Omelia nell’VIII domenica del Tempo Ordinario

Faetano (RSM), 27 febbraio 2022

Sir 27,5-8
Sal 91
1Cor 15,54-58
Lc 6,39-45

Gesù racconta tre mini-parabole, una più bella dell’altra, una più suggestiva dell’altra, una più curiosa dell’altra: la parabola del cieco che guida un altro cieco, la parabola della pagliuzza e della trave, la parabola dell’albero buono e dell’albero cattivo.

Il cieco che guida un altro cieco: a chi si rivolgeva Gesù? Possiamo far nostre diverse interpretazioni. Secondo una prima interpretazione Gesù si rivolge ai discepoli: «Cercatevi dei buoni maestri!». Oggi, ahimè, è tempo di cattivi maestri. Ma anche nella comunità del tempo c’erano falsi maestri. Bisogna stare in guardia, perché i cattivi maestri possono condurre fuori dall’insegnamento autentico di Gesù.
Secondo un’altra interpretazione la parabola sarebbe un avvertimento ai responsabili della comunità: ad esempio, tu che sei vescovo, dove stai guidando la tua comunità? Esaminati. Sei lungimirante? Del resto poi, ognuno ha una qualche responsabilità e deve interrogarsi seriamente, stimolato da questa parabola di Gesù: come assolvi il tuo servizio? Probabilmente Gesù faceva un discorso ampio, generale, sull’abitudine a giudicare gli altri, ad ergersi a giudici, quando noi stessi siamo ciechi. In ogni caso la parabola pende verso un’interpretazione cristologica: Gesù è il vero maestro. Il discepolo deve guardare il Maestro Gesù e deve imitarlo. Gesù afferma che nessun discepolo diventa più grande del suo maestro. Il detto è più comprensibile facendo riferimento alla didattica dell’epoca che prevedeva si ascoltasse bene il maestro e si riportasse fedelmente quello che lui insegnava: si dava più importanza all’ascolto che ai libri e alla ricerca. Però Gesù, in un punto del Vangelo di Giovanni, dirà: «Voi farete cose più grandi di me» (cfr. Gv 14,12): l’orizzonte che lui offre è immenso, perché l’orizzonte è lui, il modello è lui, anzi è Lui in noi! In conclusione, l’invito è di aderire pienamente all’insegnamento del vero Maestro e il suo insegnamento è amore e misericordia.

Nella seconda mini-parabola Gesù invita a stare attenti alla trave che hai nel tuo occhio prima di pretendere di togliere la pagliuzza dall’occhio del tuo prossimo. Leggo questa mini-parabola in collegamento con quella celebre del servo spietato, a cui era stato perdonato un debito enorme, paragonabile al bilancio di uno stato e diventa senza pietà con il collega che gli doveva qualcosa di poco conto (cfr. Mt 18,23-35). L’insegnamento della parabola della trave e della pagliuzza, in concreto, è: converti te stesso. La trave che c’è nel mio occhio è il mio debito che il Signore è disposto a perdonare; come potrò non avere, a mia volta, un atteggiamento di benevolenza e di misericordia verso il fratello? Converti te stesso, cioè renditi conto che il tuo sguardo è confuso; interrogati sul tuo modo di vedere il prossimo. È necessario intraprendere un cammino di verità su se stessi. Chi ci può aiutare? Penso alle persone che ci vivono accanto (essere maestro l’uno per l’altro) e che sono quasi uno specchio di noi stessi, alla guida spirituale o al confessore, che ci aiuta a metterci nella verità, alla pratica quotidiana dell’esame di coscienza.

Abbiamo una conoscenza molto parziale degli altri; ci succede di vedere l’altro attraverso la lente delle nostre precomprensioni, del nostro punto di vista, della nostra storia, della nostra cultura, delle nostre esperienze, mentre l’altro è singolare, originale, unico. Soltanto Dio conosce pienamente l’altro. Dobbiamo chiedere al Signore la conversione del cuore e dell’intelligenza: «Non si vede bene che col cuore» (Antoine de Saint Exupéry). «Signore, dammi un cuore che sa capire, che sa vedere, dammi un’intelligenza aperta». Ci sono due disturbi della vista: la miopia e la presbiopia. Il miope vede benissimo da vicino, ma non vede bene da lontano. Fuori di metafora, la miopia spirituale è l’atteggiamento che rimpicciolisce; accade anche nella preghiera, quando è ripiegamento su se stessi, con un orizzonte limitato. Quest’anno, nel Programma pastorale, ci siamo riproposti di “abbracciare il mondo”! La presbiopia, al contrario, è il disturbo secondo il quale si vede benissimo da lontano, ma non si vede bene da vicino. A volte succede di avere grandi slanci, di aprirsi a chissà quali progetti e non ci si accorge delle problematiche delle persone che vivono accanto.

La terza mini-parabola riguarda l’albero buono che fa frutti buoni e l’albero cattivo che fa frutti cattivi. Non può che essere così. Interessante che Gesù prima parla della raccolta e poi della produzione: c’è un’apparente incongruenza, ma il succo è che l’agire segue l’essere, o meglio – detto in modo evangelico – che le nostre parole, i nostri pensieri, le nostre azioni vengono dal cuore. Di per sé il cuore è predisposto per il bene, quando fa il male tradisce le sue radici (cfr. Gn 1,31). Attenzione al cuore, allora! Coltivare un cuore buono… Come si fa ad avere un cuore buono? Bisogna metterci dentro le parole, i pensieri e l’esempio di Gesù. Possiamo paragonare la coscienza ad uno scrigno destinato a contenere le parole, i detti e i fatti della vita di Gesù. Ma dobbiamo avere l’umiltà di riconoscere che quello scrigno è fragile: abbiamo “tesori in un vaso di creta” (cfr. 2Cor 4,7). Ancora un appello alla conversione: essere sempre più simili a Gesù, ad avere i pensieri, le parole e le azioni di Gesù. Ci aiuterà la Quaresima che sta per iniziare!

Omelia nella S. Messa nel Centenario della nascita del Servo di Dio don Luigi Giussani

Serravalle (RSM), 22 febbraio 2022

40° anniversario del riconoscimento pontificio della Fraternità di Comunione e Liberazione e 50° della presenza del Movimento a San Marino e in Diocesi

1Pt 5,1-4
Sal 22
Mt 16,13-19

Saluto e ringrazio le Loro Eccellenze, i Capitani Reggenti, per la presenza; un caro saluto a tutti i partecipanti a questa liturgia.
Il Vangelo che abbiamo sentito proclamare ci dice che le risposte “per sentito dire” non valgono, quelle frutto di una sommaria istruzione dottrinale sono insufficienti e non fanno molta differenza, a questo proposito, le risposte accademiche. Gesù vuole la risposta del cuore: «Chi sono io per te?». Pietro aveva già dato la sua risposta gridando sotto la spinta della paura, ma anche della fiducia: «Signore, salvami!» (Mt 14,30). Era tra le onde del lago in tempesta. Un giorno dirà a nome di tutti: «Signore, da chi andremo? Tu solo hai parole di vita eterna» (Gv 6,68). A Cesarea di Filippo, tappa centrale del Vangelo di Matteo (siamo al capitolo 16), Simone risponde: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente» (Mt 16,16). E Gesù di rincalzo: «Non la carne né il sangue te lo hanno rivelato, ma il Padre mio» (Mt 16,17). Come dire, non ci sei arrivato da solo… Al confessore del Messia viene conferita la dignità di suo rappresentante: «Tu sei Pietro, su questa pietra edificherò la mia Chiesa» (Mt 16,18). Gesù cambia nome a Simone, lo chiama Pietro. Quante volte nel Vangelo Pietro combina guai! Eppure, proprio a lui Gesù conferisce la dignità di essere suo rappresentante. Sappiamo dalla tradizione biblica che il cambio del nome sta sempre ad indicare l’assegnazione di una missione speciale, così Abram viene chiamato Abramo, Giacobbe è chiamato Israele, ecc. Il nome Pietro significa “roccia”. La stabilità e la compattezza della futura comunità messianica poggeranno su Cristo, ma attraverso la mediazione di Pietro. La Chiesa, sia ben chiaro, è di Cristo, Pietro non l’ha fondata, non è a disposizione del suo arbitrio e non ne è il capo per doti particolari, tuttavia, dopo la risurrezione, Gesù l’associa a sè come garante dell’unità e della stabilità della Chiesa.
Insieme alla metafora della roccia Gesù adopera anche quella delle chiavi, del legare e dello sciogliere, allusione al ministero petrino di governo e di magistero. Questa investitura vale anche per chi succede a Pietro. Come può la comunità messianica godere di un servizio di unità se la roccia non sarà tale per tutto il tempo? La dimensione petrina è esercitata in modo proprio dal vescovo di Roma, il vescovo della Chiesa che presiede alla carità, secondo l’espressione di sant’Ignazio di Antiochia.
Molto importante per noi oggi richiamare la rilevanza del primato di Pietro. Lo facciamo nel giorno della festa della Cattedra di san Pietro: evidentemente non si festeggia un mobile, ma l’incarico, l’impegno, il servizio che ha il vescovo di Roma. Il papa, per volontà di Cristo, deve confermare i fratelli ed essere roccia di sostegno per la Chiesa, perciò è infallibile: un dono grandissimo che il Signore ha fatto alla sua Chiesa. Sarebbe da approfondire e precisare tutta la profondità di questa verità della nostra fede. Voi direte: l’infallibilità è assicurata nei pronunciamenti sulla fede e la morale ex cathedra. Tuttavia, anche l’insegnamento ordinario, non definitivo, gode comunque di una particolare assistenza divina. Esige un assenso interiore. Ricordo una frase che papa Giovanni Paolo II pronunciò durante il suo primo viaggio in Polonia; era il 1979 e c’era difficoltà, in quei primi anni, a capire il Papa, perché portava nell’esercizio del suo ministero tutto un mondo, tutta un’esperienza, una testimonianza di fede e di combattimento che erano quelli della Polonia. «Se Dio mi ha chiamato con queste idee – disse –, ciò è avvenuto affinché abbiano risonanza nel mio ministero». Non si può accogliere il papato, distanziandosi da questo o quel papa. Allo stesso modo, oggi papa Francesco porta la vita, la storia, le fatiche, le singolarità della Chiesa latino-americana. E se il Signore lo ha chiamato con queste idee vuol dire che se ne deve tenere conto: è Pietro oggi.

Mi collego all’esperienza di Pietro nel riconoscimento del Signore come Messia per rimarcare il dono che è stato ed è don Giussani, non solo per il movimento di Comunione e Liberazione, ma per tutta la Chiesa. Anzitutto la sottolineatura forte del mistero dell’incarnazione, avvenimento che l’uomo, con tutti i suoi sforzi, non avrebbe potuto neppure immaginare. Penso all’immaginazione straordinaria dei miti antichi da Gilgameš alla tradizione egizia e alla nostra greco-latina (Ovidio, Esiodo, ecc.); nonostante la fervida fantasia non erano mai arrivati ad immaginare l’incarnazione di un Dio. Ovviamente l’incarnazione non è un mito, ma una realtà per la quale si dà la vita. Al mistero dell’incarnazione tende ogni espressione autentica dello spirito umano. È un tema ricorrente in don Giussani: «Per farsi riconoscere Dio è entrato nella vita dell’uomo come uomo, secondo una forma umana che penetra i nostri occhi, che tocca il nostro cuore, che si può afferrare con le nostre braccia». È Gesù, con la sua divina umanità, che l’uomo cerca quando è acceso da un desiderio di bellezza, di verità, di giustizia, di bene, di libertà. C’è una corrispondenza fra il cuore dell’uomo e la verità del Signore. E’ la novità portata da Gesù, il quale, come dice sant’Ireneo, «omnem novitatem attulit, semetipsum afferens», ossia «nella sua venuta, ha portato con sé tutta la novità» (Adversus Haereses, IV, c.34, n.1, cit. in EG 11). Vedete allora la freschezza, il fascino, della vita cristiana. Come mi insegnate è tutt’altro che una dottrina astratta, un insieme di leggi e di etica… Anche i precetti difficili del Vangelo di domenica scorsa – amare il nemico, dire bene di chi ci sminuisce – non vanno collocati nell’etica: dietro c’è una rivelazione. Dio è Padre, che fa piovere sui buoni e sui cattivi, fa venire il sole sui giusti e sugli ingiusti (cfr. Mt 5,45).
Partecipando a qualche incontro con gli amici di Comunione e Liberazione spesso ho sentito tornare queste parole, quasi una dizione formulare: “avvenimento”, “accadimento”, “incontro”. Sono parole dietro le quali sta un’esperienza. Mi piace soprattutto la parola “incontro”. Tale è, infatti, il cristianesimo: un incontro con una persona presente, carica di un’attrattiva misteriosa, capace di cambiare completamente l’orientamento della vita. Infatti, tante volte in questi incontri viene riferito un cambiamento, perché c’era stato un momento in cui era accaduto qualcosa di straordinario: l’incontro. Cito anche un altro testo tratto dal libro di Alberto Savorana su don Giussani: «Ciò di cui tutto è fatto è diventato uno di noi (il Verbo per mezzo del quale tutto è stato fatto e niente di ciò che esiste può prescindere da lui, perché tutto è stato fatto in Lui, cfr. Gv 1,3). Allora uno che lo incontra dovrebbe girare il mondo, gridandolo a tutti». Sentite la conclusione: «Ma uno può girare il mondo, gridarlo a tutti, stando nel luogo in cui Cristo lo ha provocato». Quindi, se dovessimo individuare un’espressione sintetica di tutta l’esperienza umana, cristiana ed ecclesiale di don Giussani, una parola attorno a cui tutto il suo insegnamento si può riassumere, dovremmo scegliere certamente la parola “vocazione”: vita come vocazione.
Concludo con un’altra citazione. È una lettera che, giovanissimo, Luigi Giussani scrive ad un amico: «Io non voglio vivere inutilmente: è la mia ossessione e poi, tra due amici profondi, cosa si desidera? L’aspirazione dell’amicizia è l’unione, è il dono di immedesimarsi, impastarsi, diventare la stessa persona, la stessa fisionomia della vita». «Ma Gesù è in croce – scrive il giovane don Luigi –; la gioia più grande della nostra vita è quella che, ad ogni piccola o grande sofferenza, ci fa scoprire “ecco, ora sei più simile, più impastato con lui”». Questo testo mi piace; questo linguaggio “spirituale” in un cristiano concreto smentisce il pregiudizio secondo cui spiritualità e contemplazione sono in contraddizione.
«Tu es Petrus», Gesù l’ha detto a Simone, ma ognuno di noi che riconosce il Signore come “il suo Signore” diventa Pietro, viene invitato e costituito per la missione.

Omelia nella VII domenica del Tempo Ordinario

Pieve di Carpegna (PU), 20 febbraio 2022

1Sam 26,2.7-9.12-13.22-23
Sal 102
1Cor 15,45-49
Lc 6,27-38

Di solito, quando celebra il Vescovo, imparte la benedizione all’assemblea con il libro dei Vangeli. C’è un legame speciale fra il Vescovo, in quanto successore degli apostoli, e il testo del Santo Vangelo. Tant’è vero che – come avrete notato – il cerimoniere porge al Vescovo anche il pastorale. Che bisogno c’è? Non è Gesù il Pastore? Sì, è Gesù, ma Gesù ha scelto i Dodici apostoli perché fossero una sua presenza.
Oggi ci troviamo di fronte ad un Vangelo impegnativo. Sono aiutato dalle prime righe, in cui Gesù dice: «A voi che ascoltate, io dico…». È come se Gesù dicesse: «Datemi la mano, vi introduco in un orizzonte straordinario, vi faccio entrare con me». Rispondo: «Signore, se non ti guardassi negli occhi e non stringessi la tua mano, penserei che le parole che stai per dire siano umanamente impossibili da realizzare».

Ma qui non siamo di fronte ad un’etica o ad una precettistica. Se prendessimo queste parole come una pagina di etica, nella tradizione umana, nelle filosofie antiche e moderne, troveremmo qualcuno che si è lanciato in queste prospettive di amore senza confini. Nel tempo moderno basti pensare al Mahatma Gandhi, profeta della non violenza, oppure al pastore evangelico americano, Martin Luther King. Nella filosofia antica, Pericle diceva più o meno così: «Qual è la più grande vittoria? Quando sei riuscito a trasformare il nemico in un amico, allora hai vinto». Durante la guerra del 1915-18, un generale mandò un avamposto a neutralizzare il nemico che era dall’altra parte della trincea con questa ingiunzione: «Vi affido il compito di eliminare il nemico». Parecchio tempo dopo, i militari non tornavano. Il generale andò a vedere di persona. Trovò che i suoi soldati fraternizzavano con gli avversari. Andò su tutte le furie, minacciando di destituire il capitano… Ma egli si difese assicurando di aver fatto come gli era stato chiesto: aveva eliminato il nemico, erano diventati amici! Il racconto fa riferimento ad un avvenimento dimenticato dalla storia, realmente accaduto nelle trincee dell’Artois durante la Prima Guerra Mondiale. L’episodio è stato rilanciato da un celebre film di Christian Carion, Joyeux Noël (2005).
Dunque, amare il nemico? Impossibile! Effettivamente Gesù ci fa vedere un altro orizzonte; ci prende per mano e ci porta dentro al suo rapporto con il Padre. Per questo la raccomandazione: «A voi che ascoltate, io dico…». «Se voi mi seguite – dice Gesù – vivrete qualcosa del mio mistero. Io sono il Verbo fatto carne, Colui che è il “tu” eterno del Padre, sono in totale ascolto: Dio è Padre e ogni creatura è mio fratello, mia sorella». Gesù ci invita ad entrare con lui nel seno del Padre e a superare quell’istinto di autodifesa che c’è in noi: l’altro ci fa paura a livello inconscio, temiamo ci tolga spazio, sia una minaccia. Scriveva il filosofo inglese Thomas Hobbes: «Homo homini lupus (l’uomo è lupo per l’altro uomo)».  E Jean Paul Sartre, filosofo vissuto a cavallo della Seconda Guerra Mondiale, diceva «l’enfer, c’est les autres (l’inferno sono gli altri)». Chi si lascia andare a questa logica, ha paura nella relazione con l’altro; invece Gesù ci chiede di vivere le relazioni come lui è in relazione con il Padre e con noi. Le frasi che Gesù dice, talvolta sono paradossali. Quella volta, nella pianura, sulle rive del lago, partì il primo dei verbi “amate”: «Amate il vostro nemico». Siamo capaci di farlo in concreto? Per i nostri fratelli protestanti la persona umana non è in grado di farlo. Pensano che Gesù ce l’abbia comandato per farci capire che da soli non ci arriviamo. Allora bisogna che umilmente accogliamo la grazia come dono. Per noi cattolici la cosa è diversa. Fare del bene è sicuramente un dono di Dio, ma l’uomo con la grazia ne è capace, perché è stato creato così da Dio. Proviamoci! Così sant’Agostino: «Dio non comanda l’impossibile, ma comandando ti ammonisce di fare ciò che puoi e di chiedere ciò che non puoi (De natura et gratia, 43,50).
Nella pagina evangelica ci sono 8 verbi, i primi 4 coniugati con il “voi”: amate i vostri nemici, fate del bene a quelli che vi odiano, benedite coloro che vi maledicono, pregate per coloro che vi trattano male; poi, Gesù parla come se guardasse negli occhi me, perché usa il “tu” e dice: «A chi ti percuote sulla guancia offri anche l’altra, a chi ti strappa il mantello non rifiutare la tunica (cioè dai tutto), dà a chiunque ti chiede e a chi prende le cose tue non chiederle indietro.
Ogni giorno scriverò uno di questi verbi per averli davanti agli occhi. Non ho nemici, ma mi sono nemici l’orgoglio, la pigrizia…
Vi auguro di meditare questa pagina come “pagina di rivelazione”. Ci colloca nella logica di Gesù. Dio è papà, gli altri sono fratelli. Devo amare questo fratello come lo amano sua mamma, suo papà.
Una volta, io e il Rettore del Seminario siamo andati a visitare una comunità di monache carmelitane di cui avevamo tanta stima. Il Rettore disse alla Madre Abbadessa che aveva un ragazzo assai disobbediente e che pensava di dargli, al rientro, due ceffoni. La Madre rimase sorpresa e diede questa risposta: «Se è sicuro di volergli bene come gli vuol bene sua mamma, gli dia pure due ceffoni…».
Buona settimana a tutti! Impegniamoci con gioia a famigliarizzare con quello che Gesù ci dice: essere nel Padre. Allora il Vangelo diventa comprensibile!

Omelia nelle Esequie di don Orazio Paolucci

Pennabilli (RN), Cattedrale, 7 febbraio 2022

Fil 3,20-21
Sal 62
Gv 11,17-27

Sì, Signore Gesù, crediamo che tu sei la risurrezione e la vita. Hai chiamato a te don Orazio. La vita del sacerdote, e don Orazio è stato prete fino in fondo, è tutta una chiamata, una vocazione. Dalla prima, con la quale Orazio, appena fanciullo, è invitato a stare vicino a Gesù, all’altra, quando il Signore gli offre la sua missione e i suoi poteri, alle successive chiamate, varie e in vari ruoli, sino all’ultima chiamata, la vocazione eterna. «Ne costituì Dodici perché stessero con lui» (Mc 3,14), perché don Orazio stesse sempre con lui. La nostra cittadinanza – è stato letto poco fa – è nei cieli. Il Signore Gesù Cristo trasforma il nostro corpo per conformarlo al suo corpo glorioso.
Don Orazio ha corrisposto alle chiamate del Signore servendo tra noi con gioia. Quando l’ha chiamato per l’ultimo tratto si raccolse e fu pronto. Ha pregato, ha ricevuto i sacramenti della Riconciliazione, dell’Eucaristia e della Santa Unzione, carezza di Gesù per chi è malato. Gli avevo scritto qualche settimana prima: «Il Signore ci vuole bene e non ci chiede altro che ricominciare sempre a fare la sua volontà. Ci proviamo, ci proviamo insieme». Mi rispose: «Grazie, Eccellenza. Da ammalato ci proviamo a fare la sua…». La sua volontà.
La morte, come la vita, di un sacerdote offre a tutti motivi di riflessione, di confronto e di verifica vocazionale. Insieme all’amore a Gesù Cristo tre amori hanno caratterizzato la vita di don Orazio.

Ha amato le relazioni. Discreto, non appariscente, ma tessitore di rapporti, senza preclusioni; legami tenui per la riservatezza del suo stile, ma cari perché non invadenti. A lui si applicherebbe bene il detto di san Francesco di Sales: «Si attira di più con una goccia di miele che con una botte di aceto».
Penso al suo servizio in Curia: accoglienza delle persone, garbo nella gestione delle telefonate… Fili soltanto, si dirà, ma preziosi, gradevoli perché gratuiti. Grande considerazione e grande amore aveva per le monache della Rupe: me lo ha ripetuto anche durante il ricovero in ospedale, dispiaciuto di non poter salire al monastero.

Ha amato le lettere: saggi, articoli, letteratura classica (l’anno scorso aveva terminato “I miserabili” di Victor Hugo), la scuola. «La cura per l’istruzione è amore» (Sap 6,17), dice il libro della Sapienza.
Ha amato quanto ingentilisce lo spirito, quanto apre spazi di contemplazione sulla bellezza, sugli ideali, su Dio, quanto favorisce contatti, conversazioni e tutto ciò che introduce a rapporti di conoscenza, di amicizia, di collaborazione. Ricordava senza ombra di invidia il condiscepolo mons. Sambi, entrato da Pennabilli in servizio alla Santa Sede, divenuto poi Nunzio apostolico (ultima nunziatura a Washington). Agli studi del percorso seminaristico ha aggiunto gli studi universitari ad Urbino con laurea in Filosofia. Ha fatto scuola ad un gran numero di alunni di cui diceva: «M’han fatto tribolare, ma gli ho voluto tanto bene!» e dai quali è stato riamato, anche e soprattutto ben oltre la scuola.
La sera si ritirava nel suo studiolo (scherzosamente lo pensavo “lo studiolo del duca di Urbino”) e componeva messaggi da inviare ai parrocchiani e agli amici: un servizio soprattutto per chi non veniva in chiesa, diceva, e che comunque lui desiderava raggiungere per nutrire di Vangelo: «Non di solo pane vive l’uomo» (Mt 4,4). La bellezza con la quale va presentata la Parola di Dio è più che un dovere, soprattutto per noi sacerdoti, perché questa parola divina risplenda maggiormente, consegnata da una adeguata parola umana, e corra fra la gente e più facilmente, se così si può dire, la conquisti con la forza intrinseca della sua verità.

Ha amato la vita nascosta. Passando di frequente accanto alla sua casetta, timidamente affacciata sulla strada, il mio pensiero andava immancabilmente alla casa di Betania, la casa degli amici di Gesù: Marta, Maria e Lazzaro. Un saluto commosso rivolgo alle sorelle di don Orazio con l’assicurazione della nostra vicinanza e della nostra preghiera. Il primo pensiero, dopo aver appreso la notizia della morte di don Orazio, è stato proprio per loro.
Fu mandato in piccoli paesi, ma col cuore aperto su tutta la Chiesa e sul mondo. Fu mandato a Macerata Feltria, Rocca Pratiffi, Gattara, Maiolo e poi Miratoio e Ca’ Romano, ma non ha amato di meno la sua Pennabilli, apprezzando iniziative e dialogando con tutti. Nel Vangelo si dice di Gesù che la sua missione era di andare di villaggio in villaggio ad annunziare il Regno e a fare del bene (cfr. Mc 6,6; Mt 13,58; Lc 9,6). Un sacerdote, come Gesù, è inviato a passare da un luogo all’altro, da una comunità all’altra, per permettere così a Gesù di continuare nel tempo il suo ministero, umilmente.
Don Orazio se n’è andato in punta di piedi. Tutti noi, spiazzati dal rapido assalto della malattia, quasi non ce ne siamo accorti e adesso siamo impegnati a rovistare nella memoria l’ultima chiacchierata con lui, l’ultimo saluto, l’ultimo sorriso, eredità preziosa. Ha accettato solo per compiacenza al vescovo la nomina di canonico della Cattedrale. Voi tutti sapete quanto ha dato, sapete anche che non si è mai sopravvalutato, al contrario. Pregando per lui, con lui e ora insieme a tutti voi, sento la bellezza e la validità di queste parole del Messale Romano: «Di tutti noi abbi misericordia, donaci di avere parte alla vita eterna insieme alla beata Maria, Vergine e Madre di Dio; con gli apostoli, i santi, che in ogni tempo ti furono graditi, e in Gesù Cristo, tuo Figlio, canteremo la tua lode e la tua gloria».
Saluto don Orazio con le parole che il Siracide rivolge a Mosè: «Fu amato da Dio, fu amato dagli uomini, il suo ricordo è benedizione» (Sir 45,1).

Omelia nella V domenica del Tempo Ordinario

Pennabilli (RN), Cappella del Vescovado, 6 febbraio 2022

Giornata Nazionale per la Vita

Is 6,1-2.3-8
Sal 137
1Cor 15,1-11
Lc 5,1-11

Il lago, la folla, Gesù.
Il lago. Lo chiamano anche “mare di Genesaret” (cfr. Mc 1,16; 2,13; 4,1 e paralleli di Mt e di Gv), ma l’evangelista Luca, conoscendo la vastità del Mediterraneo preferisce chiamarlo “lago”; comunque, faceva impressione ai pescatori tanto era grande; aveva una forma che richiamava una chitarra, da cui il nome di Genesaret. Quante storie, quante meraviglie riguardo al lago, e quanta fatica pescare, ripulire le barche e le reti e poi le rotte, le burrasche, il vento…

La folla. La folla è fatta di persone stupefatte dall’insegnamento di quel Maestro. Sono affascinati dal suo parlare semplice e nello stesso tempo profondo. Racconta parabole, insegna con autorevolezza.

Gesù. Gesù questa volta, mentre ha la folla attorno che quasi lo comprime, vede in lontananza alcuni amici pescatori che sembrano non essere affatto coinvolti. Hanno pescato tutta la notte senza prendere nulla e sono aggrovigliati nelle loro reti vuote, nel loro fallimento, chiusi in se stessi. Gesù li chiama, li interpella e chiede loro una barca. Interessante che una barca diventi pulpito, luogo di insegnamento sul quale Gesù siede per ammaestrare. Interessante anche che Gesù domandi. Più volte nel Vangelo Gesù interpella persone che apparentemente hanno poco da spartire con lui. Basti pensare alla donna samaritana a cui rivolge la domanda: «Dammi da bere» (Gv 4,7), oppure a Zaccheo, peccatore pubblico, al quale Gesù dice: «Invitami a casa tua» (cfr. Lc 19,5). E se Gesù chiede è sicuramente per dare. Lo vediamo con Simon Pietro e con i suoi compagni pescatori.

In questa giornata di prodigi il primo miracolo è il fatto che Pietro e gli amici accettano di dare la loro barca vuota a Gesù. Faccio una lettura simbolica: mettono a disposizione quella barca vuota, i cuori avviliti, il fallimento della pesca, e Gesù sul loro “nulla” farà grandi cose.
Gesù è sulla barca che, ondulando, galleggia sulle onde, mentre la gente sta sulla terra ferma: lo ascolta, ma sembra non arrischiarsi più di tanto. L’insegnamento di Gesù effettivamente è “nuovo” e autorevole (cfr. Lc 4,36).
C’è un secondo miracolo: questi pescatori non solo cedono la loro barca, ma cedono – per così dire – la loro disponibilità. Superano il senso di fallimento per la pesca della notte precedente, andata male, accettano il rischio di mettersi a pescare in pieno giorno, quando si sa che il tempo favorevole è la notte, e avviene la sorpresa – il terzo miracolo di quel giorno –: si ritrovano le reti che quasi si rompono e una barca piena di pesci; chiamano gli amici per raccogliere questa pesca straordinaria. Pietro si getta ai piedi di Gesù dicendo: «Allontanati, Maestro, sono un peccatore». E Gesù invece lo invita a «non temere». Però, bisogna che la barca di Pietro – prendiamola come metafora – non sia come quelle barche lungo il fiume che sono ben piantate alle sponde e sono state trasformate in ristoranti galleggianti, romantici, con una cucina squisita… La barca di Pietro è una barca che deve lanciarsi, osare, affrontare il largo. Questo vale per tutti noi! Come vorremmo che la scialuppa della nostra comunità, la barca della nostra parrocchia, il transatlantico della Chiesa fossero pieni di audacia. Pietro, e noi con lui, non dobbiamo temere. Anche il racconto della vocazione di Isaia contempla un primo momento di smarrimento: l’impresa è grande. Notare la diversità dei luoghi della chiamata, ma la somiglianza nella risposta. Isaia sente la chiamata nel tempio, in una visione straordinaria. Pietro viene chiamato nella sua quotidiana e faticosa attività di pescatore. Ambedue i chiamati protestano la loro inadeguatezza, la loro condizione di peccatori e il loro timore. Poi rispondono: «Eccomi!». In questo anno pastorale, tutto incentrato sulla missione, rinnoviamo il nostro «sì!».
Faccio un altro collegamento: il lago, la navigazione e la nostra esistenza. Oggi è la Giornata Nazionale per la Vita, che ha come tema custodire ogni vita. Il vangelo di oggi è un grande invito alla fiducia, ad intraprendere questo cammino prendendoci cura gli uni degli altri, soprattutto di chi è più fragile: i bimbi che stanno per nascere, le persone anziane in difficoltà, gli ammalati, tutti coloro che ci fanno capire, con la loro fragilità, la preziosità della vita.
Auguri, buona navigazione!

Omelia nella Festa della Presentazione di Gesù al Tempio

Valdragone (RSM), Casa San Giuseppe, 2 febbraio 2022

XXVI Giornata mondiale della Vita consacrata

Ml 3,1-4
Sal 23
Lc 2,22-40

A quaranta giorni dal Santo Natale ecco la Festa della Presentazione del Signore al Tempio. «Alzate, o porte, la vostre fronte, alzatevi soglie antiche ed entri il Re della Gloria» (cfr. Sal 24,7). Se fossimo stati presenti in quel momento chi avremmo visto entrare attraverso il grande portale del Tempio di Gerusalemme? Avremmo visto una mamma, Maria di Nazaret, e il suo sposo, Giuseppe; avremmo visto un bimbo, neonato; avremmo visto un giusto, Simeone, e una donna anziana, Anna. Persone semplici. Ma, con gli occhi della fede, attraverso di loro, accade qualcosa di straordinario. Siamo nel cuore del Vangelo. Lo si dice di tante pagine, ma qui c’è l’attesa e c’è l’incontro; c’è lo splendore e la forma che quello splendore ha preso; c’è il desiderio e c’è il compimento. Il Figlio del Dio vivente entra nel suo Tempio. Nessuno se n’è accorto. Eppure, è accaduto qualcosa di straordinario, unico: Lui, la “pietra angolare” (cfr. 1Pt2,6-7), viene accolto nel Tempio fatto di pietre.
Mi vengono in mente – sono passati poco più di ventiquattro mesi dal pellegrinaggio diocesano in Terra Santa – le pietre del Muro Occidentale, là dove oggi si ritrovano gli ebrei per celebrare e implorare il “Santo, Benedetto Egli sia”, come dicono. Guardando quelle pietre, la mente attraversa il tempo e la storia. E noi, che siamo qui oggi, siamo invitati ad essere pietre vive di una Chiesa aperta al mondo, alla gente del nostro tempo. È stato bello stamattina, quando proprio uno degli eremiti ci ha fatto capire che la fraternità è la dimensione fondamentale della vita religiosa e, prima ancora, di ogni vita cristiana. “Pietre vive” della Chiesa (cfr. 1Pt 2,5), pietre sconosciute e spesso invisibili al mondo, pietre senza apparenza né splendore, direbbe il profeta Isaia (cfr. Is 53,2), ma poco importa. Dobbiamo essere e stare al nostro posto. Se manca una sola pietra, tutto può crollare.

Vi invito a volgere il vostro sguardo a Simeone e ad Anna. Ciò non ci allontanerà dal Signore, presentato al Tempio da Maria e Giuseppe. Simeone ed Anna sono degli anziani che l’attesa non ha invecchiato nel cuore. Le prove della vita (di Anna si dice che è stata sposata sette anni, quindi è vedova e una volta la condizione di vita di una vedova non era facile, perché non c’erano forme di assistenza), lungi dall’abbatterli, non hanno fatto che accrescere il desiderio di incontrare il loro Signore. L’augurio che faccio a tutti è di non calare di tensione verso il Signore. Come accade agli sposi nel matrimonio, c’è un grande amore all’inizio, un amore che li rende forti, capaci di affrontare le difficoltà e il cammino dei figli, ecc. Può avvenire che l’amore sia sopraffatto dall’abitudine e possa diventare mediocre. La grazia del sacramento è sempre presente.
Le esistenze di Simeone e Anna, rimaste giovani, non si spiegano altrimenti se non per l’intima presenza dello Spirito Santo che è in loro. Il Vangelo di Luca è il Vangelo dello Spirito Santo: Luca è l’evangelista della Pentecoste ed è colui che ci racconta come lo Spirito ha plasmato la prima comunità cristiana. La vita di Simeone ed Anna è animata dallo Spirito. Simeone è anziano, Anna ha 84 anni, eppure lo Spirito Santo li rende attenti a percepire il nuovo, a cogliere la presenza del Signore che viene. Simeone ed Anna hanno scritto ante litteram la Sequenza di Pentecoste: «Veni, Sancte Spiritus, et emítte caelitus lucis tuae rádium», perché ci sono quasi tutti gli appellativi con i quali noi identifichiamo lo Spirito Santo, la Terza Divina Persona. Hanno proclamato con tutto il loro slancio colui che è detto Consolatore perfetto: “consolazione d’Israele”, riposo: «ora lascia, o Signore, che il tuo servo vada in pace secondo la tua parola», sorgente e luce delle genti, colui che purifica, riscalda, guarisce, raddrizza… Chissà quante volte Simeone ed Anna, frequentatori affezionati e devoti del Tempio, hanno meditato il testo del profeta Malachia riguardante il Signore terribile e potente che entra nel suo Tempio. «E subito entrerà nel suo Tempio il Signore che voi cercate; l’angelo dell’alleanza che voi sospirate, ecco, dice il Signore degli eserciti». Chi sopporterà il giorno della sua venuta? Chi resisterà al suo apparire?». Senza l’aiuto dello Spirito Simeone ed Anna non avrebbero potuto riconoscere in quel cucciolo d’uomo il Signore che prende possesso del suo Tempio. Simeone ed Anna oggi ci fanno da maestri, ci insegnano a vivere permanentemente in compagnia dello Spirito Santo. Cosa dobbiamo fare per convivere con lo Spirito Santo? Simeone ed Anna ci insegnano innanzitutto ad ascoltare la sua voce dentro di noi. Prima delle preghiere, chiediamo che lui ci introduca, ci faccia varcare quella soglia. Quando intingiamo la mano nell’acquasantiera, pensiamo all’acqua del Battesimo; ricordiamo quando Gesù ha gridato: «Dal seno di chi crede sgorgherà l’acqua che zampilla» (Gv 7,38). Invochiamolo di frequente durante la nostra giornata: «Vieni Santo Spirito!», durante una riunione in cui si fatica a trovare un accordo, «Santo Spirito fa’ che io dica una parola buona»… Manteniamo dentro di noi una conversazione con lui. Facciamo l’esercizio di imparare i sette doni dello Spirito Santo e, a seconda dell’opportunità, invochiamoli. Lo Spirito diventi il «dolce ospite dell’anima», come dice la Sequenza di Pentecoste. Dello Spirito si va dicendo che è il grande sconosciuto, per la nostra ignoranza, però non si dica che è estraneo. Lo Spirito non ci lascia nell’oscurità, ma ci guida verso la luce interiore dove si può incontrare Gesù.
Gesù entra nel Tempio di Gerusalemme, è accaduto. Adesso il Tempio dove entra è la mia persona e la persona di mio fratello e di mia sorella. Con la presenza coltivata dello Spirito Santo la nostra attesa non sarà delusa.

Omelia nella IV domenica del Tempo Ordinario

Maciano (RN), Convento Santa Maria dell’Oliva, 30 gennaio 2022

S.Messa in memoria della Beata Maria Bolognesi

Ger 1,4-5.17-19
Sal 70
1Cor 12,31-13,13
Lc 4,21-30

È l’evangelista Luca che quest’anno ci fa conoscere un altro profilo di Gesù. Durante il tempo natalizio ci ha informato sulla sua nascita: Luca racconta tutto con gli occhiali della risurrezione – è testimone di come Gesù è risorto, è vivo – e quindi racconta anche l’infanzia in questa ottica. Il Bambino adagiato nella mangiatoia è il Signore deposto nel sepolcro. Il Signore che viene accompagnato al Tempio è il Messia che prende il suo posto nella Casa del Padre. Poi, sembra esserci un grande silenzio, per trent’anni: la vita di Nazaret. Per la cronaca sono trent’anni di silenzio, ma in verità quei trent’anni anni sono un urlo, perché Gesù proclama con la sua vita il valore del quotidiano, della famiglia, del lavoro, con tutte le virtù che vediamo concentrate nella casa di Nazaret. Poi, Gesù scende al fiume Giordano e lo oltrepassa. Qui Giovanni Battista lo accompagna e c’è la grande rivelazione: quel Gesù, figlio del falegname che vive a Nazaret è il Messia, il Figlio di Dio su cui è scesa visibilmente la presenza dello Spirito. Però dovrà attraversare il deserto, proprio come il popolo d’Israele; dovrà essere provato per farci vedere come si vive da figli, cioè nell’abbandono fiducioso al Padre.

Da quel momento comincia la vita profetica di Gesù. Avete sentito il profeta Geremia nella Prima Lettura: «Prima di formarti nel grembo materno, ti ho conosciuto…». Questo è vero in modo eminente per Gesù. «Prima che tu uscissi alla luce, ti ho consacrato e ti ho stabilito profeta delle nazioni». Poi, il profeta Geremia continua con un invito al coraggio. L’evangelista Luca racconta come Gesù lascia il Giordano, il deserto e le rive del lago, dove ha già fatto dei miracoli e radunato un drappello di compagni di viaggio (gli apostoli) e va a Nazaret, torna al suo villaggio, preceduto da una certa fama. Lo invitano in sinagoga, a leggere le Sacre Scritture – forse l’aveva fatto anche altre volte – e a prendere la parola: «Lo Spirito del Signore è su di me, mi manda per annunciare ai poveri la tenerezza di Dio, la luce per chi è nel buio, la libertà per chi è oppresso, un anno di grazia per tutti». I presenti sono ammirati: Gesù ha fatto un discorso eccellente, ma dopo un po’ le cose cambiano. I suoi concittadini sono in difficoltà su due punti; è importante saperlo, non è un pettegolezzo del passato, forse sono gli “inciampi” che proviamo anche noi nell’accettare totalmente Gesù, senza riserve.

Primo “inciampo”: «Gesù, tu dici cose meravigliose, ma chi ti credi di essere? Stai usando un tono così definitivo che ci sembra pretenzioso. Dici che oggi si è adempiuta questa scrittura… Vola basso, sei il figlio di Giuseppe, il falegname!». Il primo “inciampo” è la difficoltà ad accettare che il profeta Gesù, che si rivelerà pienamente nella sua identità di Messia, è un uomo comune, è uno del posto, uno che vive accanto a tutti: cosa può avere di così speciale? Questo capita anche tra di noi… Terribile l’invidia: è un meccanismo che si subisce, ma di cui bisogna prendere coscienza, soprattutto quando si è alla pari in una famiglia, in una comunità, in una diocesi, tra colleghi e ci si confronta. Se non lo si rimuove, cresce e fa disastri. Di chi ci sorpassa si dice: «Quello è un arrivista! Chi si crede di essere!».

Ho fatto un’esperienza come postulatore per la beatificazione di un parroco che aveva dodici piccole parrocchie sull’appennino parmense. Ho ricevuto lettere di alcuni che pensavano che quel sacerdote non fosse poi così speciale. Era un sant’uomo, amava molto i poveri; raccontano che, quando scendeva in città a Parma dava via tutto quello che aveva e doveva chiedere in prestito i soldi per pagarsi il biglietto per poter tornare. Però era un sacerdote “normale”. La santità non consiste nel far cose mirabolanti. Padre Raffaele, parlandoci della beata Maria Bolognesi, ha riferito che neppure i suoi famigliari sapevano che aveva dei doni mistici. Io, ad esempio, rimasi molto sorpreso: sapevo che, in alcuni momenti, soprattutto in Quaresima, riviveva la coronazione di spine, ma, incontrandola, mi accorsi che aveva una fronte bellissima. Quando è stata beatificata – ero presente alla cerimonia a Rovigo il 7 settembre 2013 – ricordo che mi venne un gran desiderio di santità, di darmi a Dio per davvero. Fu una grazia attuale data attraverso di lei. Ho capito che la santità è per tutti, è praticabile.

Il secondo “inciampo” per i nazaretani fu questo (complice Gesù): per parlare della tenerezza di Dio Gesù è ricorso a due esempi che non sono piaciuti. Gli ascoltatori non si accorgono che Gesù parla proprio di loro. Sono loro i ciechi, i lebbrosi, i poveri che devono aspettarsi la tenerezza di Dio. Gesù parla per loro, per offrire loro l’amore di Dio. Gesù fa l’esempio del profeta Elia che va a Sidone, città della Fenicia, dove ci sono stranieri, pagani, lontani. I nazaretani non amano essere paragonati ai pagani. Gesù fa un altro esempio: Eliseo fa sentire la prossimità di Dio a Nàaman, un pagano, un nemico, un siro. I nazaretani non capiscono questa abbondanza di grazia fuori dal loro cerchio. Ma il Signore non conosce frontiere!

Vi invito a rileggere l’Inno alla carità (Prima Lettera di San Paolo ai Corinti). Comincia con l’ultimo versetto del capitolo 12: «Aspirate ai doni più grandi». Poi nel capitolo 13 Paolo fa l’elenco di tutti i doni straordinari, concludendo che quello che vale è l’amore. Tutti siamo capaci di amare, perché siamo stati fatti ad immagine di Dio, di Dio-Amore. Dio non ci chiede di essere artisti, cantanti, presidenti della Repubblica… ci chiede di amare. E questa è la santità!

Discorso in occasione della Preghiera ecumenica nella Domenica della Parola

«In Oriente abbiamo visto apparire la sua stella e siamo venuti qui per adorarlo» (Mt 2,2)

Incontro online

Mt 2,1-12

Ringrazio don Marco Scandelli e don Rousbell Parrado che hanno organizzato questo raduno, rivolgo un caro saluto a padre Gabriel Cerbu (Parrocchia Ortodossa Romena di San Marino), ad Alessandro Esposito (Chiesa Valdese di Rimini), al Prof. Natalino Valentini (Istituto Superiore di Scienze Religiose “A. Marvelli”) e abbraccio tutti voi, care sorelle e cari fratelli.
«Dio disse ad Abramo: “Guarda in cielo e conta le stelle, se riesci a contarle”» (Gn 15,5). Un amico astronomo mi ha detto che di stelle se ne contano approssimativamente 400 miliardi, solo per stare alla Via Lattea, e di galassie ce ne sono a non finire… Mi incanto davanti al cielo stellato in queste sere d’inverno e mi incanto davanti al Bambino su cui si è posata la stella di Betlemme, un’estasi vissuta dagli antichi astronomi, dai magi, dai poveri pastori e dai poeti dinanzi allo stesso cielo stellato.
Baruc, un profeta post esilico, vede le stelle danzare di gioia. «Le stelle – scrive – brillano dalle loro vedette e gioiscono; il Signore le chiama e rispondono “eccoci!” e brillano di gioia per colui che le ha create» (Bar 3, 34-35). Isaia precisa che il Signore le chiama tutte per nome e nessuna manca all’appello (Is 40,26, cfr. Sal 147,4). Chiedo: come si chiama la stella dei magi? Troviamole un nome. Io la chiamo stella dei cercatori. Possono vederla quelli che, senza restare impigliati troppo nel fare, sanno alzare gli occhi al cielo. Questa – la stella dei cercatori – è una stella fatale, che mette in cammino. Irresistibilmente. Assomiglia tanto al desiderio che ti lascia inquieto finché non trovi riposo.
Per i magi il cammino fu reale, non metaforico; hanno macinato molta strada; hanno, fotografati nella mente, tanti paesaggi, dall’Oriente fino a Betlemme. Andata e ritorno. Hanno messo in moto non soltanto i piedi e le gambe, ma anche la mente e il cuore. È probabile non sia mancato chi si è preso gioco di loro e della loro improbabile storia di stelle. Tanta strada per cosa poi? Non porteranno a casa né oro né avorio, né marmi preziosi… troveranno soltanto terra sabbiosa riarsa. E poi verrebbe da dire: «Non è l’Oriente la culla della luce? Perché cercare in Occidente?». Ma “chi cerca trova”, anche se gli può succedere di sbagliare. Ai magi è capitato di sbagliare. All’inizio hanno mancato il bersaglio. È nato il re dei Giudei, dove cercarlo se non nella grande città di Gerusalemme, la città santa, la città cosmopolita? Quel Bambino nasce a Betlemme, che era ben oltre la città di Gerusalemme: era un piccolo villaggio nella campagna. E a Gerusalemme che cosa fanno i magi? Vanno a palazzo. Dove cercare un re se non in una reggia? Come direbbe Giovanni Battista: «Là dove abitano quanti vestono in morbide vesti…» (cfr. Mt 11,8). Ma il Bambino che li attende è adagiato sulla paglia. Interpellano incautamente Erode, la corte, i sacerdoti del Tempio, anziché interrogare i pastori… Tutti errori: la grande città, il palazzo, i grandi sapienti, mentre invece quel Bambino non è nato a Gerusalemme, ma a Betlemme, non è in un palazzo ma in un presepio e di lui sanno di più i poveri pastori che i dotti. Errare humanum est, si dice, ma i magi hanno l’infinita pazienza di ricominciare: interrogano di nuovo le Scritture e la stella. Confermo, “chi cerca trova”, e chi trova non smette di cercare. Per chi trova, infatti, è molto importante anche il ritorno. È strada nuova, perché l’incontro li ha fatti nuovi. Dice il Vangelo: «Per un’altra strada fecero ritorno al loro paese».

Vorrei concludere con una preghiera: «La tua venuta, Signore, è stata annunciata dai profeti. Michea ha indicato il luogo della tua nascita, “da te Betlemme uscirà il capo del mio popolo Israele” (cfr. Mi 5,1); Isaia svela il mistero e grida: “Risplendi, Gerusalemme, è venuta la tua luce, la gloria del Signore si è alzata su di te” (Is 60,1). Con te, Signore, finisce la notte, arriva il giorno, la luce sorge e brilla, sei tu Gesù questa luce. Un giorno lo dirai tu stesso ai discepoli – questa sera lo dice a noi –: “Io sono la luce del mondo” (Gv 8,12). Tu sei la gloria del Padre che sprigiona su noi. Venendo in mezzo a noi, ci riveli il mistero del Dio che è amore e che vuole condividere con noi il suo amore. Gesù, questa è la tua missione sulla terra, missione che la tua Chiesa deve continuare. Inevitabile, Signore, che ci chiediamo: la nostra vita è luce e gloria del Signore? Alla tua nascita una luce ha brillato sul mondo. In Oriente i magi hanno saputo riconoscerla: “Abbiamo visto la sua stella e siamo venuti!” (Mt 2,2). Tu, Signore, continui a brillare sulla terra, vogliamo essere più attenti a scoprire la tua stella. Del resto, è la stella dei cercatori, ci tiene continuamente in cammino. Siamo così spesso ripiegati su noi stessi, sui nostri problemi, sui nostri interessi, proprio come Erode e gli scribi di Gerusalemme ai quali non importa di venire a te. I magi riconoscono nel Bambino che sta tra le braccia della fanciulla di Nazaret, Maria, il re dei Giudei. Il loro atteggiamento esprime bene la loro fede e il loro amore, cadono in ginocchio e ti offrono i loro doni. È quello che questa sera vogliamo fare anche noi, tutti insieme, in questo cammino verso l’unità. Nell’accoglienza di questo dono che tu, nella fede, già ci fai». Così sia.

Omelia nella III domenica del Tempo Ordinario

Murata (RSM), 23 gennaio 2022

Domenica della Parola

Ne 8,2-4.5-6.8-10
Sal 19
1Cor 12,12-30
Lc 1,1-4; 4,14-21

1.

In conformità con lo stile letterario del tempo l’evangelista Luca comincia il suo Vangelo con un Prologo, una dedica e una descrizione del metodo di lavoro che ha seguito. Siamo abbagliati dal Prologo di Giovanni, ma non dobbiamo sottovalutare quello di Luca. Luca vuol porre il suo scritto alla pari di altri lavori letterari della sua epoca e mostrare così che il contenuto del libro – il Vangelo – non è riservato alla cerchia ristretta di iniziati palestinesi, ma ha un valore universale. La storia di Gesù appartiene alla storia del mondo e quindi ha qualcosa da dire ad ogni persona del suo tempo, il mondo greco-romano, così come al mondo di tutti i luoghi e di tutti i tempi, compreso il nostro: siamo noi i lettori.

2.

Interessante notare come Luca taccia il suo nome. Non si è dimenticato! È come se Luca si mettesse da parte per far parlare la Tradizione apostolica, così egli stesso diventa un servitore della Parola. Ha consapevolezza di non appartenere più alla prima generazione, cioè quella di chi ha vissuto con Gesù. Luca viene dopo, però sente che è importante mettere insieme, con cura e con grande scrupolo, tutto quello che Gesù fece ed insegnò da principio. Da notare: i fatti riguardanti Gesù appartengono ad una realtà che ha raggiunto la sua pienezza (Luca adopera il verbo “portare a compimento”). La vita di Gesù, infatti, ha raggiunto il suo compimento con l’evento della morte e risurrezione, evento che getta la luce su tutti i fatti e su tutto il comportamento di Gesù terreno e, nello stesso tempo, apre tale esistenza alla storia successiva. Possiede attualità nell’oggi di ogni tempo. L’evangelista vuol scrivere una storia, ma lo fa con l’occhio del credente che vede la vicenda di Gesù alla luce della fede e la inserisce nel grande disegno di Dio. Il Vangelo, dunque, non è nato da un entusiasta nostalgico che, dopo tanti anni, s’è messo in testa di scrivere i suoi ricordi, ma tutto è scritto secondo la garanzia di testimoni oculari.

3.

Al tempo di Luca – quando scrive il Vangelo siamo nel 70-80 d.C. – nascono già gli errori, le deviazioni, che minacciano le comunità sia dall’esterno che dall’interno. Di conseguenza, Luca giudica necessario questo ritorno alle fonti, all’autentica Tradizione apostolica. Anche oggi abbiamo bisogno che la parola chiara del Vangelo dia solidità alla nostra fede nel Signore Gesù, al di sopra di tutte le incertezze, delle paure ad impegnarci sulla parola del Vangelo. Anche noi, in qualche modo, siamo quei “Teofilo”, parola che significa “amico di Dio”. Teofilo è un personaggio ben preciso della prima comunità cristiana, però ognuno di noi può dire di essere un “teofilo”, “un amico di Dio” (interessante:  anche Bach ha una sua composizione dedicata ad un certo Gottlieb Theophilus).

4.

Dopo il Prologo la pericope evangelica di oggi parte con l’attività pubblica di Gesù in Galilea. Gesù va in sinagoga, luogo della riunione e della preghiera per ogni pio israelita; partecipa con puntualità – il Vangelo dice che andava ogni sabato – alla preghiera comune; ascolta le parole che Dio ha rivolto al suo popolo, canta i Salmi. Avrete notato come la Prima Lettura, quella del libro di Esdra, e questa pagina di Vangelo si rimandino vicendevolmente. Qui Gesù proclama la Parola, al tempo di Esdra altrettanto. La gente era commossa, era piena di gioia, festante: Dio ci parla! Anche Gesù era contento e ha anche imparato una cosa (forse gliel’ha insegnata la mamma o san Giuseppe): nelle cose di Dio non vale il “fai da te”. Gesù è contento di appartenere al suo popolo, di partecipare ai suoi riti e alle sue tradizioni: Gesù è come un fiore che sboccia sul grande albero della storia di Israele.
Quel sabato, dopo la preghiera iniziale, Gesù viene invitato a prendere la parola: era un giovane conosciutissimo (Nazaret era un piccolo borgo), forse non era la prima volta, ma l’evangelista dà grande rilievo a questo momento e, con fine arte letteraria e sensibilità psicologica, evidenzia l’atmosfera di suspence dell’uditorio di fronte al nuovo maestro e, in tal modo, sottolinea il carattere programmatico del commento che Gesù farà a quella pagina della Scrittura. Quello che Gesù sta per dire è della massima importanza, è il suo manifesto. È sorprendente la solennità con cui si compie quel rito: viene consegnato il rotolo, Gesù lo apre, trova il passo, si alza, legge, chiude il volume, lo restituisce al cerimoniere, gli occhi di tutti sono puntati su di lui, si fa grande silenzio. I nazaretani cominciano a capire chi è Gesù. Anche noi! A differenza dei predicatori del suo tempo non si perde nei labirinti dell’esegesi o dell’ampollosità della retorica, ma va al sodo. È come se Gesù dicesse: «Cosa dovete portarvi a casa oggi? Quale idea dovete portare con voi per la vostra vita?». Gesù punta dritto su ciò per cui è stato scritto quel testo (Is 61). «Oggi si compie questa Scrittura che oggi avete udita con i vostri orecchi». Vale per noi: oggi si compie quello che la Parola dice. La parola “oggi” ha un peso specifico. Con quell’oggi Gesù lega la sua persona all’avvento del Regno di Dio, alla signoria di Dio, alla regalità di Dio. Il Regno sta per comparire tra gli uomini; l’umanità che sfila agli occhi di Isaia è povera, prigioniera, cieca, oppressa…

5.

Sottolineo un paio di particolari: Gesù non mette se stesso come scopo della storia, ma la persona umana. «Lo Spirito del Signore – sottolinea Gesù (immagino l’abbia detto con un trasporto particolare) – è su di me, per questo mi ha consacrato con l’unzione e mi ha mandato» proprio per questa umanità. La vocazione di Gesù – questo è un testo altamente vocazionale – è quella del prendersi cura con tenerezza di questa umanità. E l’esito della missione di Gesù è un’umanità finalmente liberata, gioiosa, senza paure, con occhi di luce. Permettete una metafora: come nello sviluppo delle fotografie su pellicola si passa dal negativo al positivo, così la vocazione di Gesù può essere raccontata come il giudizio sull’umanità ribelle, considerata nell’abisso del suo peccato, da ricondurre a sottomissione (ricorderete la predicazione di Giovanni Battista) oppure la predicazione di Gesù può essere vista come una buona notizia, come festa di poveri che possono cominciare a sperare, di uomini riconciliati, di oppressi che alzano il capo e danzano. Inizia così il cammino di Gesù tra noi. Sono i poveri il cuore del Vangelo.
Si può obiettare: la guerra divampa in molte regioni… Sì, però abbiamo scoperto la forza della nonviolenza. Si potrebbe dire che dopo duemila anni i poveri sono ancora tanti tra noi, ma la condivisione è venuta a sostituire l’umiliante carità fatta dall’alto. Qualcuno potrebbe dire che la dignità dell’uomo è calpestata dalla prepotenza delle finanze mondiali, ma ci sono uomini di buona volontà che si inventano forme di economia sociale e di economia di comunione per tradurre il bene nella storia.
Lo Spirito che era sopra Gesù riposa oggi su di noi, su chi avanza, pur con poveri mezzi, con un cuore aperto verso gli altri per il bene. Se tu leggi il Vangelo e lo vivi diventi un altro Gesù, oggi. Questa è la perenne novità del Vangelo.

Omelia nella II domenica del Tempo Ordinario

Sartiano (RN), 16 gennaio 2022

Is 62,1-5
Sal 95
1Cor 12,4-11
Gv 2,1-11

Cana è il primo dei segni, dei miracoli, compiuti da Gesù. Perché la liturgia ha scelto di raccontarci questo episodio? È il primo dei miracoli, ma non è il primo episodio del Vangelo. È stato scelto perché ci fa vedere che Gesù è un grande taumaturgo? Non è tanto questo. Per evidenziare la compassione per quei giovani sposi? Forse neppure per questo. Il vero motivo è che qui siamo in presenza di una “epifania”. Se ci fu quella ai magi, nella casa di Betlemme, poi quella sulle rive del fiume Giordano con la proclamazione di Gesù Figlio di Dio, il Servo sofferente, l’amato, adesso, a Cana di Galilea, c’è la manifestazione di Gesù Sposo. Il Vangelo ci invita subito alla fede. Non c’è una manifestazione lenta, progressiva, riguardo a chi è Gesù. Gesù, fin dalla prima pagina del Vangelo di Giovanni, è presentato come il Figlio di Dio, il Verbo fatto carne. Allora è inevitabile che, fin dall’inizio, davanti a lui si prenda una decisione: credere o non credere.
Meditando questo Vangelo si possono cogliere tantissimi temi: l’intercessione di Maria e il suo invito: «Fate tutto quello che lui vi dirà»; il significato di quelle anfore vuote, poi riempite d’acqua che viene trasformata in vino.
Offro quattro sottolineature riguardo al segno compiuto da Gesù a Cana di Galilea: segno di gioia, segno di amore, segno di Pasqua e segno per gli sposi.
Segno di gioia. In effetti il primo prodigio di Gesù – l’acqua trasformata in vino – non è altro che un messaggio di gioia: siamo ad un banchetto di nozze, c’è festa. È la gioia la caratteristica che Gesù annuncia subito. Nelle risposte che sono state date in alcuni Gruppi Sinodali è stato sottolineato: «Perché la Chiesa non sembra annunciare la gioia? O meglio, perché annuncia solo quella nella vita eterna, dopo questa valle di lacrime? Non c’è un messaggio di gioia anche nel presente? La Chiesa non dovrebbe, come ha fatto Gesù, annunciare il Regno come una festa di nozze?».
Il miracolo di Cana è anche un segno di amore. Ho letto il commento di un autore che chiosa: «Venite, venite! Dio si sposa!». In effetti Gesù dà alla sua predicazione una intonazione nuziale. Quando Dio vuol parlarci del suo amore sceglie il segno dell’amore fra lo sposo e la sposa. E noi, a nostra volta, quando vogliamo dire qualcosa di grande riguardante il matrimonio facciamo riferimento all’amore di Dio. Quel vino di nozze, che è il simbolo della gioia, non è da centellinare, come si fa con ciò che svapora in fretta, o da custodire gelosamente. Al contrario, è in abbondanza, è per sempre, è il vino dell’alleanza e della gioia; la Chiesa non deve tenerlo per sé, per farne uso esclusivo, ma lo fa tracimare per offrirlo a tutti.
Il miracolo di Cana è anche segno della Pasqua. L’evangelista Giovanni non ha il racconto dell’istituzione dell’Eucaristia, ma presenta tre avvenimenti che la preannunciano (prolessi): Cana (il brano che stiamo meditando), il discorso del Pane di vita nella sinagoga di Cafarnao (cfr. Gv 6) e la lavanda dei piedi (cfr. Gv 13). Cana, dunque, è l’annuncio profetico del Corpo di Cristo che viene dato e del suo sangue che viene versato ed è presente Maria: come a Cana, Maria è presente nel momento della croce, quando Gesù dà interamente se stesso. Là sarà giunta la sua ora qui anticipata. Anche a questo proposito ho raccolto qualche provocazione nei Gruppi Sinodali: «Le nostre Messe non dovrebbero essere sotto il segno della gioia? Non viene condiviso il sangue della nuova Alleanza che è il vino nuovo portato da Gesù? Perché, talvolta, appaiono tristi, dimesse, poco vissute?». Dipende da noi.
Il segno di Cana è un segno per gli sposi. Molti hanno scelto il racconto delle nozze di Cana per la celebrazione del loro matrimonio. Accade, anche fra gli sposi più innamorati, che venga meno la tenerezza, il perdono, l’amore con la sua intensità. Allora è bello rileggere questa pagina e vedere come Gesù, nell’oggi della sua presenza sacramentale, assicura tutto l’amore e la tenerezza necessari. Fare memoria del sacramento del Matrimonio è una grande risorsa, soprattutto nei momenti difficili. Auguri, «venite alle nozze! Dio si sposa», si sposa con noi.