Pennabilli (RN), Cattedrale, 28 marzo 2024
Faccio mie le parole di Gesù: «Desiderio desideravi hoc Pasca manducare nobiscum» (Lc 22,15). Ma ci sono esigenze del cuore più vere, più importanti: quella di conoscere Lui e la potenza della sua risurrezione (cfr. Fil 3,10). Per questo mi smarco, perché solo Lui, Gesù, sia il centro della nostra meditazione.
Oggi è per noi festa grande: siamo qui a celebrare la comunione del nostro sacerdozio insieme ai nostri fedeli, la comunione tra noi, la comunione con Lui. La liturgia ci vede riuniti per la rinnovazione delle promesse sacerdotali e soprattutto per stringere nuovamente il patto di alleanza con Cristo.
Il Vangelo, letto e commentato tante volte, ci vuole a confronto con Cristo, modello della vita sacerdotale. Guardiamo a Lui, esaminiamo la nostra condotta, vediamo se assomiglia alla sua, e rinnoviamo volentieri i propositi di lasciarlo agire in noi liberamente e totalmente.
Il ministero esige una perfetta consonanza della nostra mente, del nostro cuore, dei nostri sentimenti, dei nostri atti, quasi una fusione della nostra persona con la sua. È san Paolo che per primo ha fatto uso (e forse inventato) la formula “in persona Christi”. Siamo chiamati a operare “in persona Christi”, immersi in Lui, dotati della sua potestà, colmati dei doni del suo Spirito, della sua Verità, del suo Amore, della sua Misericordia.
Soffermiamoci un poco a raccogliere le ricchezze contenute nella pagina evangelica proclamata poco fa. Innanzitutto, scrive il testo: «Si recò a Nazaret, dove era stato allevato» (v.16). Ecco, Gesù che ritorna sui luoghi dell’infanzia, della giovinezza, della formazione ricevuta in famiglia da Maria e Giuseppe; un invito per noi a tornare alle sorgenti della nostra formazione: famiglia, parrocchia, seminario; ai primi ardenti, puri e gioiosi incontri con il Signore (personali e comunitari), con la sua “dottrina”, la sua bontà, la sua amicizia, il suo fascino.
E poi: «Entrò, secondo il suo solito, di sabato nella sinagoga e si alzò a leggere» (v.16): un Gesù che entra decisamente nella comunità, che prende l’iniziativa, che mostra i tratti maturi della sua formazione. È un uomo maturo, completo. Un invito per noi a considerarci uomini pubblici, a farci avanti, a muoverci con coraggio, a proclamare il Vangelo.
Ed ancora: «Si alzò a leggere. Gli fu dato il rotolo del profeta Isaia; apertolo trovò il passo dove era scritto… Poi arrotolò il volume, lo consegnò all’inserviente e sedette» (vv.16-17.20a). Possiamo ammirare in tutto questo la compitezza, la signorilità, il rispetto, la devozione di Gesù. «Si alzò… Gli fu dato… Poi arrotolò… consegnò… si sedette…»; tutto questo fa di Gesù ciò che oggi si direbbe di un maestro della celebrazione. Invito per noi al senso del sacro, all’osservanza delle norme, ad insegnare con le nostre celebrazioni, a non lasciarci condizionare dall’abitudine.
Gesù, ancora, legge la Scrittura, legge la pericope fissata per quel giorno dal libro di Isaia: «Lo Spirito del Signore è sopra di me…». Lasciamo da parte per ora il testo preciso. Fermiamoci alla Sacra Scrittura, all’amore alla Parola di Dio. La prima omelia di Gesù, in san Luca, non è fatta con parole proprie, ma con la Parola di Dio. Gesù la proclama, la esalta… È suo cibo (Gv 4,34). Invito, anche questo per noi, a predicare la Parola, ad essere come i primi apostoli ministri della Parola, a leggervi tutto, a trovarvi la soluzione di tutto… ad amarla, a farla amare. Poi, faremo scorgere in essa Gesù. Perché Gesù è la sua Parola, il Verbo. Pensiamo a quante iniziative ancora potremmo inventare: gruppi della Parola, Lectio divina, preparazione alla liturgia della Parola, ecc.
E la pagina continua: «Gli occhi di tutti erano fissi su di lui». È un particolare stupendo; può significare la trepidazione dei compaesani, la loro ansia, il loro orgoglio, la curiosità forse… ma dice certamente l’attesa. Quanta attesa nei confronti di Gesù. Pensiamo noi pure alla nostra prima Messa, ai primi passi del nostro servizio ecclesiale. Quante attese anche per noi, come fu per Giovanni Battista. Tanti si domandavano: «Che sarà mai di questo bambino?» (Lc 1,66). Che sarà mai di questo nuovo sacerdote? Con la nostra vita abbiamo risposto alle attese, o abbiamo deluso?
E il Vangelo conclude: «Allora cominciò a dire: oggi si è adempiuta questa Scrittura che voi avete udita con le vostre orecchie» (v.21). Ecco la spiegazione data da Gesù al brano di Isaia. Egli si rivela come compimento delle Scritture, Messia, uomo dello Spirito. E noi? Siamo un Vangelo vivente? Rendiamo testimonianza con la nostra esistenza? Chi ci guarda, cosa legge nella nostra vita? Cosa può ammirarvi?
Permettete ancora qualche pensiero. Voglio riferirmi alla scelta programmatica di questo anno pastorale: “Emmaus è qui!”. Un anno per avanzare nella consapevolezza e nell’amore per l’Eucaristia e per farle crescere nei nostri fratelli. L’Eucaristia: il sacramento della presenza viva di Gesù Risorto, della sua azione irradiante, della sua autodonazione.
Ho avvertito molto, in questi mesi – lo condivido con voi che siete i miei fratelli – la necessità di una conversione. Quando celebriamo l’Eucarestia, appaiono due identificazioni. La prima: il pane che spezziamo, il calice della benedizione che condividiamo, per opera dei sacerdoti diviene sull’altare corpo, sangue, anima e divinità di Nostro Signore Gesù Cristo. La nostra fede si impegna; i sensi non ci aiutano, perché continuano ad apparire gli accidenti: il pane col suo colore, nella sua forma, ecc. Noi crediamo a questa presenza e abbiamo costruito cattedrali meravigliose, tabernacoli d’oro per custodire questa presenza. Dove sta la conversione? La conversione è nel credere che – cito san Paolo –, «poiché c’è un solo pane, noi, pur essendo molti, siamo un solo corpo. Tutti, infatti, partecipiamo dell’unico pane» (1Cor 10,17). La conversione che devo fare, alla quale vorrei invitare anche voi, sta nel considerare che nell’Eucarestia noi diventiamo Corpo di Gesù, suo Corpo mistico. E, se metto tutto l’impegno per credere nella presenza reale di Cristo sull’altare (prima identificazione), voglio impegnare tutta la fede anche nel credere che noi siamo suo Corpo, suo Popolo. Mentre la prima identificazione è opera del Signore, opera della sua Parola, questa seconda identificazione richiede la nostra corrispondenza, la nostra responsabilità; esige l’unità e la comunione tra noi come fratelli, l’uscita dal nostro io, il superamento di ogni egoismo e individualismo. Allora il sacramento del Corpo e del Sangue di Cristo è tale perché la Chiesa (e in essa ognuno di noi), si faccia dono agli altri, sacramento di unità, di pace, per quanti sono accanto e per quanti sono lontani. Allora l’incorporazione a Cristo non può essere, non può ridursi, non può immiserirsi ad un fatto individuale o individualistico, emotivamente gratificante. L’Eucaristia non può essere soltanto fonte di belle riflessioni, di belle parole. L’Eucaristia, invece, è – dico tre sostantivi, ognuno dei quali ha una sfumatura diversa – incentivo, spinta e slancio all’azione. In questo senso dico che l’Eucarestia è programma, via, imperativo, oltre che grazia che ci è donata. Cristo si è fatto Eucaristia per noi, perché noi ci facciamo Eucaristia per gli altri.
Che bello, che suggestivo, che arricchente, aver considerato i verbi eucaristici: Gesù prese il pane, lo benedisse, lo spezzò, lo diede. Li abbiamo tenuti presenti? Hanno orientato le nostre catechesi? Li abbiamo approfonditi con i nostri fedeli nello stile sinodale?
Il prossimo 7 aprile torneremo ad incontrarci a Casa San Giuseppe per un altro pomeriggio sinodale: ma non sarà l’ultimo… L’ultimo incontro, per questo anno, sarà il 15 giugno, con la restituzione del cammino alla presenza del nostro Vescovo Domenico.
Il Vangelo di ieri, mercoledì santo, ci riferiva la premura di Gesù e degli apostoli per la preparazione della Cena pasquale. «Dove vuoi che ti prepariamo per mangiare la Pasqua? Andate in città da un tale e ditegli… Il mio tempo è vicino. Farò la Pasqua da te con i miei discepoli» (cfr. Mt 26,17-19).
Non è sorprendente che per un’azione così importante e decisiva, punto di cerniera fra l’antica alleanza e la nuova, l’istituzione dell’Eucaristia – che è tutta la vita della Chiesa, fonte e culmine – non è sorprendente, dico, che l’evangelista abbia dimenticato il nome del proprietario della casa? Un dettaglio senza importanza, si potrebbe pensare, ma preferisco vederci uno dei silenzi che dicono più del nome e cognome di questo signor Tale, o l’indirizzo di “quella casa”. Vi colgo un prolungamento della Parola di Gesù alla Samaritana: «Viene l’ora, è questa, nella quale i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità» (Gv 4,23). Oppure un’eco di quest’altra parola: «Oggi devo venire a casa tua» (Lc 19,5). È a casa tua, dice Gesù, che voglio celebrare la Pasqua con i miei discepoli. Anonimato che, in fondo, rende la richiesta più universale e nello stesso tempo più personale. Non è il numero civico o la strada di Gerusalemme, né altra indicazione… è “a casa tua”! Questi giorni: giovedì, venerdì, sabato santo, Pasqua, non significano niente sul calendario affisso al muro o sulla bacheca parrocchiale se il vero Cenacolo non è in te stesso. «Quello che desidero ardentemente – dice Gesù – è prima di tutto celebrare la mia Pasqua da te: io in te e tu in me, come se non avessi altro Cenacolo, altra Emmaus in tutta la Chiesa. Il Padre cerca questi adoratori in perfetta intimità con Lui, ma anche in intimità con i fratelli, soprattutto con quelli con cui non vai d’accordo o che non la pensano come te, perché, è con i miei discepoli, senza eccezione, che voglio celebrare la Pasqua da te».