alle quali Gesù un giorno darà molto ascolto, molta attenzione. La folla veniva criticata perché volubile e ignorante; i doganieri, perché collaborazionisti dei Romani, riscuotevano le tasse e vi facevano anche la cresta: avevano una pessima fama; i soldati, perché a disposizione, come i mercenari, dei signori della guerra. E Giovanni Battista cosa chiede a quelli che vanno al fiume Giordano? Alla gente chiede di essere generosa, di condividere quello che ha, soprattutto con i più poveri. Ai doganieri chiede di essere onesti e rigorosi nella loro professione. Ai soldati domanda di non estorcere nulla a nessuno. In pratica, la conversione che Giovanni Battista propone non è quella di fare chissà quali stravaganze, di elaborare chissà quali propositi inattuabili. Non propone di salvarsi dalla storia, ma di salvarsi nella storia. Così sono valorizzati il nostro quotidiano, la nostra professionalità e il nostro impegno responsabile. I bambini, quando giocano, amano imitare i mestieri dei grandi e lo fanno con gioia. Noi adulti potremmo imitare evangelicamente i bambini facendo dei nostri lavori un gioco, ovvero un gioco d’amore e dedizione.
Con questi pensieri cominciamo a costruire il presepio – i personaggi che vanno alla capanna ci rappresentano – o l’albero di Natale – albero della luce – segni che portano nelle famiglie la presenza di Gesù: Gesù è venuto, verrà e viene nel momento presente della nostra vita.

Omelia nella Solennità dell’Immacolata Concezione

Pennabilli (RN), 8 dicembre 2021

Gen 3,9-15.20
Sal 97
Ef 1,3-6.11-12
Lc 1,26-38

Si dice: «De Maria nunquam satis (di Maria non si dice mai abbastanza)». È una frase di san Bernardo. Eppure, candidamente confesso che, nell’accingermi a preparare la meditazione di questo giorno dell’Immacolata, mi è venuto il timore della ripetizione. Poi, mi sono posto attentamente in ascolto della Parola di Dio, come si deve fare nei casi in cui l’anima è opaca e tiepida. Meditando la Parola di Dio ecco una sorpresa: la Parola di Dio oggi mette a confronto due donne, Eva e Maria; di Eva si parla nella Prima Lettura, di Maria nel Vangelo. Propongo anche a voi una lettura sinottica dei due testi. Una lettura rimanda all’altra e il cuore non resta estraneo a questo confronto. Eva dice di sé: «Il serpente mi ha ingannata e io ho mangiato». Adamo dirà: «La donna che tu mi hai posto accanto mi ha dato dell’albero e io ne ho mangiato». Eva ha ascoltato chi metteva nel suo cuore il sospetto terribile che Dio fosse nemico, rivale dell’uomo. Ha ascoltato e obbedito alla parola del serpente traditore. La sua disobbedienza al Signore ha trascinato nella maledizione divina non solo se stessa, ma anche l’uomo al quale era stata data come aiuto simile a lui e in lui ha trascinato tutta la discendenza umana. La sua scelta – perché di scelta si trattò – ha distrutto l’interiore bellezza e bontà di tutta la creazione. È opportuno questo sguardo allargato su tutta la creazione, sottoposta alla corruzione del peccato. San Paolo dirà che la creazione grida perché sottoposta a questa caducità (cfr. Rom 8, 19). Ce ne ha parlato anche papa Francesco nell’enciclica Laudato si’.
La ricostruzione di tutta la creazione riparte ancora da una donna, dalla scelta e decisione di una donna, Maria di Nazaret. In senso uguale e contrario Maria, nuova Eva, ascoltando la parola dell’Angelo che le parla, obbedendo a quella parola, credendo pienamente al Signore, procura una benedizione per se stessa: «Benedetta tu fra le donne», le dirà Elisabetta; per il nuovo e vero Adamo, Gesù, di cui è madre si dirà: «Benedetto il frutto del tuo grembo»; e poi per tutta la discendenza dei figli che nasceranno a Dio ed anche per il mondo stesso che verrà redento. La sua scelta di fede: «Avvenga in me secondo la tua parola» ricostruisce l’interiore bellezza e bontà di tutta la creazione. In lei la grazia, la benedizione, vengono di nuovo ad abitare fra noi. Nella sua fede la caduta in cui il mondo era precipitato a causa di Eva è superata, è vinta dalla redenzione resa possibile dal suo “sì”.
La pagina del Vangelo di Luca ci suggerisce che questa obbedienza di Maria è di una straordinaria profondità. Nel dialogo con l’Angelo Maria ha avvertito la presenza e la potenza dello Spirito Santo; forse non sapeva nulla di lui, non era ancora stato liberato pienamente e già sentiva questa presenza e il mistero di Dio che chiedeva di entrare nella sua vita, di prendere possesso della sua persona, interamente. «Lo Spirito scenderà su di te, su di te stenderà la sua ombra la potenza dell’Altissimo».
Anche Eva, per tornare al parallelo, ha sentito la presenza di Dio e la potenza del mistero di Dio vicino a sé, venuto per dialogare nell’anima e nell’amore con lei. Dirà Adamo, parlando anche a nome di Eva: «Ho udito il tuo passo nel giardino». Maria però non si è ritirata, non si è nascosta, non ha avuto paura. Ha risposto dicendo: «Sono l’ancella del Signore», regalando a lui tutta la sua persona, santificata fin dal suo concepimento. Eva, invece, si è nascosta dalla presenza di Dio. Ha avuto paura e ha rifiutato il suo “sì” al Signore. In Maria, mediante l’eccomi, il progetto di Dio di cui parla san Paolo nella Seconda Lettura diventa possibile, può realizzarsi. Comincia la storia della salvezza. Poiché Maria ha accolto la Parola e ha detto il suo “sì”, diviene in senso vero e proprio la madre dei viventi in Cristo.
Consideriamo nel “sì” di Maria anche il nostro “sì” che rinnoviamo adesso insieme, anche a nome di tanti famigliari e amici che non sono qui presenti. Ridiciamo il “sì” di Maria che permette a Dio di farsi presente e fa di noi strumenti della sua grazia, missionari. È il tema della Diocesi per questo biennio. Essere missionari non è tanto fare attività missionarie, ma è una modalità del nostro essere che, per la forza della grazia, produce frutti e frutti. Un “sì”, quello di Maria, che la porta a lodare con sorpresa quanto Dio ha fatto di grande in lei: «L’anima mia magnifica il Signore». Fatte le debite proporzioni tutto questo è vero anche per noi. Ogni “sì” a Dio, alla sua Parola, ogni “sì” che pronunciamo per amore del fratello porta Dio e porta la sua gioia in noi e negli altri. Anche noi oggi ripetiamo – e dobbiamo farlo sempre – il Magnificat di Maria: «L’anima mia magnifica il Signore, ha fatto in me cose grandi, lui che è potente».

Omelia nella II domenica di Avvento

#FlashdiVangelo, 5 dicembre 2021

Bar 5,1-9
Sal 125
Fil 1,4-6.8-11
Lc 3,1-6

Il Vangelo di questa domenica inizia in modo particolarmente solenne: «Nell’anno quindicesimo dell’impero di Tiberio Cesare, mentre Ponzio Pilato era governatore…». Dopo l’elenco di tutti i protettorati (erano quattro) sotto la dominazione dei Romani, l’evangelista Luca continua con l’elenco delle autorità religiose, Anna e Caifa… È come se Luca ponesse quello che sta raccontando su un foglio quadrettato, con precisione e con una certa solennità. E che cosa accade?
Da ragazzo, quando leggevo questa pagina, provavo un po’ di delusione, perché mi aspettavo l’annuncio della nascita di Gesù. Invece accade un’altra cosa: «La Parola di Dio venne su Giovanni nel deserto». L’accadere della Parola di Dio su Giovanni è come l’accadere della Parola di Dio su ciascuno di noi e sulle nostre comunità. Come la Parola di Gesù: «Prendete e mangiate, questo è il mio corpo» trasforma il pane nella sostanza del corpo, sangue, anima e divinità del Signore, così la Parola che viene sulle nostre comunità le trasforma nel Corpo Mistico del Signore. Dunque, il Natale del Signore accade continuamente. Il sacerdote, alla celebrazione di ogni Messa – consentitemi l’analogia – fa nascere Gesù, come Maria, e lo depone nella bianca tovaglia dell’altare: grandezza del ministero sacerdotale! Allo stesso modo la comunità cristiana adagia Gesù nelle situazioni di vita.
La Parola di Dio venne su Giovanni Battista mentre era nel deserto: là viveva la sua vocazione. Così accade a noi: la Parola di Dio ci raggiunge là dove noi viviamo. Non dobbiamo idealizzare chissà quali scenari, immaginare chissà quali situazioni: in ogni momento la Parola di Dio accade su di noi. Dobbiamo averne l’intima certezza. Questo ci dà forza, ci induce a far credito a quella Parola, ad accettarne la sfida e a viverla. A volte ci propone il perdono «fino a settanta volte sette» (Mt 18,22), altre volte ci ricorda che dobbiamo essere lievito (cfr. Mt 13,33) e sale della terra (cfr. Mt 5,13), altre ci ricorda che c’è più gioia a dare che a ricevere (cfr. At 20,35). Proponiamoci allora di vivere la Parola e la Parola, poco a poco, ci fa altri Gesù.
Mi piace molto considerare l’esperienza di san Francesco d’Assisi il quale, nel XIII secolo, inventò il presepio. L’ha collocato in mezzo alle stradine di Greccio, nel piccolo villaggio dove c’erano il ciabattino e il muratore che lavoravano, la fontanella che forniva l’acqua a tutti… Il presepio sta a dirci questo.
Torna varie volte nel brano evangelico di questa seconda domenica di Avvento la parola “deserto”. È il luogo dove Giovanni Battista svolge la missione di precursore del Signore. Vedremo la prossima domenica il tono e il contenuto della sua predicazione. Adesso ci basti sottolineare come Giovanni si collochi “nel deserto”, il luogo più distante e più periferico; ma per Giovanni il deserto è memoria dell’esodo: il popolo d’Israele si lascia alle spalle l’Egitto e si incammina verso la terra promessa, verso la libertà. È anche il luogo dove si fa esperienza delle difficoltà: il calore del sole, il vento che sibila e sferza con la sabbia il volto, il pericolo degli scorpioni e dei serpenti. Ma il deserto è anche il luogo in cui il Signore si fa vicino: ecco l’acqua che scaturisce dalla roccia, la manna che piove dal cielo, la nube che protegge il popolo che cammina… C’è tutta una tradizione biblica che ha nostalgia del deserto, perché rappresenta il luogo del primo amore. Il profeta dirà, riferendo le parole del Signore: «La condurrò nel deserto e là parlerò al suo cuore» (Os 2,16).

L’evangelista ci riferisce le parole di Isaia per inquadrare la figura del Battista, il precursore; lui non è la Parola, è la voce che prepara ad accogliere la Parola: «Preparate la via del Signore…». In realtà, non siamo anzitutto noi che andiamo al Signore: è lui che viene a noi; compito nostro è spianare la strada. Questo è il cammino dell’Avvento. Nelle nostre case abbiamo preparato la Corona dell’Avvento: le quattro candele che scandiscono le settimane, che danno l’idea del tempo che stringe, che passa inesorabile. Si avvicina il Natale. Che non accada, come ogni anno, che siamo impreparati, presi da tante cose che non sono essenziali. Prepariamo il Natale anche con il sacramento della Riconciliazione, non andiamo all’ultimo minuto, cominciamo fin da oggi a prepararlo e viviamolo con questa gioia: «Preparo la via del Signore».

Omelia nella I domenica di Avvento

Secchiano (RN), 27 novembre 2021

Ger 33,14-16
Sal 24
1Ts 3,12-4,2
Lc 21,25-28.34-36

Buon anno! Oggi inizia un nuovo anno liturgico. L’anno liturgico è come un sentiero che sale e si avvita. Questo anno liturgico si concluderà alla festa di Cristo Re del 2022. L’anno liturgico è una vera e propria scuola. Innanzitutto è una scuola di evangelizzazione, perché, se abbiamo la perseveranza di partecipare alla santa liturgia della Chiesa, ogni anno veniamo rimessi a contatto con i fatti e i detti del Signore Gesù, con il racconto della sua vita: in Avvento l’attesa del Signore; a Natale la sua nascita, l’incarnazione; poi viene il tempo della Quaresima, tempo di penitenza e di disponibilità a vivere il mistero pasquale, che celebriamo solennemente nel Triduo pasquale; poi vengono la Pentecoste e le domeniche “ordinarie”; il tempo dell’anno ci fa rivivere la vita di Gesù, quindi ci evangelizza. L’anno liturgico è il Vangelo ripresentato in forma interattiva: vi siamo coinvolti non da spettatori, ma da compartecipi. L’anno liturgico è anche scuola di spiritualità, perché vengono suggeriti via via gli atteggiamenti del cuore e dell’anima da nutrire dentro di noi. Per esempio, il tempo di Avvento è il tempo dell’attesa: «Dimmi che cosa attendi e ti dirò chi sei!». L’anno liturgico è, poi, una scuola di pastorale. A volte ci chiediamo che cosa dobbiamo fare, cosa dobbiamo organizzare. L’anno liturgico è il più bel programma pastorale che ci sia. Nell’Avvento, l’attesa invita alla vigilanza e alla preghiera: si attende così il Signore. Nella Quaresima si vive la pratica delle virtù, dell’ascesi, ecc. L’anno liturgico dà suggerimenti anche ai nostri sacerdoti: su come organizzare la catechesi e la vita della parrocchia.

All’inizio della celebrazione ho acceso la prima luce dell’Avvento (sono quattro: ognuna rappresenta una settimana del cammino verso il Natale). Domenica prossima accenderemo la seconda, e così via fino a Natale. Questo gesto dà l’idea del tempo che non va sprecato, ma vissuto bene. Tante persone, quando si arriva al Natale, dicono: «Ahimè, anche quest’anno il Natale è arrivato così in fretta che non me ne sono accorto…». Negli ultimi giorni, poi, si viene presi dalle compere, dall’organizzazione del pranzo di Natale… Cerchiamo, allora, di vivere bene questo tempo (quasi un mese) facendo tesoro, ogni settimana, dei suggerimenti e dei propositi che ci vengono dati e soprattutto della pagina di Vangelo domenicale.
Avete visto il diacono che, con una certa solennità, è venuto davanti alla “biblioteca liturgica” e ha estratto il volume dell’anno “C”. L’anno “A” è caratterizzato dalla lettura dell’evangelista Matteo, l’anno “B” dall’evangelista Marco, mentre l’anno “C” è guidato dall’evangelista Luca. Ogni Vangelo presenta sottolineature proprie. Li chiamiamo “Vangeli sinottici”, perché se li si guarda con un unico colpo d’occhio si può notare che il materiale che hanno a disposizione viene organizzato redazionalmente in modo simile.

Luca è l’evangelista che Dante Alighieri chiamava scriba mansuetudinis Christi (lo scrittore della misericordia e della bontà di Cristo); infatti, l’evangelista Luca, più degli altri, si compiace di farci vedere di Gesù l’aspetto misericordioso; è il Vangelo che narra la parabola del figliuol prodigo, che ci racconta la gioia di Zaccheo quando viene perdonato da Gesù. Nel Vangelo di Luca Gesù in croce mentre soffre terribilmente e prega continua ad amare, poi, volgendosi al ladrone, dice: «Oggi sarai con me in paradiso» (Lc 23,43). Si può dire che questo è il centro del Vangelo di Luca. Tutti i 23 capitoli precedenti, infatti, non sono altro che preparazione perché un povero ladrone si senta dire: «Oggi sarai con me in paradiso». Luca è l’evangelista dei poveri che si affollano dietro a Gesù e chiedono aiuto. Gesù non si tira indietro. È anche l’evangelista che presenta i «poveri in spirito», cioè la categoria di credenti che confida unicamente nel Signore; la prima povera accanto a Gesù è la Madonna, che dice di sé: «Sono l’ancella del Signore» (Lc 1,38) e nel Magnificat canta il Signore che guarda «alla piccolezza della sua serva» (Lc 1,48). Nei Vangeli dell’infanzia Luca presenta tutti questi personaggi, i “poveri di Jahvè” (così vengono chiamati nell’esegesi): Zaccaria, Elisabetta, Anna, Simeone, i pastori, ecc.
C’è un punto nell’opera dell’evangelista Luca che mi preme sottolineare perché, come Diocesi, lo stiamo vivendo in modo speciale nel programma di quest’anno, ed è la connessione fra preghiera, effusione dello Spirito e missione.
Luca ci fa vedere Gesù in preghiera; pregano i Dodici e la comunità cristiana nel libro degli Atti degli Apostoli. Quando si entra in preghiera e si è davanti all’Altissimo, Lui effonde il suo Spirito, certifica che sei ammesso alla comunione con il Padre e con il Figlio suo. In preghiera ci viene dato lo Spirito e lo Spirito ci spinge ad essere missionari e testimoni; non possiamo tacere – dicevano gli apostoli – l’esperienza che abbiamo fatto.
Davanti alla Cappella del Vescovado, sull’architrave della porta di ingresso, è presente una raffigurazione dello Spirito Santo in forma di colomba. Ultimamente, prima di entrare in chiesa, guardo la colomba e penso alla Terza Divina Persona, lo Spirito Santo, che è stato effuso su di me e su ciascuno nel Battesimo e dico: «Vieni Spirito Santo». Quando partecipo ad una riunione, specialmente durante le più difficili, mi capita spesso di invocare lo Spirito Santo su chi deve parlare. Altre volte, mentre ascolto una confessione, dico: «Vieni Spirito Santo, suggeriscimi che cosa dire a questa persona… sono vuoto, non saprei cosa dire».
A volte dico: «Vieni Spirito Santo!». E lui mi pare che risponda: «Vai! Sei missionario, non avere paura, non tacere».

Facciamo ora una breve sottolineatura sul tempo dell’attesa, l’Avvento. Tempo dell’attesa. Cosa aspettiamo? Riviviamo un po’ quello che hanno vissuto gli ebrei: aspettavano il Messia. Nella Bibbia ci sono preghiere stupende: «Scendi, Signore, come rugiada sull’erba…» (cfr. Sal 72,6); «O se tu squarciassi i cieli e scendessi…» (cfr. Is 63,19). Dunque, l’invocazione: «Vieni!». Viviamo in modo forte l’attesa del popolo ebraico, ma anche tutta l’umanità è sempre stata in attesa della manifestazione di Dio. Da quando Gesù è venuto, i cristiani sanno che il Natale non è tanto la festa del “compleanno” di Gesù, anche se è doveroso ricordarlo. I cristiani aspettano il suo ritorno, perché lui ha detto che ritornerà. I primi cristiani avevano più di noi questo senso del ritorno di Cristo, a volte commettendo due esagerazioni: quella di scivolare nel millenarismo (il calcolo della fine del mondo), oppure di lasciarsi andare a causa del suo ritardo. La liturgia aiuta ad essere equilibrati. Ci ricorda la nascita di Gesù e insegna ad accoglierlo: è venuto, verrà e viene nel presente, nel nostro vissuto di ogni giorno. Allora niente catastrofismi e neppure abbandoni alla mediocrità. «Vieni Signore Gesù, voglio accoglierti».

Omelia nella XXXII domenica del Tempo Ordinario

#FlashdiVangelo, 7 novembre 2021

1Re 17,10-16
Sal 145
Eb 9,24-28
Mc 12,38-44

Siamo al capitolo 12 del Vangelo di Marco, ormai Gesù è entrato a Gerusalemme, frequenta il tempio, ha avuto le dispute – almeno cinque – con farisei, scribi, sadducei. Ora con i discepoli si è messo in un angolo e guarda la gente che sale al tempio. Ad un certo punto Gesù richiama l’attenzione dei suoi apostoli, che probabilmente stavano chiacchierando tra loro non si sa di che cosa. Gli apostoli si voltano e vedono le persone che si dirigono al tesoro del tempio (era una sorta di grande imbuto dove le persone gettavano le offerte). Sale una vedova. È povera: forse Gesù l’ha intuito dal suo vestito. La vedova mette nel tesoro del tempio appena «due monetine che fanno un soldo». In quel momento è come se Gesù mettesse “in cattedra” quella povera vedova: col suo atteggiamento ha qualcosa da mostrare agli apostoli e a noi. Che cosa insegna? Insegna la fiducia nel Padre. Getta nel tesoro due monetine; avrebbe potuto tenerne una per sé, invece, dà tutto quello che ha per vivere (san Martino di Tours ha dato metà del suo mantello!). Gesù fa capire che quella vedova non è solo il prototipo del vero discepolo, ma preannuncia chi è veramente lui. Lo si evince da quel verbo ripetuto sette volte: gettare. Non un gettare per disprezzo, un buttar via, ma per offrire decisamente e interamente. È quello che Gesù fa. Getta la sua vita per noi. Dunque, Gesù si vede nella vedova povera.
C’è anche un altro insegnamento. Gesù sottolinea come non valga tanto la quantità delle cose buone che si fanno, ma la necessità di essere buoni. A volte si dice «dai cento, vali cento», «dai cinque, vali cinque». Ma non è così, perché la bilancia che Dio guarda è nel cuore. Invito a pensare a come viviamo l’offertorio durante la Santa Messa. Domenica scorsa ero in una parrocchia; nel primo banco c’era il gruppo dei bambini del catechismo. Al momento della raccolta hanno aperto il borsellino e hanno messo nel cesto la loro monetina. Altre volte avevo assistito al gesto dei bambini che correvano dalla mamma per farsi dare il soldino da mettere loro stessi, da protagonisti, nel cesto della raccolta. Ma in quella parrocchia sono stati proprio loro ad aprire il borsellino. In quel momento ho capito che il gesto vale se capito all’interno della liturgia. Nel momento dell’offertorio non dai qualcosa, ma dai te stesso. Vorrei vivessimo il momento dell’offertorio con solennità, caricandolo di tutto il nostro desiderio di fiducia nel Signore, di essergli discepoli. Così sia.